N. 1/2014 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

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ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXIV - N. 1/2014
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
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INDICE
DOTTRINA
ELENA ZUCCONI GALLI FONSECA, Ancora su arbitrato rituale e fallimento.
ANDREA LA MATTINA, L’arbitrato marittimo internazionale .......................
FRANCESCO CAMPIONE, La perizia contrattuale...............................................
1
19
53
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) Italiana
Sentenze annotate:
Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 223, con commenti di M. BOVE, A.
BRIGUGLIO, S. MENCHINI, B. SASSANI .......................................................
Cass. 10 ottobre 2011, n. 20741, con nota di C. SPACCAPELO, Brevi note
sull’ambito oggettivo e soggettivo della clausola compromissoria,
nonché sulla sua interpretazione ............................................................
Cass. 6 aprile 2012, n. 5634, con nota di E. DEBERNARDI, Sull’impugnazione del lodo dichiarativo della competenza arbitrale .....................
Cass. 14 maggio 2012, n. 7450 con nota di RITA TUCCILLO, La nomina
degli arbitri: capacità e qualifiche tra autonomia privata e poteri
discrezionali dell’autorità giudiziaria.....................................................
App. Milano 12 marzo 2013, con nota di S. CAPORUSSO, Sulla applicabilità
del filtro all’impugnazione del lodo arbitrale rituale ...........................
81
115
133
153
183
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb., Napoli 20 giugno 2013, con nota F. TIZI, Alcune riflessioni in
merito all’art. 816-septies c.p.c. ..............................................................
197
III
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RASSEGNE E COMMENTI
TOMASO GALLETTO, Arbitrato e accordi di ristrutturazione dei debiti: una
convivenza possibile?...............................................................................
215
DOCUMENTI E NOTIZIE
La riforma dell’arbitrato in Belgio.................................................................
In memoria del giudice Bernard Corboz [P.B.] ...........................................
Notizie libri [A.B.]............................................................................................
IV
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239
261
263
DOTTRINA
Ancora su arbitrato rituale e fallimento
(*)
ELENA ZUCCONI GALLI FONSECA (**)
1. Premessa. — 2. La compromettibilità delle controversie endofallimentari. — 3.
La sottoscrizione della convenzione arbitrale da parte del curatore. — 4. L’opponibilità al fallimento della convenzione arbitrale stipulata dal fallito in bonis. — 5.
La sorte del procedimento arbitrale pendente alla data del fallimento. — 6.
L’opponibilità del lodo nei confronti del successivo fallimento.
1. Il problema dei rapporti fra arbitrato e fallimento non cessa mai
di porsi. Le questioni che si pongono specialmente sono le seguenti:
a) la compromettibilità delle controversie endofallimentari;
b) la sottoscrizione della convenzione arbitrale da parte del curatore;
c) l’opponibilità al fallimento della convenzione arbitrale stipulata
dal fallito in bonis;
d) la sorte del procedimento arbitrale pendente alla data del fallimento;
e) l’opponibilità del lodo nei confronti del successivo fallimento.
Atteso lo sforzo di sintesi che mi prefiggo, non tratterò dei rapporti
fra arbitrato e procedure minori, nonché dell’arbitrato irrituale: entrambi
i temi richiederebbero infatti specifici approfondimenti (basti pensare
all’art. 169 bis in materia di concordato fallimentare).
Vediamo partitamente le ipotesi sopra menzionate.
2. La legge fallimentare non esclude la possibilità per il curatore di
stipulare patti arbitrali, poiché detta, da una parte, le cautele necessarie
per una valida sottoscrizione (art. 35 l. fall.), dall’altra parte, le modalità di
nomina degli arbitri nell’ipotesi di clausola binaria (art. 25 l. fall.).
Si tratta quindi di vedere quali siano le liti scaturenti dal fallimento
che possono potenzialmente essere devolute ad arbitri.
(*) Lo studio trae spunto dalla relazione tenuta presso la Camera arbitrale di Milano
il 3 luglio 2013.
(**) Professore ordinario nella Università di Bologna.
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L’art. 806 c.p.c., nel fissare il criterio generale della disponibilità del
diritto, nonché il criterio concorrente dell’assenza di espresso divieto
normativo, pur non risolvendo la questione, offre una luce.
In difetto di una specifica presa di posizione del legislatore, infatti,
non possono rilevare circostanze quali: la specialità del rito, se non sia
legata ad un oggetto del processo non riconducibile all’accertamento di
diritti soggettivi; eventuali previsioni di fori inderogabili; norme sostanziali inderogabili.
Con riguardo al fallimento, dunque, una interpretazione riduttiva non
può fondarsi sull’art. 24 l. fall. istituente il c.d. foro fallimentare (1), perché
si tratta di norma che opera all’interno della giurisdizione statuale; neppure sulla scelta del rito camerale, se l’oggetto riguardi un diritto soggettivo compromettibile.
Si tratta allora di capire se le liti endofallimentari abbiano ad oggetto
diritti indisponibili ed a questo proposito, diverse sono le ricostruzioni
proposte.
Un leit motiv ricorre, peraltro: l’effetto cui la procedura fallimentare
tende, vale a dire la liquidazione concorsuale, realizzabile solo attraverso
lo speciale procedimento, impedisce l’arbitrato (2), perché altro è l’accertamento di diritti, altro sono le attività finalizzate al concorso fallimentare.
In altri termini, solo la procedura prevista dalla legge è in grado di
rispettare il principio della par condicio creditorum, cosicché il rito permea
di se il diritto sostanziale, in un tutt’uno.
L’assunto porta ad un corollario, pur abbisognevole di precisazioni:
quando vi sono in gioco debiti a sfavore della massa, è necessario applicare il rito fallimentare; diversamente, quando oggetto della lite sono
crediti a favore della massa, non vi è alcun ostacolo alla giustizia privata.
V’è di più: ove si acceda alla discussa idea che il « mondo giuridico »
della massa fallimentare sia distinto da quello del fallito, ben sarà possibile
(1) Nel senso del testo VERDE, in Dir. dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino 2005, 68.
Diff. CARLEO, Controversie non compromettibili, in Dizionario dell’arbitrato, Torino, 1997, 283;
in giur. v. Cass., 4 settembre 2004, n. 17891, in Foro it., 2005, I, c. 744, in La nuova giur. civ.
comm., 2005, 868 ss., nota di DELLA VEDOVA, Le sorti di un procedimento arbitrale in corso in
seguito al sopravvenuto fallimento di una delle parti. Del resto, la norma si ritiene non si applichi
alle liti connesse da mera occasionalità alla procedura fallimentare: CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 530 s.; E. F. RICCI, Lezioni sul
fallimento, Milano, 1999, I, 322 ss., spec. 326 s.; BONSIGNORI, Arbitrati e fallimento, Padova, 2000,
59. Cass., 15 aprile 2003, n. 5950, in Rep. Foro it., 2003, voce Fallimento, n. 27.
(2) VERDE, in Dir. dell’arbitrato, cit., 68. Più tranchant è Trib. Padova, 6 agosto 2004, in
Giur. mer., 2005, 818, e in Soc., 2005, 1033, nota di FINARDI, secondo cui la clausola compromissoria statutaria non sarebbe vincolante per il curatore, perché la materia dei diritti della
massa creditoria è interamente indisponibile.
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per quest’ultimo svolgere un arbitrato per l’accertamento di un suo debito,
con lodo ovviamente inopponibile al curatore, ma spendibile nel caso di
rientro in bonis. (3)
La distinzione fra debiti e crediti appare soddisfacente, ma occorre
verificare, caso per caso, quale tipo di controversia venga in rilievo.
Con riguardo ai debiti o diritti a sfavore della massa e più in generale
ai procedimenti finalizzati alla realizzazione del concorso fra creditori:
a) il procedimento di ammissione al passivo rappresenta il cuore
della funzione fallimentare, non esportabile in arbitrato. Un eventuale
lodo di accertamento del credito, effettuato al di fuori del sistema endofallimentare, non sarebbe opponibile alla procedura (4).
Analogo discorso va fatto per le impugnazioni dello stato passivo ex
art. 96 l. fall., che scontano la stessa ratio. (5)
b) Le insinuazioni tardive di crediti non sono compromettibili, sempre per lo stesso motivo sub a).
Ove si ritenga che detto procedimento sia l’unico in grado di portare
all’interno della procedura concorsuale i debiti del fallito, non resta spazio
per l’arbitrato su questi ultimi (6).
Parimenti vale per le richieste di restituzione e rivendica di beni
mobili od immobili: anche in questo caso, gli inevitabili riflessi sulla
formazione della massa passiva rendono a mio avviso inattuabile l’arbitrato.
c) In generale i rimedi impugnatori dei provvedimenti del giudice
fallimentare non possono essere devoluti ad arbitri, essendo funzionalmente inscindibili alla procedura concorsuale (7).
Parimenti vale per il reclamo contro la sentenza di fallimento ex art.
(3) BOVE, Arbitrato e fallimento, in questa Rivista, 2012, 293 ss., fa l’esempio della
necessità di ottenere l’accertamento dell’inessitenza del credito, per fondare l’eventuale la
ripetizione di indebito ex art. 114, comma 2, l. fall.
(4) GROPPOLI, Sulla potestas iudicandi degli arbitri in materia fallimentare, in Il fall., 2009,
134 ss: non sarebbero arbitrabili « i procedimenti che conducono al decreto di esecutività dello
stato passivo previsto all’art. 96, al decreto di ammissione o rigetto di una domanda tardiva di
ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili
ex art. 101, al decreto di esecutività del progetto di ripartizione di cui all’art. 110, al decreto
ingiuntivo circa i versamenti ancora dovuti dai soci a responsabilità limitata come stabilito
all’art. 150, richiamato pure dall’art. 77 in ordine ai versamenti dovuti dall’associato in
partecipazione ».
(5) BONSIGNORI, Arbitrati e fallimento, cit., 57, che nota come l’opposizione allo stato
passivo abbia per oggetto anche effetti rilevanti per il fallimento; LA CHINA, Arbitrato, il sistema
l’esperienza, Milano, 2011, 25; CARRATTA, Arbitrato rituale su credito e interferenze sulla
verificazione del passivo, in questa Rivista, 1999, 105; BERLINGUER, La compromettibilità per
arbitri: studio di diritto italiano e comparato, Torino, 1999, II, 168; diff. CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1959, 539 s., solo se l’opposizione
sia stata regolarmente promossa nei modi e nei termini di cui all’art. 98 l. fall.
(6) In tal senso, se non erro, VERDE, op. cit., 53. Sul punto anche Coll. arb. Roma, 6 aprile
2000, in Temi rom., 2000, II, 694.
(7) FRASCAROLI SANTI, L’art. 83 bis e i problemi irrisolti nei rapporti tra fallimento e
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18 l. fall., che, oltre che vertere su una situazione indisponibile, ha
carattere impugnatorio e si inserisce strettamente nel meccanismo endofallimentare (8), nonché, per lo stesso motivo, con riguardo ai reclami ex
art. 26 l. fall. (9).
Non saranno compromettibili neppure i procedimenti di nullità degli
atti della procedura.
d) Per quanto riguarda invece i crediti o diritti a favore della massa,
essi possono originare da:
d1) stipula di contratti da parte del curatore;
d2) subentro di costui in rapporti già stipulati dal fallito;
d3) azioni revocatorie degli artt. 64 ss. l. fall.
In tutti i predetti casi non vedo ostacoli preconcetti all’arbitrabilità.
Lasciando da parte il caso sub d2), che verrà trattato al par. 4,
l’assunto vale anche con riguardo alle procedure endofallimentari che
fanno ricorso al sistema monitorio (art. 77, con riguardo al contratto di
associazione in partecipazione, art. 150 con riguardo ai versamenti dei
soci, l. fall.) (10), perché quest’ultimo non impedisce di compromettere in
arbitri il diritto soggettivo sottostante, che nella specie riguarda un credito
a favore della massa. Parimenti vale per le azioni revocatorie, ordinarie o
fallimentari che siano (11).
Per quanto riguarda i crediti da rapporti sorti dopo il fallimento,
occorre il consenso compromissorio da ambo le parti, curatore e debitore
del fallito.
Ciò potrà avvenire sia per compromesso autonomo, sia per clausola
compromissoria contenuta in nuovi contratti.
Si pone dunque il problema di capire a quali condizioni il curatore
possa stipulare patti compromissori.
3. La fonte normativa delle condizioni di stipula si ritrova nell’art.
35 l. fall. ove si legge che « i compromessi », alla pari degli atti di
straordinaria amministrazione, sono sottoscritti dal curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori.
Al 3º comma è precisato che, ove l’atto abbia valore superiore a
cinquantamila euro (nel caso di specie occorrerà probabilmente fare
riferimento al valore della lite oggetto di arbitrato), occorre che il giudice
delegato venga informato.
giudizio arbitrale, in Sull’arbitrato: Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 367 e ss.
sostiene che non sono compromettibili tutti i casi in cui vi sono ragioni specifiche affinché la lite
sia attratta all’interno del procedimento fallimentare, nonché i giudizi impugnatori.
(8) Si fonda su quest’ultimo rilievo BONSIGNORI, op. cit., 59 s.
(9) VINCRE, Fallimento e arbitrato rituale (premesse per uno studio), in Riv. dir. proc.,
1995, 741 s.
(10) Sul punto VINCRE, op. cit., 740 s.
(11) Per BOVE, op. cit., 302, sono compromettibili anche le azioni revocatorie; conf.
GROPPOLI, op. loc. citt.: tratta anche della revocatoria ordinaria, che dovrebbe parimenti essere
arbitrabile.
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Nulla si precisa in ordine alle clausole compromissorie (o, oggi, alle
convenzioni arbitrali non contrattuali).
Accedendo alla ratio dell’art. 35 l. fall., che è evidentemente quella di
considerare la scelta arbitrale un atto di straordinaria amministrazione, si
sarebbe tentati di estendere la norma alle fattispecie de quibus, se non
fosse che nel frattempo, nel regime dell’arbitrato comune, il riferimento
alla straordinaria amministrazione è stato definitivamente soppresso, ed è
stato al suo posto introdotto il criterio di « neutralità » del patto compromissorio, vale a dire la regola per la quale quest’ultimo segue, quanto alla
capacità a compromettere, il regime del rapporto cui si riferisce.
Ne consegue una — per quanto possa apparire irragionevole —
disciplina differenziata: per i compromessi dovrà farsi riferimento all’art.
35 l. fall., speciale rispetto alla disciplina ordinaria; con riguardo invece
alle altre species di convenzione arbitrale, dovrà ritenersi applicabile l’art.
808 c.p.c., per cui le cautele richieste dalla l. fall. saranno applicabili solo
quando il rapporto cui si riferisce la convenzione abbia natura di straordinaria amministrazione. A smentita non può valere il richiamo agli atti
ricognitivi dei diritti dei terzi, che necessitano autorizzazione sempre ai
sensi dell’art. 35 cit., in quanto il lodo non può evidentemente rientrare in
questa categoria.
Si rammenta che, ove manchi l’autorizzazione, a termini della giurisprudenza, si verifica un vizio di mera annullabilità, con conseguente
possibilità di sanatoria (12).
4. Le convenzioni arbitrali stipulate dall’imprenditore, in caso di
successivo fallimento, sono opponibili al curatore fallimentare (13)?
(12) Cass., 23 settembre 2002, n. 13825, in Fall., 2003, 837.
(13) La disciplina sulla sopravvivenza delle opzioni arbitrali è frutto di un lungo dibattito
nato ben prima dell’ultima riforma fallimentare. Si contrapponevano diverse tesi: a) la tesi
dell’inopponibilità del patto compromissorio alla amministrazione fallimentare (FERRARA Jr.,
BORGIOLI, Il fallimento, Milano, 1995, 275; in giur. Cass., 4 agosto 1958, n. 2866, in Giust. civ.,
1959, I, 130; Cass., 10 maggio 1959, n. 1474, in Mass. Foro it., 1956, c. 275; Cass., 11 giugno 1969,
n. 2064, in Foro it., 1969, I, c. 2490, nota di DI NANNI ; BONELLI, Del fallimento, Milano, s.d., I,
490 nota 278 con riguardo al compromesso soltanto); b) la tesi secondo cui il patto compromissorio conserva i suoi effetti solo se il processo arbitrale è già pendente (Cass., 12 gennaio
1956, n. 30, in Mass. Foro it., 1956, c. 7); c) la tesi secondo cui il curatore può sempre scegliere
se subentrare oppure no (VECCHIONE, L’arbitrato, Milano, 1971, 349); d) la tesi che il curatore
è libero di scegliere se tenere fermo il vincolo della convenzione arbitrale già stipulata ovvero
sciogliersene, con una valutazione che deve investire, nel caso della clausola compromissoria,
l’intero assetto del contratto nel quale è contenuta: SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di
parti, Padova, 1999, 120; CARLEO, Le vicende soggettive della clausola compromissoria, Torino,
1998, 123; cfr. anche BONSIGNORI, op. cit., 37; BERLINGUER, op. cit., 170; Trib. Milano, 3 dicembre
2001, n. 13399, in Guida al dir., n. 4 del 2002, 56 con riguardo al contratto d’appalto. VERDE, op.
loc. citt.; Cass., 23 gennaio 1964, n. 162, cit. nega la possibilità per il curatore di subentrare nel
contratto e non nella clausola compromissoria; e) la tesi secondo cui il rapporto parti-arbitri (il
c.d. contratto d’arbitrato), inquadrato nell’ambito del mandato - specie con riferimento all’arbitrato irrituale - sarebbe comunque sopravvissuto, facendo leva fatto leva sull’inapplicabilità
dell’art. 78 l. fall. (oggi riformulato), (Cass., 14 ottobre 1992, n. 11216, cit.; Cass., 17 aprile 2003,
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A questo interrogativo cerca di rispondere l’art. 83 bis l. fall., a
termini del quale « se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il
procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito » (14).
Sullo sfondo, sta una norma di chiusura secondo cui, in tutti i casi non
previsti dalla legge, i contratti non ancora eseguiti all’epoca del fallimento
rimangono sospesi finché il curatore non abbia scelto se subentrare o
sciogliersi dal vincolo (art. 72, comma 1º, l. fall.).
Dunque, solo l’ipotesi in cui il fallimento sopravvenga a procedimento
arbitrale pendente è espressamente disciplinata dalla legge: essa prevede
che, nei casi in cui il fallimento operi lo scioglimento ex lege del contratto
« principale » non ancora esaurito, il procedimento arbitrale debba arrestarsi; parimenti accade nei casi in cui spetti al curatore la scelta di
sciogliersi o meno e quest’ultimo opti per la prima via.
La conclusione maggiormente accettata è che la norma sancisca
l’estinzione della clausola arbitrale in una con l’estinzione del contratto cui
accede (15), in deroga al principio di autonomia della convenzione arbitrale.
Tuttavia, nessuna regola stabilisce che l’estinzione del contratto importi l’estinzione della clausola-contratto, quando non si accompagni ad
una novazione; inoltre una siffatta interpretazione avrebbe come conseguenza di escludere una volta per tutte la scelta arbitrale in ordine ai
rapporti fra fallito e terzo contraente che sopravvivano allo scioglimento
del contratto e che derivino da quest’ultimo: conseguenza a mio avviso
irragionevole nell’eventualità in cui il fallito torni in bonis.
A bene vedere — e re melius perpensa (16) —, dunque, l’art. 83 bis può
spiegarsi in altra maniera: non afferma infatti che la convenzione arbitrale
si estingue con il contratto, più semplicemente stabilisce che il processo
arbitrale non può essere proseguito.
n. 6165, in questa Rivista, 2004, 701 ss., nota di LIPPONI, Ancora su arbitrato e fallimento). Per
l’operatività del patto compromissorio nei riguardi dell’amministrazione fallimentare Cass., 14
ottobre 1992, n. 11216, in Fall., 1993, 475, con nota di BOZZA; in Foro it., 1993, I, c. 821 ss., con
nota di BARONE; in Dir. fall., 1993, II, 601, con nota di BONSIGNORI. Ma già prima con riguardo
ad un caso di perizia contrattuale v. Cass., 23 gennaio 1964, n. 162, in Foro it., 1964, I, c. 501 ss.,
in Banca e borsa, 1964, II, 223, con nota di GRAZIADEI e in Dir. e prat. ass., 1964, II, 407, con nota
di PAJARDI.
(14) Fra gli altri, sulla norma, VESSIA, Gli effetti del fallimento sulle clausole arbitrali e sui
processi arbitrali pendenti, in Dir. fall., 2008, 773; ss. TEDIOLI, Appunti sul rapporto tra arbitrato
rituale e sopravvenuto fallimento di una delle parti, in Studium iuris, 2006, 526 ss.
(15) Diff. APICE, Arbitrato e procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2013, 263 ss., fa prevalere
il contratto di arbitrato, cosicché il curatore, ove sia già in essere il rapporto parti-arbitri, non
potrebbe rifiutare la clausola arbitrale perché non si applicherebbe l’art. 83 bis destinato solo ai
casi in cui il contratto di arbitrato non si sia ancora perfezionato, ma si applicherebbe l’art. 72
sul fatto che il mandato non si scioglie per fallimento del mandante. A mio avviso, ove si accetti
la premessa dell’estinzione della clausola arbitrale, anche il contratto di arbitrato verrebbe
meno in quanto contratto dipendente dal primo, che è negozio di durata. Ma è la premessa a
non convincermi come dirò subito appresso.
(16) V. infatti quanto da me scritto in Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2007, 113 ss.
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Per chiarire l’assunto, è pregiudiziale verificare quale sia il ruolo
assunto dal curatore rispetto al fallito ed ai rapporti giuridici inerenti il suo
patrimonio.
Le ricostruzioni (17) sono le più varie: rappresentanza legale, sostituzione processuale, netta terzietà.
Probabilmente ha ragione chi nota che il curatore non può essere
parificato ad un ordinario rappresentante legale, in quanto amministratore
della massa nell’interesse dei creditori e, dunque, dotato di funzione
autonoma, rispetto al rapporto fra fallito e suo patrimonio (18).
Si è così detto che la perdita di capacità è solo relativa (19); che non si
può negare l’interesse del fallito a regolare il proprio patrimonio per
l’eventualità di ritorno in bonis (20) (ad es. ai fini della ripetizione di
indebito, relativamente al credito dell’altro contraente); che nei casi in cui
il fallito conserva un qualche interesse, — potenzialmente tutti — non si
verificherebbe mai la perdita di legittimazione nel processo.
(17) Per la perdita della capacità di agire in capo al fallito, fra gli altri: RAGUSA MAGGIORE,
Istituzioni di diritto fallimentare, Torino, 1994, 166; PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale
civile, Napoli 2006, 307; GIORGETTI, La capacita′ processuale del fallito nei giudizi litisconsortili
con il fallimento, in Fall., 2003, 1085, in nota a Cass., 5 marzo 2003, n. 3245, che concorda con
la pronuncia sulla perdita assoluta della capacità, nel caso in cui sia stato evocato in giudizio
anche il fallimento; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27263, e Cass., 30 agosto 2004, n. 17418, in
Dejure, entrambe in termini di incapacità relativa del curatore, da lui non rilevabile; sul punto
anche GARRA, in Il nuovo fallimento, a cura di Santangeli, Milano, 2006, 217 ss.; per TURRONI,
Liquidazione coatta amministrativa invalida, fallimento invalido e processi pendenti, in Riv. dir.
proc., 2008, 1552, l’interruzione non deriva necessariamente dalla perdita della capacità di agire,
ma dalla necessità di far intervenire il curatore. Se poi si accolga l’idea che oggetto del
procedimento fallimentare non è il credito del terzo, bensì il suo diritto al concorso, a maggior
ragione sarà legittimo un procedimento arbitrale avente ad oggetto il primo — e non il secondo
—. Intendo riferirimi a quella autorevole dottrina secondo cui oggetto del procedimento
fallimentare di ammissione al passivo è il diritto al concorso, di cui il diritto di credito costituisce
meramente una questione pregiudiziale, in quanto tale soggetta all’art. 34 c.p.c. (E.F. RICCI,
Lezioni, cit., 322 ss.): si potrebbe dunque ipotizzare che l’arbitrato possa proseguire sul diritto
di credito, mentre in via parallela il giudice fallimentare possa apprezzarne l’esistenza incidenter
tantum, ai fini del diritto al concorso; il fallito non è dunque incapace (ID., op. cit., 227 ss.); sul
punto anche MONTANARI, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 83 ss.
(18) Cfr. SATTA, Istituzioni di dir. fall., Roma, 1952, 104 ss., osserva che il curatore è
piuttosto un amministratore sostitutivo. Il patrimonio che egli rappresenta è dunque diverso dal
patrimonio del debitore, tanto è vero che vi rientrano le revocatorie. Non si sostituisce né ai
creditori né al debitore, compie atti autonomi di amministrazione della massa, al fine precipuo
di tutelare i creditori: ha dunque un potere originario (v. però p. 142, in cui accenna ad una
perdita di legittimazione processuale in capo al fallito).
(19) Vedi note precedenti; significativo in tal senso è lo studio di di MANDRIOLI, La
rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 120 ss.; secondo APICE, Arbitrato e procedure
concorsuali, in Dir. fall., 2013, 263 ss. « poiché l’incapacità processuale del fallito non è assoluta,
ma relativa al rapporto con la massa dei creditori, propenderei a ritenere che il lodo pronunciato
dopo la dichiarazione di fallimento non sarà inutiliter datum, ma produrrà i suoi effetti una volta
tornato in bonis il fallito ». Dubbioso sulla possibilità di portare avanti il processo, DE SANTIS,
Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla
luce delle riforme della legge concorsuale, in Sull’arbitrato, cit., 357: pone in luce, peraltro, le
difficoltà che nascono dal fatto che il fallito non ha la capacità processuale.
(20) Cass., 28 maggio 2003, n. 8545, cit.; fa l’ipotesi in cui non emerga durante il
procedimento arbitrale il fallimento della parte DE SANTIS, in Diritto delle procedure concorsuali, a cura di Trisorio Liuzzi, Milano, 2013, 197.
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L’assunto, pur estremamente ragionevole, si scontra però con l’istituto della interruzione generalizzata, che per sua funzione inerisce ad
eventi incidenti sulla legittimazione processuale della parte (21): secondo
l’art. 43 l. fall., infatti, al momento del fallimento il processo si interrompe
e il curatore sta in giudizio al posto del fallito limitatamente ai « rapporti
di diritto patrimoniale [...] compresi nel fallimento » (22).
Non si spiegherebbe come mai il processo subisca un arresto, se il
fallito, conservando in piena la sua legittimazione processuale, potesse
continuare nella lite — senza beninteso poter spendere il giudicato nei
confronti del curatore —.
La giurisprudenza tenta di risolvere l’aporia sembrando dare, in modo
francamente discutibile, agli organi fallimentari il potere di valutare se il
fallito abbia interesse a proseguire (23): quasi uno stato di quiescenza
temporaneo del processo, in attesa della decisione del curatore di proseguire lui stesso o consentire al fallito di continuare.
Quale che sia la soluzione, occorre prendere atto, a mio avviso, che,
limitatamente ai rapporti di cui all’art. 43 l. fall., nei quali il fallimento sia
coinvolto (o, seguendo la giurisprudenza, decida di essere coinvolto), il
fallito perde la legittimazione ad agire.
In questi casi, dunque, è logico ritenere che il processo non possa
proseguire, venendo meno un indispensabile presupposto processuale, a
meno che non subentri il soggetto cui « spetta stare in giudizio ». Ed è
proprio a questo punto che viene in rilievo la relatività del patto arbitrale:
eccetto il caso della successione, quest’ultimo non è opponibile al terzo,
nella specie il curatore.
Converrà distinguere le diverse ipotesi.
a) Contratti non eseguiti in cui il curatore subentra. Partendo dal caso
più semplice, quale sorte avranno i processi arbitrali che vertano su
contratti non ancora eseguiti, nei quali il curatore scelga (o ciò gli sia
imposto dalla legge) di subentrare?
(21) V. le perspicue osservazioni di MONTANARI, La sopravvenienza del fallimento in
corso dicausa tra riforma e recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Fall., 2008, 308 ss., spec. 312
ss., che per sua espressa ammissione getta il sasso e allontana furbescamente la mano: l’a. aveva
sostenuto imn altra sede (ID., Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 83 ss.) la
tesi della inidoneità della sentenza di fallimento a privare il fallito della capacità di stare nel
processo.
(22) Se poi il procedimento arbitrale fosse stato iniziato con la proposizione della
domanda d’arbitrato, ci si era chiesti se il curatore vi fosse vincolato: in senso positivo si era
richiamato l’art. 43 l. fall. (che fa riferimento ai giudizi pendenti: a voler seguire l’impostazione
della giurisprudenza sulle differenze fra arbitrato rituale e irrituale, per quest’ultimo l’art. 43 cit.
non sarebbe invocabile, ma resterebbe pur sempre, secondo VERDE, op. cit., 55, l’opponibilità
della convenzione arbitrale e la conseguente efficacia del contratto-lodo), in combinazione con
il disposto di cui all’art. 820, comma 3º c.p.c.
(23) Secondo Cass., 20 marzo 2012, n. 4448, mentre quando il fallimento è già parte, il
fallito non può a lui sostituirsi nelle scelte processuali; diversamente, quando il fallimento è
estraneo alla lite, il fallito può proseguire « quando alla negativa valutazione si accompagni
l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere ».
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L’art. 83 bis nulla dice in ordine al caso di specie, ma la soluzione è
ricavabile, oltre che da una esegesi a contrario della norma, ancor prima
facendo richiamo ai principi generali in materia di negozio.
Poiché il curatore succede nel contratto (24) succede anche nella
clausola arbitrale ivi acclusa, non essendo possibile una valutazione autonoma circa la convenienza della scelta arbitrale, rispetto a quella del
contratto principale. L’assunto è in linea con le regole in tema di successione nella convenzione arbitrale.
Se dunque il fallimento si verifichi durante il procedimento arbitrale,
ciò comporterà, come si vedrà nel prossimo paragrafo, l’onere per gli
arbitri di adottare tutte le misure necessarie per ripristinare il contraddittorio nei confronti del nuovo legittimato.
Unica eccezione saranno le liti inerenti crediti a sfavore della massa,
che dovranno necessariamente essere sottoposte a procedura concorsuale:
su queste gli arbitri non potranno pronunciarsi, quanto meno con effetti
opponibili alla massa, e per lei al curatore (25).
La stessa regola varrà, a maggior ragione, ove il processo arbitrale
non sia ancora iniziato.
b) Contratti non eseguiti in cui il curatore non subentra a processo
arbitrale pendente. Più complesso è il caso in cui il curatore abbia deciso di
sciogliersi dal contratto in corso: qui interviene l’art. 83 bis, limitatamente
all’ipotesi di processo pendente.
Scioglimento significa mancato subentro del curatore nel contratto: il
curatore è e rimane terzo (26), anche rispetto alla clausola compromissoria.
È logico, pertanto, che non gli possa essere opposta.
D’altro canto, gli arbitri non potranno proseguire nella lite, in tutti i
casi in cui riscontrino la perdita della legittimazione processuale in capo al
fallito: cioè nei casi già visti — e, lo ripeto, la cui estensione non è affatto
pacifica in dottrina — di cui all’art. 43 l. fall.
Se ciò è vero in linea di massima, occorre però andare più a fondo,
esemplificando opportunamente.
b1. Crediti precedenti allo scioglimento. Può darsi che al momento del
fallimento e del conseguente scioglimento del contratto, il fallito sia
creditore dell’altro contraente per una obbligazione non eseguita.
Ad esempio, con riguardo ad un contratto di leasing, l’utilizzatore non
ha pagato alcune rate maturate prima del fallimento della società di
leasing e c’è un procedimento arbitrale in corso su questo oggetto.
(24) Anche chi, come Vincre (op. cit., 72), accoglie la tesi della differenziazione fra
posizione del curatore e posizione del fallito, riconosce però un fenomeno successorio nel
subentro nei contratti in essere.
(25) In tal senso Cass., 17 aprile 2003, n. 6165, cit.; sulla riforma v. VINCRE, in I contratti
in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, a cura di Guglielmucci, Padova, 2006, 332 ss.;
SCHIANO DI PEPE, in Il dir. fall. riformato: commento sistematico, a cura di Schiano di Pepe,
Padova, 2007, 294.
(26) Esclude che il curatore possa essere considerato un successore nel procedimento di
ammissione dei crediti, Cass., 20 febbraio 2013, n. 4213.
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Il curatore decide di sciogliersi dal contratto di leasing, ma intende
altresì recuperare il credito a favore della massa: è vincolato al patto
arbitrale?
L’art. 82 bis è tranchant: in tutti i casi di scioglimento del contratto,
nessuno escluso, il processo arbitrale è improseguibile.
Se si dovesse ritenere che il curatore succeda nella posizione del
fallito rispetto al credito derivante dal contratto sciolto, si avrebbe una
vistosa eccezione alla regola secondo cui la successione nel diritto importa
successione nel correlativo patto arbitrale (27): è vero che la Cassazione (28) nega che il cessionario del credito possa avvalersi del patto
arbitrale, ma garantisce pur sempre il diritto all’arbitrato da parte del
terzo contraente.
Si potrebbe giustificare l’assunto sulla prevalenza dell’interesse alla
tutela dei creditori del fallito. Tuttavia, resta difficilmente spiegabile la
ragione della differenza di trattamento rispetto al subentro nel contratto:
perché la successione nel diritto derivante dal contratto non importa, al
pari della successione nel contratto, il vincolo arbitrale?
Come si è anticipato supra, la soluzione adottata dall’art. 83 bis può
spiegarsi in altro modo: il curatore rimane terzo rispetto al credito del
fallito, per cui l’inopponiblità del patto compromissorio trova la sua piena
ratio.
Benché il profilo meriti ben altro approfondimento, osservo che la tesi
secondo cui il curatore fa valere una situazione distinta rispetto a quella
del fallito pare più in linea con l’indiscussa autonomia della sua funzione (29).
L’art. 83 bis si limiterebbe dunque a prenderne atto, derivando la sua
naturale conseguenza, cioè l’impossibilità per gli arbitri di giungere alla
decisione nel merito: il fallito non ha più, infatti, la disponibilità di quel
diritto — e dunque la correlativa legittimazione processuale — ormai
attratto alla massa.
A questo punto però ci si deve chiedere se sia possibile ovviare allo
(27) La convenzione arbitrale, infatti, continua a regolare il rapporto anche quando
questi si sia estinto: per Cass., 17 aprile 2003, n. 6165, in Fall., 2004, 523 con nota di VINCRE, in
Giust. civ., 2004, I, 2408, « Il curatore che azioni un credito la cui causa petendi risieda nel
rapporto sociale tra un consorzio e l’impresa (poi fallita ed esclusa) in relazione a prestazioni,
attinenti all’oggetto sociale, da quest’ultima effettuate, non può disconoscere la clausola
compromissoria contenuta nel contratto consortile e stabilita per la risoluzione delle controversie sorgenti tra le singole imprese consorziate o tra le stesse ed il consorzio ».
(28) Cass., 28 dicembre 2011, n. 29261.
(29) Osservava Satta (Istituzioni di dir. fall., Roma, 1952, 223 ss.) che il contratto che sia
già stato eseguito da una delle parti, — e ne derivi solo un diritto di credito o di debito della
massa —, non può rientrare in quelli in cui il curatore può subentrare, perché già esaurito; la
fattispecie di cui al testo sarebbe analoga, dallo scioglimento il contratto non c’è più e residua
solo un ordinario credito o debito. Sul punto anche PAJARDI, PALUCHOWSKY, Manuale di dir. fall.,
Milano, 2008, 460.
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spreco di costi e tempi, nel caso in cui il curatore reputi più utile
proseguire nel processo arbitrale, piuttosto che iniziare un procedimento
giudiziale ex novo.
Si potrebbe invocare l’art. 72 comma 1º, sostenendo che la convenzione arbitrale è contratto ontologicamente separato, suscettibile di autonoma valutazione da parte del curatore, nonché di durata e dunque non
ancora eseguito (30), ma si verificherebbe una difficilmente accettabile
ipotesi di successione nella sola clausola arbitrale, senza che vi sia contemporanea assunzione del rapporto assistito da quest’ultima (31).
Si potrebbe poi avanzare l’idea di un intervento del curatore.
L’assunto non è peregrino, ma occorre tenere presente che, mentre
l’intervento adesivo dipendente presuppone che il fallito conservi la
legittimazione ad agire — il che non è almeno secondo l’interpretazione
più aderente al testo dell’art. 43 l. fall. —, l’intervento adesivo autonomo
o principale presuppongono il consenso dell’altra parte; solo a questa
condizione, pertanto, il curatore potrà partecipare all’arbitrato, mentre
l’intervento del successore a titolo particolare va a mio avviso escluso per
la impossibilità di configurare nella fattispecie una ipotesi di successione a
titolo particolare nell’accezione di cui all’art. 111 c.p.c. — come si vedrà
nel prossimo par. —. (32)
Nessuna delle soluzioni prospettate è soddisfacente: meglio sarebbe
stato, nell’interesse del fallimento, permettere al curatore di valutare la
convenienza del procedimento arbitrale in corso. Si deve pertanto prendere atto della risposta negativa.
b2. Debiti precedenti allo scioglimento. La soluzione è più semplice: il
credito del terzo nei confronti della massa deve seguire la procedura
concorsuale (33); gli arbitri dovranno soprassedere al giudizio nel merito,
e l’art. 83 bis ne è la conferma. Ne è parimenti la conferma l’art. 72 l. fall.
nella parte in cui stabilisce che, a contratto sciolto, l’eventuale credito del
terzo contraente possa essere ammesso al passivo.
