UT IN OMNIBUS GLORIFICETUR DEUS Una riflessione sullo stato

UT IN OMNIBUS GLORIFICETUR DEUS
Una riflessione sullo stato di fatto della Musica Sacra in Italia
e qualche considerazione che ci auguriamo utile anche fuori dall’Italia.
In terrena Liturgia caelestem illam praegustando participamus, quae in sancta civitate
Ierusalem, ad quam peregrini tendimus celebratur1. Teologia e liturgia animano una discussione
che si estende oltre i limiti della nostra poca scienza, della nostra fede vacillante; non varcheremo
pertanto la soglia delle aule elette nelle quali si confrontano limitandoci in quest’apporto a poche
personali considerazioni, volutamente al di fuori da argomentazioni troppo speculative o tecniche
che impaccerebbero la lettura di un testo che si propone invece di essere solo semplice e discorsiva
riflessione e confronto tra l’esperienza quotidiana e le indicazioni conciliari. Non siamo liturgisti –
epperciò ci scusiamo fin d’ora per l’improprietà del nostro linguaggio e per la forse ingenua
spontaneità del nostro dire, che sgorga più dal cuore che da altro – ma musicisti, cantori del bello,
nel quale amiamo scorgere uno degli affascinanti volti di Dio, al servizio della liturgia da ormai
trent’anni. Proprio perché musicisti nella liturgia incessantemente la nostra mente ed il nostro cuore
si interrogano sulle offerte che vediamo presentare davanti all’altare di Dio, che, memori del
sacrifico di Abele, vorremmo sempre de primogeniti gregem e de adipibus eorum (Gen 4,4). Ci
assista lo Spirito nell’affrontare argomenti che si proiettano ben al di là delle limitate possibilità
della scienza e della ragione.
Formam nobiliorem actio liturgica accipit, cum divina Officia sollemniter in cantu celebrantur,
quibus ministri sacri intersint quaeque populus actuose participet2 Celebrare in cantu, non cum
cantu. È pertanto chiaro che il canto, e per estensione la musica che dal canto scaturisce, nella loro
forma più pura, non si inseriscono nella liturgia come un’estetica decorazione, un’aggiunta o una
sovrapposizione ma sgorgano immediati dalla liturgia stessa, naturale effusione del cuore orante
compenetrato - per l’azione dello Spirito - dalla sostanza, dai testi e dai segni del rito. Ma ciò cui
assistiamo è troppo spesso diverso: musiche e testi (vorremmo aggiungere anche segni...) aggiunti e
talora sovrapposti a quelli prescritti. Sarebbe già Grazia poter partecipare con eguale intensità –
anche senza canto – la sapiente e abbondante ricchezza testuale e simbolica della liturgia e invece a
questo autentico, purificato e purificante tesoro inspiegabilmente si vede sovrapporre ulteriore,
disorientante eccesso con esiti fastidiosamente analoghi a quelli della sovrabbondanza decorativa
del cattivo manierismo o dei peggiori esempi di barocco. Eccesso che, in aperta contraddizione con
la ben nota proposizione conciliare che raccomanda Ritus nobili simplicitate fulgeant, sint brevitate
perspicui et repetitiones inutiles evitent, sint fidelium captui accommodati, neque generatim multis
indigeant explanationibus3, offusca la bellezza e la poesia dei testi proprii, frutto della secolare
tradizione della lectio, radicata nella Scrittura, svilisce la profondità e la nobile eloquenza dei segni,
adombrati da sovrapposizioni quasi quinte successive che nascondono l’essenza dell’azione,
paralizza il miracolo della parola che trasfigura in musica espandendosi nel canto. Alla base di
quest’abuso si intuisce una deviata concezione strumentale del canto e della musica, aggiunti alla
liturgia in funzione riduttivamente decorativa se non addirittura umiliati a mero riempimento di
spazii liturgici apparentemente vuoti, lungi da quella solemniter in cantu celebrandi ars richiamata
poc’anzi e in aperta contrapposizione con il pensiero conciliare che definisce la sostanza della
musica come necessariam vel integralem liturgiae sollemnis partem4 dopo avere sottolineato il
munus Musicae sacrae ministeriale in dominico servitio5. Da tale, nobile concezione della musica,
per la quale essa non è, non può e non deve essere riempitivo, sottofondo, decorazione né
tantomeno superflua aggiunta alla liturgia conseguono alcune elementari considerazioni.
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SC 8.
SC 113.
3
SC 34.
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SC 113.
5
SC 112b.
2
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1. I testi liturgici, sia del proprium che dell’ordinarium, dovrebbero trovare la propria
espansione nel canto precedentemente all’eventuale aggiunta – se proprio necessaria - di altri
elementi musicali. Pertanto prima di scegliere un canto d’introito o d’offertorio sarebbe auspicabile
valutare la concreta possibilità di volgere in canto l’introito e l’offertorio proprii della specifica
celebrazione; prima di inserire altri, facoltativi canti nel rito sarebbe meglio accertarsi che siano in
canto le parti prescritte del rito, massimamente quelle che per propria natura richiedono l’apporto
del canto come l’inno di gloria e di seguito le altre parti dell’ordinarium; volendo e potendo – e
sempre prima di altri eventuali canti - dovrebbero svolgersi in canto i dialoghi tra celebrante ed
assemblea, specialmente il saluto iniziale, il congedo e massimamente il prefazio. Giova in questo
senso rammentare che il proprium è sempre contestualizzato e d’ufficio contestualizzante – anzi,
meglio, caratterizzante - la celebrazione, e come tale insostituibile. È chiaro che la partecipazione
assembleare al canto del proprium, che varia di giorno in giorno, è più difficile da conseguire, eppur
tuttavia affermiamo che non mancano accorgimenti musicalmente soddisfacenti per garantire che il
populus actuose participet anche ad esso6.
2. Alcune parti della liturgia tanto per la propria natura quanto per la propria importanza
richiedono l’apporto della musica più di altre. Ne sono un esempio i salmi, per tradizione
composizioni poetico-musicali – liriche - che private della musica perdono una parte essenziale
della loro forma7. Similmente si potrebbe dire dei cantici, degli inni e di molti altri analoghi
elementi della liturgia e ad sensum delle acclamazioni; diverso trattamento può invece essere
riservato alle letture della liturgia della parola, ove il canto assume semmai la funzione di
sottolineare e solennizzare la loro declamazione, amplificando l’atto di chi le proclama
all’assemblea.
