UT IN OMNIBUS GLORIFICETUR DEUS Una riflessione sullo stato di fatto della Musica Sacra in Italia e qualche considerazione che ci auguriamo utile anche fuori dall’Italia. In terrena Liturgia caelestem illam praegustando participamus, quae in sancta civitate Ierusalem, ad quam peregrini tendimus celebratur1. Teologia e liturgia animano una discussione che si estende oltre i limiti della nostra poca scienza, della nostra fede vacillante; non varcheremo pertanto la soglia delle aule elette nelle quali si confrontano limitandoci in quest’apporto a poche personali considerazioni, volutamente al di fuori da argomentazioni troppo speculative o tecniche che impaccerebbero la lettura di un testo che si propone invece di essere solo semplice e discorsiva riflessione e confronto tra l’esperienza quotidiana e le indicazioni conciliari. Non siamo liturgisti – epperciò ci scusiamo fin d’ora per l’improprietà del nostro linguaggio e per la forse ingenua spontaneità del nostro dire, che sgorga più dal cuore che da altro – ma musicisti, cantori del bello, nel quale amiamo scorgere uno degli affascinanti volti di Dio, al servizio della liturgia da ormai trent’anni. Proprio perché musicisti nella liturgia incessantemente la nostra mente ed il nostro cuore si interrogano sulle offerte che vediamo presentare davanti all’altare di Dio, che, memori del sacrifico di Abele, vorremmo sempre de primogeniti gregem e de adipibus eorum (Gen 4,4). Ci assista lo Spirito nell’affrontare argomenti che si proiettano ben al di là delle limitate possibilità della scienza e della ragione. Formam nobiliorem actio liturgica accipit, cum divina Officia sollemniter in cantu celebrantur, quibus ministri sacri intersint quaeque populus actuose participet2 Celebrare in cantu, non cum cantu. È pertanto chiaro che il canto, e per estensione la musica che dal canto scaturisce, nella loro forma più pura, non si inseriscono nella liturgia come un’estetica decorazione, un’aggiunta o una sovrapposizione ma sgorgano immediati dalla liturgia stessa, naturale effusione del cuore orante compenetrato - per l’azione dello Spirito - dalla sostanza, dai testi e dai segni del rito. Ma ciò cui assistiamo è troppo spesso diverso: musiche e testi (vorremmo aggiungere anche segni...) aggiunti e talora sovrapposti a quelli prescritti. Sarebbe già Grazia poter partecipare con eguale intensità – anche senza canto – la sapiente e abbondante ricchezza testuale e simbolica della liturgia e invece a questo autentico, purificato e purificante tesoro inspiegabilmente si vede sovrapporre ulteriore, disorientante eccesso con esiti fastidiosamente analoghi a quelli della sovrabbondanza decorativa del cattivo manierismo o dei peggiori esempi di barocco. Eccesso che, in aperta contraddizione con la ben nota proposizione conciliare che raccomanda Ritus nobili simplicitate fulgeant, sint brevitate perspicui et repetitiones inutiles evitent, sint fidelium captui accommodati, neque generatim multis indigeant explanationibus3, offusca la bellezza e la poesia dei testi proprii, frutto della secolare tradizione della lectio, radicata nella Scrittura, svilisce la profondità e la nobile eloquenza dei segni, adombrati da sovrapposizioni quasi quinte successive che nascondono l’essenza dell’azione, paralizza il miracolo della parola che trasfigura in musica espandendosi nel canto. Alla base di quest’abuso si intuisce una deviata concezione strumentale del canto e della musica, aggiunti alla liturgia in funzione riduttivamente decorativa se non addirittura umiliati a mero riempimento di spazii liturgici apparentemente vuoti, lungi da quella solemniter in cantu celebrandi ars richiamata poc’anzi e in aperta contrapposizione con il pensiero conciliare che definisce la sostanza della musica come necessariam vel integralem liturgiae sollemnis partem4 dopo avere sottolineato il munus Musicae sacrae ministeriale in dominico servitio5. Da tale, nobile concezione della musica, per la quale essa non è, non può e non deve essere riempitivo, sottofondo, decorazione né tantomeno superflua aggiunta alla liturgia conseguono alcune elementari considerazioni. 1 SC 8. SC 113. 3 SC 34. 4 SC 113. 5 SC 112b. 2 1 1. I testi liturgici, sia del proprium che dell’ordinarium, dovrebbero trovare la propria espansione nel canto precedentemente all’eventuale aggiunta – se proprio necessaria - di altri elementi musicali. Pertanto prima di scegliere un canto d’introito o d’offertorio sarebbe auspicabile valutare la concreta possibilità di volgere in canto l’introito e l’offertorio proprii della specifica celebrazione; prima di inserire altri, facoltativi canti nel rito sarebbe meglio accertarsi che siano in canto le parti prescritte del rito, massimamente quelle che per propria natura richiedono l’apporto del canto come l’inno di gloria e di seguito le altre parti dell’ordinarium; volendo e potendo – e sempre prima di altri eventuali canti - dovrebbero svolgersi in canto i dialoghi tra celebrante ed assemblea, specialmente il saluto iniziale, il congedo e massimamente il prefazio. Giova in questo senso rammentare che il proprium è sempre contestualizzato e d’ufficio contestualizzante – anzi, meglio, caratterizzante - la celebrazione, e come tale insostituibile. È chiaro che la partecipazione assembleare al canto del proprium, che varia di giorno in giorno, è più difficile da conseguire, eppur tuttavia affermiamo che non mancano accorgimenti musicalmente soddisfacenti per garantire che il populus actuose participet anche ad esso6. 2. Alcune parti della liturgia tanto per la propria natura quanto per la propria importanza richiedono l’apporto della musica più di altre. Ne sono un esempio i salmi, per tradizione composizioni poetico-musicali – liriche - che private della musica perdono una parte essenziale della loro forma7. Similmente si potrebbe dire dei cantici, degli inni e di molti altri analoghi elementi della liturgia e ad sensum delle acclamazioni; diverso trattamento può invece essere riservato alle letture della liturgia della parola, ove il canto assume semmai la funzione di sottolineare e solennizzare la loro declamazione, amplificando l’atto di chi le proclama all’assemblea. 