(30) Sul problema della qualifica della convenzione arbitrale ed in particolare del
compromesso come contratto non ancora eseguito: VINCRE, Arbitrato rituale e fallimento, cit., 80.
Su questi aspetti anche VERDE, op. cit., 53; MACCHIA, Opponibilità della clausola compromissoria
al fallimento del contraente, in Il fall., 2006, 818 ss.; diff. Trib. Terni, 7 febbraio 2011, in Giur. it.,
2012, 384 ss., con nota di FRADEANI, secondo cui la clausola non potrebbe definirsi come
contratto pendente ex art. 72 perché non ha reciproche prestazioni.
(31) Diverso sarebbe se si ritenesse che il curatore subentri nel rapporto di credito
derivante dal contratto poi sciolto: a questo punto, si tratterebbe di « sistemare » l’incrociato
disposto degli artt. 72, comma 1º e 83 bis, ritenendo che il primo vada ad attenuare il tenore
tranchant del secondo: vale a dire, il processo non può essere proseguito, a meno che il curatore
non decida di subentrare nella clausola arbitrale.
(32) Si parla infatti di trasferimento per atto tra vivi a titolo particolare, che non mi pare
ricorra nella fattispecie.
(33) Nel qual caso, già prima la Cassazione aveva ritenuto che gli arbitri dovessero
pronunciare la improcedibilità del giudizio arbitrale: Cass., 6 giugno 2003, n. 9070, in D&G,
2003, n. 26, 90, in questa Rivista, 2004, 299, nota SOTGIU, in Giur. it., 2004, 964, in Corr. giur.,
2004, p. 322 ss., nota di MONTANARI; Cass., 4 settembre 2004, n. 17891, in Dejure; v. sul punto
TIZI, Fallimento e giudizi arbitrali pendenti su crediti, in Dir. fall., 2005, 440 ss.
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b3. Azioni « neutre » precedenti allo scioglimento. L’art. 72 l. fall., al
5º comma, dispone che l’eventuale azione di risoluzione (34) del contratto,
proposta prima del fallimento, « spiega i suoi effetti » nei confronti del
curatore (35).
Non v’è motivo di escludere che la disposizione valga anche quando
l’azione di risoluzione sia pendente davanti agli arbitri: naturalmente,
dovrà essere data la possibilità per il curatore di difendersi attivamente, se
necessario attraverso la sua chiamata.
A mio avviso, la ratio dell’art. 72 ne permette l’applicazione a tutte le
possibili liti « neutre » preesistenti al fallimento sul contratto sciolto, quali
l’annullamento o la nullità, a condizione che non siano avanzate pretese di
credito da parte del terzo contraente, che dovranno essere in ogni caso
assoggettare al rito fallimentare.
Ciò significa che, in tutti questi casi, l’art. 83 bis non si applica in
quanto superato da disposizione speciale.
b4. Rapporti successivi o derivanti dallo scioglimento. Nel caso in cui
vengano dedotti nel corso dell’arbitrato rapporti successivi all’estinzione o
sorgano eventuali liti circa lo stesso scioglimento del contratto (36), rimane
a maggior ragione valida la regola della inopponibilità della clausola
arbitrale nei riguardi del curatore.
Per esempio, l’eventuale risarcimento del danno conseguente dall’esercizio del diritto di scioglimento, che dovrebbe comunque essere rigettato per effetto dell’art. 72, comma 4º, non potrà essere rivolto agli arbitri
di un processo pendente alla data del fallimento.
Ancora, riprendendo l’esempio sopra dedotto del leasing, poiché ai
sensi del’art. 72 quater l. fall. il concedente ha diritto alla restituzione del
bene, mentre il curatore del fallimento dell’utilizzatore ha diritto alla
differenza fra maggior somma ricavata dalla eventuale vendita ed il
credito residuo che il fallito avrebbe dovuto pagare, nessun vincolo
arbitrale potrà operare nel caso in cui il curatore faccia valere il diritto
della massa e neppure se il concedente reclami la restituzione della cosa
dal curatore.
c) Contratti non eseguiti in cui il curatore non subentra a processo
arbitrale non ancora iniziato. Se il processo arbitrale non sia ancora
(34) Per una esaustiva ricostruzione dei precedenti e della ratio della norma, v. FRASCASANTI, Il dir. fall. e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, 270 s.
(35) Purché, in caso di beni immobili, la domanda di arbitrato sia stata trascritta,
altrimenti gli eventuali effetti del lodo non dovrebbero poter spiegare effetti nei riguardi del
curatore.
(36) Dico probabilmente perché, benché l’art. 808 quater c.p.c. suggerisca la soluzione
contraria, vi sono a mio avviso problemi di limiti soggettivi, in quanto, a differenza dei casi in
cui il curatore benefici di rapporti dare-avere preesistenti allo scioglimento, non può parlarsi di
subentro del curatore in una situazione preesistente del fallito. Conf. DE SANTIS , Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle
riforme della legge concorsuale, cit., 364.
ROLI
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iniziato al momento del fallimento ed il contratto sia sciolto, la ratio
dell’art. 83 bis, come esposta ai punti precedenti, rimane valida. Una
eventuale lite promossa dal curatore in ordine a crediti della massa non
sarà obbligatoriamente soggetta ad arbitrato; parimenti varrà per eventuali crediti derivanti dallo scioglimento, mentre eventuali debiti della
massa dovranno essere dedotti con il rito concorsuale.
d) Compromessi o convenzioni arbtrali non contrattuali. L’art. 83 bis
non tratta del compromesso e della convenzione arbitrale non contrattuale preesistenti (37), ma sono propensa a far prevalere sul dato letterale
la comunanza di ratio.
e) Domande di dare-avere in processi arbitrali pendenti. Cosa accade
se nel giudizio arbitrale si contrappongano domande di dare-avere, delle
quali soltanto quella avente ad oggetto il credito a sfavore della massa sia
attratta alla procedura fallimentare (38)?
Si è ritenuto che l’intera controversia debba spostarsi in sede fallimentare (39), ma il sopravvenuto art. 819 ter legittima a mio avviso la
soluzione opposta, cioè le vie parallele — con tutti i problemi di coordinamento che ne deriveranno —.
Ove il credito sia posto in via di compensazione varrà la disciplina
dell’art. 56 l. fall. (40)
f) Contratti interamente eseguiti. Anche per i contratti già interamente
eseguiti all’epoca del fallimento possono darsi rapporti sospesi, assistiti da
clausola arbitrale, per i quali sia finanche già pendente il processo arbitrale.
Qui l’art. 83 bis non opera per espressa previsione della norma, che si
applica ai contratti non ancora del tutto eseguiti.
Tuttavia, se si vuol essere coerenti con quanto sopra sostenuto, a
maggior ragione deve ritenersi che il curatore non succeda nei rapporti
scaturenti dai contratti già eseguiti (41) e conseguentemente non sia vincolato dal relativo patto compromissorio. Ciò non implica, come si è già
detto in precedenza, che quest’ultimo si sia estinto per ciò solo dell’avvenuta estinzione del contratto: solo, non sarà opponibile al curatore.
g) Liti fra fallito e terzo cui il fallimento è estraneo. Da ultimo occorre
(37) Conf. BOVE, op. cit. 308.
(38) Si è posto ad esempio il caso in cui, in un processo arbitrale (di arbitrato irrituale),
il terzo aveva fatto valere in via riconvenzionale un credito: Cass., 16 giugno 2000, n. 8231, in
questa Rivista, 2001, 439 ss. con nota di CAVALAGLIO.
(39) COLESANTI, Giudizio arbitrale e sopravvenuto fallimento di una delle parti, in Dir.
fall., 1998, 166 ss.
(40) Per una esaustiva trattazione di quest’ultimo aspetto, VANZETTI, Compensazione e
processo fallimentare, Milano, 2012, 37 ss.; nel Lodo arb. Milano, 10 settembre 2004, in questa
Rivista, 2006, 149 ss., nota di LIPPONI si trattava di un credito opposto in compensazione come
mera eccezione nei confronti dell’imprenditore in amministrazione straordinaria.
(41) La lite riguardante un contratto estinto costituirebbe mera questione pregiudiziale
rispetto alla massa secondo VANZETTI, op. cit., 436.
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menzionare i casi in cui la lite fra fallito e terzo (pendente o no il processo
arbitrale) abbia ad oggetto un rapporto diverso, non importa se pregiudiziale o meno, da quello di cui è titolare il curatore. Liti, cioè, che non
rientrano nell’accezione già vista dell’art. 43 l. fall.
Si è visto che quanto più si separano concettualmente i rapporti
patrimoniali del fallito dai rapporti patrimoniali della massa, tanto più si
allarga la sfera di terzietà del curatore rispetto ai vincoli arbitrali del
fallito.
Qui mi limito a riportare esempi nei quali la posizione di terzietà del
curatore rispetto alla controversia pendente non può, a mio parere,
revocarsi in dubbio: ad esempio, una lite fra fallito e terzo contraente, con
riguardo ad una disposizione negoziale non opponibile alla massa (42);
oppure una controversia endosocietaria, come ad esempio l’impugnativa
da delibera assembleare da parte di un socio, devoluta ad arbitri per
effetto di una clausola arbitrale contenuta nello statuto, con successivo
fallimento della società.
Anche in questi casi si rimane fuori dall’ambito dell’art. 83 bis.
Ciò non toglie che il curatore rimarrà terzo sia rispetto alla convenzione arbitrale, sia all’eventuale processo arbitrale, sia al successivo lodo,
che potrà se del caso impugnare con l’opposizione di terzo (43).
Potrà, se mai, decidere di intervenire nel procedimento pendente, alle
condizioni di cui all’art. 816 quinquies c.p.c.; nell’esempio dell’arbitrato
endosocietario l’intervento sarà ammesso alle condizioni assai più larghe
di cui all’art. 35 d.lgs. n. 5 del 2003.
Dall’assetto che precede emerge a mio avviso una considerazione de
iure condendo: poiché l’arbitrato non è uno strumento di soluzione delle
liti ontologicamente peggiore rispetto al processo statuale, ma occorre
valutare caso per caso i pro e i contra, meglio sarebbe stato affidare al
curatore la valutazione circa la convenienza o meno di proseguire (44).
Del resto, che il legislatore non abbia ancora trovato un punto fermo
nei rapporti fra arbitrato e fallimento è dimostrato dal nuovo art. 169 bis
l. fall. in tema di concordato preventivo, che adotta una soluzione opposta
a quella dell’art. 83 bis.
(42) Cass., 28 maggio 2003, n. 8545, in questa Rivista, 2004, 713 ss., con nota di TOTA, Sulla
legittimazione del curatore all’opposizione ordinaria di terzo avverso il lodo arbitrale pronunciato nel contraddittorio del solo fallito: si trattava di una vendita non opponibile ex art. 45 l. fall.
(43) VINCRE, op. cit., p. 71 ss.; ID., Opponibilità ed efficacia nei confronti del curatore della
clausola compromissoria, in Il fall., 2004, 527 ss.
(44) L’art. 83 bis, infatti, non sembra dare scampo e ciò nemmeno se lo si interpreti come
automatica estinzione contestuale. Infatti non si può sostenere, a mio avviso, che riguardi solo
le liti successive o derivanti dallo scioglimento, perché si tratta di rapporti che non possono
essere stati dedotti prima del fallimento e la norma evidentemente lo presume. Né può ritenersi
che la clausola arbitrale, pur estinguendosi, operi ex nunc, perciò resti in piedi per le liti
precedenti, perché il patto compromissrio non riguarda diritti collocabili nel tempo; inoltre
varrebbe pur sempre il principio tempus regit actum per gli atti conseguenti alla clausola.
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Significativa è anche la proposta di revisione (45) del regolamento
europeo sul fallimento transfrontaliero (n. 1346 del 2000): l’art. 15 (46)
dovrebbe infatti prevedere che « gli effetti della procedura d’insolvenza su
un procedimento giudiziario o arbitrale pendente relativo a un bene o a un
diritto del quale il debitore è stato spossessato sono disciplinati esclusivamente dalla legge dello Stato membro in cui il procedimento è pendente
o ha sede l’arbitrato »; si aprono pertanto le porte — limitatamente ai
fallimenti transnazionali — ad ordinamenti non altrettanto rigorosi rispetto al nostro, quanto all’operatività dell’arbitrato rispetto al fallimento.
5. A questo punto occorre verificare più da vicino quali siano i
risvolti processuali nel caso in cui il fallimento ricorra a processo arbitrale
pendente.
a) Dichiarato in giudizio l’avvenuto fallimento, si discute se debba
farsi applicazione dell’art. 816 sexies (47), o dell’art. 43, comma 3º, l.
fall. (48), con diverse conseguenze: eventuale sospensione del processo, nel
primo caso, interruzione obbligatoria, nel secondo caso.
Io ritengo che debba preferirsi la prima soluzione: l’art. 816 sexies è
dettato specificamente per l’arbitrato e riguarda tutti i casi in cui la parte
« viene meno », accezione generica in grado di ricomprendere anche il
caso de quo; in presenza di una disciplina dettata appositamente per
l’arbitrato e tesa evidentemente ad escludere l’istituto della interruzione,
sarei per ritenere l’art. 43, comma 3º, l. fall. rivolto alle sole liti davanti al
giudice.
Resta ferma, peraltro, l’applicabilità dell’art. 43, comma 1º, l. fall. (49),
a termini della quale con il fallimento il fallito perde la legittimazione a
stare nel processo e ciò perché la legittimazione a stare in arbitrato
coincide con la legittimazione processuale davanti al giudice statuale: di
conseguenza, va escluso, a mio avviso, ogni richiamo alla diversa ipotesi
della successione a titolo particolare (50).
Dunque, gli arbitri dovranno predisporre le misure idonee al ripristino del contraddittorio, chiamando direttamente il curatore in giudizio o
(45) COM (2012) 744.
(46) Riformulato nella rubrica « Effetti della procedura d’insolvenza sui procedimenti
giudiziari o arbitrali pendenti »,
(47) BOVE, op. cit., 309 ss.
(48) CASTAGNOLA, Arbitrato pendente e subentro del curatore nel contratto contenente la
clausola compromissoria, in Sull’arbitrato, cit., 167 ritiene si applichi l’art. 43 l. fall., per cui il
procedimento arbitrale è interrotto e non sospeso; conf. DE SANTIS , sull’opponibilità al curatore
fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge
concorsuale, loc. cit.
(49) Diff. CASTAGNOLA, op. loc. ultt. citt.
(50) Sempre CASTAGNOLA, op. loc. ultt. citt., che comunque perviene al risultato di far
prevalere l’art. 43 l. fall. in tutto il suo contenuto.
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invitando le parti a farlo. Se del caso potranno sospendere il procedimento, ottenendo così anche la sospensione del termine per la pronuncia
(art. 820 c.p.c.).
Non va neppure esclusa l’ipotesi in cui il curatore si costituisca
spontaneamente, senza soluzione di continuità.
Se le parti, invitate a chiamare il curatore, non vi provvedano, non per
ciò il processo viene meno: gli arbitri potranno discrezionalmente decidere
di rinunciare al mandato e peserà nella loro valutazione l’eventualità che
il lodo possa spiegare effetti al di fuori del fallimento (51).
Quanto alla posizione del curatore, tutto dipenderà dall’operatività o
meno del vincolo arbitrale nei suoi riguardi.
Nei casi, già visti, in cui sia vincolato alla convenzione compromissoria, sarà soggetto agli effetti del lodo anche quando decida di non
costituirsi (52).
In ipotesi opposta, nulla toglie che sia notiziato del processo pendente, ma non lo si potrà forzare a parteciparvi, a meno che non decida di
intervenire, ai sensi e nei limiti dell’art. 816 quinquies (53).
In entrambi i casi, accetterà il processo arbitrale nello stato in cui si
trova (54), senza poter influire sulla designazione degli arbitri in ipotesi già
nominati, in linea con la disciplina ordinaria dell’intervento del terzo.
Il meccanismo delineato torna a far emergere l’incongruenza già
segnalata nelle pagine precedenti. Per un verso, l’applicazione dell’art. 816
sexies al sopravvenuto fallimento presuppone la perdita in capo al fallito
della legittimazione a stare in arbitrato; per altro verso, ben possono darsi
casi in cui il curatore non sia vincolato a partecipare al processo arbitrale,
che potrebbe continuare senza la sua presenza e senza alcun effetto nei
suoi riguardi.
Ciò si spiega, ancora una volta, per la relatività della perdita di
legittimazione in capo al fallito, che conserva l’astratta idoneità al compimento di atti processuali, mentre perde il potere di compierli, nei soli
limiti previsti dagli artt. 42 ss. l. fall.: sarà dunque possibile per il fallito
continuare a stare in giudizio al di fuori dell’ambito devoluto al fallimento.
Nel caso in cui il curatore non succeda nella posizione del fallito,
come opera tecnicamente il riferimento alla non « proseguibilità » del
processo arbitrale?
(51) NITROLA, Arbitrato e fallimento, in I contratti, 2012, 756 ss.
(52) NITROLA, op. loc. ultt. citt.
(53) Ci si può chiedere se, per un intervento autonomo o principale, occorra il consenso
di ambo le parti: sarei per applicare fedelmente la norma citata, dato che in gioco vi è la
consensualità del patto arbitrale, al di fuori dei casi in cui il curatore subentra ex lege nella
clausola arbitrale.
(54) Non v’è spazio qui per approfondire tutti i problemi che l’entrata del curatore
comporta sul processo pendente, nonché i poteri processuali del medesimo, rinviandosi a
VINCRE, op. loc. ultt. citt.
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A mio avviso, non si tratta di un motivo di « improcedibilità » secondo
l’accezione del codice di procedura civile, che lo ricollega ad un vizio
sopravvenuto alla proposizione dell’impugnazione; gli arbitri dovranno,
con un lodo in rito, dichiarare la mancanza del presupposto processuale
riguardante la legittimazione processuale del fallito (ove ciò, ovviamente,
si verifichi).
Si tratta di un vizio, come tale, rilevabile d’ufficio. Diversamente, ove
si accogliesse l’interpretazione di altra parte della dottrina, secondo cui la
convenzione arbitrale si estingue insieme al contratto, l’eccezione sarebbe
rilevabile ex parte, ai sensi dell’art. 816 c.p.c.
6. Mi occupo ora brevemente degli effetti del lodo arbitrale già
pronunciato all’atto del fallimento.
La norma di riferimento, pur non regolando il caso di specie, è l’art.
96, comma 2º, l. fall., a termini del quale sono ammessi al passivo con
riserva « i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale
non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento ». Naturalmente, il curatore può proporre o proseguire l’impugnazione.
Sub Iulio, la Cassazione (55) aveva esteso l’analoga previsione (previgente art. 95) al lodo rituale, intendendolo ricompreso nell’accezione
« sentenza ».
Oggi l’assunto è confermato dall’art. 824 bis c.p.c., se non fosse che
l’inciso « sentenza del giudice ordinario o speciale » contenuto nell’art. 96
l. fall. complica le cose.
L’arbitro non è, infatti, né giudice ordinario, né tanto meno speciale.
Sarei però propensa a superare l’ostacolo attraverso la lettura incrociata delle due norme citate: se il lodo ha « effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria », avrà anche l’effetto di accertare un credito
opponibile alla massa al pari di una sentenza. (56)
Ne segue che il curatore, ove intenda contestare il credito per le stesse
censure che avrebbe potuto muovere il fallito, potrà impugnare il lodo con
l’impugnazione per nullità (57); parimenti potrà proseguire nell’impugnazione già proposta dal — futuro — fallito.
(55) Cass., 26 agosto 1998, n. 8495, in questa Rivista, 1999, 705 ss., con nota di CAVALAcontra BONSIGNORI, op. cit., 65.
(56) In tal senso NITROLA, op. loc. ultt. citt.; MONTANARI, Lodi rituali e verifica dei crediti
nel fallimento dopo la riforma, in Sull’arbitrato, cit., 529.
(57) Certo, ove si distingua il diritto di credito dal diritto al concorso, il lodo, tecnicamente, non pronuncia sul rapporto del curatore, per cui questi si troverebbe ad impugnare come
una parte, pur non essendo titolare del diritto. E tuttavia, ponendo il diritto di credito come
pregiudiziale al diritto al concorso, l’opposizione di terzo revocatoria non appare uno strumento
del tutto idoneo, in quanto limitato soltanto al caso del dolo o collusione fra le parti;
occorrerebbe se mai ritenere che il curatore non sia vincolato dal lodo ma ci si troverebbe in
contrasto con l’art. 96 cit.
GLIO;
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Se invece il curatore si ponga come terzo rispetto all’oggetto del
lodo (58), di cui lamenti un pregiudizio, il rimedio apposito sarà l’opposizione di terzo: occorrerà a tal fine distinguere i casi in cui il curatore sia
soggetto all’efficacia riflessa del lodo (59), da quelli in cui sia titolare di un
diritto autonomo ed incompatibile con quello deciso.
The relationship between arbitration and bankruptcy deals with different
aspects: arbitrability of disputes which concern insolvency, ability of the insolvency
administrator to enter into arbitration agreements, enforceability of the arbitration
agreement previously entered into by the company, with specifications about the
arbitral proceedings and the award.
In particular, the author proposes an interpretation of art. 83 bis of the italian
insolvency act, as an expression of a more general rule: the insolvency administrator
is a third party to the contract, except in cases of succession, and therefore the
arbitration agreement contained therein cannot be opposed to him.
(58) Non può neppure in ipotesi parlarsi di — pur atipica — successione: TOTA, op. cit.,
723. La necessità di verificare in concreto quale sia la posizione assunta dal curatore, per
verificare quale sia lo strumento impugnatorio idoneo, è affermata da Cass., 22 giugno 2005, n.
13442, in questa Rivista, 2006, p. 709 ss., con nota di SANTAGADA.
(59) Cfr. DEL VECCHIO, Clausola compromissoria, compromesso e lodo di fronte al
successivo fallimento di una delle parti, in Dir. fall., 1986, I, 304 ss.
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L’arbitrato marittimo internazionale
ANDREA LA MATTINA (*)
1. La specialità dell’arbitrato marittimo rispetto all’arbitrato commerciale internazionale. — 2. La forza espansiva dell’autonomia privata nel contesto dell’arbitrato marittimo quale strumento interpretativo della volontà delle parti. — 3. La
forma della clausola compromissoria nella prospettiva dell’arbitrato marittimo. —
4. La legge applicabile: il rilievo della lex maritima e l’emersione dello status
mercatorio. — 5. Il procedimento. — 6. Il trasporto di linea come momento critico
del sistema « arbitrato marittimo » e come conferma dei risultati dell’indagine.
1. L’arbitrato rappresenta lo « strumento privilegiato » di soluzione
delle controversie marittime internazionali (1).
Tale circostanza emerge dall’ampia diffusione delle clausole compromissorie nei formulari contrattuali più utilizzati dagli operatori marittimi
e dal notevole sviluppo che hanno avuto negli ultimi decenni le istituzioni
arbitrali specializzate nella risoluzione di controversie di natura marittima (2). Ciononostante, l’arbitrato in materia marittima non è compiutamente disciplinato né dalle convenzioni di diritto internazionale uniforme,
né dalle legislazioni statali (3).
La notevole rilevanza dell’arbitrato quale mezzo di soluzione delle
controversie marittime internazionali ha condotto parte della dottrina a
parlare con sempre maggior frequenza di « arbitrato marittimo » per fare
(*) Docente a contratto nell’Università di Genova.
(1) Così CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, in ALPA e VIGORITI,
Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, Torino, 2013, 1294. Nello stesso
senso DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain: point du vue français, in Dir. maritt.,
2004, 436; HARRIS, Maritime Arbitrations, in TACKABERRY e MARRIOT, Bernstein’s Handbook of
Arbitration and Dispute Resolution Practice, London, 2003, 743; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage
maritime, in Études offertes à René Rodière, Paris, 1981, 401; LEGROS, Les conflicts de normes
jurisdictionnelles en matière de contrats de transport internationaux de marchandises, in Clunet,
2007, 1105, cui adde LA MATTINA, L’arbitrato marittimo e i principi del commercio internazionale, Milano, 2012, 1 ss.
(2) Sul punto sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 17-46.
(3) V. ancora LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 46-56.
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riferimento al fenomeno in esame (4). È peraltro necessario precisare
(4) Cfr. ALCANTARA, An international panel of maritime arbitrators, in Journ. Int. Arb.,
1994, 117 ss.; ALLSOP, International maritime arbitration: legal and policy issues, in J.I.M.L., 2007,
398 ss.; ÁLVAREZ RUBIO, Arbitraje marìtimo y criterios de seleccìon del Derecho applicabile al
fondo de la controversia. Especial referencia al settor del transporte, in Revista de la Corte
Espagñola de Arbitraje, 1997, 55 ss.; AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration,
3rd ed., London, 2009, passim; ARRADON, L’arbitrage maritime: le point de vue du praticien, in Dr.
mar. fr., 2007, 389 ss.; ID., L’incorporation des clauses de charte-partie dans le connaissements, in
Dr. mar. fr., 2004, 883 ss.; BARCLEY, Arbitration and Shipping, in Arbitration, 1967, 3-7;
BERLINGIERI, International Maritime Arbitration, in J.M.L.C., 1979, 199-247; ID., Trasporto
marittimo e arbitrato, in Dir. maritt., 2004, 423 ss.; BERNINI, L’arbitrato nel diritto marittimo, in
CECCHELLA (cur,), L’arbitrato, Torino, 2005, 583 ss.; BOI, L’arbitrato marittimo e commerciale in
un recente convegno, in Dir. maritt., 1991, 526; CARASSO BULOW, A user’s experience of London
and New York maritime arbitration, in Eur. Transp. L., 1998, 293 ss.; CARBONE e LOPEZ DE
GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; COHEN, A New Yorker looks London Maritime Arbitration,
in L.M.C.L.Q., 1986, 57-79; ID., Maritime arbitration in Asia, in J.M.L.C., 1998, 117 ss.; CRAIG,
PARK e PAULSSON, International Commercial Arbitration, I, Dobbs Ferry - New York, 1984,
58-59; CURTIN, Arbitration maritime cargo disputes - future problems and considerations, in
L.M.C.L.Q., 1997, 31-64; DE LA VEGA JUSTRIBÒ, El arbitraje en el àmbito maritìmo, in AA. Vv.,
El Arbitraje en las distintas Áreas del Derecho, I, Lima, 2007, cap. 13; DELEBECQUE, L’arbitrage
maritime contemporain: le point de vue français, in Dir. maritt., 2004, 436 ss.; ESPINOSA CALABUIG,
La clàusulas arbitrales marìtimas a la luz de los ‘usos’ del tràfico comercial internacional, in
Revista Eletrònica de Estudios Internacionales, 2007, reperibile sul sito Internet www.reei.org, 7
ss.; ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, Navarra, 2007, passim; ID., Some Current
Developments in International Maritime Arbitration, in BASEDOW, MAGNUS e WOLFRUM (eds.),
The Hamburg Lectures on Maritime Affairs 2007 & 2008, Berlin, 2010, 119 ss.; FORCE e
MAVRANICOLAS, Two Models of Maritime Dispute Resolution: Litigation and Arbitration, in Tul.
Law. Rew., 1991, 1461 ss.; GLATZMAYER, Arbitration of Marine Controversies, in The Arbitration
Journal, 1937, 47-50; HAIGHT, Maritime Arbitration - the American experience, in AM. Disp. Res.
Law Journ., 1995, 2-15; HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744 ss.; HARRIS, SUMMERSKILL e
COCKERILL, London Maritime Arbitration, in Arb. Int., 1993, 275-288; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage
international en droit maritime, in Rass. arb., 1970, 1-5; ID., L’arbitrage maritime, in Études
offertes à René Rodière, Paris, 1981, 401-408; JARROSSON, La spécificité de l’arbitrage maritime, in
Dir. maritt., 2004, 444-449; JARVIS, Problems with and solutions for New York Maritime
Arbitration, in L.M.C.L.Q., 1986, 535-538; LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., passim;
LOPEZ DE GONZALO, La disciplina delle clausole compromissorie tra formalismo e prassi del
commercio internazionale, in Dir. maritt., 1990, 326 ss.; ID., L’esercizio della giurisdizione civile
in materia di trasporto marittimo e intermodale, in Dir. maritt., 2001, 530 ss.; MARRELLA, Unità e
diversità dell’arbitrato internazionale: l’arbitrato marittimo, in Dir. maritt., 2005, 787 ss.; MCINTOSH, The practice of maritime arbitrations in London: recent developments in the law, in
L.M.C.L.Q., 1983, 235-247; MOON, New Opportunities for Maritime Arbitration and Arbitrators,
in Proceedings of the XVth International Congress of Maritime Arbitrators - ICMA, London,
2004, inedito, ma messomi cortesemente a disposizione dall’Avv. Mario Riccomagno; MUSTILL,
Maritime arbitration: the call for a wider perspective, in Journ. Int. Arb., 1992, 51 ss.; O’CONNOR,
Marittime arbitration without consent vouching, consolidation and self-execution. Will New York
practice migrate to Canada?, in Journ. Int. Arb., 1993, 161 ss.; PHILLIPS, The Needs of Arbitration
from a Maritime Point of View, in Arbitration, 1978, 245 ss.; RAMOS MÉNDEZ, Arbitraje maritimo
internacional: Confirmacìon de la doctrina jurisprudencial, in Anuario de Derecho Maritimo, vol.
III, 988 ss.; REMOND-GOUILLOUD, Droit Maritime, 2ne ed., Paris, 1993; RIGHETTI (E.), L’istruzione
probatoria nell’arbitrato internazionale commerciale e marittimo, in questa Rivista, 1993, 315 ss.;
TASSIOS, Choosing the appropriate venue: maritime arbitration in London or New York?, in
Journ. Int. Arb., 2004, 355 ss.; TODD, Incorporation of arbitrarion clauses into bill of lading, in
Journal of Business Law, 1997, 337 ss.; TETLEY, Marine Cargo Claims, 4th ed., Cowansville, 2008,
1413 ss.; TRAPPE, Maritime arbitration rules for different arbitral institutions. Some comparative
remarks, in Arbitration, 1998, 257 ss.; WAGENER, Legal Certainty and the Incorporation of
Charterparty Arbitration Clauses in Bills of Lading, in J.M.L.C., 2009, 115 ss.; ZEKOS, Maritime
Arbitration and the Rule of Law, in J.M.L.C., 2008, 523 ss.; ID., International Commercial and
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preliminarmente che, nel presente lavoro, con l’espressione « arbitrato
marittimo » si intende fare riferimento esclusivamente all’arbitrato marittimo c.d. « transnazionale » (ossia all’arbitrato tra privati, avente a oggetto
questioni inerenti il diritto marittimo e caratterizzato dall’esistenza di
elementi di internazionalità) e non anche né all’arbitrato marittimo c.d.
interstatale (ossia all’arbitrato tra Stati, o tra Stati e privati, relativo al
diritto del mare) (5), né all’arbitrato marittimo « interno » (ossia all’arbitrato tra privati, avente a oggetto questioni inerenti il diritto marittimo che
si esauriscono nell’ambito di un solo ordinamento giuridico) (6).
L’espressione « arbitrato marittimo » (come sopra intesa) necessita
comunque di essere « decodificata », in quanto apre le porte ad una
duplice serie di fraintendimenti.
Da un lato, si potrebbe sostenere che si è in presenza di un arbitrato
marittimo semplicemente quando un arbitrato commerciale internazionale
« in some way (...) involves a ship » (7): tale affermazione potrebbe far
ritenere che l’arbitrato marittimo non esista come istituto giuridico a sé, in
nulla distinguendosi da un « comune » arbitrato commerciale internazionale, a parte il fatto di riguardare una controversia marittima.
Dall’altro lato, all’opposto, si potrebbe sostenere che l’arbitrato marittimo sia un procedimento intrinsecamente diverso e comunque autoMaritime Arbitration, London-New York, 2008; ZUBROD, The history of maritime arbitration in
New York, in The Arbitrator, 2001, vol. 32, n. 2, 2 ss.; ZUNARELLI e ZOURNATZI, Arbitrato nelle
controversie marittime internazionali, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre ADR,
a cura di BUONFRATE e GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 422 ss., cui adde i lavori di
RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, in Trasporti, 1999, vol. 79, 135-151; ID., Maritime arbitration
between international commercial arbitration and regional iniatives, relazione presentata alla
Maritime Arbitration Conference, Dubai, 5-7 aprile 2008; ID., Maritime arbitration and international commercial arbitration, relazione presentata al XVIIth International Congress of Maritime
Arbitrators, Hamburg, 5-9 ottobre 2009; ID., Lecture note on international maritime arbitration,
relazione presentata all’International Dispute Resolution Institute, Londra, 29 settembre 2010,
questi ultimi inediti, ma cortesemente messimi a disposizione da parte dell’Autore.
(5) Sul fatto che la distinzione tra arbitrato « transnazionale » e arbitrato « interstatale »
sia « labile » e « incerta », cfr. per tutti TREVES, Le controversie internazionali. Nuove tendenze,
nuovi tribunali, Milano, 1999, 35. Sull’arbitrato interstatale riguardante questioni inerenti il diritto
del mare oltre al citato lavoro di Treves (ibidem, 102 ss.) cfr., senza pretesa di completezza, ADEDE,
The System for Settlement of Disputes under the United Nations Convention on the law of the Sea,
Dordrecht-Boston-Lancaster, 1987; BOYLE, Dispute Settlement and the Law of the Sea Convention:
Problems of Fragmentation and Jurisdiction, in Int. Comp. Law Quart., 1997, 37 ss.; CAFLISCH, Le
règlement judiciaire et arbitral des différends dans le nouveau droit de la mer, in Festschrift für
Rudolf Bindschedler, Bern, 1980, 351 ss.; COQUIA, Settlement of Disputes in the UN Convention
on the Law of the Sea, in Indian Jour. Int. Law, 1985, 171 ss.; MARRELLA, Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 788 ss.; SCOVAZZI, The Evolution of the International Law of the Sea:
New Issues, New Challenges, in Recueil des Cours, 2000, 53, 122 ss.; ZEKOS, Competition or Conflict
in the Dispute Settlement Mechanism of the Law of the Sea, in Rev. hellenique, 2003, 153 ss.
(6) Stante il fatto che la stragrande maggioranza dei rapporti inerenti i traffici marittimi
si svolge in una dimensione internazionale, il rilievo dell’arbitrato marittimo « interno » è del
tutto trascurabile ai fini della presente analisi. In questo senso cfr. per tutti HARRIS, Maritime
Arbitrations, cit., 744.
(7) Così HARRIS, SUMMERSKILL e COCKERILL, London Maritime Arbitration, cit., 275. La
definizione è richiamata ed accolta da AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 1 e, nella dottrina italiana, da RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 135.
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nomo rispetto all’arbitrato commerciale internazione e ciò in quanto
l’oggetto di tale arbitrato, ossia il diritto marittimo (8), è una materia
autonoma rispetto al diritto « comune » (e, in particolare, rispetto al
diritto del commercio internazionale).
Nessuna di tali (opposte) ricostruzioni pare condivisibile. Infatti:
(a) l’arbitrato marittimo non solo si caratterizza per avere ad oggetto
una nave, ma è un fenomeno processuale la cui fisionomia discende
direttamente ed è influenzata dalle caratteristiche (e dalle peculiarità) del
diritto marittimo sostanziale (9) e
(b) l’autonomia del diritto marittimo sostanziale è da intendersi in
realtà come specialità, nel senso che il diritto marittimo non può prescindere da una continua interazione con i principi di diritto comune (principi
spesso rinvenibili in norme di origine internazionale o nella prassi degli
operatori commerciali), in quanto esso non è una disciplina autosufficiente
e completa ed, in ogni caso, è inidoneo a regolare in maniera compiuta
ogni aspetto dei rapporti giuridici riguardanti i traffici marittimi (10).
La « permeabilità » del diritto marittimo rispetto ai principi del diritto
comune e la sua pacifica dimensione internazionale rendono evidente che
tale materia altro non è che una branca del diritto del commercio internazionale (11).
L’arbitrato marittimo, strumento processuale « privilegiato » del diritto marittimo, rientra pertanto all’interno del più ampio genus dell’arbitrato commerciale internazionale (12), dal quale essenzialmente trae la
propria disciplina giuridica (13).
(8) Si veda, a questo riguardo, la definizione di JARROSSON, La spécificité de l’arbitrage
maritime, cit., 444, secondo cui l’arbitrato marittimo è « celui d’arbitrage portant sur une question
du fond qui relève du droit maritime ».
(9) Per considerazioni analoghe a quelle svolte nel testo cfr. DELEBECQUE, L’arbitrage
maritime contemporain, cit., 435.
(10) Per queste considerazioni si veda per tutti CARBONE, Specialità della disciplina del
lavoro nautico, principi di diritto comune e contrattazione collettiva, in Dir. maritt., 1984, 494-496,
cui adde, anche per ulteriori riferimenti nella dottrina italiana e straniera, LA MATTINA,
L’arbitrato marittimo, cit., 5-14.
(11) Il punto è pacifico. Per una recente (ri)affermazione di tale circostanza cfr. per tutti
DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit., 436.