3. Il silenzio, ove previsto o raccomandato, deve restare tale. Sovrapporvi della musica è
improprio, illogico e contrasta la disposizione conciliare Sacrum quoque silentium suo tempore
servetur8. Si ha infatti la sensazione, non senza dispiacere, che proprio il silenzio sia uno degli
aspetti della liturgia peggio vissuti. Il silenzio liturgico non è vuoto, ma eloquente e concentrata
assenza di parola. L’illegittima pratica di accompagnarlo con un sottofondo ci sembra abuso
contraddittorio e controproducente, del quale non troviamo motivazione se non in una sorta di
horror vacui del quale talune - non rare - liturgie sono fastidiosamente pervase. Per estensione si
vorrebbe qui ricordare che oltre ai momenti di silenzio nella liturgia esistono tempi di silenzio o, per
lo meno, di sobrietà musicale. Fra essi spiccano l’Avvento e massimamente la Quaresima; non
occorrono molte riflessioni per comprendere l’evidente ratio delle disposizioni – in Italia piuttosto
trascurate – che stabiliscono rispettivamente di moderare o di evitare il suono dell’organo e degli
altri strumenti, né occorre dilungarsi ulteriormente per illustrare l’efficacia di tali prescrizioni sul
carattere delle celebrazioni, nonché gli eloquenti, esuberanti significato ed effetto che consegue il
pieno ritorno della musica nelle festività del Natale e della Pasqua.
4. Allo stesso modo la parola, ove declamata, deve essere udibile. Sovrapporre (o sottoporre
che sia) ad una declamazione un accompagnamento musicale è abuso analogo a quello appena
illustrato riguardo al silenzio. Qualora musica e parola non siano tutt’uno o vi è l’una o vi è l’altra;
la sovrapposizione di due elementi tanto più appare inopportuna nella liturgia ove se si recita
qualcosa ad alta voce lo si fa rivolgendosi personalmente ad un interlocutore perché questi oda e
comprenda. Oltretutto questo vezzo dei sottofondi e degli accompagnamenti – seppur riconoscendo
che esistono casi nei quali può rivelarsi di qualche vantaggio; ma sono e restano casi del tutto
eccezionali – proviene non tanto da tecniche drammaturgiche di derivazione teatrale – perfino sulle
6 Cfr. RATZINGER, Joseph, Theologie der Liturgie. Die sakramentale Begründung christlicher Existenz
(=JRGS 11), Freiburg / Basel / Wien 2008, 147-151; cfr. Zur theologischen Grundlegung der Kirchenmusik,
ebd., 501-526, ibidem 524.
7 Cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 29-194, ibidem 122-129; „Singt kunstvoll für Gott“. Biblische
Vorgaben für die Kirchenmusik, ebd., 587-606, ibidem 590-598.
8
SC 30; cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 176-182.
2
scene la sovrapposizione di due azioni (o elementi) contemporanei è rifuggita – ma dalle forme più
commerciali di spettacolo d’intrattenimento.
5. Non troviamo infine che la moltiplicazione degli elementi – siano essi canti, testi, segni o
altro – determini in alcun modo la maggiore solennità d’una celebrazione, osservazione generale
vieppiù valida per la musica: non è infatti la quantità di canti e musica introdotta nella liturgia a
definirne la solennità (come fosse la quantità di note scritte in partitura e determinare la bellezza
d’una sinfonia) ma semmai le sue qualità e stretta interazione con l’azione celebrativa. Riteniamo
infatti che proprio per maggior solennità sia opportuno perseguire innanzitutto la sobrietà, la
proprietà comunicativa e l’autentica bellezza di quanto si compie, opportunamente sostenute da
quella calma e da quella chiarezza che sole garantiscono la vera solennità del rito, elementi tutti che
– in ultima analisi – si orientano in senso diametralmente opposto a quella inspiegabile nevrosi della
quantità che talora affligge celebrazioni cui – anche a noi – è capitato di partecipare, con esiti assai
lontani dal senso di mistica partecipazione alla cosmica e celestiale liturgia del coro delle schiere
angeliche9 nella Gerusalemme celeste.
Siamo coscienti che queste puntualizzazioni coinvolgono una serie di problematiche, certo
complesse, delicate e tuttavia non irrisolvibili. Una di esse investe il repertorio musicale sacro.
Quarant’anni di vissuta esperienza postconciliare evidentemente sono breve tempo, senza dubbio
non sufficiente a conseguire quella decantazione di esperienze dalla quale sola si potrebbero trarre
linee convincenti di condotta; ma per quanto limitati a fronte di duemila anni di tradizione non sono
neppure un tempo brevissimo. È evidente che non possiamo ancora pensare di disporre di un
patrimonio musicale postconciliare paragonabile per ampiezza e qualità a quello prodotto prima del
Concilio, in un tempo assai più lungo, dal genio di artisti con i quali – almeno personalmente – non
osiamo confrontarci. Certo i continui mutamenti non giovano a tale tensione creativa né tantomeno
alla radicazione della nuova produzione nella comunità: la periodica promulgazione di nuovi
repertorii come l’elaborazione di nuove traduzioni dei testi liturgici non favoriscono una produzione
artistica che ha bisogno prima di tutto di essere meditata e sperimentata all’interno di un processo
creativo tutt’altro che breve e successivamente di un vero e proprio tempo di appropriazione per
inscriversi nell’esperienza concreta della comunità diventando patrimonio comune, compreso e
condiviso. Riguardo al repertorio i Padri conciliari indicano che Ecclesia cantum gregorianum
agnoscit ut liturgiae romanae proprium: qui ideo in actionibus liturgicis, ceteris paribus, principem
locum obtineat. Alia genera Musicae sacrae, praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis
Officiis minime excluduntur, dummodo spiritui actionis liturgicae respondeant, ad normam art 3010.