3. Il silenzio, ove previsto o raccomandato, deve restare tale. Sovrapporvi della musica è improprio, illogico e contrasta la disposizione conciliare Sacrum quoque silentium suo tempore servetur8. Si ha infatti la sensazione, non senza dispiacere, che proprio il silenzio sia uno degli aspetti della liturgia peggio vissuti. Il silenzio liturgico non è vuoto, ma eloquente e concentrata assenza di parola. L’illegittima pratica di accompagnarlo con un sottofondo ci sembra abuso contraddittorio e controproducente, del quale non troviamo motivazione se non in una sorta di horror vacui del quale talune - non rare - liturgie sono fastidiosamente pervase. Per estensione si vorrebbe qui ricordare che oltre ai momenti di silenzio nella liturgia esistono tempi di silenzio o, per lo meno, di sobrietà musicale. Fra essi spiccano l’Avvento e massimamente la Quaresima; non occorrono molte riflessioni per comprendere l’evidente ratio delle disposizioni – in Italia piuttosto trascurate – che stabiliscono rispettivamente di moderare o di evitare il suono dell’organo e degli altri strumenti, né occorre dilungarsi ulteriormente per illustrare l’efficacia di tali prescrizioni sul carattere delle celebrazioni, nonché gli eloquenti, esuberanti significato ed effetto che consegue il pieno ritorno della musica nelle festività del Natale e della Pasqua. 4. Allo stesso modo la parola, ove declamata, deve essere udibile. Sovrapporre (o sottoporre che sia) ad una declamazione un accompagnamento musicale è abuso analogo a quello appena illustrato riguardo al silenzio. Qualora musica e parola non siano tutt’uno o vi è l’una o vi è l’altra; la sovrapposizione di due elementi tanto più appare inopportuna nella liturgia ove se si recita qualcosa ad alta voce lo si fa rivolgendosi personalmente ad un interlocutore perché questi oda e comprenda. Oltretutto questo vezzo dei sottofondi e degli accompagnamenti – seppur riconoscendo che esistono casi nei quali può rivelarsi di qualche vantaggio; ma sono e restano casi del tutto eccezionali – proviene non tanto da tecniche drammaturgiche di derivazione teatrale – perfino sulle 6 Cfr. RATZINGER, Joseph, Theologie der Liturgie. Die sakramentale Begründung christlicher Existenz (=JRGS 11), Freiburg / Basel / Wien 2008, 147-151; cfr. Zur theologischen Grundlegung der Kirchenmusik, ebd., 501-526, ibidem 524. 7 Cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 29-194, ibidem 122-129; „Singt kunstvoll für Gott“. Biblische Vorgaben für die Kirchenmusik, ebd., 587-606, ibidem 590-598. 8 SC 30; cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 176-182. 2 scene la sovrapposizione di due azioni (o elementi) contemporanei è rifuggita – ma dalle forme più commerciali di spettacolo d’intrattenimento. 5. Non troviamo infine che la moltiplicazione degli elementi – siano essi canti, testi, segni o altro – determini in alcun modo la maggiore solennità d’una celebrazione, osservazione generale vieppiù valida per la musica: non è infatti la quantità di canti e musica introdotta nella liturgia a definirne la solennità (come fosse la quantità di note scritte in partitura e determinare la bellezza d’una sinfonia) ma semmai le sue qualità e stretta interazione con l’azione celebrativa. Riteniamo infatti che proprio per maggior solennità sia opportuno perseguire innanzitutto la sobrietà, la proprietà comunicativa e l’autentica bellezza di quanto si compie, opportunamente sostenute da quella calma e da quella chiarezza che sole garantiscono la vera solennità del rito, elementi tutti che – in ultima analisi – si orientano in senso diametralmente opposto a quella inspiegabile nevrosi della quantità che talora affligge celebrazioni cui – anche a noi – è capitato di partecipare, con esiti assai lontani dal senso di mistica partecipazione alla cosmica e celestiale liturgia del coro delle schiere angeliche9 nella Gerusalemme celeste. Siamo coscienti che queste puntualizzazioni coinvolgono una serie di problematiche, certo complesse, delicate e tuttavia non irrisolvibili. Una di esse investe il repertorio musicale sacro. Quarant’anni di vissuta esperienza postconciliare evidentemente sono breve tempo, senza dubbio non sufficiente a conseguire quella decantazione di esperienze dalla quale sola si potrebbero trarre linee convincenti di condotta; ma per quanto limitati a fronte di duemila anni di tradizione non sono neppure un tempo brevissimo. È evidente che non possiamo ancora pensare di disporre di un patrimonio musicale postconciliare paragonabile per ampiezza e qualità a quello prodotto prima del Concilio, in un tempo assai più lungo, dal genio di artisti con i quali – almeno personalmente – non osiamo confrontarci. Certo i continui mutamenti non giovano a tale tensione creativa né tantomeno alla radicazione della nuova produzione nella comunità: la periodica promulgazione di nuovi repertorii come l’elaborazione di nuove traduzioni dei testi liturgici non favoriscono una produzione artistica che ha bisogno prima di tutto di essere meditata e sperimentata all’interno di un processo creativo tutt’altro che breve e successivamente di un vero e proprio tempo di appropriazione per inscriversi nell’esperienza concreta della comunità diventando patrimonio comune, compreso e condiviso. Riguardo al repertorio i Padri conciliari indicano che Ecclesia cantum gregorianum agnoscit ut liturgiae romanae proprium: qui ideo in actionibus liturgicis, ceteris paribus, principem locum obtineat. Alia genera Musicae sacrae, praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis Officiis minime excluduntur, dummodo spiritui actionis liturgicae respondeant, ad normam art 3010. Un’affermazione chiara nella sostanza ma che contiene anche elementi variabili ed infine – nel richiamo all’art. 3011 – un’esplicita esortazione all’actuosa partecipatio dei fedeli, aspetti che impongono cautela ed attenta riflessione. Se da subito appare lettura indebitamente restrittiva dell’enunciato conciliare il ridursi a considerare il canto gregoriano come unica forma di musica propria per la liturgia di contro dobbiamo riconoscere che al canto gregoriano è attribuito il ruolo di modello fondamentale di musica liturgica. D’istinto viene da domandarsi quanto canto gregoriano sentiamo risuonare, oggi, nelle chiese d’Italia. Limitandoci ad un eufemismo risponderemo non molto; e sempre per presunte, superficiali argomentazioni alla radice delle quali, se non proprio gusto personale, pigrizia o – peggio - ignoranza, appaiono pruriginose valutazioni pastorali quanto indebite interpretazioni - che si estendono con sorprendente (ed indesiderabile) ricchezza dal vago al vizioso - delle sagge e ponderate esortazioni del magistero. Francamente, e anche senza troppo 9 Cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 134-137; Das Welt- und Menschenbild der Liturgie und sein Ausdruck in der Kirchenmusik, in: JRGS 11, 527-547, ibidem 546; „Im Angesicht der Engel will ich dir singen“. Regensburger Tradition und Liturgiereform, in: JRGS 11, 549-570, ibidem 549-551. 