(12) In questo senso cfr. per tutti la relazione presentata da MUSTILL L.J. al Xth International Congress of Maritime Arbitrators, Vancouver, 11 Settembre 1991, inedita, cui adde
AMBROSE e MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 69; CARBONE e LOPEZ DE
GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit., 436;
MARRELLA, Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 797; ZEKOS, Maritime Arbitration,
cit., 524, nonché i lavori di RICCOMAGNO, Maritime arbitration between international commercial
arbitration and regional iniatives, cit.; ID., Maritime arbitration and international commercial
arbitration, cit.; ID., Lecture note on international maritime arbitration, cit. Ad ulteriore conferma
si vedano anche le risposte delle principali istituzioni arbitrali marittime ai quesiti di cui al paper
di ALCANTARA, Comparative review of the arbitration schemes available in the main arbitration
centres, cit., loc. cit.
(13) Cfr. DE LA VEGA JUSTRIBÒ, El arbitraje en el àmbito maritìmo, cit., loc. cit.; MARRELLA,
Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 787 ss.
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Sarebbe peraltro riduttivo non sottolineare che la specialità del diritto
marittimo impone una dimensione processuale « adeguata » alle proprie
caratteristiche: in altri termini, in questo ambito emerge in modo particolare la necessità che tra diritto sostanziale e diritto processuale vi sia un
rapporto simbiotico e non uno iato (14). L’arbitrato marittimo, quindi,
deve farsi (e — come vedremo — in concreto si fa) « strumento » per la
più efficace attuazione dei rapporti sostanziali del commercio marittimo
internazionale.
Ciò significa che alcune specifiche caratteristiche della materia marittima incidono sulla fisionomia dell’arbitrato marittimo, facendolo « deviare » dal modello dell’arbitrato commerciale internazionale « generale ».
Così, ad esempio, in questo ambito non trovano generalmente posto
problemi relativi ai conflitti tra leggi sostanziali applicabili, in quanto gli
arbitri marittimi decidono le controversie sottoposte al proprio esame
sulla base di quella che è stata definita « lex maritima » o « general
maritime law », la quale, pur avendo tra i propri formanti la c.d. lex
mercatoria, è rappresentata da un corpus di principi speciali che si sono
alimentati soprattutto della prassi degli operatori marittimi e del diritto
uniforme dei trasporti (15).
Con riguardo agli aspetti più squisitamente processuali, in campo
marittimo viene poi più frequentemente utilizzata la tecnica della « consolidation » tra arbitrati connessi al fine di consentire la partecipazione ad
un determinato procedimento a « terzi », formalmente estranei all’accordo compromissorio, ma « parti » sostanziali dei rapporti del commercio
marittimo dedotti in arbitrato (il che accade specialmente nelle controversie relative alla costruzione di navi o in relazione a dispute riguardanti
charter-parties tra loro collegati) (16). Ancora, le clausole compromissorie
circolano generalmente non in base ai meccanismi della cessione del
contratto, bensì attraverso lo strumento della girata della polizza di
carico (17). Infine, nell’ambito in esame gli arbitri sono prevalentemente
« commercial men » (e non giuristi) e i procedimenti sono per la maggior
parte svolti nell’ambito di istituzioni arbitrali specializzate (e non vengono
(14) È questo il c.d. « principio di adeguatezza » del processo teorizzato da FOSCHINI,
Sistema del diritto processuale penale, II, 2ª ed., Milano, 1968, 9. Nello stesso senso cfr. PROTO
PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it. 1973, V, cc.
209-210.
(15) In argomento v. le riflessioni svolte infra § 4, cui adde CORTAZZO, Development
and Trends of the Lex Maritime from International Arbitration Jurisprudence, in J.M.L.C., 2012,
255 ss.
(16) Sul punto sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 282 ss.
(17) V. ancora LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 301 ss.
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invece generalmente decisi dai panels dell’ICC (18)), le quali applicano
regole flessibili che vengono modellate soprattutto tenendo conto della
volontà delle parti (19).
È proprio la maggiore « flessibilità » delle regole del procedimento
che caratterizza la specificità dell’arbitrato marittimo rispetto agli altri
settori dell’arbitrato commerciale internazionale (20) e che consente di
sottolineare l’emergere di precisi « usi » del commercio marittimo internazionale, i quali impongono appunto una maggiore flessibilità interpretativa nell’approcciare diversi rilevanti aspetti di questo tipo di arbitrato,
tra cui, in particolare, il tema della validità da un punto di vista formale
delle clausole compromissorie (21).
In questo senso risulta evidente che l’arbitrato marittimo va inteso
come un procedimento speciale rispetto all’arbitrato commerciale internazionale (22), nel quale alcuni istituti devono essere riletti non solo al fine di
assecondare specifiche esigenze degli operatori marittimi internazionali,
ma anche per tenere conto di precisi « usi commerciali » radicati in questo
ambito.
La specialità del settore marittimo determina quindi la specialità
dell’arbitrato marittimo rispetto al modello generale dell’arbitrato commerciale internazionale, rendendo in particolare evidente l’esistenza di
una sorta di status mercatorio che caratterizza gli operatori marittimi e
(almeno in parte) li differenzia dagli operatori di altri ambiti del commercio internazionale (23).
2. Il rilievo dell’autonomia privata è particolarmente accentuato
nell’ambito dell’arbitrato marittimo. Infatti, differentemente da altri settori del diritto del commercio internazionale, nel contesto in esame non vi
è posto per forme di arbitrato c.d. « obbligatorio » (dove la rimessione di
una determinata controversia alla cognizione degli arbitri non nasce da un
atto negoziale, bensì trae origine da un provvedimento normativo o
regolamentare ovvero da una convenzione internazionale (24)), essendo
nel contesto marittimo la scelta dello strumento arbitrale sempre rimessa
alla volontà delle parti (25).
(18) Sulla risoluzione nell’ambito degli arbitrati ICC di controversie marittime v. comunque CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of Arbitration, in ICC Bull., 2011, vol.
22, n. 1, 31 ss.
(19) Cfr. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 227 ss.
(20) In questo senso cfr. per tutti MUSTILL, Relazione al Xth International Congress of
Maritime Arbitrators, cit., 8.
(21) Cfr. ESPINOSA CALABUIG, La clàusulas arbitrales marìtimas a la luz de los ‘usos’ del
tràfico comercial internacional, cit.
(22) Alle medesime conclusioni pervengono, tra gli altri, CARBONE e LUZZATTO, Clausole
arbitrali, trasporto marittimo e diritto uniforme, cit., 274; DELEBECQUE, L’arbitrage maritime
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Inoltre, la grande maggioranza degli arbitrati marittimi (differentemente dagli altri arbitrati commerciali internazionali), ancorché svolti
secondo le regole di istituzioni arbitrali, sono arbitrati « ad hoc » (26) e non
arbitrati amministrati (27), con la conseguenza che le parti mantengono un
più forte controllo sul procedimento (28). A questo riguardo, mentre le
Rules of Arbitration dell’ICC (applicate nella maggior parte degli arbitrati
commerciali internazionali non marittimi (29)) prevedono che le regole del
procedimento possano essere stabilite dalle parti soltanto se tali Rules
presentino una lacuna (30), i Terms della London Maritime Arbitrators
Association (sulla base dei quali si svolge la gran parte degli arbitrati
marittimi) dispongono invece che « It shall be for the tribunal to decide all
contemporain, cit., 436; JARROSSON, La spécificité de l’arbitrage maritime, cit., loc. cit.; RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 144; TETLEY, The General Maritime Law - The Lex Maritima, in
Eur. Transp. L., 1996, 497-504.
(23) V. infra, § 4.
(24) Tale è — ad esempio — il caso dell’arbitrato previsto dagli Accordi di Algeri del
1981 tra Iran e Stati Uniti d’America per la definizione delle pretese dei cittadini statunitensi nei
confronti dell’Iran, su cui cfr. BERNARDINI, L’arbitrato nel commercio e negli investimenti
internazionali, 2ª ed., Milano, 2008, 293 ss.; BROWER, The Iran-United States Claims Tribunal, in
Recueil des cours, 1990, 123 ss.; KHAN, The Iran United States Claims Tribunal, controversies,
cases and contributions, The Hague, 1990; RADICATI DI BROZOLO, La soluzione delle controversie
tra Stati e stranieri mediante accordo internazionale; gli Accordi tra Stati Uniti ed Iran, in Riv. dir.
int., 1982, 299 ss.
(25) Nel senso di cui al testo si veda la recente decisione della Corte Suprema americana
resa nel caso Stolt-Nielsen S.A. v. Animal Feeds International Corp. ([2010] Lloyd’s Rep 360),
dove è stato affermato che « Imposing class arbitration on parties who have not agreed to
authorize class arbitration is inconsistent with the Federal Arbitration Act »: la Corte Suprema ha
quindi ulteriormente evidenziato il rilievo centrale dell’autonomia privata in un caso riguardante i rapporti tra un vettore leader mondiale dei trasporti « parcellizzati » su navi cisterna
(Stolt-Nielsen S.A.) e un caricatore (Animal Feeds International Corp.), rapporti regolati da
due charter-parties, redatti rispettivamente sul formulario Vegoilvoy e sul formulario Asbatankvoy ed entrambi contenenti una clausola arbitrale. In tale caso il caricatore agiva in proprio e
per conto di « a class of direct purchasers of parcel tanker transportation services », affermando
che Stolt-Nielsen avrebbe posto in essere « a global conspiracy to restrain competition in the
world market for parcel tanker shipping services », con ciò violando la normativa federale
antitrust.
(26) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; BERLINGIERI, International maritime arbitration, cit., 217-247; RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 141.
(27) In questo senso pare rilevante evidenziare che non tutti gli arbitrati istituzionali sono
necessariamente arbitrati amministrati: cfr. LEW, MISTELIS e KRÖLL, Comparative International
Commercial Arbitration, London, 2003, 32, secondo cui « Institutional arbitration is where parties
submit their disputes to an arbitration procedure, which is conducted under the auspices of or
administered or directed by an existing institution ». Come si è già evidenziato, peraltro, gli
arbitrati svolgentisi secondo le regole della Chambre Arbitrale Maritime de Paris e della Tokyo
Maritime Arbitration Commission sono arbitrati « amministrati » da tali istituzioni arbitrali.
(28) V. ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, cit., 32 ss., cui adde le
considerazioni svolte infra, § 5.
(29) Sulla risoluzione nell’ambito degli arbitrati ICC di controversie marittime v. CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of Arbitration, cit., 31 ss.
(30) L’art. 15.1 delle Rules of Arbitration dell’ICC dispone infatti che « The proceedings
before the Arbitral Tribunal shall be governed by these Rules and, where these Rules are silent,
by any rules which the parties or, failing them, the Arbitral Tribunal may settle on, whether or not
reference is thereby made to the rules of procedure of a national law to be applied to the
arbitration ».
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procedural and evidential matters subject to the right of the parties to agree
any matter » (così Section 12, lett. a). In proposito occorre notare che, per
molti anni, gli arbitrati marittimi svolti nell’ambito della London Maritime
Arbitrators Association si sono sviluppati senza seguire particolari regole
procedurali, regole che sono state invece introdotte (pur consentendo alle
parti di derogarvi) soltanto a partire dal 1999 (con l’introduzione delle
LMAA Procedural Guidelines) e che hanno trovato una compiuta realizzazione nei LMAA Terms del 2002 (oggi sostituiti dai LMAA Terms del
2012) (31).
Analoghe considerazioni possono essere svolte anche in relazione ai
procedimenti arbitrali condotti secondo le Rules of Arbitration della
German Maritime Arbitration Association (32), nonché agli arbitrati marittimi che si svolgono in base alle Rules of the Society of Maritime
Arbitrators di New York (dove, peraltro, l’autonomia privata trova un
limite nelle disposizioni « inderogabili » che conferiscono agli arbitri i
poteri « to administer the arbitration proceedings ») (33). Per contro, ovviamente, il rilievo dell’autonomia privata negli arbitrati « amministrati »
condotti secondo il Règlement d’Arbitrage della Chambre Arbitrale Maritime de Paris è estremamente limitato, potendo la scelta delle parti
riguardare soltanto l’applicabilità del regolamento in vigore al momento
della conclusione della convenzione arbitrale piuttosto che quello vigente
quando la controversia viene introdotta (34). Simile approccio è seguito
anche in relazione agli arbitrati soggetti alle Rules of Arbitration of Tokyo
Maritime Arbitration Commission (TOMAC) of the Japan Shipping Exchange (35).
Il maggior rilievo dell’autonomia privata nel contesto in esame —
oltre a rappresentare una conferma della « specialità » dell’arbitrato marittimo rispetto all’arbitrato commerciale internazionale — consente di
individuare un canone ermeneutico fondamentale non solo nell’interpretazione delle convenzioni arbitrali contenute nei formulari utilizzati dagli
operatori marittimi internazionali, ma anche, più in generale, nell’approccio che deve caratterizzare la « ricostruzione » dell’arbitrato marittimo. In
questo ambito commerciale la volontà delle parti viene ad assumere un
ruolo centrale e, pertanto, la disciplina applicabile ai vari aspetti dell’arbitrato marittimo deve soprattutto tenere conto di come le parti hanno
inteso regolare un determinato aspetto del fenomeno arbitrale (36).
(31) Cfr. HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762.
(32) V. infra, nota 108 e testo corrispondente.
(33) V. infra, nota 107 e testo corrispondente.
(34) V. infra, nota 117 e testo corrispondente.
(35) V. infra, nota 118 e testo corrispondente.
(36) V. Harbour Assurance Co. v. Kansa General International Insurance Co. Ltd., [1992]
1 Lloyd’s Rep 81 (Q.B.), ove viene affermato che « there is the imperative of giving effect to the
wishes of the parties unless there are compelling reasons of principle why it is not possible to do
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3. Gli aspetti formali della clausola compromissoria richiesti dai vari
ordinamenti giuridici rappresentano lo strumento di accertamento presuntivo della volontà delle parti di ricorrere all’arbitrato (37). Una parte della
dottrina ha acutamente evidenziato che la pratica applicativa ha (ed, in
particolare, le decisioni dei giudici italiani hanno) spesso « sopravvalutato » i requisiti formali della clausola arbitrale a discapito di qualunque
ricerca sull’effettivo consenso delle parti a derogare alla giurisdizione in
favore dell’arbitrato (38). Tale visione pare ricalcare quanto affermato dai
processual-civilisti, i quali sono arrivati a sostenere che la validità e
l’efficacia degli atti processuali, mentre dipende dall’osservanza delle
forme, non dipende da alcun controllo sulla formazione della volontà (39)
e, addirittura, che il « formalismo », necessario ad assicurare il regolare e
spedito svolgimento del processo, non consente di dare alcuna rilevanza
alla reale volontà delle parti (40). La forma solenne diviene, allora, presunzione assoluta del consenso: alla ricerca della volontà effettiva viene
sostituita la ricerca della perfezione formale dell’atto; si passa dal « dogma
della volontà », vagheggiato dai pandettisti, al « dogma della forma ».
È necessario chiedersi se una simile ricostruzione sia coerente con il
contesto della presente analisi. La risposta è negativa e nasce da due
diversi ordini di considerazioni.
In primo luogo, la convenzione arbitrale ha natura di contratto e, pur
rientrando nella categoria dei c.d. « negozi processuali », essa non costituisce un atto del processo, bensì un atto sostanziale con rilevanza processuale (41).
so ». Nello stesso senso, più di recente, la House of Lords ha sottolineato il « commercial
purpose of the arbitral clause », affermando in particolare che nel contesto dell’arbitrato
marittimo le clausole arbitrali debbano essere interpretate avendo soprattutto riguardo alla
volontà delle parti « as rational businessmen »: così Premium Nafta Products Ltd. and others v.
Fili Shipping Company Ltd. and others, [2008] Lloyd’s Rep 254 (H.L.).
(37) Le norme che disciplinano la validità delle clausole compromissorie, siano esse
nazionali o si rinvengano nel diritto uniforme, richiedono generalmente l’uso di forme vincolate,
in proposito si veda l’ampia ed esaustiva panoramica di BERNARDINI, L’arbitrato nel commercio
e negli investimenti internazionali, 2ª ed., Milano, 2008, 37-85 e 103-106.
(38) Cfr. VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958, DeventerBoston, 1981, 177.
(39) In questo senso MANDRIOLI, Diritto processuale civile, 21ª ed, Torino, 2011, 382.
(40) Cfr. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, 2ª ed., Milano, 1957, 189. In
verità, in qualche caso, anche i processualisti riconoscono che è consentita un’indagine sulla
volontà delle parti. Sul punto si veda per tutti REDENTI, voce Atti processuali civili, in Enc. dir.,
vol. IV, Milano, 1959, 115-116, secondo cui « anche nel campo del processo poss[o]no essere
consentite talvolta delle indagini circa la simulazione, il dolo, la collusione, ma quegli accidenti
patologici non vengono di solito in considerazione per i singoli atti delle parti come tali, bensì in
quanto abbiano sviata, traviata o inquinata la decisione finale del giudice ».
(41) In questo senso cfr. Trib. Roma 26 settembre 1980, Ditta Bartolomei Ferrina c. Soc.
comp. Comm. Kreglinger, in Temi rom., 1980, 520, cui adde, in dottrina, BONELLI, La forma della
clausola compromissoria per arbitrato estero, in Dir. maritt., 1984, 480-481, nota 6, nonché DENTI,
voce Nullità degli atti processuali civili, in Nvss. Dig. It., XI, Torino, 1965, 467 ss. Contra v.
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In secondo luogo, il mondo dei traffici marittimi internazionali ha
peculiarità proprie che rendono necessario un ripensamento dei criteri
ermeneutici comunemente invalsi in altri settori (42). Infatti:
(i) non pare ragionevole « imbrigliare » gli operatori del commercio
internazionale con prescrizioni formali che mal si conciliano con le esigenze di speditezza che caratterizzano i loro rapporti (43);
(ii) la funzione fondamentale che il requisito della forma esplica in
materia consiste nell’accertamento che la clausola arbitrale abbia effettivamente costituito oggetto del consenso (44).
Il problema della validità dal punto di vista della forma delle clausole
compromissorie per arbitrato marittimo (45) deve quindi essere risolto
attraverso la comprensione della strumentalità della forma rispetto all’esistenza del consenso (sostanziale) delle parti a concludere l’accordo
compromissorio (46).
In questo senso è possibile « rileggere » le regole in base alla quali
deve essere valutata la validità formale delle clausole arbitrali relative ai
rapporti del commercio marittimo internazionale — segnatamente, l’art.
II della Convenzione di New York (47) — nella prospettiva dell’arbitrato
peraltro CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1956, 265, che afferma:
« La processualità dell’atto non è dovuta al suo compiersi nel processo, ma al suo valere per il
processo ».
(42) Significativo in proposito pare il richiamo agli insegnamenti di CARBONE, Il trasporto
marittimo di cose nel sistema dei trasporti internazionali, Milano, 1976, 78-83, il quale evidenzia
come nell’interpretare le norme di diritto uniforme che possano incidere sui rapporti de quibus
(nel caso considerato dall’A. si trattava della Convenzione di Bruxelles sulla polizza di carico)
si vada sempre maggiormente affermando come canone ermeneutico fondamentale la aderenza
alle « reali esigenze del traffico marittimo internazionale ».
(43) In questo senso già VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, IV, Obbligazioni, 5ª ed.,
Milano, 1926, 67, n. 1572 affermava che « [n]ei contratti commerciali la parola basta di regola a
creare un’obbligazione ».
(44) Cfr. Cass. S.U. 14 novembre 1981, n. 6035, Jauch & Huebener c S.tè de Navigation
Transoceanique, in Dir. maritt., 1982, 391 ss., con nota adesiva di MARESCA, il quale ribadisce che
« lo scopo del requisito di cui all’art. II della Convenzione di New York [...] è quello di consentire
all’interprete un effettivo controllo sulla esistenza del consenso dei contraenti ». Nello stesso senso
cfr. Cass. 12 ottobre 1982, n. 5244, Soc. Air India c. Avanzo, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1983,
149, dove si afferma che « è legittima una indagine ermeneutica volta a ricavare dallo scritto la
comune intenzione delle parti contraenti di deferire alla cognizione dell’arbitro straniero l’esame
delle eventuali controversie derivanti dall’esecuzione del contratto ».
(45) Problema correttamente definito da CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato
marittimo, cit., loc. cit., come « conflitto in larga misura irrisolto, tra l’intento di garantire
l’esistenza di un effettivo consenso delle parti al deferimento delle controversie ad arbitrato e le
contrapposte esigenze di rapidità e semplificazione tipiche della contrattazione del commercio
internazionale ».
(46) Sulla « strumentalità » della clausola compromissoria rispetto al contratto cui essa
accede v. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 77-81.
(47) L’art. II della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e
l’esecuzione di sentenze arbitrali straniere è la norma fondamentale cui fare riferimento quanto
alla forma delle clausole compromissorie per arbitrato marittimo, in quanto tali clausole —
almeno dal punto di vista dell’ordinamento italiano — sono tutte clausole per arbitrato estero
e rientrano nell’ambito di applicazione inderogabile della Convenzione, giustamente definita
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marittimo. In altri termini, il problema della forma della clausola compromissoria può (e, anzi, deve) essere risolto tenendo presente il contesto in
cui si muovono gli operatori marittimi internazionali. Ciò significa:
— da un lato, che i requisiti di forma previsti dalla norma in esame
dovranno essere interpretati con flessibilità, al fine di venire incontro alle
esigenze degli operatori marittimi internazionali (i quali, ad esempio, ben
difficilmente sottoscrivono i contratti e/o i documenti di trasporto contenenti le clausole arbitrali, ma, semmai, si scambiano — soprattutto tramite
brokers — e-mail o fax estremamente « laconici ») e
— dall’altro lato, che particolare attenzione dovrà essere data allo
« status » dei contraenti, nonché alla prassi seguita in un determinato
ambito commerciale, e ciò al fine di valutare « in buona fede » l’effettività
del consenso di ciascuna delle parti rispetto alla clausola arbitrale (nel
senso che, ad esempio, non è possibile ipotizzare che un’impresa quotidianamente attiva sul mercato dei voyage charter parties possa non essere
al corrente che il formulario Gencon contiene una clausola arbitrale (48),
sicché — nel caso in cui i termini del Gencon siano richiamati in occasione
della conclusione di un contratto di trasporto — tale impresa non potrebbe contestare « in buona fede » la giurisdizione arbitrale affermando
di non aver specificamente richiamato la clausola compromissoria contenuta nel formulario).
Insomma, in un ambito, quale quello delle operazioni del commercio
marittimo internazionale, dove l’arbitrato è considerato « lo strumento
privilegiato » di soluzione delle controversie (49), appare del tutto fuori
luogo l’approccio « formalistico » spesso adottato dalla giurisprudenza
italiana, la quale, interpretando rigidamente l’art. II della Convenzione di
New York, sostanzialmente ostacola l’accesso alla giustizia arbitrale da
parte degli operatori, senza peraltro tutelare le parti (realmente) « deboli » o semplicemente poco avvezze alla prassi contrattuale di un determinato settore commerciale (50).
Si badi, però, che la prospettiva qui proposta non intende porre in
discussione il rilievo (e la ragionevolezza) dei requisiti di forma stabiliti
dall’art. II della Convenzione di New York: come è stato correttamente
« ferro da lavoro essenziale per l’operatore e per il teorico che debbano occuparsi degli aspetti
internazionalistici dell’arbitrato privato » (così BRIGUGLIO, voce Arbitrato estero, in Enc. dir.,
Agg. III, Milano, 1999, 216, ove ampi riferimenti in materia).
(48) Il formulario Gencon è forse il formulario di voyage charter-parties più noto e diffuso
a prescindere dall’ambito merceologico di impiego.
(49) V. retro, § 1.
(50) Per un’analisi della casistica italiana e straniera in materia sia consentito rinviare a
LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 111-146, ove viene in particolare fatto riferimento ai
problemi relativi alla validità dal punto di vista formale delle clausole compromissorie per
arbitrato marittimo inserite in contratti conclusi a mezzo di scambi di corrispondenza ovvero
tramite rappresentanti o brokers, alle clausole arbitrali per relationem, nonché alle forme tacite
di accettazione dell’accordo compromissorio.
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posto in evidenza da parte della migliore dottrina processual-civilistica, « il
formalismo non ha nulla a che fare con la forma e la critica al formalismo
non si può intendere come una inconcepibile e assurda critica alle forme
giuridiche » (51). In altri termini, non si vuole qui criticare l’art. II della
Convenzione di New York, bensì sottolineare la inadeguatezza della
giurisprudenza rispetto alle esigenze degli operatori marittimi internazionali e alla necessità di adottare una interpretazione ragionevolmente
« evolutiva » dei requisiti di forma previsti da tale norma.
In quest’ultimo senso è possibile affermare che la forma deve limitarsi
a essere « strumento » di verifica della ricorrenza di un effettivo accordo
tra i soggetti contraenti, senza però « intralciare » i traffici commerciali
internazionali e sacrificare le esigenze degli operatori marittimi. La forma
deve essere uno strumento al servizio degli operatori e non una sovrastruttura o, peggio, un « idolo » (52).
4. Una delle problematiche di maggiore interesse per chi volesse
accostarsi all’arbitrato marittimo è rappresentata dalla materia dei conflitti di leggi (53), e ciò in quanto questo tipo di arbitrato si caratterizza per
la propria spiccata vocazione internazionale, nell’ambito della quale assai
raramente i rapporti giuridici si esauriscono all’interno di un unico ordinamento statale (54).
Sotto questo aspetto l’arbitrato marittimo non si distingue da altri
settori dell’arbitrato commerciale internazionale, rispetto ai quali la dottrina ha sempre sottolineato la rilevanza del tema dei conflitti di leggi. In
particolare, è pacifico che ai differenti aspetti dell’arbitrato commerciale
internazionale può essere teoricamente applicata una legge differente: è
infatti possibile riscontrare una legge dell’accordo arbitrale che sia diversa
da quella della procedura, nonché da quella della disciplina sostanziale
della disputa ed anche da quella del lodo, e che queste ultime siano l’una
non coincidente con l’altra (55).
(51) Così SATTA, Il formalismo nel processo, relazione tenuta il 4 ottobre 1958 al quarto
Convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, ora in ID., Il mistero del
processo, Milano, 1994, 86.
(52) La suggestione è ovviamente tratta da IRTI, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo, Milano, 1985, passim.
(53) Cfr. le considerazioni svolte nel caso Mauritius Oil Refineries Ltd. v. Stolt-Nielsen
Nederlands BV (The Stolt Sydness) [1997] 1 Lloyd’s Rep 273, nonché, in dottrina, AMBROSE,
MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 61 ss.; BERLINGIERI, The law applicable by
the arbitrators, in Dir. maritt., 1998, 617-638; LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 177 ss.;
ZEKOS, Problems of Applicable Law in Commercial and Maritime Arbitration, in Journ. Int.
Arb., 1999, 173-174. In generale, sui conflitti di legge nell’ambito del diritto marittimo cfr.
BAATZ, The Conflict of Laws, in AA.Vv., Southampton on Shipping Law, London, 2008, 1 ss. e,
da ultimo, CARBONE, Conflicts de lois en droit maritime, in Recueil des cours, 2009, t. 340, 67 ss.,
ove ulteriori riferimenti.
(54) Cfr. HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744.
(55) Così ZEKOS, Problems of Applicable Law in Commercial and Maritime Arbitration,
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Ciò che, invece, caratterizza ed evidenzia la specialità dell’arbitrato
marittimo relativamente alla materia dei conflitti di leggi sono due fondamentali aspetti.
In primo luogo, la circostanza che il diritto marittimo sia propriamente uno « jus commune mercatorum », un diritto cioè di origine consuetudinaria, in larga parte recepito da convenzioni internazionali ovvero
« codificato » nelle legislazioni nazionali in modo tale da assicurare soluzioni normative sostanzialmente convergenti pur se, a volte, adottate con
formulazioni non identiche a causa della diversità dei sistemi dogmatici
ispiratori di ciascuna di esse (56). Tale aspetto — che distingue e caratterizza la materia in esame rispetto a ogni altro settore del diritto del
commercio internazionale — rende evidente che nell’ambito dell’arbitrato
marittimo quale sia la disciplina applicabile al merito della controversia
non determina propriamente un problema di conflitto di leggi, quanto
piuttosto l’esigenza per l’arbitro di ricostruire la regola giuridica appropriata a decidere il caso di specie, all’uopo interpretando in chiave
« uniforme » (57) le norme convenzionali e/o statali tenuto conto della
rilevanza della prassi degli operatori marittimi internazionali (58). In quecit., 181. Sul punto cfr. ex multis GOLDMAN, Le conflict de lois en matière d’arbitrage international
de droit privé, in Recueil des cours, 1963, II, 361 ss.; LEW, Applicable Law in International
Commercial Arbitration, New York, 1978, 1 ss.; MUSTILL e BOYD, Commercial arbitration, 2nd
ed., London, 1989, 61; RUSSELL, On arbitration, 23rd ed. (a cura di SUTTON, GILL e GEARING),
London, 2007, 78 ss.; REDFERN e HUNTER, On International Arbitration, 5th ed. (in collaborazione
con BLACKABY e PARTASIDES), London, 2009, 165, i quali affermano che nell’arbitrato commerciale internazionale si è in presenza di « a complex interaction of laws ». Sul punto v., da ultimo,
FERRARI e KRÖLL (cur.), Conflict of laws in international arbitration, Munich, 2011. In giurisprudenza si vedano per tutte le decisioni rese nei casi Naviera Amazonica Peruana SA v. Compania
Internacional de Seguros del Peru [1988] 1 Lloyd’s Rep 116, Union of India v. McDonnell
Douglas Corporation [1993] 2 Lloyd’s Rep 48, e Channel Tunnel Group. Ltd v. Balfour Beatty
Construction Ltd [1993] 1 Lloyd’s Rep 291.
(56) Così CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi
tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Torino, 2010, 3, e, nello stesso senso, già
VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, I, Torino, 1938, 5. Sul rilievo dell’uniformità internazionale delle soluzioni relative alla regolamentazione del diritto marittimo nella prospettiva
storica della sua « codificazione » da parte degli Stati v. i lavori pubblicati in PIERGIOVANNI (cur.),
From Lex Mercatoria to Commercial Law, Berlin, 2005.
(57) Sul fatto che nei rapporti del commercio marittimo internazionale sia particolarmente sentita l’esigenza di uniformità cfr., tra i contributi più rilevanti, ASCARELLI, Recensione
a Lefebvre D’Ovidio - Pescatore, Manuale di diritto della navigazione, in Riv. dir. nav. 1950, I,
159; BERLINGIERI (F. Sen.), Verso l’unificazione del diritto marittimo. Parole del Prof. A. Scialoja,
in Dir. maritt., 1935, 449 ss.; ID., Verso l’unificazione del diritto del mare. Parole in replica al Prof.
A. Scialoja, in Dir. maritt., 1936, 105 ss.; BERLINGIERI, Internazionalità del diritto marittimo e
codificazione nazionale, in Dir. maritt., 1983, 61 ss.; CARBONE, Autonomia privata e modelli
contrattuali del commercio marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale
privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 315 ss.; ID, La c.d. autonomia del diritto della
navigazione: risultati e prospettive, in Dir. maritt., 1975, 40 ss. Da ultimo, BARIATTI, Quale
modello normativo per un regime giuridico dei trasporti realmente uniforme?, in Dir. maritt.,
2001, 486, ha sostenuto che l’uniformità nel diritto marittimo « è non solo un valore giuridico
primario al quale tendere, ma anche un valore economicamente rilevante ».
(58) Sul punto v., da ultimo, CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of
Arbitration, cit., 40 ss.
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sto senso l’arbitrato marittimo accentua un fenomeno che è tipico di tutto
il diritto del commercio internazionale, ossia la insufficienza del metodo
conflittuale tradizionale nella soluzione dei problemi riguardanti l’individuazione della normativa applicabile ad un determinato rapporto giuridico (59), insufficienza che si manifesta in maniera ancora più rilevante in
caso di deferimento ad arbitrato della soluzione di una controversia (60).
In secondo luogo, in ambito marittimo si accentua altresì la rilevanza
dell’autonomia privata come strumento di « giustizia materiale » volto a
disciplinare direttamente (senza i filtri delle norme di diritto internazionale privato) una determinata fattispecie (61).
Insomma, relativamente al tema dei conflitti di leggi, la materia
marittima conferma la propria « specialità » rispetto agli altri ambiti del
diritto del commercio internazionale, imponendo all’arbitro di determi(59) Per uno sguardo critico sul metodo conflittuale tradizionale nell’ambito dei rapporti
del commercio internazionale cfr. ex multis CAVERS, A Critique of the Choice-of-Law Problem,
in Harvard Law Rev., 1933, 173 ss.; KEGEL, The Crisis of the Conflict of Laws, in Recueil des
cours, 1973, II, 279 ss.; PICONE, Ordinamento competente e diritto internazionale privato, Padova,
1986, 1 ss., nonché BAXTER, International Conflict of Laws and International Business, in Int.
Comp. Law Quart., 1985, 538, ove afferma che « current choice-of-law techniques are in general
not well designed for application to problems that arise in the complex and rapidly developing
field of international trade and investment ». Sul connesso problema dell’insufficienza delle
legislazioni nazionali a disciplinare adeguatamente i rapporti del commercio internazionale si
rinvia, senza pretesa di completezza, a BONELL, Le regole oggettive del commercio internazionale,
Milano, 1976, 8-19; CARBONE e LUZZATTO, Il contratto internazionale, in Trattato di diritto privato,
diretto da RESCIGNO, vol. 12, 2ª ed., Torino, 2000, 400 ss.
(60) Sul punto cfr. VISMARA, Le norme applicabili al merito della controversia nell’arbitrato internazionale, Milano, 2001, passim, ma specialmente 155 ss.
(61) Sul punto particolarmente chiara è l’analisi di CARBONE e LUZZATTO, Il contratto
internazionale, cit., 344-350, ove ulteriori riferimenti nella letteratura internazional-privatistica,
cui adde — da ultimo — CARBONE, La disciplina applicabile ai rapporti economici internazionali:
verso una unitaria funzione dell’autonomia privata in senso sostanziale e internazionalprivatistico, in Nuova Giur. Ligure, 2013, 29 ss.
Sul ruolo dell’autonomia privata nella determinazione della disciplina applicabile ai
rapporti del commercio marittimo internazionale cfr. ALVAREZ RUBIO, Las clausolas Paramount:
Autonomia de la voluntad y seleccion del derecho applicabile en el transporte maritimo internacional, Madrid, 1997, passim; CARBONE, L’attuazione del diritto marittimo uniforme tra codificazione e decodificazione, in ZICCARDI CAPALDO (a cura di) Attuazione dei Trattati internazionali
e Costituzione italiana. Una riforma prioritaria nell’era della Comunità globale, Napoli, 2003, 153
ss.; ID., Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale nei
recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318;
ID., Autonomia privata e forza « espansiva » del diritto uniforme dei trasporti, relazione tenuta
al convegno « Il trasporto marittimo di persone e di cose. Novità sulla unificazione della loro
disciplina » — Genova, 19 maggio 2006, in Dir. maritt., 2007, 1053 e ss.; CARBONE e LUZZATTO,
Contratti internazionali, autonomia privata e diritto materiale uniforme, in Dir. comm. int., 1993,
755; CASTELLANOS RUIZ, Autonomìa de la voluntad y derecho uniforme en el transporte internacional, Granada, 1999; CELLE, La Paramount clause nell’evoluzione della normativa in materia
di polizza di carico, in Dir. maritt., 1988, 11 ss.; GIARDINA, L’autonomia delle parti nel commercio
internazionale, in AA. VV., Gli usi del commercio internazionale nella negoziazione ed esecuzione dei contratti internazionali, Milano, 1987, 15; IVALDI, Diritto uniforme dei trasporti e diritto
internazionale privato, Milano, 1990, 70 e ss.; LA MATTINA, Le prime applicazioni delle Regole di
Amburgo tra autonomia privata, diritto internazionale privato e diritto uniforme dei trasporti, in
Riv. dir. int. priv. e proc., 2004, 597 ss.; LOPEZ DE GONZALO, L’obbligazione di consegna nella
vendita marittima, Milano, 1997, 7-24.
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nare la disciplina applicabile alla singola fattispecie avuto particolare
riguardo non solo alla prassi degli operatori marittimi internazionali (che
rappresenta propriamente un « filtro » attraverso cui anche i giudici dei
singoli Stati dovrebbero interpretare il diritto marittimo), ma anche alla
volontà delle parti che — pur con le distinzioni sopra esposte — in questo
settore assume il ruolo decisivo di criterio di « giustizia materiale » volto
a disegnare concretamente il background normativo del singolo rapporto
giuridico.
Quest’ultima caratteristica si coglie in maniera particolare nello sviluppo della disciplina giuridica dei trasporti marittimi, nell’ambito dei
quali è però opportuno operare una distinzione tra contratti di trasporto
di carico (generalmente documentati da charter parties) e contratti di
trasporto di linea (62).
Nei charter parties, ove il rapporto economico si svolge « tra pari »
(essendo le parti di tali rapporti tutte operatori professionali), la regolamentazione del fenomeno è affidata essenzialmente a formulari contrattuali invalsi nella prassi del commercio internazionale (63), la cui utilizzazione conduce ad una pressoché totale « delocalizzazione » di tale
tipologia di rapporti, che si vengono ad affrancare dal diritto statale in
favore di scelte normative rispondenti alle esigenze degli operatori economici ed al grado di internazionalità di tali negozi. In questo settore,
pertanto, l’ambito di operatività dell’autonomia privata è pressoché illimitato, salvo il rispetto dei principi di ordine pubblico e delle norme di
applicazione necessaria degli ordinamenti collegati con l’operazione economica (64).