Un’affermazione chiara nella sostanza ma che contiene anche elementi variabili ed infine – nel
richiamo all’art. 3011 – un’esplicita esortazione all’actuosa partecipatio dei fedeli, aspetti che
impongono cautela ed attenta riflessione. Se da subito appare lettura indebitamente restrittiva
dell’enunciato conciliare il ridursi a considerare il canto gregoriano come unica forma di musica
propria per la liturgia di contro dobbiamo riconoscere che al canto gregoriano è attribuito il ruolo di
modello fondamentale di musica liturgica. D’istinto viene da domandarsi quanto canto gregoriano
sentiamo risuonare, oggi, nelle chiese d’Italia. Limitandoci ad un eufemismo risponderemo non
molto; e sempre per presunte, superficiali argomentazioni alla radice delle quali, se non proprio
gusto personale, pigrizia o – peggio - ignoranza, appaiono pruriginose valutazioni pastorali quanto
indebite interpretazioni - che si estendono con sorprendente (ed indesiderabile) ricchezza dal vago
al vizioso - delle sagge e ponderate esortazioni del magistero. Francamente, e anche senza troppo
9
Cfr. Der Geist der Liturgie: JRGS 11, 134-137; Das Welt- und Menschenbild der Liturgie und sein
Ausdruck in der Kirchenmusik, in: JRGS 11, 527-547, ibidem 546; „Im Angesicht der Engel will ich dir
singen“. Regensburger Tradition und Liturgiereform, in: JRGS 11, 549-570, ibidem 549-551.
10
SC 116.
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SC 30: ad actuosam participationem promovendam, populi acclamationes, responsiones, psalmodia,
antiphonae, cantica, necnon actiones seu gestus et corporis habitus foveantur [...]; cfr. Der Geist der
Liturgie: JRGS 11, 175-176
3
abbacare, la distanza da principem locum obtineat (per quanto ceteris paribus) alla totale esclusione
cui di fatto assistiamo è di tale, esagerato raggio da rappresentare un’aperta contraddizione,
ingiustificabile a fronte di qualsivoglia valutazione o interpretazione. Deo gratias, Gratia supplet.
Ma fine di queste righe non è la polemica. Domandiamoci invece, più produttivamente, quali sono
gli aspetti che fanno del canto gregoriano un modello così raccomandato. Ci permettiamo di
identificarne almeno un paio.
1. La qualità del testo, stimolo primo ed indispensabile a quel processo di lectio dal quale solo
ci si può attendere che un testo si trasfiguri in musica tale da esserne orante espansione. La gran
parte dei testi gregoriani è costituita da frammenti della Scrittura o da parti della liturgia, che spesso
direttamente dalla Scrittura discendono. Textus cantui sacro destinati catholicae doctrinae sint
conformes, immo ex Sacris Scripturis et fontibus liturgicis potissimum hauriantur12. E tanto si
commenta da sé. Qualora poi ci si imbatta in testi di libera invenzione alcuni aspetti ne hanno
assicurata la qualità nel tempo, e non potrebbe essere diversamente, se la loro eloquenza si è
mantenuta fino ad oggi non solo intatta ma perfino accrescendosi nel tempo (d’altro canto è
verosimile che di tanta più che probabile produzione qualitativamente minore il tempo abbia già
fatto giustizia da sé). Anche ad un’occhiata superficiale si osserva infatti come anche i testi
gregoriani “liberi” siano pervasi dal medesimo, intenso linguaggio poetico che caratterizza i testi
della liturgia, frutto sublime della penna di molti Santi, inebriati dallo Spirito, o perlomeno di
innumerevoli poeti, forse non proprio santi, ma quantomeno verso la santità sinceramente orientati.
Ed è Grazia. Crediamo giovi chiarire che parlando di poesia non intendiamo richiamare
inconsistenti, spesso sdolcinate, suggestioni immaginifiche più o meno seducenti o fantasiose, più
pietose che pietistiche (come rileviamo pur troppo in tanta altra produzione, anche contemporanea),
ma al contrario l’intensità comunicativa di un linguaggio – quello poetico – che proprio perchè tale
è in grado di condensare in pochi, efficaci tratti immensità altrimenti inesprimibili.
2. La qualità della musica. Siamo ben lungi dall’affermare che tutto il repertorio gregoriano
presenti la medesima qualità musicale: non solo processi di riciclo melodico sono ampiamente
riscontrabili soprattutto, ma non solo, nel corpus antifonale, ma in ogni caso il lasso temporale di
composizione di tale repertorio si estende con tale ampiezza plurisecolare e attraversa la sensibilità
di artisti talmente diversi da rendere quantomeno improbabile una costante, uniforme eccellenza
qualitativa. Tuttavia una coerenza stilistica, almeno di fondo, sussiste, segno quantomeno che anche
chi, in tempi ben lontani da quelli di Gregorio Magno, si è accinto a scrivere in quello stile da esso
si è lasciato guidare, in esso ha inscritto e su di esso ha modellato la propria ispirazione, salutare
esercizio di feconda umiltà che talvolta piacerebbe suggerire anche a tanti (pseudo)compositori di
oggi. Di tale coerenza stilistica possiamo identificare alcune fattezze costanti, prima fra tutte la
sobrietà, ulteriormente sostenuta - a tutto vantaggio dell’intelligibilità e dell’eloquenza del testo dalla stretta interazione tra testo e musica, che ne è espansione, immagine e commento immediati,
nel senso di privi di mediazione. Lungo i secoli di formazione del repertorio gregoriano, avvenuta in
sì stretto contatto con l’esperienza liturgica da divenirne diretta emanazione, i maestri del
gregoriano hanno intuito, sviluppato e perfezionato modelli formali di indubbia efficienza e
praticità, applicandoli con quella costanza che, nel tempo, ne ha garantito l’efficace utilizzo e la
piena, condivisa comprensione. La considerazione si estende ulteriormente e ancor più
significativamente a procedimenti compositivi e specifici stilemi musicali del canto gregoriano così
caratterizzati e reiterati da divenire automaticamente comunicativi per la sola loro presenza. Chiaro
che un simile processo creativo – ed i risultati che abbiamo ora succintamente delineato – non può
prescindere da spazi temporali misurabili... in secoli.
Ben altro vi sarebbe da dire che tuttavia trascende i limiti di questo contributo, comunque già il
poco detto è sufficiente ad illustrare parte di ciò che si potrebbe ricavare da questo modello
musicale additatoci dai Padri conciliari come primo e preferibile, supposto e non dato che proprio
12
SC 121c.