10 SC 116. 11 SC 30: ad actuosam participationem promovendam, populi acclamationes, responsiones, psalmodia, antiphonae, cantica, necnon actiones seu gestus et corporis habitus foveantur [...]; cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 175-176 3 abbacare, la distanza da principem locum obtineat (per quanto ceteris paribus) alla totale esclusione cui di fatto assistiamo è di tale, esagerato raggio da rappresentare un’aperta contraddizione, ingiustificabile a fronte di qualsivoglia valutazione o interpretazione. Deo gratias, Gratia supplet. Ma fine di queste righe non è la polemica. Domandiamoci invece, più produttivamente, quali sono gli aspetti che fanno del canto gregoriano un modello così raccomandato. Ci permettiamo di identificarne almeno un paio. 1. La qualità del testo, stimolo primo ed indispensabile a quel processo di lectio dal quale solo ci si può attendere che un testo si trasfiguri in musica tale da esserne orante espansione. La gran parte dei testi gregoriani è costituita da frammenti della Scrittura o da parti della liturgia, che spesso direttamente dalla Scrittura discendono. Textus cantui sacro destinati catholicae doctrinae sint conformes, immo ex Sacris Scripturis et fontibus liturgicis potissimum hauriantur12. E tanto si commenta da sé. Qualora poi ci si imbatta in testi di libera invenzione alcuni aspetti ne hanno assicurata la qualità nel tempo, e non potrebbe essere diversamente, se la loro eloquenza si è mantenuta fino ad oggi non solo intatta ma perfino accrescendosi nel tempo (d’altro canto è verosimile che di tanta più che probabile produzione qualitativamente minore il tempo abbia già fatto giustizia da sé). Anche ad un’occhiata superficiale si osserva infatti come anche i testi gregoriani “liberi” siano pervasi dal medesimo, intenso linguaggio poetico che caratterizza i testi della liturgia, frutto sublime della penna di molti Santi, inebriati dallo Spirito, o perlomeno di innumerevoli poeti, forse non proprio santi, ma quantomeno verso la santità sinceramente orientati. Ed è Grazia. Crediamo giovi chiarire che parlando di poesia non intendiamo richiamare inconsistenti, spesso sdolcinate, suggestioni immaginifiche più o meno seducenti o fantasiose, più pietose che pietistiche (come rileviamo pur troppo in tanta altra produzione, anche contemporanea), ma al contrario l’intensità comunicativa di un linguaggio – quello poetico – che proprio perchè tale è in grado di condensare in pochi, efficaci tratti immensità altrimenti inesprimibili. 2. La qualità della musica. Siamo ben lungi dall’affermare che tutto il repertorio gregoriano presenti la medesima qualità musicale: non solo processi di riciclo melodico sono ampiamente riscontrabili soprattutto, ma non solo, nel corpus antifonale, ma in ogni caso il lasso temporale di composizione di tale repertorio si estende con tale ampiezza plurisecolare e attraversa la sensibilità di artisti talmente diversi da rendere quantomeno improbabile una costante, uniforme eccellenza qualitativa. Tuttavia una coerenza stilistica, almeno di fondo, sussiste, segno quantomeno che anche chi, in tempi ben lontani da quelli di Gregorio Magno, si è accinto a scrivere in quello stile da esso si è lasciato guidare, in esso ha inscritto e su di esso ha modellato la propria ispirazione, salutare esercizio di feconda umiltà che talvolta piacerebbe suggerire anche a tanti (pseudo)compositori di oggi. Di tale coerenza stilistica possiamo identificare alcune fattezze costanti, prima fra tutte la sobrietà, ulteriormente sostenuta - a tutto vantaggio dell’intelligibilità e dell’eloquenza del testo dalla stretta interazione tra testo e musica, che ne è espansione, immagine e commento immediati, nel senso di privi di mediazione. Lungo i secoli di formazione del repertorio gregoriano, avvenuta in sì stretto contatto con l’esperienza liturgica da divenirne diretta emanazione, i maestri del gregoriano hanno intuito, sviluppato e perfezionato modelli formali di indubbia efficienza e praticità, applicandoli con quella costanza che, nel tempo, ne ha garantito l’efficace utilizzo e la piena, condivisa comprensione. La considerazione si estende ulteriormente e ancor più significativamente a procedimenti compositivi e specifici stilemi musicali del canto gregoriano così caratterizzati e reiterati da divenire automaticamente comunicativi per la sola loro presenza. Chiaro che un simile processo creativo – ed i risultati che abbiamo ora succintamente delineato – non può prescindere da spazi temporali misurabili... in secoli. Ben altro vi sarebbe da dire che tuttavia trascende i limiti di questo contributo, comunque già il poco detto è sufficiente ad illustrare parte di ciò che si potrebbe ricavare da questo modello musicale additatoci dai Padri conciliari come primo e preferibile, supposto e non dato che proprio 12 SC 121c. 4 non lo si voglia semplicemente utilizzare così come è. Di fatto si deve riconoscere che molto repertorio postconciliare si è ispirato al modello gregoriano, anche se – ci sembra – più recuperandone qualche frammento testuale, più imitandone qualche suggestiva movenza vocale, talora resuscitando le arcaiche potenzialità espressive della modalità. Forse si potrebbe spingersi un tantino più al cuore della questione, non riesumando singoli e finalmente secondari aspetti del gregoriano bensì re-immergendosi in quel processo