(62) Sulla distinzione tra trasporto di carico e trasporto di linea si vedano, fra i contributi
più significativi, BERLINGIERI (G.), Sulla distinzione tra trasporto di carico e trasporto di cose
determinate, in Dir. maritt., 1952, 149 ss.; BERLINGIERI, Profilo dei contratti di utilizzazione della
nave, in Dir. maritt., 1961, 417 ss.; CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, 2ª ed. in
collaborazione con LA MATTINA, Milano, 2010, 169 ss.; FERRARINI, I contratti di utilizzazione della
nave e dell’aeromobile, Roma, 1947, 120 ss.; GAETA, La distinzione tra trasporto di carico e
trasporto di cose determinate, in Riv. dir. nav., 1972, I, 171; LEFEBVRE D’OVIDIO, PESCATORE e
TULLIO, Manuale di diritto della navigazione, 9ª ed., Milano, 2000, 538 ss.; LOPEZ DE GONZALO,
L’esercizio della giurisdizione civile, cit., 515-516; RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, II,
Milano, 1990, n. 414; SPASIANO, I contratti di utilizzazione della nave: note per la revisione della
disciplina attuale, in Giur. it., 1977, IV, c. 49 ss.; TULLIO, Il contratto di noleggio, Milano, 2006,
passim. Per una essenziale ed efficace ricostruzione delle differenze del sostrato economico dei
due tipi contrattuali sopra richiamati v. per tutti MUNARI, Il diritto comunitario antitrust nel
commercio internazionale: il caso dei trasporti marittimi, Padova, 1993, 127-130.
(63) Su questo tema cfr. per tutti BOI, I contratti marittimi, cit., loc. cit., cui adde CARBONE,
CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo - Attraverso i casi e le clausole contrattuali, 4ª ed.,
Torino, 2011, 15 ss.
(64) In questo senso CARBONE (Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio
marittimo internazionale, cit., 318) ha constatato « un assai limitato rilievo, ed in via di estrema
supplenza, della disciplina legale degli specifici ordinamenti statali nei cui ambiti devono essere
realizzati gli effetti dei rapporti in esame, salvi alcuni principi di ordine pubblico e/o limiti
all’autonomia privata eventualmente previsti da tali ordinamenti in virtù di norme di applicazione
necessaria ».
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Nel trasporto di linea, per contro — la cui disciplina giuridica è
contenuta in norme di diritto materiale uniforme aventi carattere inderogabile (rappresentate, allo stato, prevalentemente dal sistema delle Regole dell’Aja ed, entro una cerchia ridotta di stati in via di sviluppo, dalle
Regole di Amburgo (65)) — l’autonomia privata assume una diversa
rilevanza, in quanto essa non è uno strumento per disciplinare ogni
aspetto dell’operazione economica, ma un mezzo attraverso il quale
estendere le regole materiali uniformi oltre il proprio ambito di applicazione (tramite l’utilizzo delle Paramount Clauses (66)) ovvero predisporre
un regime di responsabilità del vettore più gravoso rispetto a quello
previsto dal diritto materiale uniforme (67). In entrambi i casi, comunque,
l’esercizio dell’autonomia privata si concreta non tanto in una mera
« scelta della legge applicabile » in senso internazional-privatistico, sibbene nella concreta definizione del back-ground normativo del rapporto
giuridico.
Anche in altri settori del diritto marittimo, da un lato, la massiccia
presenza di convenzioni di diritto materiale uniforme ratificate dalla
maggior parte degli Stati « marittimi » (si pensi alla Convenzione di
Bruxelles del 1910 in tema di urto di navi e alla Convenzione di Londra del
1989 in tema di soccorso) e, dall’altro lato, l’esistenza di consolidati usi
commerciali internazionali (quali, ad esempio, le Regole di York e Anversa in tema di liquidazione delle avarie generali (68)) confermano che,
(65) Sulla disciplina uniforme del trasporto marittimo di linea cfr. per tutti CARBONE,
Contratto di trasporto marittimo di cose, cit. Sulla compatibilità dello strumento arbitrale con la
disciplina inderogabile di tale tipo di trasporto v. infra, § 6.
(66) Sulle Paramount Clauses cfr. senza pretesa di completezza BERLINGIERI, Note sulla
« paramount clause », nota a App. Trieste, 3 marzo 1978, Agemar c. SIAT, in Dir. maritt., 1979,
216 ss.; ID., Note sulla « paramount clause », nota a App. Trieste, 2 dicembre 1986, Adriatic
Shipping Company c. Prudential, in Dir. maritt., 1987, 938 ss.; CARBONE, Contratto di trasporto
marittimo di cose, cit., 82 ss.; CELLE, La Paramount Clause nell’evoluzione della normativa
internazionale, cit., 11 ss.; ID., Convenzione di Bruxelles del 25 agosto 1924 - Polizza emessa in
stato non contraente - Legge applicabile - « Paramount clause », nota a Cass. 10 agosto 1988, n.
4905, Agenzia maritt. Spadoni c. Soc. Weltra, in N.G.C.C., 1989, I, 470 ss.; IVALDI, La volontà
delle parti nel contratto di trasporto marittimo: note sulla Paramount Clause, in Riv. dir. int. priv.
e proc., 1985, 799 ss.; EAD., Diritto uniforme dei trasporti, cit., 70 ss.; RIGHETTI (G.), Trattato di
diritto marittimo, II, Milano, 1990, 698-704; da ultimo ALVAREZ RUBIO, Las clàusolas Paramount,
cit., passim ed ivi completi riferimenti alla dottrina inglese.
(67) Sul ruolo dell’autonomia privata nell’ambito dei contratti di trasporto marittimo di
linea cfr. CARBONE, La disciplina giuridica, cit., 63-67; ID., Contratto di trasporto marittimo di
cose, cit., 81 ss.; GRIGOLI, Rilevanza dell’autonomia privata nella normativa del trasporto
marittimo internazionale di merci, in Giust. civ., 1996, I, 691, nonché CASTELLANOS RUIZ,
Autonomìa de la voluntad y derecho uniforme en el transporte internacional, cit. Assai significativamente BARIATTI, Quale modello normativo per un regime giuridico dei trasporti realmente
uniforme?, cit., 491 ha parlato di « ruolo centrale » della volontà delle parti nell’ambito in esame.
(68) Sul fatto che le Regole di York e Anversa abbiano natura di « fonte di diritto
consuetudinario » v. Trib. Genova, 23 dicembre 1940, in Dir. maritt., 1941, 288, cui adde
CARBONE, CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo, cit., 408, secondo i quali esse, avendo
natura di « veri e propri usi normativi », sarebbero « applicabili anche laddove non espressamente richiamate »
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negli arbitrati che hanno a oggetto controversie marittime internazionali,
la « scelta della legge applicabile » non si sostanzia tanto nel mero rinvio
ad un ordinamento statale con l’intento che il rapporto considerato sia
disciplinato in via esclusiva dalle norme di tale ordinamento, quanto nella
indicazione dell’ordinamento volto a imporre agli arbitri la applicazione (e
la interpretazione conforme alla volontà delle parti) sia delle norme
inderogabili di diritto materiale uniforme, sia degli usi del commercio
marittimo internazionale rilevanti in relazione alla fattispecie (69).
È in questo senso che si coglie l’importanza e il significato della
indicazione della legge inglese quale legge applicabile da parte degli
arbitri nei formulari più utilizzati dagli operatori marittimi internazionali:
certamente con tale indicazione le parti dei contratti del commercio
marittimo intendono « appoggiarsi » all’ordinamento che più di tutti ha
consentito lo sviluppo e la corretta interpretazione dei principi della c.d.
lex maritima, la quale rappresenta — anche in mancanza di scelta ad opera
delle parti (70) — il corpus normativo in base al quale gli arbitri marittimi
dovranno basare le proprie decisioni. Con tale espressione si intende in
particolare riferirsi alla circostanza che il diritto applicato dalle istituzioni
arbitrali chiamate a decidere le controversie marittime internazionali è
basato su un corpus di principi normativi, i quali — anche laddove recepiti
(69) Sul diverso problema della rilevanza del c.d. criterio di autocollegamento, in virtù
del quale norme di applicazione necessaria (quali si configurano le disposizioni inderogabili
delle convenzioni di diritto materiale uniforme) di ordinamenti diversi rispetto alla lex causae
possono venire in rilievo nelle decisioni arbitrali, v., da ultimo, CARBONE, Iura novit curia e
arbitrato commerciale internazionale, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2010, 363 ss., nonché RADICATI
DI BROZOLO, Arbitrage commercial international et lois de police, cit., 463 ss.
(70) La mancata indicazione della legge applicabile ad opera delle parti è ipotesi
piuttosto rara nei rapporti del commercio marittimo internazionale. In ogni caso, come noto, in
assenza di scelta della legge applicabile, la dottrina ha individuato molteplici criteri in base ai
quali gli arbitri internazionali possono rintracciare la lex causae. In estrema sintesi, i principali
criteri consistono: (a) nella applicazione delle norme di conflitto ritenute più appropriate al caso
di specie (come previsto, ad esempio, dall’art. VII.1 della Convenzione di Ginevra del 1961 e
dalla Section 46.3 dell’Arbitration Act inglese del 1996); (b) nella applicazione delle norme di
conflitto della lex arbitri (il che accade di frequente nell’ambito dell’arbitrato marittimo,
allorché esso abbia sede a Londra: v. AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 64. Tale soluzione — in linea generale e non con specifico riguardo all’arbitrato
marittimo — è stata peraltro oggetto di critica: v. sul punto i riferimenti contenuti in BERLINGIERI, The law applicable by the arbitrators, cit., 621-622, nota 20); (c) nella applicazione
« cumulativa » delle norme di conflitto degli ordinamenti con cui la fattispecie presenta un
collegamento (sul punto v. già DERAINS, L’application cumulative par l’arbitre des systèmes de
conflit de loi intéressés au litige, in Rev. arb., 1972, 99 ss.); (d) nella applicazione « in via diretta »
delle norme sostanziali più appropriate a disciplinare la fattispecie (v. i riferimenti contenuti in
VISMARA, Le norme applicabili al merito della controversia, cit., 187 ss.). Sui criteri concretamente utilizzati dagli arbitri internazionali per individuare la legge applicabile in assenza di
scelta ad opera delle parti cfr. per tutti POUDRET e BESSON, Droit comparé de l’arbitrage
international, cit., 616 ss., nonché, nella dottrina italiana, ancora VISMARA, Le norme applicabili
al merito della controversia, cit., 173 ss. In ambito marittimo pare peraltro corretto ritenere che,
in mancanza di scelta, trovino applicazione « in via diretta » i principi della c.d. lex maritima, su
cui ci soffermeremo subito nel seguente paragrafo.
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o « codificati » nelle legislazioni nazionali (71) — traggono origine comune
e sono costituiti da due diversi « formanti », ossia, da un lato, la lex
mercatoria (che comprende sia le convenzioni internazionali in tema di
trasporti marittimi (72), sia gli usi e le consuetudini diffusi nel settore (73)) (74), dall’altro lato, i formulari e modelli contrattuali maggiormente utilizzati dagli operatori marittimi internazionali (75). In questo
senso, la Suprema Corte degli Stati Uniti d’America ha potuto affermare
(71) Sul punto v. CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici
marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 15, secondo cui, con
riferimento all’esperienza italiana, il codice della navigazione ha accolto quasi integralmente la
regolamentazione internazionale di istituti fondamentali del diritto marittimo quali, ad esempio,
l’urto di navi, l’assistenza e il salvataggio, l’avaria comune, il trasporto marittimo e il regime di
responsabilità del vettore, nonché i privilegi e l’ipoteca.
(72) Così LEGROS, Les conflits de normes jurisdictionnelles en matière de contrats de
transport internationaux de marchandises, in Clunet, 2007, 1121. Sull’« insostituibile ruolo delle
convenzioni internazionali » nel quadro delle fonti del diritto marittimo uniforme cfr. per tutti
CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto
internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 23 ss.
(73) Cfr. FALL, Defence and Illustration of Lex Mercatoria in Maritime Arbitration, in
Journ. Int. Arb., 1998, 83, il quale sottolinea l’esistenza di un « corpus of customs and usages
agreed upon by the shipping community and constitutive of the law that governs the substance of
maritime-related contracts or the merits of maritime disputes ». Nello stesso senso v. già HOUGH,
Admiralty Jurisdiction — Of Late Years, in Harv. L. Rev., 1924, 529 ss., e spec. 536, secondo cui
« maritime law is a body of sea customs » e che « custom of the sea includes a customary
interpretation of contract language ». Sulla particolare rilevanza degli usi e delle consuetudini
quali « formanti » (nonché strumenti interpretativi) della lex maritima si vedano alcuni precedenti della giurisprudenza statunitense. In particolare:
- Stolt-Nielsen v. AnimalFeeds International Corp, 559 U. S. Supreme Court (2010):
« Under both New York law and general maritime law, evidence of« custom and usage » is
relevant to determining the parties’ intent when an express agreement is ambiguous »;
- Samsun Corp. v. Khozestan Mashine Kar Co., 926 F. Supp. 436, 439 (S.D.N.Y. 1996):
« [W]here as here the contract is one of charter party, established practices and customs of the
shipping industry inform the court’s analysis of what the parties agreed to »;
- Great Circle Lines, Ltd. v. Matheson & Co., 681 F. 2d 121, 125 (C.A. 1982): « Certain
longstanding customs of the shipping industry are crucial factors to be considered when deciding
whether there has been a meeting of the minds on a maritime contract ».
(74) In proposito cfr. TETLEY, Mixed jurisdictions: common law vs civil law (codified and
uncodified), Roma, 1999 (reperibile sul sito Internet dell’UNIDROIT www.unidroit.org),
secondo cui « The lex mercatoria incorporated a body of customary private maritime law, the lex
maritima, or “Ley Maryne” as it was called in French Law ». Importante notare che FALL,
Defence and Illustration of Lex Mercatoria in Maritime Arbitration, cit., 84, ritiene che la lex
maritima rappresenti la « major part » della lex mercatoria. La bibliografia in tema di lex
mercatoria è vastissima e, non essendo possibile darne atto in questa sede, si rinvia, anche per
ulteriori riferimenti, a GALGANO e MARRELLA, Diritto e prassi del commercio internazionale,
Padova, 2010, passim, cui adde MARRELLA, La nuova lex mercatoria - Principi UNIDROIT ed
usi dei contratti del commercio internazionale, Padova, 2003, passim.
(75) Così TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit. Sulla centralità dei modelli
contrattuali e, in generale, delle pratiche mercantili nel panorama delle fonti del diritto
marittimo cfr. CARBONE, CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo, cit., spec. Introduzione;
GRIGOLI, Introduzione al nuovo volto del diritto della navigazione, Torino, 1995, 217 ss. e, da
ultimo, BOI, I contratti marittimi. La disciplina dei formulari, cit., passim. Sul fatto che i
formulari dei contratti del commercio marittimo internazionale siano una fonte di « diritto
oggettivo » v. per tutti Cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio
marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318-321.
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nel caso The Lottawanna che « it happens that, from the general practice of
commercial nations in making the same general law the basis and
groundwork of their respective maritime systems, the great mass of maritime law which is thus received by these nations in common, comes to be the
common maritime law of the world », sicché « the received maritime law
may differ in different countries without affecting the general integrity of the
system as a harmonious whole » (76).
È quindi evidente che la « prospettiva statalista » viene sempre più a
perdere di rilievo nell’ambito della risoluzione delle controversie marittime. E ciò in un triplice senso.
In primo luogo, in quanto i rapporti giuridici concernenti i traffici
marittimi hanno una « vocazione internazionale » che rende inadeguata
una loro regolamentazione basata esclusivamente su norme di diritto
interno (77).
In secondo luogo, perché, comunque, i singoli diritti marittimi nazionali perdono progressivamente i propri specifici tratti distintivi e si « spersonalizzano » in favore di una loro comune riconducibilità a un « sistema », la lex maritima, costituita da principi che, a prescindere dalla
localizzazione della fattispecie, sono in larga parte coincidenti in ogni
parte del mondo, e ciò anche perché gli ordinamenti nazionali tendono ad
adeguarvisi (78).
In terzo luogo, perché, anche laddove il diritto marittimo venga
« codificato » dalla normativa interna di un determinato Stato con una
formulazione non esattamente coincidente a quella di cui alla lex maritima, esso potrà (e, anzi, dovrà) essere interpretato in modo tale da
assicurare l’uniformità internazionale delle soluzioni, tenendo in debito
conto i precedenti giurisprudenziali stranieri (79).
Ciò non deve peraltro essere inteso nel senso che i rapporti del
commercio marittimo internazionale siano del tutto impermeabili rispetto
agli ordinamenti statali. A questo riguardo si deve innanzi tutto tenere
conto che la lex maritima può trovare terreno fertile soltanto nella misura
in cui i singoli diritti statali ne consentano lo sviluppo e la applica(76) Così The Lottawanna, 88 US 558 (1875) at 573. Nello stesso senso v., nella
giurisprudenza inglese, la decisione resa nel caso The Tolten [1946] All. E.R. 79.
(77) Nel senso di cui al testo cfr. per tutti CARBONE, Autonomia privata e modelli
contrattuali del commercio marittimo internazionale, cit., 315.
(78) Così CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi
tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 29. Sul fatto che la lex maritima consti
non solo di « principi », ma anche di « regole » cfr. per tutti TETLEY, The General Maritime Law,
cit., loc. cit.
(79) Cfr. ancora CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici
marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 26 e 30, cui adde quanto
affermato dalla Corte Suprema americana nel caso The Lottawanna (v., in particolare, la
citazione di cui al testo corrispondente alla nota 76).
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zione (80). Inoltre, come è stato anche di recente sottolineato, il diritto
uniforme dei trasporti, così come gli usi commerciali invalsi tra gli
operatori del commercio marittimo internazionale, necessitano (a) della
continua « integrazione » da parte di norme di diritto interno volte a
colmarne le lacune ovvero a consentirne la concreta attuazione (81),
nonché (b) dell’enforcement da parte dei giudici nazionali (anche in sede
di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni arbitrali) (82).
Non ci troviamo quindi di fronte ad una contrapposizione frontale fra
esigenze degli operatori del commercio internazionale e ordinamenti
statali, bensì siamo in presenza del progressivo riconoscimento di tali
esigenze da parte di legislatori e giudici nazionali (83).
Le considerazioni sopra svolte permettono di comprendere perché
l’arbitrato sia lo « strumento privilegiato » di soluzione delle controversie
marittime internazionali (84). Infatti, in un contesto dove la legislazione
statale perde quella « centralità » che normalmente riveste in altri settori
(80) In questo senso occorre sottolineare il ruolo decisivo delle corti inglesi nello
sviluppo e nalla applicazione della lex maritima: v. in proposito TETLEY, The General Maritime
Law, cit., loc. cit.. Sul rilievo del riconoscimento da parte degli ordinamenti statali del potere
degli operatori del commercio marittimo « di sottoporre in modo giuridicamente « effettivo » i
loro rapporti contrattuali a complessi di norme e di principi non coincidenti con un determinato
sistema giuridico statale », cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio
marittimo internazionale, cit., 320-321. In generale, diverse e rilevanti pronunce della giurisprudenza italiana e straniera hanno riconosciuto l’esistenza e l’importanza della lex mercatoria
nell’ambito del diritto del commercio internazionale: v., ex multis, per la giurisprudenza italiana,
Cass. 8 febbraio 1982, n. 722, Ditta Fratelli Damiano snc c. Ditta August Töpfer & Co. GmbH,
in Dir. maritt., 1982, 644 (su cui v., da ultimo, GALGANO e MARRELLA, Diritto e prassi del
commercio internazionale, cit., 281 ss.); per quella francese, App. Paris 25 giugno 1993, in Rev.
arb., 1993, 685 ss. con nota di BUREAU; per quella inglese, Deutsche Schachtsbau - und
Tiefbohrgesellschaft mbH v. Ras Al Khaimah National Oil Co., [1990] 1 A.C., 295 (per un
commento di questa decisione si rinvia ad HUNTER, Lex mercatoria, in L.M.C.L.Q., 1987, 277
ss.), nonché, da ultimo, Premium Nafta Products Ltd. and others v. Fili Shipping Company Ltd.
and others [2008] 1 Lloyd’s Rep 254 at 29.
(81) Cfr. CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi
tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 18 e 22-23, nonché LA MATTINA, Le
prime applicazioni delle Regole di Amburgo, cit., loc. cit.
(82) Cfr., in generale, GALGANO, Lex mercatoria, cit., 220, il quale ha affermato che le
norme di diritto interno statali sono il « braccio secolare » necessario per attuare i contenuti
della lex mercatoria e per porre in esecuzione i lodi degli arbitrati commerciali internazionali.
Sul punto v. anche CARBONE, Strumenti finanziari, corporate governance e diritto internazionale
tra disciplina dei mercati finanziari e ordinamenti nazionali, in Riv. soc., 2000, 457, il quale
afferma che « il ruolo degli ordinamenti statali tende ad essere confinato piuttosto a sede, garanzia
e controllo della loro attuazione [delle regole del commercio internazionale] che fonte della
disciplina al riguardo applicabile. [...] Tale osservazione incide significativamente sulla, e riduce
grandemente la, c.d. sovranità degli Stati ».
(83) Cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali, cit., 320-321. In proposito si
veda questo passaggio di Cass. S.U. 1 ottobre 1987, n. 7341, Soc. Ceam c. Wiener Landes
Hypothekenbank, in Foro it., 1988, I, 123, con note di VIALE e TUCCI: « il fondamentale principio
dell’autonomia contrattuale consente alle parti di stipulare, nei limiti imposti dalla legge, tutte
quelle intese negoziali, riconosciute dall’ordinamento giuridico, che vengano ritenute idonee alla
tutela dei rapporti in continua evoluzione; [...] è inoppugnabile che sia meritevole di tutela
l’esigenza connessa al commercio internazionale in grande espansione ».
(84) Così CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit. Nello stesso senso
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del diritto e dove l’autonomia privata assume una importanza determinante nella disciplina dei rapporti tra gli operatori marittimi, è evidente
che l’arbitrato assume il ruolo di sede più appropriata per dirimere le
controversie marittime, essendo uno strumento di giustizia privata volto a
comporre le controversie nell’ottica di dare « la più compiuta attuazione
dei valori relativi ad una completa ed autosufficiente disciplina del rapporto » (85). E ciò anche avuto riguardo alla specificità della normativa
applicabile a tali controversie, aspetto, quest’ultimo, che consente altresì
di comprendere perché determinate istituzioni arbitrali (e mi riferisco, in
particolare, alla London Maritime Arbitrators Association di Londra e alla
Society of Maritime Arbitrators di New York) dirimano circa il 90% degli
arbitrati marittimi mondiali.
In quest’ultimo senso è altresì possibile comprendere l’importanza
dell’arbitrato nello sviluppo e nella progressiva « sistematizzazione » della
lex maritima (86): è chiaro che uno strumento di giustizia privata è certamente più appropriato rispetto a un tribunale statale a superare una
visione « statocentrica » della regolamentazione dei rapporti giuridici e a
consentire l’applicazione di un corpus di principi comuni all’intera comunità degli operatori del commercio marittimo internazionale (87), principi
che — conformemente a un auspicio già rivolto da parte di SCIALOJA —
consentono di disciplinare il fenomeno in esame tenendo in debito conto
gli usi, le pratiche commerciali e le esigenze degli stessi operatori, nonché,
soprattutto, i « fatti economici » che stanno alla base dei loro rapporti (88).
Quanto sopra esposto conduce, infine, ad una riflessione di ordine più
generale.
I fenomeni del commercio marittimo internazionale tendono sempre
più ad inquadrarsi secondo linee direttrici « centrifughe » rispetto alle
DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit, 436; HARRIS, Maritime Arbitrations, cit.,
743; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage maritime, cit., 401; LEGROS, Les conflicts de normes jurisdictionnelles en matière de contrats de transport internationaux de marchandises, cit., 1105.
(85) Così CARBONE e D’ANGELO, Cooperazione tra imprese e appalto internazionale,
Milano, 1991, 188.
(86) Cfr. TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit., secondo cui « the lex maritima,
or ’general maritime law’, is found more and more today in maritime arbitral awards through the
world ».
(87) Sul punto, più in generale, con riferimento all’arbitrato commerciale internazionale,
v. da ultimo ANCEL, L’application d’un droit non-étatique dans l’arbitrage international, in Revue
libanaise de l’arbitrage arabe et international, 2011, 12 ss.
(88) V. in proposito SCIALOJA, Corso di diritto della navigazione, Roma, 1943, 22, il quale,
nell’auspicare la necessità di una « lettura economica » del diritto marittimo, affermava che
« occorre [...] trarre la visione e l’interpretazione degli istituti giuridici dalla diretta osservazione
dei fatti economici ». Nello stesso senso, recentemente, la giurisprudenza inglese ha sottolineato
con particolare enfasi l’esigenza di interpretare i contratti del commercio marittimo internazionale dando soprattutto rilievo agli scopi economici perseguiti dalle parti: v. in proposito
Premium Nafta Products Ltd. and others v. Fili Shipping Company Ltd. and others [2008] 1
Lloyd’s Rep 254, nonché, da ultimo, Rainy Sky SA and Others v. Kookmin Bank [2012] 1
Lloyd’s Rep 34.
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legislazioni statali. L’esistenza (e l’applicazione negli arbitrati marittimi
internazionali) di una moderna lex maritima conferma il progressivo
abbandono di una « prospettiva statalista » nella regolamentazione dei
rapporti tra gli operatori marittimi e, conseguentemente, confermano il
sempre minor rilievo delle tecniche conflittuali nella individuazione delle
norme giuridiche volte a disciplinare tali rapporti.
Se infatti è corretto affermare che lo status esprime « l’appartenenza
del titolare ad un rapporto sociale » e che esso sia « fonte di una serie di
effetti giuridici » (89), è altrettanto corretto ritenere che gli appartenenti al
gruppo sociale degli operatori economici abituali del settore dei traffici
marittimi si trovino a vedere i loro rapporti non già sottoposti ad una
singola legge nazionale, ma soggetti ad un trattamento giuridico differente,
uno statuto di gruppo loro particolare (consistente nella lex maritima), il
quale viene in rilievo al fine di venire incontro alle esigenze degli operatori
del settore (90). In altri termini, nel diritto marittimo transnazionale, alla
legge, intesa come disciplina autoritativa con cui il singolo ordinamento
statale rivendica la propria sovranità, si sostituisce (almeno in larga parte)
uno ius commune mercatorum rappresentato dalla lex maritima, applicabile nei rapporti tra gli operatori del commercio marittimo internazionale,
in funzione dello status di questi ultimi (91).
Lo status mercatorio appare quindi come « momento di sintesi » della
disciplina giuridica applicabile agli operatori del commercio marittimo
internazionale « su base personale », al fine, cioè, di consentire a tali
soggetti di ricevere un trattamento flessibile e improntato a soddisfare i
principi del favor commercii e, in particolare, di veder soddisfatte le
esigenze di speditezza e rapidità tipicamente emergenti con riferimento ai
traffici marittimi.
5. Il rilievo dell’autonomia privata trova poi una conferma, e — anzi
— una accentuazione, avuto riguardo agli aspetti in senso lato « procedimentali » dell’arbitrato marittimo. È ben vero che, come sottolineato da
attenta dottrina, « the liberty enjoyed by the parties in fashioning the
proceedings » rappresenta « the most basic hallmark » di tutti gli arbitrati
commerciali internazionali (92); tuttavia, è proprio con riferimento agli
(89) Così D’ANGELO (ANT.), Il concetto giuridico di « status », in Riv. it. sc. giur., 1938, 261
e 254.
(90) Sul punto cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali, cit., 318 ss.
(91) Sul punto sia consentito rinviare a quanto già anticipato in LA MATTINA, Clausole di
deroga alla giurisdizione in polizza di carico e usi del commercio internazionale tra normativa
interna e disciplina comunitaria, in Dir. maritt., 2002, 473-474.
(92) Così COE, International Commercial Arbitration. American Principles and Practice in
a Global Context, New York, 1997, 59.
Il principio di autonomia delle parti nella scelta delle regole di procedura è stato codificato
sia nell’art. V(1)(d) della Convenzione di New York del 1958 (il quale prevede come motivo di
rifiuto di riconoscimento o esecuzione del lodo la circostanza che la procedura d’arbitrato non
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arbitrati marittimi che le parti (direttamente o per il tramite dei propri
arbitri) mantengono un più forte controllo sul procedimento, modellandolo in modo tale da assecondare il più possibile le proprie esigenze, alla
luce delle caratteristiche della materia trattata (93).
È così che la grande maggioranza degli arbitrati marittimi (differentemente dagli altri tipi di arbitrati commerciali internazionali), ancorché
svolti secondo le regole di istituzioni arbitrali, sono arbitrati « ad hoc » (94)
e non arbitrati amministrati (95), con la conseguenza che i procedimenti
arbitrali aventi a oggetto controversie marittime vengono generalmente
condotti con una notevole flessibilità procedurale e — almeno tendenzialmente — sotto il costante controllo delle parti (96).
Questo aspetto dell’arbitrato marittimo nasce da motivi di carattere
storico. Infatti, per lungo tempo (e sino a pochi decenni fa) esso si è
configurato come strumento di soluzione delle controversie che in larga
parte prescindeva da schemi di tipo « processuale »: gli arbitri marittimi
erano per lo più brokers afferenti al Baltic Exchange di Londra, i quali
decidevano sulla base della propria sensibilità ed esperienza, in un contesto privo di formalismi, e quindi senza la necessità di utilizzare regole
procedimentali (97). A partire dal 1960 circa, l’evoluzione dell’arbitrato
sia stata conforme alla convenzione delle parti), sia nell’art. IV(1)(b)(iii) della Convenzione di
Ginevra del 1961 (secondo cui le parti di un procedimento arbitrale ad hoc hanno la facoltà di
stabilire le regole di procedura da seguirsi da parte degli arbitri). Tale principio trova inoltre
conferma anche nella normativa interna in tema di arbitrato: si veda, ad esempio, l’art. 816-bis
c.p.c. (secondo il quale « le parti possono stabilire nella convenzione d’arbitrato, o con atto scritto
separato, purché anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che le parti debbono osservare
nel procedimento »), nonché la Section 34 dell’Arbitration Act inglese del 1996 (il quale prevede
che « It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters, subject to the right
of the parties to agree any matter »).
(93) Per analoghe considerazioni cfr. ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional,
cit., 510 ss.
(94) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; BERLINGIERI, International maritime arbitration, cit., 217-247; HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744; RICCOMAGNO,
L’arbitrato marittimo, cit., 141.
(95) In questo senso pare rilevante evidenziare che non tutti gli arbitrati istituzionali sono
necessariamente arbitrati amministrati: cfr. LEW, MISTELIS e KRÖLL, Comparative International
Commercial Arbitration, London, 2003, 32, secondo cui « Institutional arbitration is where parties
submit their disputes to an arbitration procedure, which is conducted under the auspices of or
administered or directed by an existing institution ».
(96) Ovviamente, anche negli arbitrati marittimi l’autonomia delle parti trova un limite
in taluni principi fondamentali che vengono ad assumere il ruolo di « norme procedurali
imperative » e che trovano corrispondenza sia negli ordinamenti nazionali, sia nel diritto
uniforme, sia nei regolamenti arbitrali: ci stiamo, in particolare, riferendo al principio del
contraddittorio e al principio di uguaglianza tra le parti, nonché a tutti i principi generalmente
riconducibili al concetto di « ordine pubblico processuale ». A questo riguardo v., da ultimo,
RADICATI DI BROZOLO, CARLEVARIS, DI GIOVANNI, SABATINI e TORNESE, L’arbitrato internazionale
ed estero, in SALVANESCHI, RADICATI DI BROZOLO, CARLEVARIS, ALLAVENA e ALTRI (cur.), Arbitrato,
Milano, 2012, 385-387.
(97) Cfr. HARRIS, London Maritime Arbitration, in Arbitration, 2011, 116 ss., il quale
spiega che nella normalità dei casi — fino alla fine degli anni ’50 del secolo appena trascorso —
ciascuna delle parti nominava un proprio arbitro tra i brokers del Baltic Exchange « to try to
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marittimo in senso sempre più « tecnico-giuridico », con il conseguente
maggior coinvolgimento di avvocati o, comunque, di soggetti muniti di
esperienza nel settore legale, ha certamente incrementato la « procedural
complexity » di questo mezzo di risoluzione delle controversie (98), il quale
ha ciononostante mantenuto un’impronta meno « processuale » rispetto
ad altri tipi di arbitrato commerciale internazionale.
In quest’ultimo senso si comprende perché la London Maritime
Arbitrators Association - LMAA), ossia la principale istituzione arbitrale
marittima del mondo, per lungo tempo non si sia neppure dotata di regole
di procedura. Tali regole, infatti, sono state introdotte soltanto a partire
dal 1999 (con la pubblicazione delle LMAA Procedural Guidelines) e
hanno trovato una compiuta sistematizzazione nei LMAA Terms del 2002,
che vengono periodicamente aggiornati (99).
A questo riguardo, occorre peraltro evidenziare una recente evoluzione volta a tentare di ridurre il controllo delle parti sui procedimenti che
si svolgono sulla base dei LMAA Terms: mentre fino all’edizione 2006 di
tali Terms era previsto che — fermo l’utilizzo di default delle disposizioni
di cui alla Schedule 2 allegata ai Terms — le regole di procedura venissero
fissate dal Collegio arbitrale, « subject to the right of the parties to agree any
matter » (100)), con la conseguenza che le parti avevano la possibilità di
incidere direttamente sulla disciplina del procedimento arbitrale, nell’ultima edizione dei LMAA Terms 2012 viene stabilito il principio in base al
reach an agreed recommendation to put to their principals ». Soltanto nel caso in cui un accordo
non fosse stato raggiunto tra i due arbitri, questi ultimi avrebbero chiesto l’opinion di un « senior
broker ». Insomma, lo svolgimento dell’arbitrato era caratterizzato dalla più completa assenza
di una « procedura » in senso giuridico-processuale e, a questo riguardo, si consideri in
particolare che l’A. sottolinea che « the discussion with the third experienced broker would take
place at the bar, over a gin and tonic or two » [sic, 117].
(98) Cfr. HARRIS, London Maritime Arbitration, cit., 120, il quale sottolinea che la più
frequente partecipazione di avvocati agli arbitrati marittimi a partire dal 1960 circa ha avuto
rilevanti conseguenze « procedimentali », e ciò in quanto « in the first place, lawyers are
accustomed to court procedures and so the informality of [maritime] arbitration was unfamiliar
to them and, as they saw it, largely undesirable. They attempted to impose the procedures with
which they were familiar from the courts upon commercial arbitration. Lawyers are also naturally
cautious and do not want to risk being criticised for not having done something it might be thought
they should have done. This, too, means that they tend to indulge in procedural arguments which
might otherwise not have occurred ».
(99) Cfr. ancora HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762. I LMAA Terms 1997 prevedevano soltanto norme di procedura relative agli arbitrati da condursi esclusivamente su base
documentale (tali norme erano riportate nella Second Schedule allegata ai predetti Terms).
(100) Così la Section 12 dei LMAA Terms 2006, di cui pare opportuno riportare di seguito
il testo integrale (testo che — nella parte iniziale — corrisponde a quello della Section 34
dell’Arbitration Act inglese del 1996): « (a) It shall be for the tribunal to decide all procedural and
evidential matters subject to the right of the parties to agree any matter. However, the normal
procedure to be adopted is as set out in the Second Schedule. (b) In the absence of agreement it
shall be for the tribunal to decide whether and to what extent there should be oral or written
evidence or submissions in the arbitration. The parties should however attempt to agree at an early
stage whether the arbitration is to be on documents alone (i.e. without a hearing) or whether there
is to be an oral hearing ».
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quale è (solo) il Collegio arbitrale ad avere il potere di decidere « all
procedural and evidential matters », anche tenendo conto di eventuali
accordi in merito conclusi tra le parti. A queste ultime rimane peraltro il
potere di decidere se l’istruttoria si debba svolgere esclusivamente su base
documentale oppure se debba altresì comprendere uno hearing (101).
Questa progressiva « erosione » dei poteri delle parti di organizzare « a
propria discrezione » i procedimenti arbitrali svolti sotto l’egida dei
LMAA Terms è la naturale conseguenza della già evidenziata maggiore
complessità degli arbitrati marittimi e della crescente « sofisticazione »
delle parti coinvolte, le quali — in tempi recenti — più difficilmente sono
propense ad avere un approccio collaborativo rispetto alle questioni
inerenti la procedura (102). Pertanto, ragioni di economia processuale
(particolarmente legate al risparmio dei tempi dei procedimenti) hanno
imposto di dare agli arbitri « l’ultima parola » in merito ad « all procedural
and evidential matters », come del resto è stato previsto dalla stessa LMAA
con riferimento alla c.d. Intermediate Claims Procedure (ideata nel 2009 in
collaborazione con la Baltic Exchange per claims di valore non superiore
a $ 400.000 e sinora assai poco utilizzata da parte degli operatori (103)). Più
rigide, invece, sono le regole di procedura fissate dalla LMAA con
riferimento agli altri procedimenti « minori »/« fast track », ossia la Small
Claims Procedure - SCP (ideata nel 1989 per claims di valore non
superiore a $ 50.000 e abbastanza utilizzata nel corso del tempo (104)) e il
c.d. Fast and Low Cost Arbitration - FALCA (ideato nel 1997 per claims
di valore compreso tra $ 50.000 e $ 250.000 e sostanzialmente mai
impiegato nella prassi (105)): in questo tipo di giudizi — al fine di « sem(101) Così la Section 12 dei LMAA Terms 2012, di cui pare opportuno riportare di seguito
il testo integrale: « (a) It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters,
but the tribunal will where appropriate have regard to any agreement reached by the parties on
such matters. The normal procedure to be adopted is set out in the Second Schedule, subject to the
tribunal having power at any time to vary that procedure. (b) In the absence of agreement it shall
be for the tribunal to decide whether and to what extent there should be oral or written evidence
or submissions in the arbitration. The parties should however attempt to agree at an early stage
whether the arbitration is to be on documents alone (i.e. without any oral hearing) or whether
there is to be such a hearing ».