4
non lo si voglia semplicemente utilizzare così come è. Di fatto si deve riconoscere che molto
repertorio postconciliare si è ispirato al modello gregoriano, anche se – ci sembra – più
recuperandone qualche frammento testuale, più imitandone qualche suggestiva movenza vocale,
talora resuscitando le arcaiche potenzialità espressive della modalità. Forse si potrebbe spingersi un
tantino più al cuore della questione, non riesumando singoli e finalmente secondari aspetti del
gregoriano bensì re-immergendosi in quel processo contemplativo che si colloca alla sua genesi,
soffio dello Spirito e circolazione della Grazia per azione dei quali, direttamente nella e dalla
liturgia, meditazione e contemplazione - preghiera quindi – sono divenuti musica e non altrimenti.
Alia genera Musicae sacrae, praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis Officiis minime
excluduntur (...)13 Oltre al canto gregoriano, ma - a parità di condizioni - successivamente ad esso,
ogni forma di espressione musicale è ammessa nella liturgia. Ivi compresa, quindi, la sperimentalità
del contemporaneo. Ampiezza di vedute ulteriormente ribadita più innanzi laddove trattandosi in
linea più generale dell’arte sacra leggiamo: Nostrorum etiam temporum atque omnium gentium et
regionum ars liberum in Ecclesia exercitium habeat, dummodo sacris aedibus sacrisque ritibus
debita reverentia debitoque honore inserviat14. Il valore della polifonia classica come altresì di tutto
un inestimabile tesoro di opere musicali nate per la liturgia è indiscutibile e – come abbiamo letto –
indiscusso, e tuttavia diventa irragionevolmente sempre più difficoltoso ed ostacolato il suo utilizzo,
contro il quale si oppongono argomentazioni che troppo spesso si allineano a quelle che contrastano
il canto gregoriano. Fra queste l’aeterna, vexata questio della lingua: il latino15. Moveremo – come
altrove – direttamente dal dettato conciliare. Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus
latinis servetur. Cum tamen, sive in Missa, sive in Sacramentorum administratione, sive in aliis
Liturgiae partibus, haud raro linguae vernaculae usurpatio valde utilis apud populum exsistere
possit, amplior locus ipsi tribui valeat, imprimis autem in lectionibus et admonitionibus, in
nonnullis orationibus et cantibus, iuxta normas quae de hac re in sequentibus capitibus singillatim
statuuntur16 e quindi, nei numeri successivi: Linguae vernaculae in Missis cum populo celebratis
congruus locus tribui possit, praesertim in lectionibus et "oratione communi", ac, pro condicione
locorum, etiam in partibus quae ad populum spectant, ad normam art. 36 huius Constitutionis.
Provideatur tamen ut christifideles etiam lingua latina partes Ordinarii Missae quae ad ipsos
spectant possint simul dicere vel cantare17 e di poi ancora Cum haud raro in administratione
Sacramentorum et Sacramentalium valde utilis esse possit apud populum linguae vernaculae
usurpatio, amplior locus huic tribuatur [...]18. Ben comprendiamo e appieno condividiamo la
sollecitudine pastorale di tali proposizioni e l’introduzione di una prassi che ha di fatto dimostrato
come la celebrazione condotta in una lingua comprensibile ai fedeli ne assicuri meglio la
partecipazione, ma dobbiamo altresì riconoscere la vergognosa risposta che dovremmo a chi ci
domandasse in quante chiese d’Italia i fedeli siano oggi in grado di cantare o recitare in latino il
Credo, il Pater o altri elementi dell’ordinario fino a poco tempo or sono popolarmente conosciuti a
memoria. Concretamente, e anche qui – come più sopra riguardo al gregoriano – per indebita
estremizzazione, si è irreparabilmente interrotta una tradizione che è infinitamente più difficile, ora,
resuscitare di quanto sarebbe stato semplice mantenerla vitale. Vorremmo poter affermare – ma è
incerto - che la comprensibilità dei testi liturgici latini sia oggi più assicurata di ieri, certo è però che
il latino liturgico non è la prosa ermetica di Tito Livio e che espressioni come Kyrie eleison o
Gloria in excelsis Deo sono oggi comunemente comprese almeno tanto quanto la loro traduzione;
ciò nonostante il latino, in Italia, sembra divenuto discrimen dirimente nella selezione del repertorio
musicale per la liturgia. Con grottesche, ingiustificabili contraddizioni allorché, ad esempio, si
13
SC 116.
SC 123.
15 Cfr. “Im Angesicht der Engel will ich dir singen”: JRGS 11, 562-564.
16
SC 36.
17
SC 54.
18
SC 63.
14
5
allontanano opere musicali tradizionali, talvolta persino ben note ai fedeli e da essi desiderate, e nel
contempo si introducono nuove composizioni, quasi sempre qualitativamente inferiori... su identico
testo latino! Non entriamo poi nel merito dell’esecuzione, nella liturgia, dei grandi capolavori di
musica (e di fede) quali ad esempio le Messe classiche (anche le più semplici), parti di esse,
Mottetti... diffusamente e invariabilmente condannati e proibiti come abusi. Salvo poi abbozzare
poco convincenti paraliturgie intorno a manifestazioni che – in luogo sacro, ma al di fuori della
liturgia – ripresentano tali capolavori in forma di concerto. Pazienti il lettore se qui giunti non
riusciamo a trattenerci dal veder in queste divergenze una sorta di schizofrenia comportamentale
della quale rinunciamo a domandar ragione, imbarazzati nel comprendere quale sia il vero abuso, e
se aggiungiamo - ma solo per inciso - che la musica nata per la liturgia solo nella liturgia può
ritrovare il proprio naturale Sitz im Leben e risplendere appieno della luce che vi è inscritta,
inevitabilmente sminuita in esecuzioni extraliturgiche. Salvo serbando l’imperscrutabile intervento
dello Spirito che – e non si tratta di caso isolato – per essa ha agito anche al di fuori della liturgia e
in sedi ben lontane e radicalmente diverse da quelle destinate al culto19. Sono quest’ultime opinioni
del tutto personali e pronte al confronto; comunque sia, se d’un canto ci guardiamo bene
dall’affermare che tutta la musica liturgica nata nei secoli che ci hanno preceduto sia egualmente
adatta ed efficace per la liturgia di oggi dall’altro troviamo miope e insostenibile l’ostracismo
distruttivo che ha colpito in blocco, cacciandolo dalle chiese, un patrimonio artistico inestimabile ed
insostituibile. Osserviamo ancora che il repertorio e la pratica musicali per la liturgia non si
esauriscono nella sola musica vocale. Se l’intonazione musicale delle parti testuali della liturgia non
può che esprimersi nel canto in quanto primo e inalienabile elemento di esse è il testo, al di là di tali
parti prescritte e sostanziali, e coerentemente con le considerazioni più sopra condotte, gli altri
elementi musicali della liturgia potrebbero in via di principio essere rappresentati anche solamente
da musica strumentale. Le più ampie, complete ed efficaci espressione e comunicazione del
contenuto anzitutto mistico ma anche terreno di una liturgia, soprattutto solenne, richiedono una
dilatazione di mezzi che si estende verso ogni forma di linguaggio. Gesti, colori, immagini e infinite
altre forme espressive propriamente artistiche sono necessarii ed indispensabili alla comunicazione
- ma finalmente alla stessa azione - liturgica quali linguaggii immediati ed immediabili cui affidare
l’altrimenti ineffabile. Così anche la musica, pur solo strumentale, che - come ogni arte - è
linguaggio di infinite possibilità la cui potenza supera grandemente i limiti della parola. Infine se la
musica sacra, in senso generale, tanto sanctior erit quanto arctius cum actione liturgica
connectetur, sive orationem suavius exprimens vel unanimitatem fovens, sive ritus sacros maiore
locupletans sollemnitate20, alcuni strumenti musicali sono di per sé stessi intrinsecamente liturgici,
vuoi perché tradizionalmente associati nella Scrittura alla preghiera solenne del popolo eletto, vuoi
perché esplicitamente invitati, nella letteratura salmica, a rappresentare, sostenere o amplificare la
lode del salmista, vuoi perché investiti, sempre nella Scrittura, di specifici significati terreni, mistici
ed escatologici.