contemplativo che si colloca alla sua genesi, soffio dello Spirito e circolazione della Grazia per azione dei quali, direttamente nella e dalla liturgia, meditazione e contemplazione - preghiera quindi – sono divenuti musica e non altrimenti. Alia genera Musicae sacrae, praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis Officiis minime excluduntur (...)13 Oltre al canto gregoriano, ma - a parità di condizioni - successivamente ad esso, ogni forma di espressione musicale è ammessa nella liturgia. Ivi compresa, quindi, la sperimentalità del contemporaneo. Ampiezza di vedute ulteriormente ribadita più innanzi laddove trattandosi in linea più generale dell’arte sacra leggiamo: Nostrorum etiam temporum atque omnium gentium et regionum ars liberum in Ecclesia exercitium habeat, dummodo sacris aedibus sacrisque ritibus debita reverentia debitoque honore inserviat14. Il valore della polifonia classica come altresì di tutto un inestimabile tesoro di opere musicali nate per la liturgia è indiscutibile e – come abbiamo letto – indiscusso, e tuttavia diventa irragionevolmente sempre più difficoltoso ed ostacolato il suo utilizzo, contro il quale si oppongono argomentazioni che troppo spesso si allineano a quelle che contrastano il canto gregoriano. Fra queste l’aeterna, vexata questio della lingua: il latino15. Moveremo – come altrove – direttamente dal dettato conciliare. Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur. Cum tamen, sive in Missa, sive in Sacramentorum administratione, sive in aliis Liturgiae partibus, haud raro linguae vernaculae usurpatio valde utilis apud populum exsistere possit, amplior locus ipsi tribui valeat, imprimis autem in lectionibus et admonitionibus, in nonnullis orationibus et cantibus, iuxta normas quae de hac re in sequentibus capitibus singillatim statuuntur16 e quindi, nei numeri successivi: Linguae vernaculae in Missis cum populo celebratis congruus locus tribui possit, praesertim in lectionibus et "oratione communi", ac, pro condicione locorum, etiam in partibus quae ad populum spectant, ad normam art. 36 huius Constitutionis. Provideatur tamen ut christifideles etiam lingua latina partes Ordinarii Missae quae ad ipsos spectant possint simul dicere vel cantare17 e di poi ancora Cum haud raro in administratione Sacramentorum et Sacramentalium valde utilis esse possit apud populum linguae vernaculae usurpatio, amplior locus huic tribuatur [...]18. Ben comprendiamo e appieno condividiamo la sollecitudine pastorale di tali proposizioni e l’introduzione di una prassi che ha di fatto dimostrato come la celebrazione condotta in una lingua comprensibile ai fedeli ne assicuri meglio la partecipazione, ma dobbiamo altresì riconoscere la vergognosa risposta che dovremmo a chi ci domandasse in quante chiese d’Italia i fedeli siano oggi in grado di cantare o recitare in latino il Credo, il Pater o altri elementi dell’ordinario fino a poco tempo or sono popolarmente conosciuti a memoria. Concretamente, e anche qui – come più sopra riguardo al gregoriano – per indebita estremizzazione, si è irreparabilmente interrotta una tradizione che è infinitamente più difficile, ora, resuscitare di quanto sarebbe stato semplice mantenerla vitale. Vorremmo poter affermare – ma è incerto - che la comprensibilità dei testi liturgici latini sia oggi più assicurata di ieri, certo è però che il latino liturgico non è la prosa ermetica di Tito Livio e che espressioni come Kyrie eleison o Gloria in excelsis Deo sono oggi comunemente comprese almeno tanto quanto la loro traduzione; ciò nonostante il latino, in Italia, sembra divenuto discrimen dirimente nella selezione del repertorio musicale per la liturgia. Con grottesche, ingiustificabili contraddizioni allorché, ad esempio, si 13 SC 116. SC 123. 15 Cfr. “Im Angesicht der Engel will ich dir singen”: JRGS 11, 562-564. 16 SC 36. 17 SC 54. 18 SC 63. 14 5 allontanano opere musicali tradizionali, talvolta persino ben note ai fedeli e da essi desiderate, e nel contempo si introducono nuove composizioni, quasi sempre qualitativamente inferiori... su identico testo latino! Non entriamo poi nel merito dell’esecuzione, nella liturgia, dei grandi capolavori di musica (e di fede) quali ad esempio le Messe classiche (anche le più semplici), parti di esse, Mottetti... diffusamente e invariabilmente condannati e proibiti come abusi. Salvo poi abbozzare poco convincenti paraliturgie intorno a manifestazioni che – in luogo sacro, ma al di fuori della liturgia – ripresentano tali capolavori in forma di concerto. Pazienti il lettore se qui giunti non riusciamo a trattenerci dal veder in queste divergenze una sorta di schizofrenia comportamentale della quale rinunciamo a domandar ragione, imbarazzati nel comprendere quale sia il vero abuso, e se aggiungiamo - ma solo per inciso - che la musica nata per la liturgia solo nella liturgia può ritrovare il proprio naturale Sitz im Leben e risplendere appieno della luce che vi è inscritta, inevitabilmente sminuita in esecuzioni extraliturgiche. Salvo serbando l’imperscrutabile intervento dello Spirito che – e non si tratta di caso isolato – per essa ha agito anche al di fuori della liturgia e in sedi ben lontane e radicalmente diverse da quelle destinate al culto19. Sono quest’ultime opinioni del tutto personali e pronte al confronto; comunque sia, se d’un canto ci guardiamo bene dall’affermare che tutta la musica liturgica nata nei secoli che ci hanno preceduto sia egualmente adatta ed efficace per la liturgia di oggi dall’altro troviamo miope e insostenibile l’ostracismo distruttivo che ha colpito in blocco, cacciandolo dalle chiese, un patrimonio artistico inestimabile ed insostituibile. Osserviamo ancora che il repertorio e la pratica musicali per la liturgia non si esauriscono nella sola musica vocale. Se l’intonazione musicale delle parti testuali della liturgia non può che esprimersi nel canto in quanto primo e inalienabile elemento di esse è il testo, al di là di tali parti prescritte e sostanziali, e coerentemente con le considerazioni più sopra condotte, gli altri elementi musicali della liturgia potrebbero in via di principio essere rappresentati anche solamente da musica strumentale. Le