(102) Cfr. in proposito HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762, secondo cui il tradizionale
« somewhat relaxed, ad hoc approach, had become inappropriate in a large number of cases
because it was no longer possible, in many instances, to rely upon the common understandings,
the co-operative approach and the good sense that had formerly prevailed ».
(103) Nel corso del 2012 sono stati avviati soltanto 7 procedimenti (di cui nessuno si è
concluso con un lodo) basati sulla LMAA Intermediate Claims Procedure: v. il sito Internet della
LMAA (www.lmaa.org.uk). Per un’analisi dei termini principali di questo tipo di procedimento
cfr. per tutti ancora AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, 3rd ed., London,
2009, 8-9.
(104) Dai dati pubblicati sul sito Internet della LMAA (www.lmaa.org.uk) emerge che
negli ultimi 15 anni sono stati avviati in media oltre 120 Small Claim Proceedings e sono stati
resi circa 100 lodi all’anno. Sulla Small Claims Procedure cfr. AMBROSE, MAXWELL e PARRY,
London Maritime Arbitration, cit., 6-7.
(105) Nel corso del 2012 non è stato avviato nessun procedimento c.d. FALCA: v. il sito
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plificarne » lo svolgimento — le parti non hanno la possibilità di modificare la regolamentazione del procedimento e i poteri degli arbitri di
intervenire in merito sono estremamente ridotti (106).
Sempre nel senso della tendenza volta a contemperare il principio di
autonomia con esigenze di speditezza processuale devono pure essere
lette le norme relative ai procedimenti arbitrali marittimi che si svolgono
in base alle Rules of the Society of Maritime Arbitrators di New York
SMA). In tale contesto, le parti hanno il potere di « alter or modify » le
regole di procedura, con l’eccezione di quelle disposizioni che conferiscono agli arbitri i poteri di « amministrare » il procedimento arbitrale (107). Dall’esame delle Rules non è agevole desumere quali siano le
disposizioni procedurali « inderogabili » per le parti, ma è ragionevole
ritenere che tali disposizioni siano soltanto quelle relative (i) alla fissazione delle date e dei luoghi in cui verranno svolti gli eventuali hearings e
(ii) alla individuazione del claimant nei (rari) casi in cui ciò sia dubbio
(Section 21), nonché le norme (iii) sulla rilevanza delle prove ai fini della
loro assunzione e successiva valutazione (Section 23) e (iv) sulla eventuale
riapertura della fase istruttoria (Section 26).
Anche le Rules of Arbitration della German Maritime Arbitration
Association GMAA) consentono alle parti di incidere sulla disciplina del
procedimento. A questo riguardo, peraltro, occorre sottolineare che il
potere delle parti di modificare le regole di procedura non incontra limiti
finché gli arbitri non sono stati ancora nominati; successivamente a tale
momento, invece, è ancora ben possibile procedere con delle modifiche,
ma — in questo caso — è necessario non solo il consenso delle parti, ma
anche quello degli arbitri (108).
Simili limiti non sono invece previsti dalle regole della Association of
Internet della LMAA (www.lmaa.org.uk), dal quale risulta che tale tipologia di arbitrato
marittimo è stata avviata in totale 11 volte, senza mai essersi conclusa con l’emissione di un lodo.
Per un commento alle regole di questo tipo di procedura cfr. sempre AMBROSE, MAXWELL e
PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 7-8.
(106) Sia nell’ambito della Small Claim Procedure (v. Section 5.i delle regole SCP), sia
nell’ambito del Fast and Low Cost Arbitration (v. Section 17 delle regole FALCA) l’arbitro
unico ha (o gli arbitri — nei limitati casi in cui il procedimento FALCA sia deciso da un panel
— hanno) soltanto il potere di chiedere che all’esito dell’istruttoria venga svolto lo hearing. In
quest’ultimo tipo di procedimento, inoltre, l’arbitro ha il potere di variare la timetable del
procedimento (v. Section 7 delle regole FALCA).
(107) La Section 1 delle Rules of the Society of Maritime Arbitrators dispone:« Wherever
parties have agreed to arbitration under the Rules of the Society of Maritime Arbitrators, Inc.,
these Rules, including any amendment(s) in force on the date of the agreement to arbitrate shall
be binding on the parties and constitute an integral part of that agreement. Nevertheless, except for
those Rules which empower the Arbitrators to administer the arbitration proceedings, the parties
may mutually alter or modify these Rules ».
(108) L’articolo 1 delle Rules of Arbitration della GMAA dispone:« Where the parties to
a contract have agreed that disputes between them shall be resolved in accordance with the rules
of the German Maritime Arbitration Association (GMAA), these rules shall apply in the version
in force at the time arbitration proceedings are commenced. The parties may amend or supple-
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Maritime Arbitrators of Canada AMAC), le quali dispongono soltanto che
« The Rules may only be varied by the agreement of all parties to the
arbitration » (109). Tale wording è del tutto analogo a quello adottato dalle
Rules dell’altra istituzione arbitrale marittima canadese, la Vancouver
Maritime Arbitrators Association VMAA (110).
Nello stesso senso, con specifico riferimento alle regole procedurali, le
Arbitration Rules della Singapore Chamber of Maritime Arbitration
SCMA), come modificate nel 2009 (111), prevedono che la procedura
venga stabilita dal Collegio Arbitrale, « subject to the right of the parties to
agree any matter » (112), utilizzando quindi una disposizione analoga a
quella contenuta nei LMAA Terms 2006 (113).
Non solo. Le regole di arbitrato dell’International Maritime Organization ICC-CMI (IMAO (114)) — pur essendo in larga parte modellate
sulle Rules of arbitration della ICC (115), le quali, come noto, prevedono
un procedimento « amministrato » ove l’autonomia privata opera solo in
funzione integrativa delle lacune regolamentari — lasciavano alle parti la
possibilità di modificare la disciplina dell’arbitrato secondo specifici accordi relativi a ciascuna controversia, e ciò proprio in quanto con tale
istituzione (ideata congiuntamente al Comité Maritime International)
l’ICC intendeva proprio adeguare, in senso maggiormente flessibile, le
proprie norme « processuali » alle tipiche esigenze delle controversie
arbitrali marittime (116).
Al contrario, il rilievo dell’autonomia privata negli arbitrati « amministrati » condotti secondo il Règlement d’Arbitrage della Chambre Arbitrale Maritime de Paris è estremamente limitato, potendo la scelta delle
ment these rules for the purpose of an individual dispute. In the event, however, that arbitrators
have already been appointed, such amendments or supplements shall be allowed only with the
consent of the arbitrators ».
(109) Così la Section 3 delle Arbitration Rules della AMAC.
(110) Così la Section 2 delle Arbitration Rules della VMAA.
(111) In proposito, nel commento alla nuova edizione di tali Rules viene sottolineato che
« the most significant change was from an institution administrating the arbitration process to a
maritime industry driven entity providing a framework for maritime arbitration which gives party
autonomy »: così Commentary on the Rules of SCMA, reperibile sul sito Internet www.scma.
org.sg.
(112) L’art. 25.2 delle Arbitration Rules della SCMA dispone: « Subject to these Rules, it
shall be for the Tribunal to decide the arbitration procedure, including all procedural and
evidential matters subject to the right of the parties to agree to any matter ».
(113) V. retro, nota 100 e testo corrispondente.
(114) Su tali regole e sul loro insuccesso v. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 45-46.
(115) V. www.iccwbo.org/uploadedFiles/Court/Arbitration/other/rules_arb_english.pdf.
(116) V. l’art. 3.1 delle Rules dell’IMAO, il quale disponeva che « Where the parties have
agreed that disputes between them shall be referred to arbitration under these Rules, such disputes
shall be settled in accordance with these Rules subject to such modification as the parties may
agree ».
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parti riguardare soltanto l’applicabilità del regolamento in vigore al momento della conclusione della convenzione arbitrale piuttosto che quello
vigente quando la controversia è stata introdotta (117).
Simile approccio è seguito anche in relazione agli arbitrati soggetti
alle Rules of Arbitration of Tokyo Maritime Arbitration Commission
(TOMAC) of the Japan Shipping Exchange JSE), le quali, da un lato,
prevedono che il richiamo di tali Rules da parte di una clausola arbitrale
fa sì che esse « shall be deemed to constitute part of such arbitration ...
clause » (118) e, dall’altra parte, stabiliscono espressamente che le Rules
possono essere modificate soltanto dalla TOMAC su iniziativa del proprio
Chairman (119). Dal combinato disposto di tali regole, appare quindi
evidente l’impossibilità per le parti degli arbitrati assoggettati alle Rules
della TOMAC di incidere sulla procedura.
Assai meno rigida è invece la disciplina dell’arbitrato « amministrato » secondo le China Maritime Arbitration Commission Arbitration
Rules, in base alle quali non solo le parti possono modificare — in linea
generale — le predette Rules « subject to consent by the Arbitration
Commission », ma inoltre esse, senza la necessità di ottenere alcun assenso
da parte della Arbitration Commission, possono « shorten or extend by an
agreement the procedural deadlines stipulated in these Rules or modify the
arbitration procedural matters concerned to meet the special needs of their
specific case » (120). Insomma, pur prevedendo un arbitrato marittimo
(117) L’article I del Règlement d’Arbitrage della CAMP dispone infatti che « Le Règlement applicable à un litige est celui en vigueur au moment où la convention d’arbitrage a été
convenue entre parties, à moins que celles-ci par une convention spéciale ne décident que le
Règlement applicable sera celui en vigueur lors de l’introduction d’instance » (così la versione in
vigore dall’8 giugno 2011).
(118) L’art. 3 delle Rules of Arbitration della TOMAC dispone: « Where the parties to a
dispute have stipulated, by an arbitration agreement entered into between them or by an
arbitration clause contained in any other contract between them that any dispute shall be referred
to arbitration of JSE or arbitration in accordance with its rules, these Rules (or such version of
these Rules in force at the time the application for arbitration is referred) shall be deemed to
constitute part of such arbitration agreement or arbitration clause ».
(119) L’art. 50 delle Rules of Arbitration della TOMAC dispone: « Any amendment of
these Rules shall be made by TOMAC at the initiative of Chairman of TOMAC ».
(120) L’art. 7 delle China Maritime Arbitration Commission Arbitration Rules dispone:« Where the parties agree to submit their dispute for arbitration to the Arbitration
Commission, to the Logistics Dispute Resolution Center of the Arbitration Commission or to the
Fishery Dispute Resolution Center of the Arbitration Commission for arbitration, the arbitration
proceedings shall be conducted under these Rules; and the Special Provisions On Fishery
Disputes Cases of CMAC Arbitration Rules shall also apply to fishery disputes arbitration
proceedings. However, if the parties have agreed otherwise, and subject to consent by the
Arbitration Commission, the parties’ agreement shall prevail. The parties may shorten or extend
by an agreement the procedural deadlines stipulated in these Rules or modify the arbitration
procedural matters concerned to meet the special needs of their specific case; and they may also
authorize by agreement the arbitration commission or the arbitration tribunal to make any
necessary procedural adjustment as see fit while the arbitration procedure is underway. The power
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amministrato, le Rules in esame — almeno in teoria — consentono alle
parti di avere il totale controllo delle norme relative alla scansione del
procedimento (121).
In conclusione, se è ben vero che, rispetto all’inizio degli anni ’60 del
secolo appena trascorso, l’arbitrato marittimo oggi sta assumendo una
fisionomia meno informale e si sta sviluppando anche presso nuovi centri
ove è sempre più « istituzionalizzato » (e talvolta « amministrato » (122)), è
altresì vero che — almeno allo stato — il 90% degli arbitrati marittimi
attualmente sono condotti secondo procedimenti ad hoc, svolti in seno alla
LMAA e alla SMA, nell’ambito dei quali le parti conservano (direttamente o indirettamente, per il tramite degli arbitri da loro nominati) ampi
poteri di amministrazione del giudizio. E ciò rappresenta certamente una
conferma della specialità dell’arbitrato marittimo rispetto agli altri tipi di
arbitrato commerciale internazionale.
6. Nei paragrafi precedenti è stato possibile verificare che, nell’ambito dei traffici marittimi, le ragioni della prassi degli operatori incidono in
misura rilevante sulla regolamentazione dell’arbitrato, sia con riferimento
al suo momento genetico (123), sia quanto alla legge applicabile (124), sia
con riferimento alla disciplina del procedimento (125).
Tale circostanza non solo consente di fare riferimento all’arbitrato
marittimo qualificandolo come un « procedimento speciale » rispetto all’arbitrato commerciale internazionale (126), ma inoltre rende possibile
ricostruire il quadro dei rapporti giuridici che fanno capo agli operatori del
commercio marittimo internazionale all’interno di quello che ho definito
status mercatorio (127). A quest’ultimo riguardo, l’analisi svolta nel corso
del presente lavoro permette di affermare che l’appartenenza di un
soggetto al « gruppo sociale » degli operatori marittimi fa sì che —
nell’ambito dei rapporti conclusi inter pares con altri soggetti appartenenti
a tale « gruppo » — le norme rilevanti per la regolamentazione del
stays with the Arbitration Commission and/or the Arbitral tribunal to decide thereupon. With
regard to cases of ships collision, the Arbitration Commission or the arbitration tribunal may
make any necessary adjustment relating to evidentiary issues ».
(121) In questo senso non appaiono condivisibili le osservazioni di ESPLUGUES MOTA,
Arbitraje Marìtimo Internacional, cit., 514, secondo cui « el Reglamento de Arbitraje de la China
Maritime Arbitration Commission incorpora un conjunto muy elaborado de principios y
actuaciones a seguir en el procedimiento arbitral, que restringen severamente el juego de la
autonomìa de la voluntad, una vez sometida las partes al mismo ».
(122) Come accade, ad esempio, con riferimento agli arbitrati marittimi che si svolgono
presso la CAMP, la TOMAC e la China Maritime Arbitration Commission.
(123) V. le considerazioni svolte nel precedente § 3 in tema di forma della clausola
compromissoria.
(124) V. retro, § 4.
(125) V. retro, § 5.
(126) V. retro, § 1.
(127) V. retro, § 4.
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rapporto debbano trovare un’applicazione maggiormente « flessibile » e
volta ad agevolare le esigenze di speditezza e di rapidità tipiche del
commercio marittimo (128). Vi è di più. È possibile affermare che, nei
rapporti del commercio marittimo internazionale, sia riscontrabile un
generale favor arbitratus e ciò tenuto conto sia della diffusione dello
strumento arbitrale nell’ambito di tali rapporti, sia della circostanza che
l’arbitrato si presenta come l’unico strumento in grado di garantire l’applicazione di una disciplina giuridica coerente con l’operazione economica
voluta dalle parti (129).
In precedenza è stato peraltro messo in rilievo come una simile
ricostruzione non possa essere accolta incondizionatamente e senza le
debite premesse nell’ambito del trasporto marittimo di linea, il quale
presenta tratti che lo differenziano in maniera marcata dal trasporto di
carico (generalmente documentato da charter parties) (130).
Tale considerazione nasce, in primo luogo, dal fatto che nel trasporto
di linea le clausole arbitrali non presentano i caratteri di tipicità che si
riscontrano, ad esempio, nei charter parties (131). In un contesto dove
l’arbitrato non costituisce il mezzo di soluzione delle controversie tipicamente impiegato dagli operatori commerciali (132), sembrerebbe ben difficile poter invocare la « prassi » del commercio internazionale per giustificare controlli sulla validità delle clausole arbitrali maggiormente
« flessibili » e sganciati dal « formalismo » che caratterizza l’approccio
della giurisprudenza (specialmente italiana) in materia (133).
In secondo luogo, i rapporti giuridici relativi ai trasporti di linea sono
regolati in via sostanzialmente esclusiva dalla normativa di diritto uniforme inderogabile di cui alle Regole dell’Aja (134), e ciò in quanto in
(128) Sul punto cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio
marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318 ss.
(129) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; CARBONE e LUZZATTO,
Clausole arbitrali, trasporto marittimo e diritto uniforme, in Dir. maritt., 1974, 252-260; LOPEZ DE
GONZALO, L’esercizio della giurisdizione civile in materia di trasporto marittimo ed intermodale,
in Dir. maritt., 2001, 530-532.
(130) V. retro, il testo corrispondente alla nota 62.
(131) Nel senso di cui al testo cfr. CARBONE e LUZZATTO, Clausole arbitrali e trasporto
marittimo, cit., 262; BERLINGIERI, Arbitrato marittimo e Regole di Rotterdam, in Dir. maritt., 2011,
388; GARBESI, Arbitration and Ocean Marine Cargo Subrogation, in Arb. Journ., 1961, 79;
JAMBU-MERLIN, L’arbitrage maritime, cit., 407; LOPEZ DE GONZALO, L’esercizio della giurisdizione, cit., 530; MCMAHON, The Hague Rules and Incorporation of Charter Party Arbitration
Clauses Into Bills of Lading, in J.M.L.C., 1970-71, 2; O’HARE, Cargo Dispute Resolution and the
Hamburg Rules, in Int. Comp. Law Quart., 1980, 229, che afferma esplicitamente che « Commercial arbitration is a common medium for dispute settlement in charterparties, yet not so
common in bills of lading ».
(132) Cfr. TRAPPE, The Arbitration Clause in Bill of Lading, in L.M.C.L.Q., 1999, 339.
(133) V. retro, § 3.
(134) Le c.d. Regole dell’Aja sono costituite dalla Convenzione di Bruxelles del 1924
(resa esecutiva in Italia con R.D.L. 6 gennaio 1928, n. 1958 conv. L. 19 luglio 1929, n. 1658;
operante in Inghilterra per mezzo del Carriage of Goods By Sea Act del 1924), integrata dai
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questo ambito del commercio marittimo internazionale la posizione del
soggetto interessato al carico è considerata « debole » e meritevole di
tutela giuridica (135). Questa circostanza ha fatto addirittura sorgere dubbi
circa la possibilità per le parti dei rapporti relativi ai traffici di linea di
ricorrere all’arbitrato quale mezzo di soluzione delle controversie (136).
Infatti, mentre con riferimento ai rapporti commerciali inter pares l’arbitrato è senz’altro lo strumento processuale più adatto, laddove ci si muova
in un contesto di « sproporzione » fra il bargaining power di una parte
rispetto a quello dell’altra e, quindi, emerga la presenza di soggetti
contrattuali deboli (come è il caso del trasporto marittimo di linea),
l’arbitrato parrebbe non essere il migliore mezzo di soluzione delle
controversie, poiché potrebbe tradursi in un meccanismo volto ad ostacolare l’accesso alla giustizia della « parte debole », la quale — specie nel
momento in cui si trovi a concludere un contratto regolato su condizioni
generali predisposte unilateralmente dall’altro contraente e contenute sul
retro della polizza di carico — potrebbe non essere neppure ben consapevole della scelta dell’arbitrato (137).
Alla luce delle considerazioni svolte nel corso del presente paragrafo
sembrerebbe doversi concludere che l’arbitrato marittimo non sia un
fenomeno unitario, in quanto, da un lato, troviamo rapporti del commercio marittimo dove l’arbitrato è largamente impiegato ed emergono
esigenze di rapidità delle forme e dove il controllo dei giudici statali sulle
convenzioni arbitrali si fa meno rigido (contratti di trasporto di carico
documentati da charter parties), dall’altro lato, vi sono rapporti dove le
successivi Protocolli di Bruxelles del 1968, c.d. Regole dell’Aja-Visby, e del 1979 (resi esecutivi
in Italia con L. 12 giugno 1984, nn. 243 e 244; attuati nell’ordinamento inglese per mezzo degli
Acts del 1971 e del 1992). Sull’inderogabilità (a sfavore del soggetto interessato al carico) della
disciplina di diritto uniforme relativa al trasporto su polizza di carico cfr. per tutti CARBONE,
Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., 169 ss. Sul sistema delle Regole dell’Aja cfr. fra i
contributi più significativi BERLINGIERI, La Convenzione di Bruxelles 25 agosto 1924 sulla polizza
di carico, Genova, s.d., ma 1973; CARBONE, Le regole di responsabilità del vettore marittimo,
Milano, 1984; ID., Il trasporto marittimo di cose nel sistema dei trasporti internazionali, Milano,
1976; LEFEBVRE-D’OVIDIO, La disciplina convenzionale della responsabilità del vettore marittimo,
Roma, 1939; RIGHETTI, La responsabilità del vettore marittimo nel sistema dei pericoli eccettuati,
Padova, 1960; TETLEY, Marine Cargo Claims, cit., cui adde, da ultimo, CARBONE, Contratto di
trasporto marittimo di cose, cit., passim, ma spec. Capitolo III.
(135) In questo senso cfr. CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., passim,
ma spec. 169 ss. In tale sede gli interessati al carico nel trasporto di linea sono definiti come
soggetti « che si trovano, da un lato, in una posizione contrattualmente più debole rispetto al
vettore e, dall’altro, ad accettare clausole contrattuali ‘per adesione’ senza una consapevole
partecipazione alla loro redazione e senza una chiara coscienza dei relativi contenuti ». Sulle
ragioni di tutela della parte debole come presupposto della normativa di diritto uniforme in
tema di polizza di carico cfr. per tutti PAVONE LA ROSA, Studi sulla polizza di carico, Milano,
1958, 88-91, il quale sottolinea che « con la cennata Convenzione si è voluto tutelare non solo il
terzo portatore del titolo, ma anche ed anzitutto il caricatore ».
(136) Sul punto cfr. per tutti CARBONE, Il trasporto marittimo di cose nel sistema dei
trasporti internazionali, cit., 98-99.
(137) In proposito sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 305 ss.
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convenzioni arbitrali non vengono generalmente impiegate e nell’ambito
dei quali la possibilità di ricorrere all’arbitrato è addirittura posta in
dubbio dalla presenza di norme inderogabili di origine internazionale a
tutela dei soggetti interessati al carico (contratti di trasporto di linea).
Insomma, lo status mercatorio, che ho in altra sede invocato come
« momento di sintesi » delle posizioni giuridiche soggettive degli attori del
commercio marittimo internazionale (138), sembra compromesso in ragione della sua limitata applicabilità ai rapporti relativi ai traffici marittimi
di linea.
Il trasporto di linea appare allora come momento « critico » dell’arbitrato marittimo, in quanto conduce a riflettere sulla configurabilità di
quest’ultimo come « sistema » e suggerisce un controllo dei risultati dell’analisi svolta nel corso del presente lavoro alla luce delle peculiarità dei
rapporti in esame.
I rapporti giuridici relativi ai traffici marittimi c.d. « liner » sono
certamente un momento critico per l’istituto dell’arbitrato marittimo, e ciò
perché la presenza di una « parte debole » da proteggere (l’interessato al
carico) parrebbe in primo luogo compromettere la possibilità di accogliere
nell’ambito di questo settore la lettura « evolutiva » (e flessibile) dei
requisiti di forma delle clausole compromissorie che abbiamo suggerito in
precedenza e che trova come perno interpretativo la considerazione della
« strumentalità » di tali clausole rispetto all’operazione economica perseguita tra le parti (139).
In realtà, però, anche nell’ambito in esame è certamente da rigettare
una valutazione in chiave « rigida » dei requisiti di forma delle clausole
arbitrali previsti dall’art. II della Convenzione di New York del 1958. Al
contrario, la giurisprudenza più avveduta (segnatamente, inglese e statunitense) ha riconosciuto proprio con riferimento ai rapporti relativi ai
traffici marittimi di linea l’importanza di svolgere verifiche basate sulla
ragionevolezza e sulla prassi abituale degli operatori commerciali, le quali
rappresentano i meccanismi maggiormente idonei ad assicurare la tutela
del contraente debole in quanto sono gli unici strumenti che garantiscono
l’accertamento del consenso dell’interessato al carico rispetto alle pattuizioni compromissorie (140). In questo senso, nel trasporto di linea trovano
conferma i medesimi criteri di valutazione delle clausole arbitrali che sono
(138)
473-474.
(139)
(140)
301-317.
Cfr. LA MATTINA, Clausole di deroga alla giurisdizione in polizza di carico, cit.,
V. retro, § 3.
V. l’analisi della casistica riportata in LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit.,
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stati indicati (e fruttuosamente impiegati da larga parte della giurisprudenza più avveduta) nell’ambito degli altri settori del commercio marittimo internazionale (141).
Inoltre, la normativa uniforme di applicazione necessaria posta a
tutela dei soggetti interessati al carico non limita la possibilità di deferire
ad arbitrato le controversie relative ai trasporti marittimi di linea, ma pone
soltanto (ed è stata così correttamente interpretata dalla giurisprudenza)
limiti volti a impedire che, attraverso lo strumento dell’arbitrato, venga di
fatto « by-passato » il contenuto inderogabile di tale normativa (142). Il che
è del tutto coerente con il rilievo del canone di « buona fede » nell’interpretazione dell’art. II della Convenzione di New York del 1958 (143).
Anche da un punto di vista sostanziale, il « sistema arbitrato marittimo » non pare compromesso con riferimento ai rapporti relativi ai
trasporti di linea. La disciplina uniforme applicabile a questo tipo di
trasporti, infatti, non solo rappresenta pacificamente parte della lex maritima, ma inoltre — fermi i propri contenuti inderogabili — non impedisce di valorizzare anche in questo contesto il rilievo dello status mercatorio. E ciò nel senso che — al di là della localizzazione della fattispecie in
un determinato ordinamento giuridico — la disciplina applicabile ai
rapporti relativi ai traffici di linea sarà rinvenibile esclusivamente nella
normativa uniforme come integrata dagli usi e dalle consuetudini internazionali invalsi nello specifico settore di riferimento.
Infine, le regole di procedura delle principali istituzioni arbitrali
paiono certamente garantire un agevole « accesso alla giustizia » e sono
strutturate in modo tale da garantire non solo il rispetto del principio del
contraddittorio, ma anche una tempistica di risoluzione della controversia
assai celere e senz’altro più rapida di quella conseguibile davanti ai giudici
di qualsivoglia ordinamento statale.
In conclusione, alla luce di quanto sopra, l’arbitrato marittimo conferma anche nell’ambito del trasporto di linea le proprie caratteristiche di
« strumento privilegiato » volto a garantire in maniera « adeguata » la
tutela giurisdizionale dei diritti delle parti dei rapporti del commercio
marittimo internazionale. In questo senso, è possibile affermare che
(141) V. retro, § 3.
(142) V., ad esempio, le affermazioni contenute nel caso inglese The Morviken (The
Hollandia) [1983] 1 Lloyd’s Rep., 7 (invero riguardante il connesso tema delle clausole di
deroga alla giurisdizione), nonché nella pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti relativa
al caso Vimar Seguros y Reseguros S.A. v. M/V Sky Reefer, 515 U.S. 528, in Am. Mar. Cases,
1995, 1817, ove è stato chiarito che le clausole arbitrali contenute in polizza di carico non sono
di per sé invalide, ma, al contrario, se ne deve presumere la validità fino a quando non sia
dimostrato in giudizio che (a) esse si traducono per il vettore in un esonero da responsabilità o
che (b) la loro efficacia limita in concreto la possibilità dell’attore di agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti (ad esempio, in quanto per effetto di tali clausole il soggetto interessato al
carico si trovi a dover sopportare i costi di un procedimento « prohibitively expensive »).
(143) V. retro, § 3, il testo corrispondente alla nota 48.
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l’arbitrato marittimo è un fenomeno « unitario », nel quale le caratteristiche del trasporto di linea si inseriscono senza generare fratture del
sistema. In questo contesto, inoltre, le peculiarità dei rapporti relativi ai
traffici di linea confermano ancora una volta la specialità dell’arbitrato
marittimo rispetto agli altri tipi di arbitrato commerciale internazionale.
This paper analyses the so-called “International Maritime Arbitration”, which
is the “preferential” procedural instrument in order to settle disputes between
shipping operators worldwide. This arbitration falls under the broader genus of
international commercial arbitration, from where, essentially, it draws its legal
regulation; however, because of certain “specific” characteristics of the shipping
context, International Maritime Arbitration “departs” from the model of “general”
international commercial arbitration. Therefore, the paper is primarily focused on
illustrating the specific features of this kind of arbitration with particular attention to
the rules of the principal arbitration institutions specialized in maritime disputes
(primarily the London Maritime Arbitration Association and the Society of Maritime Arbitrators of New York).
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La perizia contrattuale
FRANCESCO CAMPIONE (*)
1. Introduzione. — 2. Come nasce il fenomeno. — 3. Perizia contrattuale tra
arbitrato e arbitraggio. — 4. L’autonomia della perizia. — 5. Un approccio
analitico alla prassi: fenomenologia della perizia contrattuale. — 6. Perizia contrattuale e arbitraggio: linee distintive. — 7. La perizia contrattuale nel quadro
della composizione delle liti. — 8. La disciplina applicabile: 8.1. La clausola per
perizia contrattuale; 8.2. Rapporto parti-arbitri e profili procedurali; 8.3. L’efficacia della perizia; 8.4. Il responso peritale: natura e regime. — 9. Spunti problematici: brevi cenni alla nuova disciplina dell’arbitrato (irrituale). — 10. Considerazioni conclusive.
1. Per meglio comprendere il contesto sistematico e concettuale
entro il quale collocare l’istituto della c.d. perizia contrattuale (o, per
alcuni autori, la perizia arbitrale (1)), occorre far riferimento al tema della
soluzione non giurisdizionale delle controversie (relative ovviamente a
diritti disponibili).
Il nostro ordinamento giuridico, infatti, riconosce e disciplina espressamente mezzi alternativi di composizione delle liti (contrattuali e non).
Così, esso contempla figure negoziali tipiche (la transazione, la quale,
ex art. 1965 c.c., comma 1, « è il contratto col quale le parti, facendosi
reciproche concessioni, pongono fine a una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro ») e non (si pensi al negozio di
accertamento, mediante il quale due o più parti, senza le reciproche
concessioni, danno certezza, predisponendo regole di condotta per esse
vincolanti, ad un determinato rapporto o ad una determinata situazione
giuridica (2)).
Vi è poi l’arbitrato, il quale rappresenta uno strumento che bensì
trova « giustificazione » e origine nell’autonomia privata, ma può assu(*) Dottorando di ricerca presso la L.U.I.S.S. - Guido Carli di Roma.
(1) BOVE, La perizia arbitrale, Torino, 2001.
(2) AA.VV., Diritto privato, Milano, 2009, Volume II, n. 849; per una conoscenza più
approfondita della teoria dell’accertamento giuridico e delle problematiche connesse al negozio
di accertamento si veda FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento
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mere forme molto simili a quelle tipiche della via giurisdizionale. Esso,
infatti, può trovare svolgimento secondo due modalità distinte: in un caso
(c.d. arbitrato rituale, artt. 806-840 c.p.c.) si ha un vero e proprio processo
con uno o più giudici « privati » che emanano, all’esito di una dinamica
procedimentale improntata al principio del contraddittorio, un atto idoneo alla produzione degli stessi effetti della sentenza del giudice statuale;
nell’altro caso (c.d. arbitrato irrituale, art. 808 ter c.p.c.), il contesto
procedimentale è (normalmente) semplificato e più flessibile, e la decisione finale, sempre presa da un giudicante privato, è fondamentalmente
un contratto riconducibile alla volontà delle parti in controversia.
In linea di prima approssimazione, l’arbitrato (tanto rituale quanto
irrituale (3)) deve essere tenuto distinto dall’arbitraggio. Invero, quest’ultimo istituto è previsto e regolato dal codice civile all’art. 1349 e, in linea
generale, si differenzia dall’arbitrato in quanto sistematicamente e funzionalmente non destinato alla soluzione di una controversia giuridica. Infatti, la norma ex art. 1349 consente alle parti di rimettere ad un terzo la
determinazione della prestazione dedotta nel contratto, la quale è ritenuta
direttamente riconducibile alla volontà dei contraenti, onde si viene a
realizzare una cooperazione tra le parti e il terzo nell’attività di completamento del regolamento d’interessi (4).
Sennonché anche l’arbitraggio può essere in un certo senso considerato una forma negoziale di soluzione di una controversia, giacché le parti
non vogliono o non possono determinare un elemento essenziale del loro
rapporto contrattuale e, tuttavia, si trovano concordi nel rimettere tale
determinazione a un terzo, impegnandosi a considerare il di lui responso
come sostitutivo della propria volontà, quindi vincolante. Ma in tal caso la
controversia non è di tipo giuridico, quanto tutt’al più lato sensu economica (5).
Invero, intorno alla figura dell’arbitraggio e ai profili distintivi di
questo dall’arbitrato, possono crearsi dei « momenti » d’incertezza e di
non sufficiente chiarezza. L’attività del c.d. arbitratore, infatti, è pur
giuridico, Torino, 2002; sul negozio di accertamento in generale cfr., per tutti, FALZEA, Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 205 ss.; GIORGIANNI, Accertamento
(negozio di), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 227 ss.
(3) Ma si veda la ricostruzione di BOVE, Art. 808 ter, in MENCHINI (coord.), La nuova
disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 65 ss. e i richiami di dottrina e giurisprudenza ivi
contenuti.
(4) Cass. 25 giugno 1983, n. 4364, in Mass. giust. civ. 1983, fasc. 6, che si esprime in questi
termini: « solo in presenza di un arbitraggio — che ricorre quando le parti abbiano affidato al
terzo arbitratore non già l’incarico di risolvere una controversia nascente da un rapporto giuridico
preesistente e già perfetto (come nell’arbitrato rituale ed in quello libero) ma di determinare in un
negozio giuridico in via di perfezionamento, un elemento che le parti non hanno voluto o potuto
determinare, sicché l’arbitratore non dirime liti con poteri decisori, ma concorre con le parti nella
formazione del contenuto del negozio — è possibile la impugnazione del lodo per manifesta
iniquità ».
(5) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2011.
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sempre attività di uno o più terzi, scelti dai contraenti, volta a completare
un assetto d’interessi; inoltre, strutturalmente la fattispecie ex art. 1349 c.c.
ben può trovare applicazione anche in ipotesi di contratti (ad es. una
transazione) finalizzati alla composizione di una lite giuridica (6).
È nel contesto sopra descritto che va correttamente (o almeno così ci
sembra) inserita l’analisi della perizia contrattuale, la quale — è bene
precisarlo subito a scanso di equivoci — rappresenta un istituto dai tratti
non ancora ben definiti, ad onta degli autorevoli studi succedutisi in
materia e dei numerosi arresti giurisprudenziale intervenuti sulla questione.
In un’ottica meramente introduttiva, la perizia contrattuale è configurabile come un meccanismo complesso, il quale origina da un patto
(normalmente una clausola contrattuale) con cui le parti prevedono che
determinate questioni tecniche vengano risolte e decise da uno o più
soggetti dotati di specifiche conoscenze tecnico-scientifiche (i c.d. periti).
La determinazione dei periti è dalle parti considerata vincolante.
Detto ciò, il vero problema della perizia contrattuale concerne proprio la sua definizione, o per meglio dire la sua individuazione, ricostruzione e descrizione come fenomeno giuridico « unitario » e in un certo
senso « autonomo ». In sostanza, si tratta di capire che cosa sia realmente
la perizia contrattuale; se, cioè, integri una realtà di diritto sostanziale, un
istituto giuridico di matrice processuale, ovvero un fenomeno in un certo
senso duplice.
2. D’accordo con la dottrina che più di recente ha avuto modo di
offrire uno studio più organico del fenomeno e proporre un’interessante
ricostruzione di esso (7), pare utile muovere la disamina dell’istituto dalle
diverse situazioni pratiche nelle quali esso trova attuazione. L’approccio,
dunque, è di tipo empirico: si vuol cioè intraprendere una strada che
conduca ad un possibile inquadramento organico della perizia contrattuale, partendo dai casi (soprattutto tratti dall’esperienza giurisprudenziale) ove essa è ritenuta operante.
Una prima ipotesi, che invero è quella di massima diffusione della
perizia contrattuale e rispetto alla quale la sussistenza di essa è confermata
sia in giurisprudenza sia in dottrina, è rappresentata dalla previsione,
inserita in clausole apposte ad alcuni contratti di assicurazione (polizze
danni e assicurazioni contro gli infortuni, per lo più), in base alla quale, in
caso di disaccordo tra le parti, uno o più elementi di particolare rilevanza
tecnica (il quantum del danno prodotto; il grado di invalidità; il nesso di
(6) È a tale fattispecie, del resto, che alcuni autori (tra cui BOVE, citato in nota 4)
riconducono, strutturalmente, l’arbitrato irrituale.
(7) BOVE, La perizia arbitrale, cit.; Id., La perizia contrattuale, in LUISO - GABRIELLI
(coord.), I contratti di composizione delle liti, Milano, 2005.