Contemplare la bellezza del patrimonio lasciatoci in eredità dal passato non esaurisce i nostri
doveri. Il mutar dei tempi e delle istanze esige che ne produciamo di nuovo, perchè la fecondità
creativa del passato non avvizzisca oggi, nell’orgoglioso Duemila. Alcuni elementi e soprattutto la
sostanza del processo creativo del canto gregoriano ancor oggi validi come modelli di riferimento li
abbiamo enucleati; estendendo ora lo sguardo verso altre forme musicali che nei secoli hanno
arricchito la liturgia e senza diffonderci in troppi dettagli potremmo delineare ulteriori condizioni
indispensabili ad una nuova, contemporanea, stagione creativa. Moviamo da due constatazioni
storiche:
Similmente tuttavia, per fede, vogliamo credere che lo Spirito – per Grazia e solo per quella – continui ad
agire efficacemente nonostante la crisi artistica – e ci sia consentito aggiungere non solo artistica – della
liturgia contemporanea.
20
SC 112c.
19
6
1) la stabilità dei testi liturgici e dei riti irrigidita da precise quanto inderogabili norme che ne
proibivano l’alterazione hanno di fatto permesso la creazione di una tradizione compositiva di fermi
principii, nonché l’elaborazione e il perfezionamento di modelli formali nella cui traccia si è
innestata la personale creatività degli artisti;
2) il gusto e la temperie culturale, sociale ed ecclesiastica di epoche diverse dalla nostra hanno
non solo apprezzato ma concretamente stimolato la produzione musicale, valutandola non
infallibilmente ma con adeguata intelligenza, talora commissionandola esplicitamente e in ogni caso
riconoscendole di fatto un valore artistico, culturale e anche economico.
Sarebbe infondato pessimismo affermare che tali condizioni oggi siano integralmente venute
meno, ma vale interrogarsi su quali siano ancora presenti, quali siano mutate e quali invece
necessitino di opportuno recupero. La stabilità dei testi liturgici e dei riti è obiettivo in via di
raggiungimento, anche se riteniamo utile richiamare l’attenzione sulla cura che i redattori di tali
testi dovrebbero devolvere a che essi siano adatti al canto. Proprio in recenti promulgazioni, in
Italia, si deve infatti lamentare certa povertà poetica e sbiadito semplicismo lessicale, ma soprattutto
una complessiva incuranza metrica che ha prodotto testi spesso difficili e talora quasi impossibili da
volgere in musica con proprietà, stile e bellezza. Il clima culturale contemporaneo è invece
argomento assai più ampio e difficile, affrontato nella costituzione Gaudium et Spes con
considerazioni oggi ancora validissime. Sotto il profilo artistico, vivendo in un’epoca di forte e
talvolta esagerato sperimentalismo e pur sperando in quella nuova classicità che - come già
accaduto in passato - ne potrebbe essere uno degli esiti futuri, leggiamo troppo spesso e con troppa
insistenza nell’arte contemporanea messaggi di rottura, di frammentazione quando non di
drammatica lacerazione, certamente proprii dell’uomo di oggi ma che non sentiamo vibrare
all’unisono con l’essenza della liturgia, proiettata nella visione della Gerusalemme celeste,
habentem claritatem Dei perchè absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra
non erit, neque luctus neque clamor neque dolor erit ultra, quia prima abierunt (Apoc 21,4),
orizzonte verso il quale dovrebbe orientarsi anche la produzione musicale liturgica. Non che qui si
neghi che all’uomo sia lecito e fin per certi versi doveroso portare innanzi all’altare di Dio anche le
sofferenze della vita, ma proprio la liturgia ed il suo linguaggio – crediamo – dovrebbe essere una
prima risposta, in immagine poetica un primo balsamo, per lenirle. Qualche problema nasce anche
dall’accoglienza che la Chiesa riserva alla nuova produzione musicale. Stimolare nuova produzione
significa anche assegnarle – pur con prudenza - un adeguato spazio vitale. Non sempre abbiamo la
sensazione che ciò avvenga, anzi ci è capitato a più riprese di osservare esattamente il contrario,
talvolta aggravato da posizioni pericolosamente più inclini all’ermetica chiusura che all’apertura del
dialogo e della ricerca comune e talvolta anche – addolora scriverlo – da certa debole capacità di
giudizio. In tal senso, pur confidando nella scrupolosa applicazione dell’esortazione conciliare
Magni habeatur institutio et praxis musica in Seminariis, in Religiosorum utriusque sexus
novitiatibus et studiorum domibus, necnon in ceteris institutis et scholis catholicis21, riconosciamo
che non è competenza specifica né preoccupazione primaria del clero occuparsi direttamente
dell’arte, della musica e delle infinite, complesse problematiche che le animano e tuttavia proprio
perciò, musicisti quali siamo, auspicheremmo - in seno ad una sinceramente comune tensione verso
il meglio - il conforto di una maggior fiducia nella nostra professionalità. Autentiche riflessione e
produzione artistica esigono infatti, oltre a creatività, sensibilità e – nel caso dell’arte sacra – sincera
fede, il bagaglio di specifiche conoscenze teoriche e tecniche proprie dei professionisti del settore.