più ampie, complete ed efficaci espressione e comunicazione del contenuto anzitutto mistico ma anche terreno di una liturgia, soprattutto solenne, richiedono una dilatazione di mezzi che si estende verso ogni forma di linguaggio. Gesti, colori, immagini e infinite altre forme espressive propriamente artistiche sono necessarii ed indispensabili alla comunicazione - ma finalmente alla stessa azione - liturgica quali linguaggii immediati ed immediabili cui affidare l’altrimenti ineffabile. Così anche la musica, pur solo strumentale, che - come ogni arte - è linguaggio di infinite possibilità la cui potenza supera grandemente i limiti della parola. Infine se la musica sacra, in senso generale, tanto sanctior erit quanto arctius cum actione liturgica connectetur, sive orationem suavius exprimens vel unanimitatem fovens, sive ritus sacros maiore locupletans sollemnitate20, alcuni strumenti musicali sono di per sé stessi intrinsecamente liturgici, vuoi perché tradizionalmente associati nella Scrittura alla preghiera solenne del popolo eletto, vuoi perché esplicitamente invitati, nella letteratura salmica, a rappresentare, sostenere o amplificare la lode del salmista, vuoi perché investiti, sempre nella Scrittura, di specifici significati terreni, mistici ed escatologici. Contemplare la bellezza del patrimonio lasciatoci in eredità dal passato non esaurisce i nostri doveri. Il mutar dei tempi e delle istanze esige che ne produciamo di nuovo, perchè la fecondità creativa del passato non avvizzisca oggi, nell’orgoglioso Duemila. Alcuni elementi e soprattutto la sostanza del processo creativo del canto gregoriano ancor oggi validi come modelli di riferimento li abbiamo enucleati; estendendo ora lo sguardo verso altre forme musicali che nei secoli hanno arricchito la liturgia e senza diffonderci in troppi dettagli potremmo delineare ulteriori condizioni indispensabili ad una nuova, contemporanea, stagione creativa. Moviamo da due constatazioni storiche: Similmente tuttavia, per fede, vogliamo credere che lo Spirito – per Grazia e solo per quella – continui ad agire efficacemente nonostante la crisi artistica – e ci sia consentito aggiungere non solo artistica – della liturgia contemporanea. 20 SC 112c. 19 6 1) la stabilità dei testi liturgici e dei riti irrigidita da precise quanto inderogabili norme che ne proibivano l’alterazione hanno di fatto permesso la creazione di una tradizione compositiva di fermi principii, nonché l’elaborazione e il perfezionamento di modelli formali nella cui traccia si è innestata la personale creatività degli artisti; 2) il gusto e la temperie culturale, sociale ed ecclesiastica di epoche diverse dalla nostra hanno non solo apprezzato ma concretamente stimolato la produzione musicale, valutandola non infallibilmente ma con adeguata intelligenza, talora commissionandola esplicitamente e in ogni caso riconoscendole di fatto un valore artistico, culturale e anche economico. Sarebbe infondato pessimismo affermare che tali condizioni oggi siano integralmente venute meno, ma vale interrogarsi su quali siano ancora presenti, quali siano mutate e quali invece necessitino di opportuno recupero. La stabilità dei testi liturgici e dei riti è obiettivo in via di raggiungimento, anche se riteniamo utile richiamare l’attenzione sulla cura che i redattori di tali testi dovrebbero devolvere a che essi siano adatti al canto. Proprio in recenti promulgazioni, in Italia, si deve infatti lamentare certa povertà poetica e sbiadito semplicismo lessicale, ma soprattutto una complessiva incuranza metrica che ha prodotto testi spesso difficili e talora quasi impossibili da volgere in musica con proprietà, stile e bellezza. Il clima culturale contemporaneo è invece argomento assai più ampio e difficile, affrontato nella costituzione Gaudium et Spes con considerazioni oggi ancora validissime. Sotto il profilo artistico, vivendo in un’epoca di forte e talvolta esagerato sperimentalismo e pur sperando in quella nuova classicità che - come già accaduto in passato - ne potrebbe essere uno degli esiti futuri, leggiamo troppo spesso e con troppa insistenza nell’arte contemporanea messaggi di rottura, di frammentazione quando non di drammatica lacerazione, certamente proprii dell’uomo di oggi ma che non sentiamo vibrare all’unisono con l’essenza della liturgia, proiettata nella visione della Gerusalemme celeste, habentem claritatem Dei perchè absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit, neque luctus neque clamor neque dolor erit ultra, quia prima abierunt (Apoc 21,4), orizzonte verso il quale dovrebbe orientarsi anche la produzione musicale liturgica. Non che qui si neghi che all’uomo sia lecito e fin per certi versi doveroso portare innanzi all’altare di Dio anche le sofferenze della vita, ma proprio la liturgia ed il suo linguaggio – crediamo – dovrebbe essere una prima risposta, in immagine poetica un primo balsamo, per lenirle. Qualche problema nasce anche dall’accoglienza che la Chiesa riserva alla nuova produzione musicale. Stimolare nuova produzione significa anche assegnarle – pur con prudenza - un adeguato spazio vitale. Non sempre abbiamo la sensazione che ciò avvenga, anzi ci è capitato a più riprese di osservare esattamente il contrario, talvolta aggravato da posizioni pericolosamente più inclini all’ermetica chiusura che all’apertura del dialogo e della ricerca comune e talvolta anche – addolora scriverlo – da certa debole capacità di giudizio. In tal senso, pur confidando nella scrupolosa applicazione dell’esortazione conciliare Magni habeatur institutio et praxis musica in Seminariis, in Religiosorum utriusque sexus novitiatibus et studiorum domibus, necnon in ceteris institutis et scholis catholicis21, riconosciamo che non è competenza specifica né preoccupazione primaria del clero occuparsi direttamente dell’arte, della musica e delle infinite, complesse problematiche che le animano e tuttavia proprio perciò, musicisti quali siamo, auspicheremmo - in seno ad una sinceramente comune tensione verso il meglio - il conforto di una maggior fiducia nella nostra professionalità. Autentiche riflessione e produzione artistica esigono infatti, oltre a creatività, sensibilità e – nel caso dell’arte sacra – sincera fede, il bagaglio di specifiche conoscenze teoriche e tecniche proprie dei professionisti del settore. Professionisti che vanno formati22. In Italia il luogo istituzionale di formazione di un musicista professionista è il Conservatorio, nei cui programmi – apparentemente – e fino alla recente riforma non appaiono specifici corsi destinati alla musica liturgica. Solo apparentemente, perchè al contrario l’intero corso d’organo secondo i programmi ministeriali di studio redatti una settantina di anni or 21 22 SC 115. Cfr. Kirchenmusikberuf als liturgischer und pastoraler Dienst, in: JRGS 11, 607-610. 