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causalità tra l’evento e il danno; e così via) ai fini dell’esistenza o del modo
di essere di una situazione giuridica soggettiva (il diritto risarcitorio),
siano oggetto della valutazione e dell’accertamento di uno o più esperti
designati dalle parti, i quali risolvono tali questioni servendosi delle
proprie cognizioni tecnico-scientifiche mediante un responso che i contraenti accettano come espressione della propria volontà (8).
Un’altra ipotesi, comunemente ricondotta dagli studiosi e dalla giurisprudenza alla perizia contrattuale, è data dai c.d. arbitrati tecnici o di
qualità. I casi concreti sono quelli di contratti in cui una parte s’impegna
a dare o fare qualcosa verso il corrispettivo di un prezzo o di un compenso
e dove i contraenti stabiliscono che, in caso di divergenze maturate in fase
esecutiva in ordine alla qualità delle cose fornite, dell’opera o del lavoro
effettuati, la decisione circa la corrispondenza o meno di quanto fatto a
quanto previsto o promesso sia affidata ad uno o più terzi, con efficacia
vincolante tra le parti (9).
Altre ipotesi nelle quali è stato ritenuto operante il meccanismo
oggetto di questo studio, ricavate direttamente da concreti casi sottoposti
a vaglio giurisprudenziale, sono le seguenti:
— sorta controversia nella fase esecutiva di un contratto di appalto,
le parti stipulano una transazione ove prevedono che la valutazione e la
decisione (vincolante) in ordine al calcolo di eventuali maggiori somme
spettanti all’impresa appaltatrice sia presa da un collegio di esperti nominati dalle parti (10);
— sempre in tema di appalto, sorta controversia durante l’esecuzione
del rapporto, in particolare con riferimento al valore dei lavori da eseguire
oggetto di capitolato, le parti incaricano della determinazione di tale
valore un collegio di esperti, con responso per esse vincolante (11);
— nell’ambito di un contratto di cessione di partecipazioni azionarie,
viene pattuito che il calcolo del valore reale di esse (funzionale alla
corresponsione del prezzo contenente l’eventuale plusvalore rispetto al
valore nominale delle azioni) sia effettuato da tecnici di fiducia nominati
dalle parti contraenti, con responso vincolante tra le stesse (12);
— due fratelli, beneficiari, mediante distinti atti di donazione, di tutti
i beni immobili della madre, stipulano un contratto in virtù al quale, al fine
di addivenire ad un’eguale ripartizione dei cespiti (dei quali, par vari
motivi, al momento delle liberalità non era ben noto l’effettivo valore)
(8) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4. Per il tenore di alcune clausole inserite in contratti
di assicurazione, v. infra nel testo.
(9) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4; LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa
Rivista, 1996, 671.
(10) Cass. 24 maggio 2004, n. 9996, in questa Rivista, 2006, 4, 727, con nota di MARULLO
DI CONDOJANNI.
(11) Trib. Piacenza 29 ottobre 2010, in Foro padano 2011, 1, I, 202.
(12) Cass. 30 giugno 2005, n. 13954, in Foro it. 2006, 2, I, 482.
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anche in funzione della corresponsione di un eventuale conguaglio, incaricano un tecnico di stimare il valore dell’asse immobiliare, impegnandosi
a considerare il relativo responso come riconducibile alla propria volontà (13).
Si ritiene inoltre necessario segnalare, ancora ispirandoci alla dottrina
che più ha studiato il fenomeno della perizia (arbitrale) anche prendendo
spunto dal sistema tedesco (14), altri casi normalmente ricondotti alla
fattispecie in esame:
— due soggetti, non legati da alcun rapporto contrattuale, incaricano
un terzo, dotato di specifiche cognizioni tecniche, di accertare (in maniera
vincolante) l’eventuale nesso di causalità tra un sinistro e un danno, con
l’ulteriore compito di determinare il quantum delle conseguenze pregiudizievoli in caso di esito positivo del primo accertamento;
— i contraenti incaricano il terzo-perito di accertare, con responso
per le parti vincolante, se ricorra o meno la giusta causa del recesso
contrattuale;
— i contraenti stabiliscono che un terzo accerti, sempre con responso
vincolante, se vi sia stata violazione di una norma contrattuale ovvero di
legge;
— conferimento al perito del compito di determinare la situazione
patrimoniale di una società, al fine di quantificare il credito del socio
escluso per la liquidazione della quota;
— l’inserimento in alcuni contratti di durata di una clausola, in virtù
della quale le parti s’impegnano a rinegoziare le reciproche prestazioni nel
caso in cui si verifichino eventi che alterino in modo rilevante l’equilibrio
negoziale, con affidamento ad un terzo di effettuare un accertamento
vincolante in ordine alle condizioni di rinegoziazione e alla fissazione del
nuovo contenuto contrattuale (15).
Infine, è stata considerata ipotesi di perizia contrattuale la clausola
con cui viene affidato ad un terzo l’accertamento dello stato di riconsegna
del fondo locato e la liquidazione del dare e dell’avere oltre che degli
eventuali danni (16).
L’elencazione su esposta non può ritenersi tassativa, poiché come si è
(13) Cass. 11 novembre 2008, n. 26946, in Riv. Notariato, 2010, 1, 226, con nota di
CARADONNA.
(14) Per gli esempi a seguire si veda BOVE, La perizia arbitrale, cit., 6 e le citazioni alle
note 10, 11, 12 e 13; LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 671-672, e nota 7. Gli autori
citati, in particolar modo il primo, danno conto dell’importanza del contributo della dottrina
tedesca allo studio del fenomeno della c.d. perizia contrattuale, in seno alla quale è stata
sviluppata la figura dell’arbitratore-perito, come segnalato anche da DIMUNDO, L’arbitraggio. La
perizia contrattuale, in ALPA (coord.), L’arbitrato. Profili sostanziali, Milano, 1999, Volume I,
211.
(15) Cfr. BOVE, La perizia contrattuale, cit., il quale riprende l’esempio da FAZZALARI,
L’arbitrato, Torino, 1997.
(16) ZUDDAS, L’arbitraggio, Napoli, 1992, 218.
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specificato si tratta di casi riscontrati nella prassi dei traffici giuridicocommerciali. Inoltre, si tratta di situazioni nelle quali la sussistenza della
perizia contrattuale è data per certa dalla giurisprudenza o dalla dottrina,
ovvero da entrambe, ma ciò non significa che in tutti gli episodi descritti
ricorra senza ombra di dubbio una perizia. In altre parole, l’obiettivo del
presente scritto è quello di riportare ordine circa la disciplina di un
istituto, sicuramente noto ma ancora non ben delineato nei suoi profili
giuridici. Sicché, volendo razionalizzare e comporre il quadro, potrebbe
alla fine risultare che, alcuna delle fattispecie esemplificative sopra riportate, descrivano una realtà diversa da quella che effettivamente rappresenta la perizia contrattuale.
3. Secondo una parte della dottrina, la perizia contrattuale non gode
di una propria « legittimazione » giuridica autonoma.
Invero, secondo una prima ricostruzione, essa è una particolare forma
di arbitraggio, in quanto interviene allo scopo di colmare una lacuna
contrattuale, ossia a determinare un elemento di un contratto già perfezionato ma, per l’appunto, incompleto. Rispetto all’arbitraggio, per così
dire, tout court, recherebbe con sé la peculiarità della natura necessariamente tecnica dell’accertamento posto alla base della determinazione del
terzo perito-arbitratore (17). Per questa via, pertanto, la perizia costituirebbe un fenomeno di diritto sostanziale. Peraltro, in quest’ottica, la
perizia contrattuale è declinabile in due modi: da un primo punto di vista,
come arbitraggio nel contratto di accertamento ove l’attività del peritoarbitratore ha ad oggetto l’elemento tecnico oggetto di contrasto (delineandosi un contratto di accertamento di un fatto (18)); da altro punto di
vista, come necessario sviluppo, in termini di arbitraggio, del contratto
base, onde il rapporto costituito dal negozio originario non è completo
sino allo svolgimento della perizia (19).
Secondo un’altra tesi, il fenomeno della perizia contrattuale nasce e si
sviluppa essenzialmente in seno ad episodi di vita giuridica nei quali
intercorre una controversia tra soggetti relativa a situazioni giuridiche
soggettive (di guisa che occorre decidere in ordine alla spettanza del bene
della vita e dei contrapposti obblighi), la cui base è rappresentata da un
(17) FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 29; VOLPE PUTZOLU, Assicurazione, clausola arbitrale e
clausola peritale, in questa Rivista, 1996, 623 ss.; in passato tale ricostruzione è stata fatta propria
da ASCARELLI, I c.d. collegi arbitrali per l’accertamento del danno nell’assicurazione infortuni, in
Assicurazioni, 1936, II; SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, Cortona, 1923.
(18) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 14 ss., ove illustra la tesi, nel senso riportato nel
testo, di ASCARELLI, con i relativi richiami in nota. Per quanto riguarda la dottrina tedesca
concorde rispetto a tale ricostruzione, l’Autore citato nel testo dà conto, approfonditamente,
delle tesi di WITTMAN (pp. 88 e ss., con relative note) e di WAGNER (pp. 103 e ss. e note ivi
contenute).
(19) Cfr. la ricostruzione in BOVE, La perizia arbitrale, cit., e i richiami a SCADUTO (pp. 10
e ss.), WEISMANN e KISCH (pp. 42 e ss. e note ivi contenute).
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rapporto giuridico preesistente (non necessariamente contrattuale) e litigioso. In tale contesto verrebbe a configurarsi una peculiare forma di
arbitrato ad oggetto limitato (20), donde la natura processuale, o per
meglio dire arbitrale, della perizia (21).
Secondo altra impostazione, probabilmente maggioritari in dottrina,
la perizia contrattuale altro non è che una particolare forma di arbitrato
ovvero di arbitraggio a seconda che venga posta in essere per dirimere una
controversia in forma negoziale (su una determinata questione tecnica) o
per completare il contenuto di un contratto, bensì perfezionato ma carente
di uno o più elementi rilevanti nell’economia del regolamento d’interessi (22). Da questo punto di vista, la particolare competenza tecnica del
terzo perito non condizionerebbe la natura dell’istituto, anche se la
« scientificità » dell’accertamento serve, in un’ottica definitoria, a distinguere la perizia dall’arbitraggio e dall’arbitrato (23).
Invero, autorevole dottrina (24), ha rilevato che anche nell’ipotesi
dell’arbitraggio (che pure deve essere tenuto ben distinto dall’arbitrato (25), avendo questo funzione di risoluzione di una controversia
riferita ad un rapporto preesistente mediante forme processuali, ed intervenendo quello a completamento di un rapporto contrattuale, cioè nella
fase genetica della sua formazione (26)) è possibile configurare un contrasto che, anche se spesso soltanto economico, configura un conflitto d’interessi. Solo che l’arbitratore non decide (stabilendo chi ha torto e chi ha
ragione rispetto ad una situazione sostanziale), bensì, per così dire, sosti(20) Questa è l’idea, tra gli altri, di LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 669 e ss.;
e di BOVE, La perizia arbitrale, cit., 170 e ss.
(21) Come sostenuto dall’autore che ha dedicato alla perizia contrattuale lo studio più
approfondito, riportato nella sua opera intitolata, per l’appunto, La perizia arbitrale.
(22) Così, tra gli altri, GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009; DIMUNDO,
L’arbitraggio, cit., 215 ss.; ZUDDAS, L’arbitraggio, cit., 217 e ss.; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto
dell’arbitrato (interno), Padova, 1991, 12; BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987,
330 ss; SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, art. 1321-1352, in Comm. cod. civ., a cura di
Scialoja e Branca, Bologna, 1970, 385.
(23) ZUDDAS, L’arbitraggio, cit., 220; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 278 e ss.
(24) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 14-15 e 16.
(25) GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di
composizione delle liti, Milano, 2005, 1152 « la differenza tra arbitrato ed arbitraggio va ricercata
nel contenuto del mandato conferito dalle parti ad uno o più terzi. Mentre, infatti, nell’arbitrato
le parti demandano agli arbitri il compito di risolvere divergenze sorte in ordine ad un rapporto
precostituito in tutti i suoi elementi, mediante l’esplicazione di una funzione giurisdizionale, per
modo che la decisione sia destinata ad acquisire efficacia pari a quella della sentenza del giudice
(arbitrato rituale), oppure mediante la formazione, sul piano negoziale, di un nuovo rapporto
riconducibile esclusivamente alla volontà dei mandanti, senza l’osservanza, per la natura non
contenziosa dell’incarico, delle norme contenute negli artt. 806 ss. c.p.c. (arbitrato irrituale,
cosiddetto libero); nell’arbitraggio, invece, le parti demandano ad altri di determinare, in loro
sostituzione, il contenuto di un contratto già concluso ma non completo, per modo che
l’arbitratore, con la propria attività volitiva ed autonoma, concorre alla integrazione ed alla
formazione del contenuto del negozio stesso », e i richiami a nota 28.
(26) Cfr. FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, in questa Rivista, 1993, 583 ss.; PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 14.
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tuisce le parti nella determinazione di un elemento del regolamento
d’interessi. In tale prospettiva, la perizia contrattuale, costituendo un
meccanismo volto alla composizione di contrasti in ordine a questioni
tecniche, ben può corrispondere allo strumento ex art. 1349 c.c., laddove
il perito debba intervenire in fase genetica; può realizzare un arbitrato
(irrituale, pare d’intendere), allorché l’accertamento tecnico sia richiesto
circa questioni relative ad un rapporto giuridico preesistente e litigioso (27).
4. Non sono mancate opinioni, in dottrina, indirizzate verso la
configurazione della perizia contrattuale come istituto autonomo, degno
di una propria dimensione giuridica, differente da quella dell’arbitraggio e
dell’arbitrato (irrituale).
Il punto centrale di questa differenza, pur considerandosi che la
vincolatività del responso del terzo-perito rende il fenomeno molto vicino
alla fattispecie ex art. 1349 c.c. e all’arbitrato libero, risiederebbe nella
natura e nella qualità dei poteri conferiti al terzo: qui, invero, si avrebbe
un accertamento tecnico, mancante di qualunque determinazione volitiva
e discrezionale, presenti invece in sede di arbitraggio e arbitrato. Insomma, con la perizia il terzo si renderebbe autore di una mera dichiarazione di scienza (28), di una valutazione tecnica priva di qualsiasi arbitrium
ma semplicemente caratterizzata da discrezionalità tecnica, senza la libertà di giudizio di cui gode ad esempio l’arbitratore (29).
Si è segnalato (30) che l’idea della natura « autonoma » della perizia è
assolutamente dominante in giurisprudenza (e ciò — va da sé — si riflette
anche in termini di disciplina giuridica, di cui poi daremo più approfonditamente conto, volendo per ora rimanere, come base di partenza e di
inquadramento del fenomeno, su un terreno tendenzialmente definitorio
dell’istituto).
In realtà, l’approccio ermeneutico della giurisprudenza, il quale senz’altro mostra una tendenza ad isolare l’istituto in questione tanto rispetto
all’arbitraggio quanto rispetto all’arbitrato tout court, non appare sempre
chiaro e univoco.
Un’impostazione minoritaria ha avvicinato notevolmente la perizia
contrattuale alla fattispecie di cui all’art. 1349 c.c., riscontrando però
l’essenza della prima nella natura squisitamente tecnica dell’accertamento
valido ai fini delle determinazione dell’elemento contrattuale. In altre
parole, la perizia contrattuale è strumento di completamento di un contratto, ma si differenzia dall’arbitraggio poiché in questo il terzo svolge la
(27)
(28)
(29)
(30)
PUNZI, Disegno sistematico, cit., 16.
BIAMONTI, voce « Arbitrato », in Enc. del dir., II, Milano, 1958, 955.
CATRICALÀ, voce « Arbitraggio », in Enc. Giur., 1988, 2.
GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, cit., 1160.
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sua attività secondo il criterio dell’equo apprezzamento ovvero del suo
mero arbitrio; mentre in quella il terzo-perito non ricorre né all’uno né
all’altro criterio, dovendo soltanto conformarsi alle regole tecnico-scientifiche del proprio settore di competenza. E ciò si riflette in termini di
disciplina applicabile, restando fuori gioco l’art. 1349 c.c. anche in punto
d’impugnativa del responso del terzo (31).
Invero, sulla base dell’orientamento (tendenzialmente) costante della
giurisprudenza, la perizia contrattuale è mezzo di composizione di un
contrasto ad opera di uno o più terzi scelti dalle parti, e a tale fine il
paradigma strutturale di riferimento è rappresentato dall’arbitrato libero.
La peculiarità della perizia, idonea a distinguerla dall’arbitrato irrituale,
sta nel suo oggetto, quindi nel contenuto dell’accertamento richiesto ai
periti. Qua infatti il contrasto si riferisce ad una questione di fatto di
elevata pregnanza tecnica. Nell’arbitrato (libero) il contrasto invece è
giuridico, in quanto concerne il rapporto (preesistente) nel suo complesso.
In sostanza, in un caso i soggetti, con riferimento ad un rapporto giuridico
tra loro intercorrente ovvero ad una determinata situazione sostanziale,
sono in disaccordo rispetto ad una o più questioni (rilevanti nella fattispecie di alcuno dei diritti in gioco) il cui accertamento (e la cui soluzione)
richiede competenza tecnica; nell’altro caso la lite concerne il rapporto nel
suo complesso. Ma strutturalmente, in ambo i casi, le parti s’ispirano al
medesimo modello contrattuale, ossia ad un mandato a un terzo al fine di
comporre un contrasto e di realizzare un nuovo assetto di interessi di tipo
negoziale. Seguendo questa (prevalente) lettura, si giunge alla conclusione
che l’autonomia della perizia sussiste solo a livello definitorio e concettuale, dal momento che, in termini di disciplina, si seguono le norme
applicabili all’arbitrato irrituale (ad esempio per ciò che riguarda i profili
d’impugnabilità del responso del perito) (32).
5. Il quadro ricostruttivo, benché la figura della perizia contrattuale
(o arbitrale) sia conosciuta da molti secoli (sin dal diritto romano (33)),
appare tutt’altro che unitario. Tuttavia, la perizia come mezzo di composizione di contrasti, ancorché soltanto tecnici, esiste e persiste nei traffici
giuridico-commerciali. Insomma, il fenomeno è atipico ma allo stesso
tempo appare dotato di una non scarsa rilevanza « sociale ».
Ciò puntualizzato, nel tentativo di razionalizzare il quadro e, pertanto, di trovare una collocazione concettuale e una disciplina il più
(31) Cfr., tra le più recenti, Cass. n. 13954 del 2005, cit.
(32) Il concetto di fondo di questa impostazione è chiaramente espresso in Cass. 5
dicembre 2001, n. 15410, in Foro it. 2002, I, 723 (con ulteriori e numerosi richiami giurisprudenziali in motivazione); in senso analogo, più di recente, Cass. 10 maggio 2007, n. 10705, in
Mass. giust. civ. 2007, 5.
(33) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 1.
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possibile unitaria dell’istituto, pare opportuno e utile ripartire, questa
volta in maniera più analitica, da un approccio empirico al fenomeno. Si
tratta cioè di studiarlo per come esso si sviluppa nella prassi delle relazioni
giuridico-commerciali, cercando di capire quali sono le esigenze che
spingono le parti a stipulare una clausola per perizia contrattuale e, quindi,
qual è la ratio di fondo di questa figura. Coniugando poi le conclusioni
raggiunte per questa via con le idee espresse, in particolare, dalla giurisprudenza, si dovrà cercare di tracciare la disciplina giuridica del fenomeno.
Innanzitutto preme segnalare che gran parte dei regolamenti delle
Camere Arbitrali presentano delle clausole-tipo, non solo compromissorie, ma anche per arbitraggio e per perizia contrattuale (34). Confrontando
tali clausole il dato rilevante che emerge è che, allorché la clausola
contiene una pattuizione per un arbitrato (tanto rituale quanto libero),
l’incarico affidato al terzo è finalizzato alla risoluzione di qualsiasi controversia giuridica derivante dal rapporto contrattuale (ivi comprese le liti
circa la validità, esecuzione, risoluzione e interpretazione del contratto);
se, invece, si tratta di una clausola per arbitraggio ex art. 1349 c.c. al terzo
è richiesta la determinazione di un elemento di un certo contratto, con ciò
denotandosi uno stato d’incompletezza del negozio. L’attività dell’arbitratore consente quindi di « ultimare » il regolamento di interessi; quando,
poi, si ha a che fare con una pattuizione per perizia contrattuale, il terzo
è chiamato ad effettuare un accertamento tecnico e/o la valutazione di
determinati elementi di un contratto, o, più dettagliatamente, l’accertamento e/o la valutazione qualitativa e/o quantitativa dello stato dei luoghi,
della consistenza, qualità, condizione di beni (o di cose) riguardanti un
certo contratto (35).
Sembra allora che — tenuta da parte per ora qualunque deduzione in
punto di disciplina applicabile —, nell’ottica insita in tali regolamenti, la
perizia contrattuale rappresenti qualcosa di distinto sia dall’arbitrato sia
dall’arbitraggio.
(34) Cfr. ad esempio i regolamenti delle Camere di Commercio di Bologna, Bolzano,
Cesena, Verona, nonché dell’Istituto Arbitrale Immobiliare di Firenze.
(35) Clausola per perizia contrattuale, peraltro definita « compromissoria », contenuta
nel regolamento della Camera Arbitrale di Bologna:
Le parti sottoscritte convengono di demandare a n. ..........................
(1) l’accertamento e/o la valutazione qualitativa e/o quantitativa dello stato dei luoghi,
della consistenza, qualità, condizione di beni (o di cose) riguardanti il presente contratto (2).
Per quanto riguarda la designazione dei periti, le parti espressamente si obbligano ad
attenersi al regolamento della Camera Arbitrale Immobiliare istituita presso la Camera di
Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna che dichiarano di conoscere e di
accettare.
Le parti si impegnano sin da ora a riconoscere alla determinazione peritale gli stessi effetti
di un contratto tra esse direttamente pattuito.
(1) Precisare se si intende rimettere l’accertamento ad un solo perito o a più periti: in
questa seconda ipotesi il numero dei periti deve essere dispari.
(2) Specificare l’oggetto dell’accertamento e/o della valutazione.
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Invero, essa è prevista in funzione di un accertamento rigorosamente
tecnico (valutazione qualitativa e/o quantitativa) di elementi di fatto
(luoghi, beni o cose) oggetto di un determinato contratto; accertamento
che non è determinazione (nel senso espresso dall’art. 1349 c.c.), giacché
qua il contratto è completo, il rapporto giuridico è perfezionato (e
preesistente), e occorre effettuare una valutazione, vincolante tra le parti,
in fase (almeno) esecutiva. Si noti bene che il contrasto è sulla questione
tecnica, la quale comunque rileva nell’ambito del rapporto giuridico
contrattuale di riferimento, poiché incide sui diritti da esso derivanti.
Pare, peraltro, che le clausole-tipo appena analizzate concepiscano,
come ipotesi per così dire standard di perizia contrattuale, i c.d. arbitrati
sulle qualità (36).
Proseguendo in questo iter empirico, è importante considerare la
niente affatto scarsa diffusione di clausole per perizia contrattuale nell’ambito dei contratti di assicurazione (in particolare, polizze infortuni o
polizze relative a danni cagionati da varie tipologia di sinistri, per es.
incendio). E un punto di partenza fondamentale, in tale prospettiva, è
dato dal rilievo che la quasi totalità delle pronunce giurisprudenziali (di
merito e di legittimità) sono intervenute in casi di controversie relative
all’applicazione di perizie derivanti da clausole contenute proprio in
contratti di assicurazione.
Volendo prendere a modello esemplificativo le condizioni generali
UNIPOL (contratto di assicurazione multirischi dell’abitazione) (37), qui
la perizia contrattuale è prevista nell’ambito della liquidazione dei sinistri
per incendio, furto e rapina. All’art. 2.3, in particolare, è previsto che
« l’ammontare del danno e la determinazione dell’indennizzo può essere
concordato direttamente dalle parti, oppure, di comune accordo tra di esse,
mediante periti nominati uno dalla società e uno dal contraente con apposito atto unico. I periti ne eleggeranno un terzo nel caso in cui non
trovassero l’accordo e le decisioni saranno prese a maggioranza. (...) ».
Successivamente viene specificato il contenuto del mandato conferito ai
periti.
Essi, in particolare, devono: accertare causa, natura e modalità del
sinistro; verificare l’esattezza delle indicazioni e delle dichiarazioni risultanti dalla polizza e stabilire se al momento del sinistro esistevano circostanze aggravanti il rischio non dichiarate nonché verificare se l’assicurato
ha adempiuto agli obblighi di denuncia del sinistro; verificare separatamente, per ciascuna partita colpita da sinistro, l’esistenza, la qualità, la
quantità delle cose assicurate, determinandone il valore al momento del
sinistro secondo i criteri di valutazione previsti dalla forma di assicurazione e dal tipo di garanzia risultanti dalla scheda di polizza; procedere
alla stima del danno secondo i criteri previsti dal tipo di garanzia prescelta.
(36)
(37)
Cfr. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2011, V, 133.
Reperibile in www.unipolassicurazioni.it.
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È inoltre disposto che i risultati delle ultime due attività tecniche
sopra elencate sono vincolanti tra le parti, salva l’impugnativa per violenza, dolo, errore e violazione di patti contrattuali, e impregiudicata in
ogni caso ogni azione ed eccezione inerenti l’indennizzabilità del danno
(ossia concernenti l’an del diritto risarcitorio).
Norme contrattuali come quelle appena analizzate, invero, si ritrovano anche in altre polizze, magari con piccole variazioni in ordine agli
elementi di fatto ad alto tasso di tecnicità sui quali può estendersi l’attività
peritale (38)
Ora, il caso della perizia in ambito assicurativo è emblematico: tra le
parti è operante un contratto, perfezionato e completo in tutti i suoi
elementi; tale contratto costituisce un rapporto giuridico, consistente in
reciproci diritti ed obblighi, i quali rappresentano i tipici effetti giuridici
prodotti dal negozio; tra tali effetti tipici rientra l’obbligo per l’assicuratore di liquidare un danno coperto dalla garanzia ricompresa nella polizza;
sicché, quando interviene un sinistro e s’invoca il diritto al risarcimento, si
è nella fase esecutiva del contratto di assicurazione; in tale contesto, se le
parti non addivengono ad un accordo e occorre accertare alcuni elementi,
di particolare pregnanza tecnica, significa che rispetto ad essi, i quali — è
bene ripeterlo — incidono sull’esistenza e/o modo di essere di situazioni
giuridiche derivanti dal contratto, vi è una controversia.
Dunque pure qua, come nel caso degli arbitrati sulle qualità, l’accertamento tecnico serve a superare un contrasto, rispetto ad una questione
o un elemento rilevante per l’esistenza o il modo di essere di un diritto, che
interviene nella fase di esecuzione di un rapporto giuridico preesistente.
6. Sempre proseguendo con un metodo casistico, pare utile rilevare
che, nei (pochi) casi in cui la Cassazione ha individuato la perizia contrattuale come ipotesi di integrazione (del contenuto) di un contratto, invero
la controversia muoveva da fattispecie negoziali ove al terzo veniva
demandata una valutazione tecnica vincolante che valesse come base per
la determinazione della prestazione contrattuale. Sennonché, almeno dal
tenore dei patti in questione, mancavano espressi riferimenti a perizie
contrattuali. Si chiedeva una valutazione tecnica al fine di stabilire il
contenuto della prestazione (39).
In altre parole, in tali (non frequenti) situazioni era controversa pure
l’individuazione della fattispecie. E la S.C. ha optato per la perizia
contrattuale in luogo dell’arbitraggio, spiegando la differenza, come si è
(38) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4 e 5, il quale riporta le condizioni generali per
le polizze infortuni, danni da incendio e furto del Lloyd Italico, le quali ripetono le condizioni
ANIA.
(39) Si tratta dei casi decisi dalle già citate sentenze di cui a Cass. 30 giugno 2005, n.
13954, cit. e a Cass. 11 novembre 2008, n. 26946, cit.
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già segnalato, in ciò, che nel caso di responsi tecnici non si applica il 1349
c.c. in quanto quest’ultima norma opera laddove al terzo si chieda di
determinare un elemento di un contratto con equo apprezzamento ovvero
con mero arbitrio, criteri inconcepibili in sede di determinazione tecnica.
D’altro canto, come si è cercato in precedenza di dimostrare, la prassi
delle relazioni giuridico-commerciali conosce la perizia contrattuale come
strumento di composizione di contrasti, ancorché esclusivamente tecnici.
Nei casi ove la Suprema Corte ha riscontrato l’operatività di una perizia in
luogo di un arbitraggio, in realtà, ben si poteva immaginare la sussistenza
della fattispecie di cui all’art. 1349 c.c., con la peculiarità che in tali casi
l’accertamento richiesto, pur sempre finalizzato alla determinazione della
prestazione da dedurre nel contratto per completarne il contenuto, si
caratterizzava per un’elevata dose di tecnicità, sicché in sostanza si trattava di incidere sulla disciplina applicabile, adattando alle particolarità
dell’attività peritale il meccanismo dell’arbitraggio con equo apprezzamento e la regolamentazione del regime del relativo responso. Anche la
copiosa dottrina, la quale sostiene la tesi contraria all’autonomia della
perizia (potendo questa integrare un arbitraggio ovvero un arbitrato),
ritiene che nelle ipotesi di accertamento tecnico volto al completamento di
un contratto non ci si trovi dinanzi ad una perizia contrattuale ma ad un
arbitraggio tecnico (40). Del resto, da più parti si è segnalato che il perito
tecnico-arbitratore, pur dovendo attenersi a regole scientifiche, può mantenere un minimo di discrezionalità; e così l’arbitratore, per determinare
l’elemento contrattuale, può dover far ricorso a cognizioni tecniche (41).
Non sembra, dunque, assurdo concepire l’esistenza di un arbitraggio
altamente tecnico, ammettendo al più che tale conformazione si rifletta sul
regime del responso, non potendo questo essere impugnato per iniquità
ma per erroneità (42).
Perizia contrattuale e arbitraggio integrano due fenomeni distinti,
risolvendosi la prima in un’attività di accertamento (tecnico) (43) e caratterizzandosi il secondo per la sua funzione dispositiva; la prima interviene
al posto del giudice in sede di accertamento di una o più questioni relative
ad una certa controversia giuridica, il secondo interviene in luogo dei
contraenti stessi (44).
(40) Cfr. DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 216, ove si esprime in termini di « arbitraggio di
precisione », portando ad esempio il caso del contratto per la costruzione di un’opera (sommariamente descritta), la quale richiede le prestazioni di un esperto a cui viene dato l’incarico di
redigere il progetto, considerato parte integrante dell’accordo.
(41) V. ancora DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 215-216.
(42) DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 216.
(43) L’accertamento vincolante può avere ad oggetto anche soltanto fatti. In questo
senso, con riferimento al negozio di accertamento, si veda l’analitica ricostruzione di FORNACIARI, cit., 336-337 e, sull’accertamento giuridico in generale, 216-218.
(44) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 154-155.
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7. Sulla base della sommaria analisi delle diverse tesi proposte nel
corso degli anni e della (breve) indagine di tipo casistico, pare dunque
potersi affermare che la perizia contrattuale rappresenta un istituto finalizzato a comporre, in maniera vincolante, una controversia tecnica. Inoltre il contrasto si riferisce ad una questione (tendenzialmente di fatto)
rilevante per l’esistenza o il modo di essere di una situazione sostanziale,
sicché l’accertamento è richiesto sempre nel contesto di un rapporto
giuridico preesistente tra i litiganti.
Ora, un siffatto meccanismo, con incarico a soggetti terzi, peraltro
scelti in ragione della loro competenza tecnico-scientifica, della soluzione
di un contrasto (tecnico), evoca senza dubbio lo schema dell’arbitrato. Si
tratta a questo punto di stabilire se il modello di riferimento sia l’arbitrato
rituale di cui agli artt. 806 ss. c.p.c., oppure l’arbitrato irrituale (o libero),
ora disciplinato all’art. 808 ter c.p.c. (45)
Come si è accennato, il diritto vivente, frutto della copiosa e annosa
produzione giurisprudenziale, tende ad accostare il fenomeno della perizia
contrattuale all’arbitrato libero, pur sottolineando la differenza di oggetto
e di contenuto dell’attività del terzo incaricato di risolvere il contrasto (46).
8. Una volta tentato di definire, in maniera auspicabilmente esaustiva,
il profilo concettuale della perizia, avendo quindi ben presenti le difficoltà
(45) Partendo dall’assunto in base al quale nell’arbitrato non ci si deve conformare ad
esigenze di economia processuale come nel processuale statuale, essendo questo uno strumento
a carico dello Stato, al contrario di quello, mezzo legittimato dall’autonomia privata, BOVE, La
perizia contrattuale, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di composizione delle liti, cit.,
giunge alla conclusione, che invero poi risulta il punto di partenza della sua riflessione, che
l’oggetto del giudizio arbitrale può anche essere una questione di fatto (o di diritto). L’A. ritiene
quindi la perizia contrattuale un arbitrato ad oggetto più « piccolo »; in particolare, riconduce
l’istituto all’arbitrato rituale, onde si applicano alla perizia le norme ex artt. 806 ss. c.p.c., fatta
eccezione per quelle la cui operatività suppone un oggetto del processo arbitrale « ampio »
(ossia, un diritto soggettivo disponibile); della medesima idea circa la possibilità di attivare un
giudizio arbitrale chiedendo l’accertamento di una mera questione, riconduce la perizia a
fenomeno arbitrale anche LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 672 ss.; la perizia è istituto
strutturalmente riconducibile all’arbitrato irrituale per CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 23
e 158, ove l’A. rileva la compatibilità dello strumento peritale con un’attività di risoluzione di
una questione non già di fatto, bensì di diritto (si porta l’esempio dei c.d. arbitrati interpretativi).
(46) Arresto di riferimento, in questo senso, è una decisione nella quale la Cassazione si
esprime in questi termini: « la perizia contrattuale, con la quale le parti deferiscono ad uno o più
terzi, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito di formulare un apprezzamento
tecnico che esse si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà negoziale,
si inserisce in una fattispecie negoziale diretta ad eliminare, su basi transattive o conciliative, una
controversia insorta tra le parti, mediante mandato conferito ad un terzo, così come avviene
nell’arbitrato libero, dal quale si differenzia per il diverso oggetto del contrasto, che attiene ad una
questione tecnica, e non giuridica (come nell’arbitrato libero), ma non per gli effetti, dato che in
entrambi il contrasto è superato mediante la creazione di un nuovo assetto di interessi dipendente
dal responso del terzo, che le parti si impegnano preventivamente a rispettare », Cass. 30 marzo
1995, n. 3791, in Rep. giust. civ., 1995, « Compromesso e arbitrato », n. 103; Per arresti
conformi, cfr. GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di
composizione delle liti, cit., 1156, nota 41. La perizia rientra nell’ambito dell’arbitrato irrituale
anche per CURTI, L’arbitrato, Milano, 2006.
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ricostruttive del fenomeno in parola, al fine di tracciare la disciplina
applicabile all’istituto occorre in primo luogo muovere dal diritto vivente,
non senza trascurare, soprattutto con riferimento ad aspetti per così dire
lasciati scoperti, i contributi della dottrina. Mancando una regolamentazione espressa, l’ottica potrebbe essere quella di ordinare le varie questioni rilevanti, così come affrontate in primo luogo dalla giurisprudenza,
secondo una successione logica.
8.1. Il fenomeno oggetto del presente contributo consiste, invero, in
un meccanismo complesso, che origina da un patto tra i soggetti in
conflitto e si esaurisce, salvi eventuali profili d’impugnazione del suo
prodotto, con l’emanazione di un atto da parte dei periti, mediante il quale
essi risolvono il contrasto tecnico. In senso stretto, è quest’ultima determinazione la vera e propria perizia. Tuttavia, il fenomeno deve necessariamente essere studiato nel suo complesso.
L’accordo, mediante il quale le parti stabiliscono che, in caso di
contrasto circa una questione la cui soluzione richiede specifiche competenze tecniche, la determinazione sia assunta da un perito (per così dire
monocratico ovvero collegiale) come diretta espressione della loro volontà, il più delle volte è inserito in una clausola contrattuale. Onde
risultano applicabili, per esempio con riferimento ai profili ermeneutici
della clausola stessa, le norme dettate dal codice civile in materia di
contratti.
Non risulta che sia stato espressamente affrontato il problema della
necessità della forma scritta, la quale peraltro è adesso testualmente
prevista per il patto compromissorio irrituale dall’art. 808 ter, comma 1,
c.p.c.
Un aspetto di sicuro rilievo concerne l’esatta individuazione di una
clausola per perizia contrattuale. Infatti, occorre valutare se la pattuizione
sia volta a conferire al terzo l’incarico di risolvere una controversia
giuridica ovvero una o più questioni tecniche (comunque rilevanti nell’ambito di un rapporto giuridico preesistente). Non sempre a tal fine le
indicazioni risultano chiare, sicché spesso si rivela necessario fare ricorso
alla disciplina che il codice civile detta con riguardo alla interpretazione
del contratto (artt. 1362-1371).
Che vi si giunga direttamente, mercé una chiara e precisa redazione
della clausola, oppure indirettamente, ossia mediante l’ausilio delle regole
di ermeneutica negoziale, il risultato deve essere nel senso che con tale
clausola le parti hanno voluto devolvere al terzo la soluzione di un
problema tecnico, restando escluse tutte le altre questioni rilevanti nel
rapporto giuridico. Così, un patto, per mezzo del quale si deferisce al terzo
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la soluzione dei problemi relativi all’interpretazione, validità ed esecuzione del contratto base, non dà origine ad una perizia ma ad un arbitrato (47).