Professionisti che vanno formati22. In Italia il luogo istituzionale di formazione di un musicista
professionista è il Conservatorio, nei cui programmi – apparentemente – e fino alla recente riforma
non appaiono specifici corsi destinati alla musica liturgica. Solo apparentemente, perchè al contrario
l’intero corso d’organo secondo i programmi ministeriali di studio redatti una settantina di anni or
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SC 115.
Cfr. Kirchenmusikberuf als liturgischer und pastoraler Dienst, in: JRGS 11, 607-610.
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sono ed ora in via di riforma, ma in ogni caso tutt’oggi vigenti, è finalizzato alla preparazione
tecnica di un organista concertista nel senso completo dell’accezione ma – e qui richiamiamo
l’attenzione – dotato delle conoscenze scolastiche necessarie al completo adempimento di un
servizio liturgico espletato con proprietà e scienza. (Rimane affidato alla sua personale pietà
aggiungervi la fede!). Non si spiegherebbe altrimenti – se non all’interno di un’ottica di più ampia
preparazione musicale che a rigore dovrebbe però estendersi a qualsiasi strumentista – la
significativa presenza nel corso istituzionale di organo, e proprio e quasi esclusivamente in esso, di
discipline quali lettura e accompagnamento del canto gregoriano, teoria e pratica del trasporto e
della modulazione, lettura estemporanea della partitura corale nelle chiavi tradizionali, elementi di
contrappunto e di composizione e nella fattispecie - si osservi bene - composizione di mottetti per
voce ed organo su testo latino nonchè - importante quanto se non più delle precedenti –
l’improvvisazione. Siamo di fronte alla completa preparazione – almeno tecnicamente parlando – di
un professionista per la liturgia. Paradossalmente invece, oggi, la progressiva scomparsa in Italia di
una concreta offerta professionale per organisti liturgici – nella quale solamente queste abilità
troverebbero adeguata valorizzazione ed utilizzo - ha determinato che proprio queste discipline
essenziali al servizio liturgico siano gradatamente divenute elementi del corso d’organo trattati
secondariamente quando non disattesi del tutto o quasi. Non altri fattori se non l’assenza di una
prospettiva professionale liturgica per l’organista professionista hanno determinato che gli aspetti
più specificamente liturgici del corso istituzionale d’organo nei Conservatorii Superiori di Musica
divenissero materia di studio inutile e come tale trascurata, mentre contemporaneamente, sul fronte
ecclesiastico, si lamenta la mancanza di organisti adeguatamente preparati per un vero, artistico,
ministero liturgico. Un paradosso ingigantito dalla parallela esistenza di Conservatorii e di Scuole
Diocesane di Musica Sacra, sebbene l’insegnamento impartito in tali Istituti appaia di palese
differenza quantitativa (e sia conseguentemente diversa la considerazione e la validità dei titoli di
studio conseguiti). Restiamo a domandarci se non sarebbe stato più logico cercare un accordo con le
autorità civili preposte all’istruzione per inserire tra gli insegnamenti del Conservatorio elementi di
liturgia che, in forma di corso di specializzazione, integrassero l’ordinario diploma organistico - nel
quale sono già presenti tutti gli elementi tecnici necessarii ad un organista che sia professionista
della musica anche per la liturgia - con le dovute conoscenze teologiche e liturgiche per operare con
conveniente professionalità nella liturgia23. Si sarebbe evitata un’involutiva sovrapposizione di
Istituzioni ed il doppio circolo vizioso di domanda senza offerta e del suo contrario all’interno del
quale s’inscrivono – a puro titolo d’esempio - la recente, intelligente ma priva di prospettive,
creazione nei Conservatorii di corsi di Kappelmeister, peraltro affidati ad ottimi strumentisti sulla
adeguata preparazione teologica e liturgica (per non dire sulla pietas) dei quali sono già state
avanzate più d’una riserva o l’attuale, commiserevole conflitto tra chi, diplomato in Conservatorio e pertanto con alle spalle un serio e faticoso lavoro di autentica, professionale preparazione
musicale – si vede anteporre, per il servizio liturgico, allievi, perfino non ancora graduati, di tali
Scuole Diocesane la preparazione dei quali – e ci limitiamo all’aspetto strettamente tecnico – appare
spesso poco più che sommaria o perfino soggetti ancor meno qualificati. Nella non mai
sufficientemente lamentata assenza di un’autentica possibilità di impiego professionale nella liturgia
scorgiamo ancora ed infine la ragione ultima per la quale gli organisti professionisti ormai rifiutano
di impegnarsi per la liturgia, come oggi accade (e a chi scrive, come a molti Parroci alla ricerca di
un organista per la propria chiesa, è successo ripetutamente) e non tanto perché poco o nulla
retribuiti - aspetto che potrebbe anche passare in second’ordine se non fosse contraddizione ed
ingenua utopia la pretesa di una professionalità non retribuita - ma in quanto di fatto non più
interessati ad un servizio che, inteso e condotto com’è troppo spesso oggi in Italia, di stimolante,
creativo e professionale non ha più nulla. E spesso non ha neppure più nulla di santo. Un serio
impegno per la musica sacra che si estenda dalla valutazione e attenta reintroduzione del grande
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Magari indirizzando le risorse economiche attualmente impegnate per il mantenimento delle Scuole
Diocesane alla creazione di un fondo che garantisca se non adeguata quantomeno dignitosa remunerazione
agli organisti che lavorano per e nella Chiesa.
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patrimonio classico nato per la liturgia alla produzione di nuovo repertorio artisticamente valido,
alla formazione e conduzione di dignitose Scholae Cantorum, alla cura e al mantenimento dei
preziosi strumenti musicali custoditi dalle nostre chiese, non può prescindere dalla presenza attiva e
continuativa di serii professionisti della musica. Siano questi organisti, cantori, direttori di coro o
strumentisti in genere.