7 sono ed ora in via di riforma, ma in ogni caso tutt’oggi vigenti, è finalizzato alla preparazione tecnica di un organista concertista nel senso completo dell’accezione ma – e qui richiamiamo l’attenzione – dotato delle conoscenze scolastiche necessarie al completo adempimento di un servizio liturgico espletato con proprietà e scienza. (Rimane affidato alla sua personale pietà aggiungervi la fede!). Non si spiegherebbe altrimenti – se non all’interno di un’ottica di più ampia preparazione musicale che a rigore dovrebbe però estendersi a qualsiasi strumentista – la significativa presenza nel corso istituzionale di organo, e proprio e quasi esclusivamente in esso, di discipline quali lettura e accompagnamento del canto gregoriano, teoria e pratica del trasporto e della modulazione, lettura estemporanea della partitura corale nelle chiavi tradizionali, elementi di contrappunto e di composizione e nella fattispecie - si osservi bene - composizione di mottetti per voce ed organo su testo latino nonchè - importante quanto se non più delle precedenti – l’improvvisazione. Siamo di fronte alla completa preparazione – almeno tecnicamente parlando – di un professionista per la liturgia. Paradossalmente invece, oggi, la progressiva scomparsa in Italia di una concreta offerta professionale per organisti liturgici – nella quale solamente queste abilità troverebbero adeguata valorizzazione ed utilizzo - ha determinato che proprio queste discipline essenziali al servizio liturgico siano gradatamente divenute elementi del corso d’organo trattati secondariamente quando non disattesi del tutto o quasi. Non altri fattori se non l’assenza di una prospettiva professionale liturgica per l’organista professionista hanno determinato che gli aspetti più specificamente liturgici del corso istituzionale d’organo nei Conservatorii Superiori di Musica divenissero materia di studio inutile e come tale trascurata, mentre contemporaneamente, sul fronte ecclesiastico, si lamenta la mancanza di organisti adeguatamente preparati per un vero, artistico, ministero liturgico. Un paradosso ingigantito dalla parallela esistenza di Conservatorii e di Scuole Diocesane di Musica Sacra, sebbene l’insegnamento impartito in tali Istituti appaia di palese differenza quantitativa (e sia conseguentemente diversa la considerazione e la validità dei titoli di studio conseguiti). Restiamo a domandarci se non sarebbe stato più logico cercare un accordo con le autorità civili preposte all’istruzione per inserire tra gli insegnamenti del Conservatorio elementi di liturgia che, in forma di corso di specializzazione, integrassero l’ordinario diploma organistico - nel quale sono già presenti tutti gli elementi tecnici necessarii ad un organista che sia professionista della musica anche per la liturgia - con le dovute conoscenze teologiche e liturgiche per operare con conveniente professionalità nella liturgia23. Si sarebbe evitata un’involutiva sovrapposizione di Istituzioni ed il doppio circolo vizioso di domanda senza offerta e del suo contrario all’interno del quale s’inscrivono – a puro titolo d’esempio - la recente, intelligente ma priva di prospettive, creazione nei Conservatorii di corsi di Kappelmeister, peraltro affidati ad ottimi strumentisti sulla adeguata preparazione teologica e liturgica (per non dire sulla pietas) dei quali sono già state avanzate più d’una riserva o l’attuale, commiserevole conflitto tra chi, diplomato in Conservatorio e pertanto con alle spalle un serio e faticoso lavoro di autentica, professionale preparazione musicale – si vede anteporre, per il servizio liturgico, allievi, perfino non ancora graduati, di tali Scuole Diocesane la preparazione dei quali – e ci limitiamo all’aspetto strettamente tecnico – appare spesso poco più che sommaria o perfino soggetti ancor meno qualificati. Nella non mai sufficientemente lamentata assenza di un’autentica possibilità di impiego professionale nella liturgia scorgiamo ancora ed infine la ragione ultima per la quale gli organisti professionisti ormai rifiutano di impegnarsi per la liturgia, come oggi accade (e a chi scrive, come a molti Parroci alla ricerca di un organista per la propria chiesa, è successo ripetutamente) e non tanto perché poco o nulla retribuiti - aspetto che potrebbe anche passare in second’ordine se non fosse contraddizione ed ingenua utopia la pretesa di una professionalità non retribuita - ma in quanto di fatto non più interessati ad un servizio che, inteso e condotto com’è troppo spesso oggi in Italia, di stimolante, creativo e professionale non ha più nulla. E spesso non ha neppure più nulla di santo. Un serio impegno per la musica sacra che si estenda dalla valutazione e attenta reintroduzione del grande 23 Magari indirizzando le risorse economiche attualmente impegnate per il mantenimento delle Scuole Diocesane alla creazione di un fondo che garantisca se non adeguata quantomeno dignitosa remunerazione agli organisti che lavorano per e nella Chiesa. 