D’altro canto, allorché le parti pattuiscono che il terzo sia incaricato
soltanto di decidere, mediante un accertamento sostitutivo della loro
volontà, una questione tecnica (ad esempio il quantum di un pregiudizio),
la clausola così predisposta integra, o per meglio dire è alla base di una
perizia contrattuale, onde le ulteriori e diverse questioni concernenti il
diritto (si pensi agli altri profili relativi all’an o al modo di essere del diritto
all’indennizzo) sono sottratte all’attività peritale o comunque rispetto ad
esse il vincolo del responso non si produce.
Non sempre è agevole ricavare, dal tenore di una clausola, l’incarico
di espletare una perizia o un arbitrato, perché può succedere che il patto
concepisca bensì una questione di elevata pregnanza tecnica, ma accanto
a questa contempli anche l’accertamento di profili dai quali può dipendere
la sussistenza del diritto nascente dal rapporto intercorrente tra le
parti (48).
Il contrasto oggetto di clausola per perizia contrattuale e poi risolto
dal perito deve avere ad oggetto una o più questioni tecniche; non è
escluso che vi possa essere contrasto anche in ordine ad altri profili del
rapporto, ma essi, se non sono tecnici e non sono inseriti nella clausola,
possono essere superati mediante ricorso alle vie ordinarie.
Può succedere che le parti conferiscano al terzo la soluzione di una
controversia giuridica ma la contestazione cada solo su una questione
tecnica. In un siffatto caso siamo comunque di fronte ad un arbitrato,
giacché ciò che rileva è l’ambito della decisione, non quello della cognizione.
Pare potersi ritenere che non valga, per il patto peritale, il principio di
autonomia, desumibile dalla prima parte del comma 3 dell’art. 808 c.p.c.,
in tema di clausola compromissoria: la validità di quest’ultima deve essere
valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce.
(47) Cass. 10 maggio 2007, n. 10705, cit.; Cass. n. 13954 del 2005, cit.; occorre aggiungere
che, in assenza di specificazione in favore dell’irritualità, la scelta delle parti dovrà ritenersi
indirizzata all’arbitrato rituale, giacché l’art. 808 ter ha sovvertito il principio sostenuto dalla
giurisprudenza fino alla riforma del 2006, ossia che, in caso di dubbio sul tenore della clausola,
l’arbitrato deve ritenersi irrituale. Per questi profili Cfr., per tutti, BIAVATI, Arbitrato irrituale, in
CARPI (coord.), Arbitrato, Bologna, 2007, 170-171.
(48) Cass. n. 10705 del 2007, cit.: « né appare ravvisabile nella clausola in discorso una
perizia contrattuale, (...), atteso che il complesso delle attività demandate ai periti, con particolare
riferimento al controllo dell’adempimento da parte dell’assicurato o del contraente degli obblighi
previsti nelle condizioni generali di polizza e nelle clausole del contratto, che il collegio era quindi
tenuto ad aver presenti nell’espletamento del mandato, induce ad argomentare che ad esso non
fosse semplicemente richiesto un accertamento circa l’entità del danno denunciato, ma anche un
giudizio sulla sussistenza delle condizioni per la liquidazione di esso ».
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Benché tale principio operi anche rispetto all’arbitrato irrituale (49), è
evidente che, non contemplando la clausola peritale tutte le possibili
controversie derivanti dal contratto (comprese quelle circa la validità e
l’efficacia di quest’ultimo), se viene meno il contratto cade anche il patto
peritale.
È da registrare, in giurisprudenza, un contrasto intorno alla vessatorietà della clausola per perizia contrattuale.
Il c.d. codice del consumo (D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) all’art. 33,
comma 2, stabilisce che, nel contratto tra professionista e consumatore, si
considerano vessatorie, fino a prova contraria (che può essere data dimostrando, ad esempio, la trattativa individuale sulla clausola ex art. 34.
Comma 4), le clausole che hanno per oggetto o per effetto, tra l’altro, di
« sancire a carico del consumatore (...) deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria » (art. 33, comma 2, lett. t) (50).
Per una cospicua parte della giurisprudenza di merito, la clausola per
perizia contrattuale è vessatoria poiché deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria, ma non intesa in senso tecnico, bensì come mera
possibilità di chiedere la tutela dei diritti dinanzi al giudice statuale. La
disciplina a tutela del consumatore deve essere interpretata alla luce degli
scopi prefissati dalla normativa comunitaria di riferimento (51), la quale
assicura al soggetto debole del mercato la possibilità di chiedere giustizia
agli organi statuali, senza che possa vedersi imposto il ricorso a forme
alternative come l’arbitrato (di cui la perizia contrattuale altro non è che
una species). Il nuovo art. 819 ter c.p.c. sembra porre arbitri e giudici in
rapporto di competenza in senso tecnico solo con riguardo alla modalità
rituale, ma la normativa europea, invero, non contempla la competenza, ai
fini della tutela del consumatore, in una tale accezione. Peraltro, la
dichiarazione di nullità della clausola è evitabile laddove venga dimostrata
la specifica trattativa tra le parti (52).
Ancora, la natura vessatoria del patto per perizia contrattuale deve
necessariamente sottostare alla disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c.
Per quanto qui interessa, le due norme, ciascuna al proprio comma 2,
nell’ambito, rispettivamente, delle condizioni generali di contratto e dei
contratti conclusi mediante moduli e formulari, prevedono che non hanno
efficacia, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni
che stabiliscono, tra l’altro, clausole compromissorie o deroghe alla com(49) ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 806, in MENCHINI (coord.), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 51; DE NOVA, Nullità del contratto e arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1991, 404 ss.
(50) Per l’arbitrato irrituale è stata anche data rilevanza alla lett. b), laddove è vessatoria
la clausola che ha per oggetto o per effetto di « escludere o limitare le azioni (...) del
consumatore (...) ». Cfr. sul punto ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 806, cit., 53
(51) In particolare la direttiva CE 93/13 in materia di clausole abusive.
(52) Tra le altre, Trib Mantova 24 settembre 2010, in www.ilcaso.it
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petenza dell’autorità giudiziaria. Ora, dato che la Cassazione (53) ha
riconosciuto la natura di merito dell’exceptio compromissi rituale, ricostruendo l’arbitrato codicistico come fenomeno negoziale al pari dell’arbitrato libero, sarebbe logico desumerne che il comma 2 dell’art 1341 c.c.,
allorché si esprime in termini di « deroga alla competenza dell’autorità
giudiziaria », non si riferisce all’arbitrato rituale come ritenuto precedentemente. Sennonché, di recente, ha cominciato a prendere quota una
lettura dei rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, sulla base dell’impianto normativo predisposto dalla riforma del 2006, che pare avvicinarsi
a quella assestatasi prima della svolta « privatistica » delle Sezioni Unite
del 2000 (54). Invero, nel corso del 2013, sia la Corte costituzionale (55), sia
la Cassazione (56), hanno avuto modo di (ri)affermare la natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale, considerando tale strumento come sostitutivo della giustizia pubblica e idoneo al raggiungimento di un « risultato di
efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale ».
Sicuramente la specifica sottoscrizione, in caso di controversia devoluta ad arbitri, deve investire le « condizioni che sanciscono (...) clausole
compromissorie », ciò valendo sia per l’arbitrato rituale sia per l’arbitrato
irrituale. Inoltre allo stesso regime è sottoposta anche la clausola per
perizia contrattuale, essendo questa istituto assimilabile, ancorché diverso
nei contenuti, all’arbitrato libero (57).
Senza contare che, mediante la predisposizione di una procedura
alternativa alla giurisdizione, la parte affronta costi e oneri, pertanto deve
essere posta in grado di conoscere e di approvare specificamente la
clausola (vessatoria) (58).
Tuttavia, per il Giudice della legittimità, la clausola per perizia
(53) Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss., con nota di RICCI,
La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite; in Corr. giur.,
2001, 51 ss., con note di CONSOLO, RUFFINI e MARINELLI; in Il foro padano, 2002, 34 ss., con nota
di RUBINO SAMMARTANO, Vittoria di tappa - Arbitrato irrituale come processo: un sogno impossibile?; in questa Rivista, 2000, 704 ss., con nota di FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla
natura dell’arbitrato; Ma si veda il nuovo art. 819 ter c.p.c., come riformato dal D.lgs n. 40 del
2006, laddove dispone che « la sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria
competenza in relazione a una convenzione di arbitrato, è impugnabile a norma degli articoli 42
e 43. L’eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve
essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta ». Sul punto Cfr., ex multis,
RUFFINI, Art. 819 ter, in MENCHINI (coord.), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 364
ss.
(54) Sull’orientamento precedente la pronuncia delle Sezioni Unite cfr., per tutti, RUFFINI, cit., 368.
(55) Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223, in Dir. e giust., 2013, 22 luglio, con nota di
VALERINI. Con tale decisione il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
del’art. 819 ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato
e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 c.p.c.
(56) Cass. civ., sez. un., ord. 25 ottobre 2013, n. 24153, in Mass. giust. civ., 2013.
(57) Trib. Nola 2 febbraio 2010, in www.iussit.eu.
(58) Trib. Nola 2 febbraio 2010, cit.
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contrattuale non è vessatoria, in quanto non determina uno squilibrio tra
le parti; né ha carattere compromissorio o comunque derogativo della
competenza giurisdizionale, sicché non soggiace alla disciplina di cui agli
artt. 1341 e 1342 c.c. (59)
8.2. « Tanto l’arbitrato irrituale (o libero), quanto la perizia contrattuale sono caratterizzati dal conferimento agli arbitri o ai periti di un
mandato per una definizione negoziale, che nel primo caso attiene all’intera
controversia, mentre nel secondo caso attiene solo ad un apprezzamento
tecnico. Ne consegue che (...) nella fattispecie [è] applicabile l’art. 1727 c.c.,
per cui il mandatario che rinunzia senza giusta causa al mandato deve
risarcire i danni al mandante » (60).
In questi emblematici termini si è espressa la Suprema Corte —
ribadendo peraltro quanto già ampiamente riportato in ordine al rapporto
tra perizia e arbitrato libero — per descrivere, in poche righe, la figura
contrattuale di riferimento per inquadrare il rapporto tra le parti e i periti
(o gli arbitri).
Lo schema è quindi quello del mandato (61).
Per tutto ciò che attiene al « percorso » mediante il quale i periti
giungono al responso, la prima sede d’individuazione di eventuali regole
procedurali è la clausola. È qui che occorre rilevare possibili indicazioni
circa la nomina dei periti e le regole ai quali essi devono attenersi
nell’espletamento dell’incarico loro conferito (62).
In mancanza di chiare e precise formulazioni, per quanto concerne la
nomina, la Suprema Corte, in particolare a far data dal noto arresto con
il quale è stata propugnata la teoria negoziale anche dell’arbitrato rituale (63) (con conseguenziale avvicinamento delle due figure di arbitrato
dal punto di vista delle norme applicabili), sembra ammettere l’operatività
anche alla perizia contrattuale dell’art. 810, comma 2 c.p.c., il quale, in
caso di inerzia delle parti, consente, a quella di esse interessata, di
presentare istanza di nomina al presidente del tribunale (64).
(59) Cass. 2 febbraio 2006, n. 2277, in Mass. giust. civ. 2006, 2; Cass. 17 dicembre 2010, n.
25643, in questa Rivista, 2010, 4, 687, con nota di BOVE; per la vessatorietà della clausola per
perizia contrattuale cfr. GALATI, « Contratti di assicurazione, perizia contrattuale e clausole
abusive », in I contratti, 5/2007. Per Cass. 5 settembre 1992, n. 10240, in Foro italiano, 1992, I,
3298 ss., non è soggetta alla disciplina ex artt. 1341 e 1342 la clausola compromissoria per
arbitrato irrituale.
(60) Cass. 24 maggio 2004, n. 9996, cit.
(61) Per una trattazione più approfondita circa il rapporto parti-arbitri si rimanda a
CECCHELLA, L’arbitrato, cit., passim.
(62) Così, ad esempio, i paciscenti possono stabilire che il terzo sia designato dal
presidente del tribunale, salvo il rispetto da parte di quest’ultimo dei requisiti previsti nel patto
per la scelta del perito, pena l’invalidità della perizia. Cfr. in questo senso Cass., sez. III, 14
marzo 2013, n. 6554, in Mass. giust. civ., 2013.
(63) Cass. Sez. Un. 527 del 2000, cit.
(64) Cass. 13 aprile 1999, n. 3609, la quale afferma in via diretta che in punto di nomina
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La riconducibilità strutturale della perizia all’arbitrato libero, a sua
volta avvicinato, come poco sopra rilevato, all’arbitrato rituale, ha portato
la Cassazione a ritenere applicabile al fenomeno peritale gli artt. 2943,
comma 4 e 2945, comma 4. Dunque l’atto mediante il quale viene
manifestata l’intenzione di avviare la procedura peritale e viene nominato
il perito è idoneo a interrompere, anche permanentemente, il termine di
prescrizione del diritto (65).
Più di recente la giurisprudenza ha affermato che, rendendo il patto
peritale improponibile qualunque domanda avente ad oggetto diritti derivanti dal rapporto preesistente, la prescrizione rimane sospesa sino
all’esaurimento dell’attività peritale, dovendosi comunque denunciare il
sinistro (in ipotesi di contratto di assicurazione) entro un anno dall’evento
dannoso (66).
In breve, circa la differenza tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale,
il discorso di fondo è che i due strumenti si distinguono, soprattutto,
perché con il secondo si vuole giungere, senza tutte le formalità di
procedura prevista dal codice di rito, ad un lodo avente efficacia contrattuale, anziché produttivo di effetti equipollenti a quelli della sentenza e
sottoposto ad un peculiare regime d’impugnativa. Ad ogni modo, pare che
requisito imprescindibile dell’arbitrato libero sia il rispetto del principio
del contraddittorio (67).
Analogo rilievo sembra potersi avanzare anche con riferimento alla
perizia contrattuale, essendo questa finalizzata a comporre un contrasto,
ancorché soltanto tecnico, ma pur sempre rilevante nell’ambito dello
svolgimento di un rapporto giuridico (68).
Ovviamente, all’atto della decisione le uniche regole che i periti
dovranno rispettare sono quelle proprie del settore tecnico-scientifico la
cui conoscenza è necessaria per la soluzione del contrasto.
Non pare azzardato affermare che altre regole di disciplina possono
essere, per così dire, prese in prestito, nei limiti della compatibilità, dal
sistema normativo, anche come ricostruito in via interpretativa, delle
figure negoziali di riferimento: l’arbitrato irrituale e il mandato.
8.3. La perizia contrattuale deve necessariamente produrre due efdei periti non si applica l’art. 810, comma 1, giacché la notifica a mezzo di ufficiale giudiziario
dell’atto contenente la nomina degli arbitri è prevista solo per l’arbitrato rituale, vigendo a
favore alle parti, che abbiano optato per un arbitrato irrituale, ampia libertà negoziale, sicché
tale disposizione è niente affatto inderogabile. Per un ricostruzione critica della giurisprudenza
sulle norme previste per l’arbitrato rituale e ritenute applicabili ovvero non applicabili all’arbitrato libero, Cfr. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., 98 e, soprattutto, 136 ss.
(65) Cass. 5 dicembre 2001, n. 15410, in Foro it. 2002, I, 723
(66) Cass. 13 marzo 2012, 3961, in Mass. giust. civ. 2012, 3, 329.
(67) V. per tutti FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, cit. 583 ss.
(68) Per la giurisprudenza il mancato rispetto del contraddittorio rileva, invero, solo se
determina un’ipotesi di invalidità, ossia se produce un vizio del consenso. V. infra 8.4
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fetti: vincolare le parti in ordine all’accertamento tecnico; evitare che
sull’elemento oggetto di perizia intervenga il potere cognitivo della giurisdizione.
La fattispecie è costruita, come si è ribadito più volte, secondo un
meccanismo mediante il quale le parti incaricano i periti di accertare, con
un responso che esse considerano sostitutivo della propria volontà, una o
più determinate questioni tecniche controverse. Il vincolo sta tutto qui:
mediante un atto negoziale, le parti legittimano l’espletamento di un
accertamento effettuato da terzi ma comunque riconducibile alla loro
volontà. La giurisprudenza costantemente si esprime in termini di « accertamento sostitutivo della volontà delle parti » (69).
In ordine al secondo effetto, occorre premettere che, in teoria, ben
può non essere necessario porsi il problema di un eventuale effetto
impediente della perizia nei confronti della giurisdizione. Infatti, essa può
muovere dal presupposto che il contrasto abbia ad oggetto solo la questione tecnica dedotta nel patto, sicché, una volta risolta questa con la via
peritale, il rapporto giuridico può ben proseguire lungo i binari di una
fisiologica relazione di diritto sostanziale.
Evidentemente il problema si pone quando il conflitto nasce (ovvero
si estende) relativamente agli altri elementi della fattispecie costituente il
rapporto giuridico, così da generare una vera e propria controversia
giuridica. Questa, laddove non sia previsto un arbitrato, deve essere risolta
dall’autorità giudiziaria, la quale, per accordare la tutela richiesta, dovrà
svolgere la cognizione sulla fattispecie costitutiva della situazione sostanziale. Nell’ambito di questa rileva anche la questione tecnica dedotta nel
patto per perizia contrattuale.
Ora, se già si è esaurita la procedura peritale, il giudice non può far
altro che prendere atto dell’esistenza, sul punto, di un atto negoziale (70).
(69) In ordine alla possibilità di effettuare un accertamento di fatto per via negoziale, si
veda la nota 43. L’A. citato, in particolare alle pagg. 322-326, afferma che la perizia contrattuale
si differenzia dall’arbitrato irrituale poiché essa dà luogo ad un accertamento di fatti, mentre
l’altro conduce ad un accertamento di situazioni giuridiche soggettive. Entrambi gli strumenti,
peraltro, si differenziano dall’arbitraggio, il quale consiste in un’attività determinativa a carattere innovativo, estranea all’accertamento.
(70) Nell’ambito di una controversia giuridica, laddove essa sia oggetto di processo
dinanzi all’autorità giurisdizionale, può essere che sorga la necessità di effettuare degli accertamenti tecnici. In tal caso l’attività del CTU non vincola affatto il giudice, il quale può,
congruamente motivando, discostarsi dalle risultanze peritali (iudex peritus peritorum). Viceversa, nel caso della perizia contrattuale, l’accertamento tecnico è il prodotto di un’attività
svolta sul piano dell’autonomia privata e finalizzata a realizzare un nuovo assetto d’interessi di
tipo negoziale. Le parti conferiscono ai periti l’incarico di dare un responso che esse stesse
considerano vincolante, dunque si realizza una fattispecie negoziale che il giudice non può far
altro che, per così dire, recepire (salvo ogni profilo relativo alla validità/efficacia della perizia).
È evidente che un siffatto meccanismo è estraneo alla CTU. Rilievi analoghi devono valere
anche per il caso della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., ove il vincolo per le
parti (e, quindi, per il giudice) nasce, invero, nel momento in cui in sede peritale è raggiunta la
conciliazione.
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Se invece, nella fase processuale dinanzi al giudice, la perizia non è
ancora stata attivata ovvero è in fase di svolgimento, evidentemente
all’autorità è sottratto il potere di decidere in ordine al diritto oggetto di
giudizio senza prima aver atteso il responso peritale.
Sul punto il quadro in giurisprudenza non appare molto chiaro.
Invero, l’idea di fondo è che la previsione della perizia per l’accertamento
tecnico comporta una temporanea rinuncia alla tutela giurisdizionale dei
diritti nascenti dal contratto-base, sicché la domanda giudiziale risulta
improponibile sino alla definizione dell’attività peritale. Solo che, secondo
una prima ricostruzione, tale improponibilità coinvolgerebbe qualsivoglia
domanda relativa a diritti contrattuali, non assumendo pertanto alcun
rilevo la qualificazione della domanda giudiziale eventualmente proposta (71); viceversa, per un orientamento sviluppatosi nella Cassazione più
recente, non sarebbero precluse azioni giurisdizionali finalizzate all’accertamento di questioni preliminari di merito (validità del contratto, operatività della garanzia assicurativa, e così via), incidenti quindi sull’an del
diritto contrattuale (72).
Anche nella giurisprudenza di merito si nota un certo contrasto,
tuttavia in questo ambito sembra prevalere l’idea secondo la quale non
sarebbero affatto precluse, in mancanza o nel corso del procedimento
peritale, domande vertenti su questioni estranee alla clausola che istituisce
la perizia, ossia su questioni (quali quella sull’an del diritto) che si
pongono come preliminari rispetto alla questione di fatto oggetto di
perizia (ad esempio, il quantum) (73).
Secondo la giurisprudenza più recente della Suprema Corte, con
particolare riguardo ai contratti di assicurazione, la clausola per perizia
contrattuale inibisce tutte le azioni derivanti dal contratto, salvo che venga
contestata l’operatività della garanzia. Attivato peraltro un processo giurisdizionale sul diritto, la presenza della clausola deve essere fatta valere
mediante un’eccezione di merito in senso stretto, essendo per tale profilo
la perizia contrattuale equiparata all’arbitrato irrituale (74).
Tentando di voler concludere sul punto, il rilievo da ultimo riportato
può essere proiettato su un piano più generale: evidentemente occorre
valutare il punto di contrasto tra le parti; la controversia può essere
soltanto tecnica (ossia sull’elemento oggetto di patto peritale) oppure
coinvolgere anche altre questioni, ponendosi come vera e propria contro-
(71) Per tutte, Cass. 22 maggio 2007, n. 11876, in Resp. civ. e prev., 2007, 11, 2438.
(72) Cass. 18 gennaio 2011, n. 1081, cit.
(73) Trib. Bari 18 novembre 2008, in giurisprudenzabarese.it 2008; Trib. Lucca 12
febbraio 2001.
(74) Cass. 13 marzo 2012, 3961, cit.
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versia giuridica la cui soluzione richiede la cognizione (anche) dell’elemento oggetto di perizia, ed allora la domanda giudiziale, mutuando la
terminologia giurisprudenziale, è provvisoriamente improponibile; il contrasto, viceversa, può riguardare altri profili (del rapporto preesistente), il
giudizio sui quali può non richiedere affatto una cognizione dell’elemento
dedotto nella clausola peritale, onde in tal caso la domanda giudiziale
risulta proponibile.
Così, se nella fase esecutiva di un contratto a prestazioni corrispettive,
nel quale è inserita una clausola peritale volta a deferire al terzo l’accertamento della corrispondenza del bene consegnato alla qualità promessa,
una parte risulta totalmente inadempiente, evidentemente non si crea
l’occasione per l’espletamento della perizia, pertanto diviene pienamente
esperibile dinanzi all’autorità giudiziaria la domanda di risoluzione.
Lo si è già rilevato, ma occorre ribadire quanto segue: nell’ambito di
un determinato rapporto giuridico (il più delle volte) contrattuale, con
effetti e sviluppi di notevole pregnanza tecnica, è ben possibile che le parti
ricorrano ad un patto peritale, magari ritenendo che solo sull’elemento
tecnico possa sorgere un contrasto (75). Con ciò esse tendono ad una
soluzione del conflitto più rapida e più affidabile. Non si può escludere,
però, che la controversia si estenda agli altri aspetti del rapporto, insomma
che si presenti come vera e propria controversia giuridica. Il vincolo
derivante dal patto peritale resta fermo, ma si pone il problema, affrontato
come si è testé riportato dalla giurisprudenza, di un eventuale impedimento all’esperibilità di una domanda al giudice statuale (76).
8.4. La perizia contrattuale è un fenomeno arbitrale (irrituale) (77).
L’arbitrato irrituale può essere ritenuto, come l’arbitrato rituale, un
istituto di matrice processuale, solo che, a differenza del secondo, il primo
conduce ad un atto avente gli effetti e il regime di un contratto.
Sicché la perizia contrattuale è un arbitrato irrituale « ristretto »,
giacché il suo oggetto è costituito da una o più questioni (normalmente di
(75) Invero, quando il contrasto concerne solo la questione tecnica, non si può escludere
che il patto peritale venga stipulato successivamente, senza essere contenuto in una specifica
clausola contrattuale.
(76) Da segnalare la tesi di BOVE, La perizia arbitrale, cit., 195 ss., secondo la quale,
esperita domanda giudiziale, laddove il giudice accerti l’impedimento alla trattazione della
questione tecnica in quanto oggetto di patto per perizia contrattuale (non espletata ovvero in
fase di svolgimento), il provvedimento da adottare è l’ordinanza di sospensione (propria) di cui
all’art. 295 c.p.c.
(77) Sulla processualità dell’arbitrato irrituale FAZZALARI, L’arbitrato, cit.; BIAVATI, Arbitratrato irrituale, cit., 164 ss., alla luce del nuovo art. 808 ter c.p.c., è ancora più evidente la
processualità dell’arbitrato libero per SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa Rivista,
2007; contra BOVE, Art. 808 ter, cit.
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fatto) di elevata pregnanza tecnica. Non può essere un arbitrato rituale,
perché questo sfocia in un atto equipollente alla sentenza del giudice
statuale (78).
La Suprema Corte rileva che il perito, il quale per giungere al
responso deve necessariamente utilizzare le proprie specifiche competenze, esprime una dichiarazione di scienza, non godendo di discrezionalità alcuna (79).
Il risultato finale è equiparabile a quello che si ottiene mediante un
arbitrato a modalità irrituale: un atto che risolve un contrasto con la stessa
efficacia di un contratto; un nuovo assetto di interessi di tipo negoziale.
Come tale, il responso del terzo e, quindi, il negozio giuridico che si
viene a realizzare deve contenere i requisiti essenziali del contratto.
In un caso specifico, la Cassazione ha affermato che anche alla perizia
contrattuale si applica l’art. 1346 c.c., ai sensi del quale l’oggetto del
contratto, oltre che lecito e possibile, deve essere determinato o determinabile. In particolare, secondo la S.C. « la disposizione dell’art. 1346 cod.
civ. pone, infatti, una regola di diritto sicuramente applicabile, benché
riferita espressamente solo ai contratti, anche agli atti unilaterali (art. 1324
cod. civ.) ed alla perizia contrattuale, che, come, più in generale, il parere
reso dagli arbitri (nell’arbitrato libero), non avendo il contenuto decisorio
che è proprio del lodo reso nell’arbitrato rituale, agisce (...) nella sfera e con
effetti di diritto privato per procedere, in forza dei poteri conferiti dal
mandato, ad un regolamento di interessi altrui sul tema in conflitto e per
ricollegare alla volontà delle parti il regolamento da essi deliberato con
natura ed efficacia di carattere negoziale » (80).
Contro il responso del perito sono esperibili i tipici rimedi spendibili
avverso gli atti negoziali. È esclusa in radice l’applicazione del regime del
lodo rituale, ossia l’impugnazione ai sensi degli artt. 827 e ss. c.p.c.
Valgono quindi, anche nei confronti della perizia contrattuale, le
cause di nullità (artt. 1418 e ss. c.c.) e di annullabilità (artt. 1425 e ss. c.c.).
Con riferimento alle prime, si può, a mero titolo esemplificativo,
pensare al caso giurisprudenziale poco sopra riportato: una perizia ad
oggetto indeterminato ovvero indeterminabile.
Per quanto riguarda i motivi di annullabilità, la giurisprudenza segue
le medesime linee direttive tracciate, in parte qua, in relazione all’arbitrato
irrituale (81). Dunque la perizia è annullabile per errore (del perito) se
questo, ex art. 1428 c.c., è essenziale e riconoscibile e cade su uno degli
(78) L’art. 824 bis c.p.c. stabilisce che il lodo ha « gli effetti della sentenza pronunciata
dall’autorità giudiziaria ». Cfr. CECCHELLA, L’arbitrato, cit.
(79) Cass. n. 15410 del 2001, cit.
(80) Cass. 12 maggio 2005, n. 10023, in Mass. giust. civ. 2005, 5.
(81) V. TARZIA, Nullità e annullamento di lodo arbitrale irrituale, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 1991, 451 ss.
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elementi, di cui all’art. 1429 c.c., che le parti abbiano prospettato al terzo.
Ciò accade quando l’errore incide sul processo di formazione della volontà
del perito, nel senso che egli « subisce » un’alterata percezione o una falsa
rappresentazione della realtà, omettendo di considerare alcuni elementi
rilevanti, supponendone altri inesistenti, o ritenendo pacifici fatti contestati e viceversa. Rimane esclusa, ai fini dell’annullamento, la possibilità di
far valere errori di giudizio o di interpretazione giuridica. Gli eventuali
errores in procedendo o in iudicando, che pure si traducano nella violazione del principio del contraddittorio, rilevano in quanto integrino un’ipotesi di invalidità, determinando un vizio del consenso o di risoluzione (82)
Ovviamente la perizia è impugnabile anche per dolo o violenza (83)
Va inoltre considerato, con particolare riguardo ai contratti di assicurazione, che le polizze spesso prevedono l’impugnazione della perizia
per « errore, violenza, dolo, eccesso di mandato e violazione delle condizioni delle norme e i limiti delle condizioni di polizza », cioè mediante il
ricorso alle tipiche azioni di annullamento e di risoluzione per inadempimento predisposte per i contratti (84).
9. Probabilmente la giurisprudenza tende ad accostare, almeno per
ciò che attiene agli effetti e al regime dell’atto finale, la perizia contrattuale all’arbitrato irrituale (o libero) poiché ha sempre ricondotto quest’ultimo all’ambito dei mezzi di soluzione delle controversie di natura
negoziale. L’idea di fondo è sempre stata quella del mandato a un terzo
per definire — su basi transattive, conciliative oppure attingendo al
paradigma del negozio di accertamento — la lite, mediante un atto
direttamente riconducibile alla volontà delle parti. Per contro, l’arbitrato
rituale così come modellato dal codice di rito è sempre stato considerato
strumento di decisione delle controversie perfettamente alternativo alla
giurisdizione, per mezzo del quale i litiganti puntano ad ottenere un atto
idoneo, mediante decreto pretorile, ad acquisire i crismi della sentenza
giurisdizionale.
In seguito le Sezioni Unite hanno affermato la natura negoziale anche
dell’arbitrato rituale, costruendo la relativa exceptio compromissi come
eccezione di merito (85). Ma si è trattata, al più, di (tendenziale) opera di
avvicinamento dell’arbitrato rituale all’arbitrato libero, e non viceversa,
onde l’impostazione di fondo circa la modalità irrituale è rimasta intatta.
In breve, fino alla riforma dell’arbitrato operata dal D.lgs. 2 febbraio
2006, n. 40, la giurisprudenza si è mostrata ferma nel distinguere arbitrato
(82)
(83)
(84)
(85)
Cass.
Cass.
Cass.
Cass.
16 marzo 2005, 5678, in Mass. giust. civ., 2005, 4.
n. 13954 del 2005, cit.
27 settembre 2002, in Dir. e prat. delle soc., 2003, 17, 85.
Sez. Un. n. 527 del 2000, cit.
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rituale e irrituale in ciò, che con il primo le parti in lite vogliono la
soluzione della controversia mediante un processo (privato) che sfoci in
un atto idoneo ad assumere i connotati di una sentenza; con il secondo le
parti demandano all’arbitro una composizione del contrasto per mezzo di
un atto riconducibile direttamente alla loro volontà. Quest’ultimo modello, nell’ottica della giurisprudenza, ha ispirato anche la prassi delle
perizie contrattuali.
Sennonché la riforma del 2006 ha profondamente inciso sulla disciplina dell’arbitrato. In particolare, per quanto rileva ai fini del presente
scritto, la novità più consistente concerne l’arbitrato irrituale. Esso infatti
è stato finalmente previsto e disciplinato espressamente (laddove la sua
costruzione storica, soprattutto in termini di arbitrato « libero », va giustificata proprio in ragione dell’assenza di una organica regolamentazione
giuridica).
Il nuovo art. 808 ter, comma 1, stabilisce infatti che « le parti possono,
con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto
previsto dall’art. 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante
determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del
presente titolo ». È ancora più interessante il disposto del comma 2, il
quale dispone che « il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del libro I: 1) se la convenzione d’arbitrato è
invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai
suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento
arbitrale; 2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi
stabiliti dalla convenzione arbitrale; 3) se il lodo è stato pronunciato da chi
non poteva essere nominato arbitro a norma dell’articolo 812 c.p.c.; 4) se
gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come
condizione di validità del lodo; 5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Al lodo contrattuale non
si applica l’art. 825.
Come si è segnalato, prima dell’espresso riconoscimento normativo
dell’arbitrato a modalità irrituale, il regime del lodo libero era quello
tipico del contratto, sottoposto pertanto alle impugnative negoziali.
In assenza di riscontri giurisprudenziali, si pone il problema di capire
se i motivi d’impugnazione del lodo ex art. 808 ter siano tassativi o
meno (86).
Avendo la giurisprudenza ante riforma, in punto di impugnabilità
(86) Per BOVE, Art. 808 ter, cit., 95-96 nulla impedisce di adottare un’interpretazione
permissiva; favorevole alla tassatività dei motivi di annullabilità la dottrina maggioritaria, salvo
aggiungere, in alcuni casi, la necessita di estendere i motivi d’impugnazione almeno al dolo
dell’arbitro e al travisamento del fatto (Cfr. BIAVATI, Arbitrato irrituale, cit., 1174-1175); per
SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, cit., l’art. 808 ter porta ad escludere la possibilità di
impugnare il lodo libero per motivi di nullità e per altri motivi di annullabilità, onde l’elenco è
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della perizia, ritenuto applicabile il regime vigente per il lodo irrituale, in
quanto soggetto alla disciplina dei contratti, il vero nodo da sciogliere è se
adesso anche la perizia contrattuale sia annullabile per i motivi di cui
all’art. 808 ter.
Invero, pur riconoscendo l’opportunità di un’approfondita indagine in
materia, si potrebbe ritenere che nulla ostacoli una lettura in chiave
positiva, che tenga eventualmente conto delle peculiarità “oggettivostrutturali” della perizia. Tuttavia, avendo ben presente l’origine « pratica » della perizia contrattuale e la sua ricostruzione ad opera dei contributi degli studiosi e dei numerosi interventi giurisprudenziali, sembra
prudente attendere che si sviluppi, sul punto, un diritto vivente.
10. Tracciare una ricostruzione analitica e sistematica della disciplina applicabile alla perizia contrattuale è operazione niente affatto
semplice, non fosse altro perché risulta già poco agevole dare un inquadramento di partenza al fenomeno in parola.
Con il presente contributo si è cercato principalmente di « collocare »
l’istituto della perizia a livello sistematico; si è preferito poi, dopo aver
« fotografato » la fattispecie, dar conto della disciplina applicabile mantenendosi su un piano il più possibile obiettivo, e cioè proponendo una sorta
di rassegna dei diversi profili di regolamentazione affrontati dalla giurisprudenza.
Prima di concludere si ritiene necessaria una precisazione terminologica. La dottrina che più approfonditamente ha studiato il fenomeno ha
utilizzato l’espressione « perizia arbitrale ». In questo scritto si è ritenuta
fondata la ricostruzione dell’istituto come mezzo di composizione di un
contrasto (tecnico) omologabile all’arbitrato (irrituale), in linea con la
giurisprudenza prevalente. Si potrebbe essere tentati, dunque, di proporre
pure in questa sede il nomen di perizia arbitrale.
Sennonché, ritenendo che il paradigma di riferimento sia l’arbitrato
irrituale, e considerando che la riforma del 2006 qualifica il lodo ex art. 808
ter in termini di « determinazione contrattuale », non pare illogico confermare la denominazione più diffusa di « perizia contrattuale ».
In this article, the Author reconstructs and analyze the institutional practice of
“perizia contrattuale”. It consists in a mechanism through which two subjects
commission one or more third parties with specific technical-scientific skills — so
called “periti,” field-experts — to verify a relevant technical matter in a legal
relationship or a controversy. The verification is considered binding by the parties
involved, who consider it a result of their own deliberating will.
tassativo ma, anche prendendo spunto dalle vicende che, in parte qua, hanno coinvolto il lodo
rituale, non si può escludere l’impugnazione del lodo irrituale per contrarietà all’ordine
pubblico.
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After a description of the main differences between “perizia contrattuale” and
arbitration, the Author compares “perizia contrattuale” to arbitration by making
reference to the legal doctrine that has produced most in-depth studies of the
phenomenon, and to recurring trends in court decisions.
Taking court decisions as a departure point, the Author will then draw
structural comparisons between perizia contrattuale and arbitration; the two structures differ only with regards to the object of verification.
By putting together the insights derived from the evolution of court decisions,
the Author will sketch the regulation of the phenomenon in question. The paper will
conclude with a presentation of the potentially problematic questions posed by the
arbitration reform of 2006, and the anticipation of a rule with regards to irritual
arbitration, particularly with reference to the contenstation of “lodo”.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 luglio 2013, n. 223; GALLO Pres.; MAZZELLA
Est.; A.R. c. R.I. S.r.l.
Giudizio arbitrale - Rapporto con il giudizio ordinario - Translatio iudicii Esclusione - Art. 819 ter c.p.c. - Incostituzionalità.