Da più tratti di questa riflessione si evince l’importanza della quale si riveste, per noi, la pratica
della – e di conseguenza la preparazione tecnica alla – improvvisazione. La prima e più propria
musica liturgica, antecedente all’esecuzione di pagine codificate, è infatti - a nostro avviso - quella
che scaturisce spontanea dalla celebrazione stessa, unica ed irripetibile, mistica unione estatica con
l’atto celebrativo che - per intervento dello Spirito - dovrebbe pervadere integralmente l’azione
liturgica. In questa visione il primo e principale cantore – artista - della liturgia è il Celebrante, la
cui preghiera – espressione e sintesi dell’orazione dell’intera assemblea – per prima dovrebbe
effondersi ed espandersi nel canto. Solo successivamente viene chi, preposto alla musica, dovrebbe
non tanto e solo curare a priori la sostanza e la proprietà della musica per la liturgia quanto essere
pronto, sensibile ed aperto a – e naturalmente in grado di – arricchire estemporaneamente, con vera
arte, la preghiera collettiva interpretandone, vivificandone e dilatandone la risonanza e la solennità.
Non tutto può essere preordinato, motivo in più per il quale nella liturgia dovrebbero intervenire
autentici professionisti, di provata pietas e di adeguata preparazione tecnica, che alla liturgia non
dedichino i ritagli del proprio tempo libero bensì l’intera sfera professionale della propria esistenza.
Ecco schiudersi un’altra imbarazzante questione, recentemente in Italia al centro di un’accesa
polemica: i professionisti che operano nella liturgia devono essere dignitosamente remunerati.
Invero la sostanza dell’imbarazzo non è neppure che in assenza di compenso i professionisti – come
anche accade – ormai rifiutino di prestare la propria opera all’interno della liturgia e che di
conseguenza la gran parte della musica sacra sia ormai appannaggio di volontari e dilettanti puntualizzando che non interpretiamo tale termine in senso riduttivo (chi scrive conosce più d’un
dilettante di eccellente preparazione) – che ad essa destinano il limitato tempo che, con encomiabile
sacrificio, possono sottrarre alla famiglia e al lavoro, quindi non esattamente la consistenza di
impegno che la complessità e l’importanza della materia esigerebbe. Sostanziale è invece la scala di
priorità che le Autorità Ecclesiastiche pongono davanti a sé. Se infatti da decenni la Chiesa ha
intrapreso un progressivo, esemplare cammino di adesione alla povertà evangelica e si constati di
fatto che le chiese oggi non dispongono più - almeno in Italia - degli ingenti patrimonii d’un tempo
(per tanti versi anche questo è Grazia) è necessario chiarire concretamente quali e quante
disponibilità finanziarie si vogliono e si possono destinare alla liturgia e se l’impegno economico
per la liturgia debba venire prima o dopo le infinite necessità pastorali e materiali delle Parrocchie.
Se tutto vi è anteposto è naturale che le risorse che avanzano per la liturgia – pur quando ne
avanzino – siano necessariamente esigue. Varrebbe aggiungere anche la quantità di chiese aperte al
culto. Appare sintomatico il caso di città italiane di poche diecine di migliaia di abitanti con un
numero del tutto sproporzionato di chiese aperte al culto: ne consegue inevitabilmente che non si
disporrà mai di risorse sufficienti a garantire a ciascuna di esse un adeguato, completo e decoroso –
e all’occorrenza autenticamente solenne - servizio liturgico. Se la liturgia non rientra tra le prime e
principali preoccupazioni, di fatto posposta ad altri ambiti dell’attività pastorale, è inutile trattenersi
a discutere – se non in sede meramente accademica - dei problemi della musica nella liturgia,
automaticamente privi di soluzione concreta. Recentemente, in seno alla polemica sulla retribuzione
degli organisti poc’anzi citata, si è udito pretendere che l’attività musicale nella liturgia sia puro
servizio gratuito alla comunità. Che sia servizio è fuor di dubbio, pretenderlo gratuito è indebito e
significa relegarlo alle già citate sfere del volontariato e del dilettantismo. Al riguardo ci
contentiamo di citare San Paolo “nescitis quoniam qui in sacrario operantur quae de sacrario sunt
edunt, et qui altari deserviunt cum altari participant?” (I ad Corinth 9,13). In Italia non esiste un
contratto di lavoro per organista liturgico (al contrario è molto più spesso inquadrata fiscalmente e
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retributivamente la figura del sacrestano) e numerosissime chiese non estendono il proprio
contributo per il servizio musicale al di là di qualche incerto occasionale, magari corroborato dalla
promessa di una sorta di discutibilissimo ius di precedenza o di esclusività sui matrimonii (a spese
degli sposi, naturalmente): usanze entrambe piuttosto vergognose. D’altro canto gli organisti
devono rammentare che vivere dell’altare non significa arricchirsi dell’altare, che hilarem enim
datorem diligit Deus (II ad Corinth 9,7) e che per retribuito che sia il loro resta servizio. E missione.
Organum tubulatum in Ecclesia latina magno in honore habeatur, tamquam instrumentum
musicum traditionale, cuius sonus Ecclesiae caeremoniis mirum addere valet splendorem, atque
mentes ad Deum ac superna vehementer extollere24. Analoga per più d’un verso alla precedente è la
questione inerente il patrimonio organario: è infatti principalmente per esigenze di bilancio che
parte degli organi delle chiese d’Italia giace inutilizzabile e che un numero sempre crescente di esse
ne sia addirittura privo. L’organo a canne, prodigio di tecnica e di arte, è - né più né meno di
qualsivoglia altro strumento musicale di valore - costoso. Costoso per l’edificazione, costoso per la
manutenzione. Ben si comprendono le difficoltà di chi, preposto al culto presso una Parrocchia, nel
mezzo della propria opera di apostolato si trova ad affrontare i problemi dell’edificazione, del
restauro o della manutenzione dell’organo (come peraltro del tetto della chiesa, della statica del
campanile, dell’impianto di amplificazione o di riscaldamento) e a sopportare le incertezze e le
preoccupazioni che ne discendono. In realtà si tratta proprio di problematiche di grande specificità,
che non gli competono e delle quali deve pur troppo occuparsi egualmente. Non si deve dimenticare
infatti che:
1) il collegio sacerdotale assegnato ad un territorio è organismo preposto e finalizzato alla sua
salute spirituale, mantenuto dai fedeli di quel territorio perchè s’incarichi di supplire “a tempo
pieno” – quindi non nei ritagli di tempo come potrebbe fare un volontario – principalmente
(vorremmo dire esclusivamente) alle loro necessità spirituali;
2) i beni di una chiesa - siano essi l’edificio, le opere d’arte in esso contenute o le suppellettili
liturgiche - e la responsabilità della loro conservazione e salvaguardia appartengono all’intera
comunità, che nel tempo si è assunta l’onere della loro edificazione, commissione e acquisto e che
si è fatta e continua a farsi carico del loro mantenimento.