8 patrimonio classico nato per la liturgia alla produzione di nuovo repertorio artisticamente valido, alla formazione e conduzione di dignitose Scholae Cantorum, alla cura e al mantenimento dei preziosi strumenti musicali custoditi dalle nostre chiese, non può prescindere dalla presenza attiva e continuativa di serii professionisti della musica. Siano questi organisti, cantori, direttori di coro o strumentisti in genere. Da più tratti di questa riflessione si evince l’importanza della quale si riveste, per noi, la pratica della – e di conseguenza la preparazione tecnica alla – improvvisazione. La prima e più propria musica liturgica, antecedente all’esecuzione di pagine codificate, è infatti - a nostro avviso - quella che scaturisce spontanea dalla celebrazione stessa, unica ed irripetibile, mistica unione estatica con l’atto celebrativo che - per intervento dello Spirito - dovrebbe pervadere integralmente l’azione liturgica. In questa visione il primo e principale cantore – artista - della liturgia è il Celebrante, la cui preghiera – espressione e sintesi dell’orazione dell’intera assemblea – per prima dovrebbe effondersi ed espandersi nel canto. Solo successivamente viene chi, preposto alla musica, dovrebbe non tanto e solo curare a priori la sostanza e la proprietà della musica per la liturgia quanto essere pronto, sensibile ed aperto a – e naturalmente in grado di – arricchire estemporaneamente, con vera arte, la preghiera collettiva interpretandone, vivificandone e dilatandone la risonanza e la solennità. Non tutto può essere preordinato, motivo in più per il quale nella liturgia dovrebbero intervenire autentici professionisti, di provata pietas e di adeguata preparazione tecnica, che alla liturgia non dedichino i ritagli del proprio tempo libero bensì l’intera sfera professionale della propria esistenza. Ecco schiudersi un’altra imbarazzante questione, recentemente in Italia al centro di un’accesa polemica: i professionisti che operano nella liturgia devono essere dignitosamente remunerati. Invero la sostanza dell’imbarazzo non è neppure che in assenza di compenso i professionisti – come anche accade – ormai rifiutino di prestare la propria opera all’interno della liturgia e che di conseguenza la gran parte della musica sacra sia ormai appannaggio di volontari e dilettanti puntualizzando che non interpretiamo tale termine in senso riduttivo (chi scrive conosce più d’un dilettante di eccellente preparazione) – che ad essa destinano il limitato tempo che, con encomiabile sacrificio, possono sottrarre alla famiglia e al lavoro, quindi non esattamente la consistenza di impegno che la complessità e l’importanza della materia esigerebbe. Sostanziale è invece la scala di priorità che le Autorità Ecclesiastiche pongono davanti a sé. Se infatti da decenni la Chiesa ha intrapreso un progressivo, esemplare cammino di adesione alla povertà evangelica e si constati di fatto che le chiese oggi non dispongono più - almeno in Italia - degli ingenti patrimonii d’un tempo (per tanti versi anche questo è Grazia) è necessario chiarire concretamente quali e quante disponibilità finanziarie si vogliono e si possono destinare alla liturgia e se l’impegno economico per la liturgia debba venire prima o dopo le infinite necessità pastorali e materiali delle Parrocchie. Se tutto vi è anteposto è naturale che le risorse che avanzano per la liturgia – pur quando ne avanzino – siano necessariamente esigue. Varrebbe aggiungere anche la quantità di chiese aperte al culto. Appare sintomatico il caso di città italiane di poche diecine di migliaia di abitanti con un numero del tutto sproporzionato di chiese aperte al culto: ne consegue inevitabilmente che non si disporrà mai di risorse sufficienti a garantire a ciascuna di esse un adeguato, completo e decoroso – e all’occorrenza autenticamente solenne - servizio liturgico. Se la liturgia non rientra tra le prime e principali preoccupazioni, di fatto posposta ad altri ambiti dell’attività pastorale, è inutile trattenersi a discutere – se non in sede meramente accademica - dei problemi della musica nella liturgia, automaticamente privi di soluzione concreta. Recentemente, in seno alla polemica sulla retribuzione degli organisti poc’anzi citata, si è udito pretendere che l’attività musicale nella liturgia sia puro servizio gratuito alla comunità. Che sia servizio è fuor di dubbio, pretenderlo gratuito è indebito e significa relegarlo alle già citate sfere del volontariato e del dilettantismo. Al riguardo ci contentiamo di citare San Paolo “nescitis quoniam qui in sacrario operantur quae de sacrario sunt edunt, et qui altari deserviunt cum altari participant?” (I ad Corinth 9,13). In Italia non esiste un contratto di lavoro per organista liturgico (al contrario è molto più spesso inquadrata fiscalmente e 9 retributivamente la figura del sacrestano) e numerosissime chiese non estendono il proprio contributo per il servizio musicale al di là di qualche incerto occasionale, magari corroborato dalla promessa di una sorta di discutibilissimo ius di precedenza o di esclusività sui matrimonii (a spese degli sposi, naturalmente): usanze entrambe piuttosto vergognose. D’altro canto gli organisti devono rammentare che vivere dell’altare non significa arricchirsi dell’altare, che hilarem enim datorem diligit Deus (II ad Corinth 9,7) e che per retribuito che sia il loro resta servizio. E missione. Organum tubulatum in Ecclesia latina magno in honore habeatur, tamquam instrumentum musicum traditionale, cuius sonus Ecclesiae caeremoniis mirum addere valet splendorem, atque mentes ad Deum ac superna vehementer extollere24. Analoga per più d’un verso alla precedente è la questione inerente il patrimonio organario: è infatti principalmente per esigenze di bilancio che parte degli organi delle chiese d’Italia giace inutilizzabile e che un numero sempre crescente di esse ne sia addirittura privo. L’organo a canne, prodigio di tecnica e di arte, è - né più né meno di qualsivoglia altro strumento musicale di valore - costoso. Costoso per l’edificazione, costoso per la manutenzione. Ben si comprendono le difficoltà di chi, preposto al culto presso una Parrocchia, nel mezzo della propria opera di apostolato si trova ad affrontare i problemi dell’edificazione, del restauro o della manutenzione dell’organo (come peraltro del tetto della chiesa, della statica del campanile, dell’impianto di amplificazione o di riscaldamento) e a sopportare le incertezze e le preoccupazioni che ne discendono. In realtà si tratta proprio di problematiche di grande specificità, che non gli competono e delle quali deve pur troppo occuparsi egualmente. Non si deve dimenticare infatti che: 1) il collegio sacerdotale assegnato ad un territorio è organismo preposto e finalizzato alla sua salute spirituale, mantenuto dai fedeli di quel territorio perchè s’incarichi di supplire “a tempo pieno” – quindi non nei ritagli di tempo come potrebbe fare un volontario – principalmente (vorremmo dire esclusivamente) alle loro necessità spirituali; 2) i beni di una chiesa - siano essi l’edificio, le opere d’arte in esso contenute o le suppellettili liturgiche - e la responsabilità della loro conservazione e salvaguardia appartengono all’intera comunità, che nel tempo si è assunta l’onere della loro edificazione, commissione e acquisto e che si è fatta e continua a farsi carico del loro mantenimento. Non è lecito pretendere dal Parroco la competenza e l’impegno per interventi che esulano dalla sua specifica missione, nonostante si ammiri lo zelo di sacerdoti che di tali gravosi impegni si sono caricati con eccellenti esiti. Provvidamente la legislazione ecclesiastica prevede organismi specifici preposti a tali necessità, primo fra tutti il Consiglio per gli affari economici, anche se bisogna riconoscere che esso non gode oggi delle medesime libertà d'azione e concreta efficacia delle Fabbricerie d'un tempo, le quali - la storia testimonia - per secoli hanno coraggiosamente commissionato per le chiese autentiche opere d'arte, organi inclusi, le hanno scrupolosamente custodite e con eguale lungimiranza hanno impiegato valenti musicisti garantendo di fatto la qualità artistica della musica nella liturgia, senza che tali preoccupazioni sottraessero tempo ed energie alla missione pastorale dei sacerdoti. Noi stessi abbiamo assistito più d’una volta sacerdoti impegnati nel restauro o nell’edificazione dell’organo, e abbiamo veduto di persona confusione e disorientamento causato da inadeguati – e spesso interessati – suggerimenti e dalla mancanza di solidi ed affidabili punti di riferimento. Non occorre spendere molte parole per dimostrare che anche in questo l’organista – qualora professionalmente preparato – diviene interlocutore e consigliere prezioso ed insostituibile. Esistono anche esperti, tecnici ed artisti di provata onestà e serietà cui affidare l’elaborazione e la conduzione a buon termine di simili progetti; la loro remunerazione – anch’essa perennemente posta in discussione - è senza dubbio piccolo onere paragonato al danno artistico ed economico di lavori mediocremente condotti, inutili o addirittura irreparabilmente rovinosi, evenienze tutt’altro che rare. Il nocciolo della questione torna invero ad 24 SC 120. Cfr. Die künstlerische Transposition des Glaubens. Theologische Probleme der Kirchenmusik, in: JRGS 11, 571-585, ibidem 582-583 10 essere quello finanziario e una volta ancora è indispensabile convincersi che il capitale investito in un organo trova la propria giustificazione tanto in prospettiva liturgica che ecclesiale, che artistica, che economica. E al di sopra di tutto in dimensione mistica25. Di poi interviene la volontà: l’organo, infatti - come l’organista, come un’adeguata partecipazione della musica alla liturgia - bisogna desiderarlo (e amarlo), altrimenti vi sarà sempre qualcosa da anteporgli, fino a ripiegare finalmente su un solo apparentemente economico strumento elettronico o su altri congegni artificiali di recente invenzione e di già biasimevole diffusione che oltre all’organo sostituiscono anche l’organista, espedienti tutti di nullo valore artistico - e di conseguenza liturgico – che contravvengono palesemente alle proposizioni conciliari che esortano Curent Episcopi ut artificum opera, quae fidei et moribus, ac christianae pietati repugnent, offendantque sensum vere religiosum vel ob formarum depravationem, vel ob artis insufficientiam, mediocritatem ac simulationem, ab aedibus Dei aliisque locis sacris sedulo arceantur26 e precedentemente raccomandano praecipue ut res ad sacrum cultum pertinentes vere essent dignae, decorae ac pulchrae, rerum supernarum signa et symbola27. L’organo edificato o restaurato, poi, necessita di essere suonato, giacché non solo in prospettiva mistica – che in questa sede viene senza dubbio prima d’ogni altra – ma anche sotto un profilo materiale una spesa consistente come quella dell’organo trova la sua giustificazione nel più ampio, serio e condiviso suo utilizzo al servizio dell’intera comunità e della sua prima e principale espressione di vita e unità: la preghiera liturgica. Più materialmente ancora si osserva anche che molte chiese conservano oggi perfettamente funzionanti organi di uno, due, tre e perfino quattro secoli fa, lassi di tempo per i quali l’onerosa spesa sostenuta al momento della loro edificazione appare indiscutibilmente ammortizzata, senza considerare che molti di essi oggi sono inestimabili capolavori d’arte, e come tali di valore enormemente superiore a qualsiasi cifra destinata alla loro costruzione dalla fede, dal coraggio e dalla sapiente lungimiranza dei nostri padri. Voglia Dio, per il soffio dello Spirito, risvegliare e rafforzare in noi quelle medesime Pietà, Scienza e Fortezza con le quali i nostri padri edificarono templi e commissionarono per la liturgia opere d’arte di mirabile grandezza; quei medesimi Intelletto, Consiglio e Sapienza per i quali essi destinarono alla liturgia ed in essa gustarono capolavori di mistica eloquenza; quel medesimo Timor di Dio grazie al quale noi oggi ereditiamo un patrimonio vivo e vitalizzante di bellezza che per l’abbondanza della Grazia speriamo di essere degni di mantenere e per la sovrabbondanza della Grazia – affinché in tutto sia glorificato Dio - di saper accrescere e far fruttificare, convinti che in terrena Liturgia caelestem illam praegustando participamus, quae in sancta civitate Ierusalem, ad quam peregrini tendimus, celebratur, ubi Christus est in dextera Dei sedens, sanctorum minister et tabernaculi veri; cum omni militia caelestis exercitus hymnum gloriae Domino canimus; memoriam Sanctorum venerantes partem aliquam et societatem cum iis speramus; Salvatorem exspectamus Dominum nostrum Iesum Christum, donec ipse apparebit vita nostra, et nos apparebimus cum ipso in gloria28. Padova, Pentecostes 2009 Maurizio Cavagnini 25 Cfr. Matteo, 26, 6-11 (Marco, 14, 3-7; Giovanni 12, 1-8). SC 124. 27 SC 122. 28 SC 8; cfr. LG 50. 26 11