Non è lecito pretendere dal Parroco la competenza e l’impegno per interventi che esulano dalla
sua specifica missione, nonostante si ammiri lo zelo di sacerdoti che di tali gravosi impegni si sono
caricati con eccellenti esiti. Provvidamente la legislazione ecclesiastica prevede organismi specifici
preposti a tali necessità, primo fra tutti il Consiglio per gli affari economici, anche se bisogna
riconoscere che esso non gode oggi delle medesime libertà d'azione e concreta efficacia delle
Fabbricerie d'un tempo, le quali - la storia testimonia - per secoli hanno coraggiosamente
commissionato per le chiese autentiche opere d'arte, organi inclusi, le hanno scrupolosamente
custodite e con eguale lungimiranza hanno impiegato valenti musicisti garantendo di fatto la qualità
artistica della musica nella liturgia, senza che tali preoccupazioni sottraessero tempo ed energie alla
missione pastorale dei sacerdoti. Noi stessi abbiamo assistito più d’una volta sacerdoti impegnati
nel restauro o nell’edificazione dell’organo, e abbiamo veduto di persona confusione e
disorientamento causato da inadeguati – e spesso interessati – suggerimenti e dalla mancanza di
solidi ed affidabili punti di riferimento. Non occorre spendere molte parole per dimostrare che
anche in questo l’organista – qualora professionalmente preparato – diviene interlocutore e
consigliere prezioso ed insostituibile. Esistono anche esperti, tecnici ed artisti di provata onestà e
serietà cui affidare l’elaborazione e la conduzione a buon termine di simili progetti; la loro
remunerazione – anch’essa perennemente posta in discussione - è senza dubbio piccolo onere
paragonato al danno artistico ed economico di lavori mediocremente condotti, inutili o addirittura
irreparabilmente rovinosi, evenienze tutt’altro che rare. Il nocciolo della questione torna invero ad
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SC 120. Cfr. Die künstlerische Transposition des Glaubens. Theologische Probleme der Kirchenmusik, in:
JRGS 11, 571-585, ibidem 582-583
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essere quello finanziario e una volta ancora è indispensabile convincersi che il capitale investito in
un organo trova la propria giustificazione tanto in prospettiva liturgica che ecclesiale, che artistica,
che economica. E al di sopra di tutto in dimensione mistica25. Di poi interviene la volontà: l’organo,
infatti - come l’organista, come un’adeguata partecipazione della musica alla liturgia - bisogna
desiderarlo (e amarlo), altrimenti vi sarà sempre qualcosa da anteporgli, fino a ripiegare finalmente
su un solo apparentemente economico strumento elettronico o su altri congegni artificiali di recente
invenzione e di già biasimevole diffusione che oltre all’organo sostituiscono anche l’organista,
espedienti tutti di nullo valore artistico - e di conseguenza liturgico – che contravvengono
palesemente alle proposizioni conciliari che esortano Curent Episcopi ut artificum opera, quae fidei
et moribus, ac christianae pietati repugnent, offendantque sensum vere religiosum vel ob formarum
depravationem, vel ob artis insufficientiam, mediocritatem ac simulationem, ab aedibus Dei
aliisque locis sacris sedulo arceantur26 e precedentemente raccomandano praecipue ut res ad
sacrum cultum pertinentes vere essent dignae, decorae ac pulchrae, rerum supernarum signa et
symbola27. L’organo edificato o restaurato, poi, necessita di essere suonato, giacché non solo in
prospettiva mistica – che in questa sede viene senza dubbio prima d’ogni altra – ma anche sotto un
profilo materiale una spesa consistente come quella dell’organo trova la sua giustificazione nel più
ampio, serio e condiviso suo utilizzo al servizio dell’intera comunità e della sua prima e principale
espressione di vita e unità: la preghiera liturgica. Più materialmente ancora si osserva anche che
molte chiese conservano oggi perfettamente funzionanti organi di uno, due, tre e perfino quattro
secoli fa, lassi di tempo per i quali l’onerosa spesa sostenuta al momento della loro edificazione
appare indiscutibilmente ammortizzata, senza considerare che molti di essi oggi sono inestimabili
capolavori d’arte, e come tali di valore enormemente superiore a qualsiasi cifra destinata alla loro
costruzione dalla fede, dal coraggio e dalla sapiente lungimiranza dei nostri padri.
Voglia Dio, per il soffio dello Spirito, risvegliare e rafforzare in noi quelle medesime Pietà,
Scienza e Fortezza con le quali i nostri padri edificarono templi e commissionarono per la liturgia
opere d’arte di mirabile grandezza; quei medesimi Intelletto, Consiglio e Sapienza per i quali essi
destinarono alla liturgia ed in essa gustarono capolavori di mistica eloquenza; quel medesimo Timor
di Dio grazie al quale noi oggi ereditiamo un patrimonio vivo e vitalizzante di bellezza che per
l’abbondanza della Grazia speriamo di essere degni di mantenere e per la sovrabbondanza della
Grazia – affinché in tutto sia glorificato Dio - di saper accrescere e far fruttificare, convinti che in
terrena Liturgia caelestem illam praegustando participamus, quae in sancta civitate Ierusalem, ad
quam peregrini tendimus, celebratur, ubi Christus est in dextera Dei sedens, sanctorum minister et
tabernaculi veri; cum omni militia caelestis exercitus hymnum gloriae Domino canimus; memoriam
Sanctorum venerantes partem aliquam et societatem cum iis speramus; Salvatorem exspectamus
Dominum nostrum Iesum Christum, donec ipse apparebit vita nostra, et nos apparebimus cum ipso
in gloria28.
Padova, Pentecostes 2009
Maurizio Cavagnini
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Cfr. Matteo, 26, 6-11 (Marco, 14, 3-7; Giovanni 12, 1-8).
SC 124.
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SC 122.
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SC 8; cfr. LG 50.
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