È incostituzionale l’art. 819 ter, secondo comma, del codice di procedura civile,
nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole
corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Con ordinanza emessa il 13 novembre 2012 in
Bologna nel corso di un arbitrato rituale tra F.F. e la E.C. s.r.l. ed iscritta al n. 38
del registro ordinanze dell’anno 2013, l’arbitro ha sollevato, in riferimento agli
articoli 3, 24 e 11 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in
cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applichino regole
corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile.
Il rimettente afferma che, con atto di citazione notificato il 4 marzo 2011 alla
E.C. s.r.l., il socio F.F. aveva convenuto in giudizio la predetta società davanti al
Tribunale ordinario di Bologna, impugnando la delibera assembleare del 6 dicembre 2010, trascritta in pari data nel libro delle decisioni dei soci. Con sentenza del
13 dicembre 2011, detto Tribunale aveva dichiarato la propria incompetenza in
ragione della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società che
rimetteva alla decisione dell’arbitro unico, tra l’altro, le controversie relative alle
deliberazioni sociali concernenti interessi individuali dei soci.
L’arbitro aggiunge che F.F., con ricorso depositato nella cancelleria del
Tribunale ordinario di Bologna il 10 febbraio 2012, aveva proposto domanda per
la nomina dell’arbitro. Nel corso del successivo procedimento davanti all’arbitro
unico designato dal Presidente del Tribunale, la E.C. s.r.l. aveva eccepito in via
preliminare la decadenza della controparte dall’impugnazione della delibera assembleare per decorrenza del termine di novanta giorni stabilito dall’art. 2479-ter
del codice civile.
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L’arbitro a quo sostiene che, ove non fossero fatti salvi gli effetti sostanziali
e processuali della domanda formulata nell’atto di citazione davanti al Tribunale
di Bologna, si determinerebbe inevitabilmente una pronuncia di decadenza dall’azione proposta, mediante il ricorso per la nomina dell’arbitro, solamente in data
10 febbraio 2012, quando era ormai scaduto il termine stabilito dall’art. 2479-ter
del codice civile. Ma a tale salvezza si oppone l’art. 819-ter, secondo comma, cod.
proc. civ., il quale stabilisce che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica,
tra l’altro, l’art. 50 del cod. proc. Civ., in virtù del quale, quando la riassunzione
davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato, il processo
continua e pertanto, al fine di verificare l’ammissibilità della domanda in relazione
ai termini di decadenza cui essa sia eventualmente sottoposta, occorre far riferimento all’originario atto introduttivo della lite.
Ad avviso del rimettente, così disponendo l’art. 819-ter, secondo comma, cod.
proc. civ., si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., perché irragionevolmente ed in plateale disarmonia con la vigente disciplina codicistica che regola i
rapporti tra i giudici ordinari e tra questi ultimi e quelli speciali, violando il diritto
di difesa delle parti e i principi del giusto processo, determina, in caso di pronuncia
di diniego della competenza del giudice ordinario adito in favore dell’arbitro,
l’impossibilità, nel giudizio arbitrale successivamente instaurato, di far salvi gli
effetti sostanziali e processuali della domanda, proposta davanti al giudice ordinario. Secondo il rimettente, la reciproca estraneità fra giudizio statuale ed
arbitrato non può giustificare, in caso di passaggio dall’uno all’altro, la mancata
conservazione degli effetti dell’atto introduttivo, prevista invece nei rapporti tra il
giudice ordinario e quello amministrativo, in forza delle pronunce della Corte di
cassazione e della Corte costituzionale.
Al riguardo, l’arbitro a quo richiama la sentenza delle sezioni unite della
Corte di cassazione n. 4109 del 2007, la quale, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, ha ritenuto che nell’ordinamento
processuale sia stato dato ingresso al principio della translatio iudicii dal giudice
ordinario al giudice speciale e, viceversa, anche in caso di pronuncia resa sulla
«giurisdizione» .
Il rimettente aggiunge che, successivamente, questa Corte, con sentenza n. 77
del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6
dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella
parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla
domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di
declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di
giurisdizione, evidenziando, nella motivazione, come il vigente codice di procedura civile, nel regolare questioni di rito — ed in particolare nella disciplina
relativa all’individuazione del giudice competente — si ispira al principio per cui
le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior
qualità della decisione di merito, senza che sia possibile sacrificare il diritto delle
parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al «bene della
vita» oggetto della loro contesa.
L’arbitro a quo ricorda, poi, come il legislatore, preso atto dei descritti arresti
giurisprudenziali, sia intervenuto a regolare i rapporti tra giudici appartenenti a
diverse giurisdizioni, prima con l’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in
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materia di processo civile), e poi con l’art. 11 del decreto legislativo 2 luglio 2010,
n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega
al governo per il riordino del processo amministrativo), norme in forza delle quali
oggi, nel caso in cui il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, se il
processo sia tempestivamente riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, «sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda» .
Il rimettente afferma anche che, pur volendo riconoscere la persistente
problematicità dell’esatta qualificazione dei rapporti fra la giurisdizione ordinaria
e quella arbitrale, occorre considerare che questa Corte, nella sentenza n. 376 del
2001, ha chiarito che il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge
davanti agli organi statuali della giurisdizione, essendo potenzialmente fungibile
con quello degli organi giurisdizionali.
Inoltre, con la riforma della disciplina dell’arbitrato introdotta dal decreto
legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia
di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma
dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), i rapporti tra arbitro
e giudice ordinario sono stati inequivocabilmente ricondotti nell’ambito della
«competenza», come riconosciuto dalla successiva giurisprudenza di legittimità.
Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui
prevede che non si applichi l’art. 50 c.p.c. nei rapporti tra arbitrato e processo,
comportando la mancata conservazione degli effetti dell’atto introduttivo in caso
di riassunzione del processo nel termine di legge, contrasterebbe con il carattere
della fungibilità della giurisdizione del giudice statale con quella dell’arbitro.
Infatti, ad avviso del rimettente, pur volendo qualificare il compromesso come atto
di rinuncia alla giurisdizione statale, non sarebbe possibile individuare la razionalità di un assetto normativo che, a fronte della medesima domanda giudiziale
svolta originariamente innanzi ad un giudice ordinario, faccia conseguire la perdita
irrimediabile degli effetti sostanziali e processuali derivanti dalla domanda nel
caso in cui questa venga ritenuta improponibile dal giudice adito poiché doveva
essere promossa innanzi all’arbitro ed invece escluda qualsivoglia decadenza
sostanziale o processuale quando sussista il difetto di competenza o di giurisdizione in favore di altro giudice ordinario o speciale.
2. Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La difesa dello Stato sostiene che nel diritto processuale positivo non si
rinvengono norme che dispongano in maniera chiara la piena equiparazione della
disciplina del processo davanti al giudice togato con quella del procedimento
arbitrale. Anzi, il sistema continua a basarsi sulla perdurante diversità ed estraneità fra giudizio statale ed arbitrato, a differenza di quanto si può affermare
rispetto ai rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
Inoltre occorre considerare che il compromesso costituisce un atto di rinuncia
alla giurisdizione statale, frutto di una libera scelta delle parti che presuppone
necessariamente la conoscenza delle conseguenze derivanti dalla differenziazione
delle discipline dei due tipi di giudizio previste dall’ordinamento, tra le quali
rientra anche l’impossibilità della riassunzione della causa davanti all’arbitro in
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caso di dichiarazione di incompetenza resa dal giudice statale e della conseguente
conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la mancata previsione
della translatio iudicii è da ricondurre alla discrezionalità del legislatore, la quale
si basa sulla non completa assimilazione del giudizio statuale e di quello arbitrale
in ragione della differenza ontologica derivante dalla libera scelta delle parti che
caratterizza il secondo e, pertanto, non è fonte di alcuna lesione dei parametri
costituzionali evocati dal rimettente. Del resto, aggiunge l’Avvocatura generale
dello Stato, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 376 del 2001, ha affermato
che il giudizio di arbitrale è fungibile solo «potenzialmente» con quello degli
organi giurisdizionali.
3. Nel corso di un giudizio civile promosso da A.R. contro la R.I. s.r.l. e
avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera dell’assemblea straordinaria dei
soci, il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza iscritta al n. 62 del registro
ordinanze dell’anno 2013, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc.
civ., nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si
applichino regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile.
Il giudice a quo espone che la società convenuta in giudizio ha eccepito
l’improponibilità della domanda e la decadenza dall’azione in ragione della
presenza, nello statuto sociale, di una clausola compromissoria.
Sulla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente svolge argomentazioni identiche a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione pronunciata
dall’arbitro di Bologna riportate sopra al punto n. 1.
Sulla rilevanza, il Tribunale ordinario di Catania afferma che la pronuncia di
incompetenza del giudice adito sull’impugnativa della delibera assunta dall’assemblea straordinaria dei soci, ove non fossero fatti salvi, mediante il meccanismo
offerto dall’art. 50 cod. proc. civ., gli effetti sostanziali e processuali della domanda
in precedenza proposta davanti al giudice ordinario, determinerebbe comunque la
decadenza dell’attrice (ai sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di
impugnare la medesima delibera innanzi all’arbitro unico designando.
4. Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita A.R., la quale
chiede che la norma censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima.
La parte sostiene, anzitutto, che la questione è rilevante, perché, ove non
fossero fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta davanti al giudice ordinario, la pronuncia di incompetenza di
quest’ultimo determinerebbe la decadenza dal potere di impugnare la delibera
societaria davanti all’arbitro designando.
Quanto al merito, A.R. afferma che, a seguito della sentenza di questa Corte
n. 77 del 2007 e di quella della Corte di cassazione n. 4109 del 2007, nel caso in cui
il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, la regola generale oggi
vigente nell’ordinamento è quella della possibilità di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilendo che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica l’art. 50 cod. proc.
civ., contrasta con l’art. 3 Cost., sia perché tratta in modo diverso cittadini che versano
in situazioni identiche, sia per carenza di ragionevolezza interna ed esterna.
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Ad avviso della parte, sussiste lesione anche degli artt. 24 e 111 Cost., che
assicurano ad ogni parte il diritto ad un giusto processo, così come previsto anche
dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali.
5. Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o
manifestamente infondata.
La difesa dello Stato sostiene che la questione è inammissibile, perché oggetto
del giudizio principale è la pregiudiziale arbitrale, onde il rimettente dovrà decidere
solamente sulla competenza propria o dell’arbitro, mentre la decadenza della parte
attrice dal potere di impugnazione della delibera assembleare è questione che si
potrà porre nell’eventuale giudizio arbitrale successivamente instaurato.
Con riferimento al merito della questione, l’Avvocatura generale dello Stato
svolge argomentazioni analoghe a quelle sostenute nell’atto di intervento nel
giudizio di costituzionalità promosso dall’arbitro unico di Bologna e riportate
sopra al punto n. 2.
6. In prossimità dell’udienza di discussione, A.R. ha depositato una memoria nella quale ha ribadito la rilevanza della questione, affermando che, ove non
fossero fatti salvi — mediante il meccanismo previsto dall’art. 50 cod. proc. civ. —
gli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta davanti al giudice
ordinario, la pronuncia del Tribunale relativa alla devoluzione ad arbitri dell’impugnativa della delibera dell’assemblea dei soci determinerebbe la decadenza (ai
sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di impugnare la medesima
delibera davanti all’arbitro designando. Né potrebbe opinarsi diversamente, sostenendo che a sollevare la questione dovrebbe essere proprio l’arbitro, perché
questi, una volta investito del giudizio di impugnazione della delibera assembleare,
si dovrebbe limitare a dichiarare l’inammissibilità della domanda per intervenuta
decadenza.
Nel merito, la parte privata ripercorre l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di translatio iudicii tra giurisdizioni diverse e aggiunge che il
principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. esige
che la domanda proposta dal soggetto sia esaminata nel merito dal giudice e che
il processo si concluda con una sentenza idonea a dare una risposta in ordine al
bene della vita oggetto della lite.
Inoltre, con riferimento all’art. 3 Cost., ad avviso della parte debbono essere
ravvisate la violazione del principio di uguaglianza in senso formale e la mancata
assimilazione di categorie di soggetti omogenee, nonché la carenza di ragionevolezza interna ed esterna della norma censurata. Questa, infatti, tratta in modo
diverso cittadini che versano in analoghe o identiche situazioni, ponendo in essere
una disparità di trattamento non giustificata da ragionevoli motivi.
La parte privata aggiunge che il principio del giusto processo è oggi testualmente consacrato nell’art. 111 Cost. come diritto di ogni cittadino di rivolgersi alla
giustizia senza timore di alchimie processuali o di decisioni di rito discrezionali che
impediscano il sereno esame della vicenda portata all’attenzione del giudice.
Considerato in diritto — 1. Il Tribunale ordinario di Catania e l’arbitro di
Bologna dubitano, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, della
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legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, del codice di procedura
civile, nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si
applicano regole corrispondenti all’art. 50 dello stesso codice.
Ad avviso di entrambi i rimettenti, la norma censurata contrasterebbe con i
menzionati parametri costituzionali perché, irragionevolmente e in disarmonia con
la vigente disciplina del codice di rito relativa ai rapporti tra i giudici ordinari e tra
questi e quelli speciali, violando il diritto di difesa e i principi del giusto processo,
determina, in caso di pronuncia del giudice ordinario di diniego della propria
competenza a favore di quella dell’arbitro, l’impossibilità di far salvi gli effetti
sostanziali e processuali dell’originaria domanda proposta dall’attore davanti al
giudice ordinario.
2. In ragione dell’identità delle questioni sollevate, i giudizi debbono essere
riuniti per essere definiti con unica decisione.
3. Successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza di legittimità si è espressa, con una isolata pronuncia, nel senso che l’art.
819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., laddove afferma che «nei rapporti tra
arbitrato e processo» non si applica l’art. 50 cod. proc. civ., riguarderebbe solo il
caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella
del giudice ordinario; allorquando, invece (come nel caso dei giudizi a quibus), sia
il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli
arbitri, sarebbe possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri nel termine fissato o,
in mancanza, in quello previsto dall’art. 50, con salvezza degli effetti sostanziali
della domanda (ordinanza n. 22002 del 2012).
Una simile interpretazione della norma censurata — che non costituisce
diritto vivente — si basa, però, su argomentazioni fragili, fondandosi esclusivamente sulla constatazione che il secondo comma dell’art. 819-ter menziona i
rapporti «fra arbitrato e processo» e non anche quelli «fra processo e arbitrato» .
È evidente la debolezza dell’argomento: l’espressione utilizzata dalla norma è tale
da comprendere, in generale, qualsiasi tipo di rapporto che può intercorrere,
rispetto ad una stessa causa, tra arbitri e giudici. Del resto, i giudici di legittimità
non hanno chiarito quale sarebbe la ratio della diversità di trattamento che
discende dall’interpretazione della norma da essi fatta propria e, cioè, per quale
motivo la causa potrebbe proseguire davanti all’arbitro se è il giudice a dichiarare
la propria incompetenza e invece dovrebbe essere riproposta ex novo davanti al
giudice ove fosse l’arbitro a dichiararsi incompetente.
L’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione è smentita, poi, da inequivoci elementi letterali. Primo fra tutti, la rubrica della norma, intitolata, anch’essa,
ai «Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria»; volendo seguire il ragionamento
della citata ordinanza n. 22002 del 2012, da una simile indicazione si dovrebbe
dedurre che l’intero art. 819-ter sia dedicato al caso in cui è l’arbitro a dichiarare
la propria incompetenza. Al contrario, dal primo comma dell’articolo emerge
chiaramente che esso tratta di aspetti relativi in generale ai rapporti tra i due
soggetti e, anzi, dedica due specifiche disposizioni (il secondo ed il terzo periodo)
al caso in cui è il giudice a dichiararsi incompetente. Ne deriva che il successivo
secondo comma, nell’escludere l’applicabilità di una serie di norme del codice di
rito in tema di competenza, ha sicuramente riguardo anche alle ipotesi in cui,
appunto, la causa sia stata originariamente proposta davanti al giudice che si sia
poi dichiarato incompetente. E ciò senza considerare che l’eccezione di incompe86
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tenza dell’arbitro è disciplinata specificamente dall’art. 817 cod. proc. civ., onde, se
davvero la norma espressa dal secondo comma dell’art. 819-ter avesse ad oggetto
esclusivamente il caso in cui l’arbitro si dichiari incompetente, sarebbe stato più
logico il suo inserimento nel citato art. 817.
Si deve dunque concludere nel senso che l’art. 819-ter, secondo comma, cod.
proc. civ., inibisce l’applicazione di regole corrispondenti a quelle enunciate
dall’art. 50 cod. proc. civ., tanto nel caso in cui sia l’arbitro a dichiararsi incompetente a favore del giudice statale, quanto nell’ipotesi inversa.
4. Nel merito, la questione sollevata dall’arbitro di Bologna è ammissibile e
fondata.
Come già riconosciuto da questa Corte (sentenza n. 77 del 2007) gli artt. 24
e 111 Cost. attribuiscono all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare
la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ed
impongono che la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi
si ispiri al principio secondo cui l’individuazione del giudice munito di giurisdizione non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa
o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa. Da tale
constatazione discende, tra l’altro, la conseguenza della necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte
erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione.
Tali principi si impongono anche nei rapporti tra arbitri e giudici, perché la
possibilità che le parti affidino la risoluzione delle loro controversie a privati
invece che a giudici è la conseguenza di specifiche previsioni dell’ordinamento.
Questa Corte, al fine di verificare la sussistenza della legittimazione degli arbitri
a sollevare questioni di legittimità costituzionale, ha riconosciuto che «l’arbitrato
costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per
l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una
controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si
differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche
per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie» e ha affermato che il giudizio degli arbitri «è potenzialmente fungibile con
quello degli organi della giurisdizione» (sentenza n. 376 del 2001).
Sul piano della disciplina positiva dell’arbitrato, poi, è indubbio che, con la
riforma attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice
di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e
di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il
legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un
risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale.
Rilevano, al riguardo: l’art. 816-quinquies (sull’ammissibilità dell’intervento
volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111
cod. proc. civ. in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso),
l’art. 819-bis (nella parte in cui presuppone la possibilità per gli arbitri di sollevare
questioni di legittimità costituzionale), l’art. 824-bis (che ricollega al lodo, fin dalla
sua sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria).
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Anche dall’esame della disciplina sostanziale emerge che, sotto molti aspetti,
l’ordinamento attribuisce alla promozione del giudizio arbitrale conseguenze
analoghe a quelle dell’instaurazione della causa davanti al giudice. Infatti, il codice
civile, sia in materia di prescrizione (artt. 2943 e 2945), sia in materia di trascrizione
(artt. 2652, 2653, 2690, 2691), equipara espressamente alla domanda giudiziale
l’atto con il quale la parte promuove il procedimento arbitrale.
Pertanto, nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le
parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione
(ove assunta nel rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia
propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare
come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua
possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul
merito della lite.
Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia,
struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato
come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale,
è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare
che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse.
Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti
sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o
all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla
stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario
e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e
arbitro. Ed invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità dell’art. 50
cod. proc. civ., impedisce che la causa possa proseguire davanti all’arbitro o al
giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti
processuali e sostanziali della domanda.
Deve essere dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter,
secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti
tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del
codice di procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.
5. La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Catania è assorbita.
P.Q.M. — LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del
codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra
arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile.
Commenti di M. Bove, A. Briguglio, S. Menchini, B. Sassani
I
Se l’arbitro (rituale) fa ciò che altrimenti farebbe il giudice statale e se
l’interessato, quando si rivolge alla giurisdizione pubblica, non paga
l’errore nella scelta del giudice con la perdita degli effetti sostanziali e
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processuali della domanda, lo stesso principio di salvezza deve valere
anche nei rapporti tra via privata e via pubblica. Insomma, se l’attore che
cerca tutela per un suo diritto può usufruire di meccanismi di «trasmigrazione» del processo da un giudice statale ad un altro, con ciò salvando
quegli effetti della domanda, non si vede perché analoghi meccanismi di
«trasmigrazione», e quindi di salvezza degli effetti della domanda irritualmente proposta, debbano essere vietati nei rapporti tra arbitro e giudice
statale. Questo ha determinato la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c. nella parte in cui appunto poneva un simile divieto.
Tale assunto, semplice e direi indiscutibile, è stato scolpito nella
sentenza in commento. Ma in essa la Corte costituzionale non dice
assolutamente altro, lasciando così, già oggi all’interprete, ma direi soprattutto al legislatore il compito di attuare il detto principio nel vuoto
normativo che così si è venuto a creare. Invero, la Consulta non ha reso
applicabile qui l’art. 50 c.p.c., ma solo ha eliminato il divieto di applicare
una regola analoga a quella in questo articolo contenuta.
Un simile compito esige un chiarimento concettuale preliminare, per
poi potersi svolgere su due linee direttrici. Per quanto riguarda il chiarimento, a me sembra che si dovrebbe partire dall’idea che i rapporti tra
giudice statale e giudice privato non sono inquadrabili in termini di
competenza, bensì di giurisdizione, perché l’arbitro non fa parte del plesso
organizzativo della giurisdizione statale, emergendo piuttosto come una
autonoma giurisdizione che l’ordinamento statale, che certo non pretende
di assumere alcun monopolio in materia, riconosce come tale, ossia, se così
si può dire, come altro da sé. Per quanto riguarda le linee direttrici, se la
prima dovrà individuarsi in virtù dell’esigenza di disciplinare il meccanismo di sanatoria in tutti i suoi vari tecnicismi, la seconda dovrà avere cura
di stabilire i limiti dell’intervento, in particolare chiedendosi se esso esiga
delle scelte consequenziali ineludibili.
Siano consentiti in questo breve spazio alcuni spunti in riferimento ad
entrambi gli aspetti.
Per quanto riguarda la disciplina del meccanismo di sanatoria, se la
premessa concettuale qui scelta sembra indurre a preferire quale modello
di riferimento, piuttosto che l’art. 50 c.p.c., gli articoli 59 della legge n. 69
del 2009 ed 11 del codice del processo amministrativo, direi che a tal
proposito si debba essere cauti.
In riferimento alla forma ed al termine per la «trasmigrazione» del
processo dal giudice sbagliato a quello giusto, a me sembra francamente
che il legislatore dovrà preoccuparsi del secondo problema e non certo del
primo. Su quale sarà il termine entro il quale dovrà compiersi l’attività in
sanatoria, ovviamente il legislatore avrà pieno spazio di movimento. Ma,
rispetto alla forma dell’atto di «trasmigrazione», non vedo come si
potrebbe immaginare un atto di riassunzione tra giudice privato e giudice
statale, e viceversa, dovendosi piuttosto rispettare le forme disciplinate
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nell’ambito del processo che dovrà essere celebrato di fronte al giudice (ad
quem) riconosciuto fornito di potestas iudicandi.
Tuttavia, per diversi altri aspetti non credo che quelle norme potranno essere prese a modello. Soprattutto per quanto riguarda il problema delle preclusioni e del valore del materiale raccolto di fronte al
giudice irritualmente adito (a quo). Dal primo punto di vista, se già una
norma che pretende di fissare un effetto di trascinamento delle preclusioni
da un processo ad un altro (diverso) è poco ragionevole, ancor meno
ragionevole sarebbe una simile previsione tra arbitro e giudice statale,
perché in arbitrato non si hanno preclusioni. Che senso avrebbe trascinare
in arbitrato preclusioni in ipotesi maturate di fronte al giudice statale, se
in arbitrato non vige il principio di preclusione? E come si potrebbero
trascinare di fronte al giudice statale preclusioni che in arbitrato non
maturano? Dal secondo punto di vista, se al giudice statale basta la
previsione dell’art. 310, 3º comma, c.p.c., all’arbitro non serve alcuna
disposizione, operando di fronte ad esso il principio del puro libero
convincimento.
Piuttosto, una scelta si imporrà al legislatore a fronte del problema
dell’efficacia della declinatoria assunta in una via quando il giudizio
trasmigrerà nell’altra via. Qui rientriamo nella seconda direttrice sopra
citata, sulla quale nulla ha detto la Consulta, silenzio che anzi potrebbe far
sorgere il sospetto che la Corte costituzionale non voglia o quantomeno
non pretenda interventi consequenziali su questo piano, nulla avendo
detto in riferimento al divieto previsto ancora nell’art. 819-ter c.p.c. di
applicare norme analoghe a quella contenuta nell’art. 44 c.p.c.
A me sembra francamente inevitabile che il legislatore si occupi della
questione appena citata, perché la mancata previsione di un’efficacia
vincolante di detta declinatoria rappresenta una seria vulnerazione all’effettività del diritto di azione. Ed, allora, si tratterà di scegliere la disciplina
di essa, in riferimento alla quale non nascondo la mia preferenza per un
sistema nel quale semplicemente si preveda quel vincolo, ove l’atto di
trasmigrazione sia compiuto entro un dato termine, senza attribuire al
giudice ad quem il potere di sollevare conflitto negativo di fronte alla
Corte di cassazione. Invero, se sulla questione della sussistenza della
potestas iudicandi tra arbitro e giudice statale la legge non riconosce un
ruolo al giudice quando disciplina la relativa eccezione, in ipotesi da
sollevare incidentalmente nel processo sul rapporto sostanziale in riferimento al quale si discute se sussista o meno un patto compromissorio, non
vedo perché dovrebbe poi attribuirsi quel ruolo a seguito di una declinatoria di giurisdizione assunta in una via.
Nulla invece ha da dire il legislatore sul complesso normativo che si
riassume nell’espressione «sistema delle c.d. vie parallele» . Certo un
sistema ora scelto può sempre essere rigettato in futuro. Ma ciò che qui si
vuole dire è che nulla di necessitato deriva oggi dalla sentenza in com90
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mento. Il legislatore potrà scegliere se mantenere o meno quel sistema,
che si fonda su una sostanziale mancanza di coordinamento preventivo tra
le due vie, operando solo, si ripete preventivamente, l’eccezione di patto
compromissorio, peraltro consentendo da noi, analogamente a ciò che
accade in Germania e diversamente da ciò che accade in Francia, una
cognizione piena sui presupposti della relativa decisione, salvo che sulla
valida esistenza del patto compromissorio sia stato celebrato un giudizio
che se ne sia occupato in via principale. A tal proposito il legislatore, se
manterrà il detto sistema, sarà solo di fronte ad un dovere ed a una
opportunità.
Il dovere: disciplinare, in qualche modo, il vincolo della declinatoria
di giurisdizione, come sopra abbiamo accennato, dovere che gli derivava
già prima dall’art. 24 Cost.
L’opportunità: cogliere l’occasione per chiarire alcuni lati oscuri della
attuale disciplina, come ad esempio quello che emerge dall’ultimo inciso
del primo comma dell’art. 819-ter c.p.c., quando si dice che la mancata
proposizione dell’eccezione di patto compromissorio di fronte al giudice
statale esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia
decisa in quel giudizio.
MAURO BOVE
II
1. La Consulta risolve con salutare e, nel nostro caso, agevolmente
praticabile saggezza.
Saggio è altresì il metodo motivazionale o se si vuole l’approccio
culturale: come già in occasione della pronuncia del 2001 sulla legittimazione dell’arbitro alla Richterklage alla Corte costituzionale, neppure la
benché minima concessione a triti discorsi sulla “natura” dell’arbitrato (il
sesso degli Angeli o quasi) ed attenzione invece al dato funzionale. Gli
arbitri, non meno che i giudici, risolvono controversie in contraddittorio
con decisione destinata alla stabilità degli effetti una volta decorsi i termini
di impugnazione; l’esercizio dell’azione è tale dunque, come dinanzi al
giudice, anche dinanzi agli arbitri, allorché per scelta di autonomia privata
sia ad essi destinato. Perciò l’applicazione di una regola quale quella
scritta nell’art. 50 c.p.c. — che garantisce l’effetto utile dell’azione impedendo che l’individuazione dapprima erronea poi corretta dell’organo
munito di potestas iudicandi “sacrifichi” “il diritto delle parti ad ottenere
una risposta affermativa o negativa in ordine al bene della vita oggetto
della loro contesa” (parole della Corte) — non può essere preclusa (come
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fa invece l’art. 819 ter), pena il contrasto con gli art. 24 e 111 Cost., quando
l’errore o incertezza sulla individuazione della potestas iudicandi coinvolga, piuttosto che l’alternativa fra diversi giudici dello Stato, l’alternativa pur radicale fra il giudice e l’arbitro.
In questo corretto approccio perfino il nuovo art. 824 bis, e la
equiparazione effettuale piena ed ormai indiscutibile fra lodo e sentenza,
rappresenta un elemento certamente di conferma, ma non un elemento
decisivo per la soluzione attinta dalla Corte. La quale — senza perciò che
ci si debba chiedere se quella disposizione sia e quanto innovativa ovvero,
come ho sempre ritenuto, nella sostanza ricognitiva della ricostruzione
corretta quoad effectum apprestabile già dopo la novella dell’arbitrato del
1994 — sarebbe stata verosimilmente adottata anche prima dell’entrata in
vigore dell’art. 824 bis, come fu, a suo tempo, adottata quella sul rinvio
della questione di costituzionalità ad opera degli arbitri.
2. In entrambi i giudizi a quibus si faceva questione di termine di
decadenza sostanziale per l’impugnazione di delibera societaria e dunque
di conservazione o meno dell’effetto sostanziale impeditivo della decadenza per la domanda erroneamente proposta dapprima all’arbitro o
dapprima al giudice.
Se la Consulta non avesse troncato il problema in radice, garantendo
definitivamente la conservazione anche di quell’effetto, non sarebbe rimasto che da concentrarsi su di esso (oggi lo si dovrà probabilmente fare
comunque in relazione all’arbitrato irrituale) ed appigliarsi una ancora
ipotetica ma non del tutto peregrina (arg. ex art. 2965 c.c.) dottrina
civilistica dell’errore scusabile, ovvero ad una interpretazione costituzionalmente orientata (delle norme sulla decadenza) tale da postulare un
effetto impeditivo senza translatio anche per l’esercizio dell’azione davanti
a giudice “incompetente”, sì da salvare dalla decadenza anche l’azione
esercitata ex novo; così ovviando all’inconveniente più drammatico della
mancata previsione della translatio, posto che quelli relativi ai termini
prescrizionali o ad altri effetti sostanziali della domanda sono di norma
meno drammatici (basta pensare per tempo ad esercitare l’azione ex novo
dopo la declinatoria, la quale, in assenza di translatio, chiude il processo in
rito, e come ogni altra chiusura in rito non estintivo, fa salvo l’effetto
interruttivo permanente sul termine di prescrizione) e quelli della mancata
“prosecuzione” dell’(unica) vicenda processuale con conservazione degli
effetti processuali sono, sul piano pratico, ancor più gestibili.
3. Francamente non riesco a ricostruire come e donde nacque,
all’epoca della riforma del 2005/2006 l’infelice “non si applicano regole
corrispondenti... [all’art.] 50”. L’alternativa è fra la svista (indotta dalla
proclamata e difficilmente discutibile inapplicabilità degli artt. 44, 45, 48
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ed all’idea che a questi dovesse aggiungersi come in un unico corpus l’art.
50) ed il retropensiero circa la necessità, altrimenti, e la difficoltà di
disciplinare alcuni profili della “riassunzione”, nonché circa la relativa
secondarietà della conservazione degli effetti processuali e la possibilità di
salvare in altro modo alcuni effetti sostanziali (v. supra).
Sia come sia la situazione andava certamente rimediata.
Cass. n. 22002/2012 ha additato, nelle more fra la prima ordinanza di
rimessione ed il responso della Consulta, soluzione a senso unico: translatio e conservazione sì dal giudice all’arbitro, ma non viceversa. Isolata e
giustamente criticata, questa pronuncia non merita però né nella forma né
nella sostanza alcuni strali acutissimmi che le sono stati indirizzati, ed ha
invece il merito di aver mostrato consapevolezza del problema al più alto
livello di giurisdizione ordinaria e di aver aperto la strada al rimedio, sia
pure attraverso l’errore, né più e né meno di come l’erronea convinzione
di trovarvi le Indie aprì la strada alla scoperta dell’America.
La esibita ragione formale alla soluzione a senso unico — che il c. 2°
dell’art. 819 ter menzioni solo i rapporti fra arbitrato e processo e non
viceversa — era comunque manifestamente fallace come un sofisma
bizantino. La Consulta lo evidenzia con puntigliosità perfino sproporzionata. Ci mancherebbe davvero che per impedire all’interprete un trattamento sperequato di due situazioni nella sostanza equivalenti il legislatore
dovesse essere comicamente ridondante e scrivere: “nei rapporti fra
arbitrato e processo e fra processo e arbitrato” (ed è ovviamente inutile
far dietrologia riguardo ad intenzioni recondite e parimenti irrazionali
della Cassazione di cui non si ha prova, e cioè ad una sorta di ritrosia
nobiliare nell’ammettere che il giudice dello Stato si prenda carico di un
giudizio già iniziato innanzi agli arbitri, potendosi invece consentire semmai l’ipotesi contraria; né la giustificazione implicita poteva consistere in
una rilevante maggior difficoltà di organizzare applicativamente la translatio in un senso piuttosto che in un altro, perché le difficoltà vi sono in
entrambi i sensi e comunque superabili).
Rilevato l’errore, il gradino successivo era alla portata di un fanciullo.
Si fa per dire. Altro che fanciullo: è intervenuto, grazie alla perspicacia dei remittenti (è vero: avrebbe potuto e dovuto pensare al rinvio anche
la Corte di cassazione), l’unico organo giurisdizionale dotato di potestà di
“negative” e qui anzi di “positive Gesetzgebung”, e così la vicenda si è
definitivamente conclusa. La Cassazione aveva nel frattempo scoperto il
nervo e radicalizzato il problema: essendo la sua interpretazione dell’art.
819 ter tutt’altro che salvifica (ed anzi essa pure incostituzionale per
irrazionale sperequazione e violazione dell’art. 3, oltre che dell’art. 24, in
relazione al caso della declaratoria di incompetenza arbitrale) e per di più
erronea, alla Consulta non è rimasto che constatare che l’art. 819 ter era
irredimibile e dichiararlo incostituzionale in parte qua.
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4. Cosa resta da fare?
Salvo altro, resta da chiedersi se il nuovo e più convincente assetto dei
rapporti fra arbitro e giudice (già lodevolmente sceverati, sotto svariati
profili un tempo problematici, dalla novella del 2006) dovrà condurre o
meno ad ulteriori ripensamenti della dottrina delle “vie parallele” o del
“doppio binario”. Ciò che in prima approssimazione non credo, perché il
nucleo di verità di quella dottrina risiede nella indiscutibile “alternatività”
fra arbitrato (i.e. giurisdizione privata) e giurisdizione statuale e non è
escluso dalla applicazione a scopo eminentemente pratico di pezzi di
disciplina desunti dai rapporti di competenza fra i giudici dello Stato. E
tale applicazione non comporta affatto, salvo che per i patiti della coerenza pseudo-sistematica (ma in realtà puramente estetica) perinde ac
cadaver, sovrapposizione di concetti.
E così la “alternatività” ed il “doppio binario” ben coesistono con il
regime della eccezione di compromesso quale disciplinata, ad instar dell’art. 38, dall’art. 819 ter, c. 1°, o con la impugnabilità mediante regolamento della relativa pronuncia del giudice statuale (qui sì la “alternatività” consente ed anzi impone la soluzione a senso unico che rende invece
impugnabile il lodo sulla competenza arbitrale solo ex art. 829 e non
mediante regolamento). E così pure la predetta “alternatività” fra arbitrato e giurisdizione ordinaria non è affatto esclusa da una osmosi trasmigratoria dell’esercizio del diritto d’azione, in modo da lasciarlo più intatto
ed utile possibile, sull’uno dei due versanti quando l’altro si riveli in radice
impraticabile.
Per contro, la riconduzione del rapporto fra arbitro e giudice a
rapporto di competenza, ai soli effetti dell’applicazione delle regole ex art.
50, è stata per la Corte costituzionale soltanto la soluzione (corretta ed
inevitabile) di un (evidente) problema di costituzionalità. Ma nessuna
smania di coerenza sistematica ad ogni costo ha condotto la Corte a
dichiarare la incostituzionalità conseguenziale del divieto di applicazione
degli art. 44, 45 e 48, esso pure predicato dall’art. 819 ter.
Sicchè il teorico potrà continuare a dire, in termini generali, che
l’“alternatività” ed il “doppio binario”, e cioè l’esatto e più che condivisibile contrario della assimilazione totale al rapporto di competenza,
coesistono con frammenti di regolazione in cui arbitro e giudice vengono
trattati “come se” appartenenti allo stesso ordine in nome di esigenze di
tutela e principi sovraordinati che ciò impongono.
5. Resta poi da gestire con buon senso le conseguenze pratiche della
pronuncia della Consulta.
Qui occorrerà anzitutto por mente a due differenze evidenti fra i due
giudizi, di partenza e di arrivo, della translatio. a) Una differenza è
intrinseca ed imprescindibile: l’assenza di precostituzione dell’organo
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arbitrale; b) l’altra è estrinseca e contingente: la disseminazione, nel
giudizio ordinario, di preclusioni insussistenti invece, almeno a priori, in
quello arbitrale (altre differenze rilevanti al nostro riguardo, salvo talune
marginalissime, non vedo: l’arbitro, se lo hanno voluto le parti, non è
meno del giudice nella funzione del far giustizia).
Conseguentemente occorrerà costruire cum grano salis il dettaglio
delle “regole corrispondenti all’art. 50” per come oggi applicabili ai casi
che qui ci interessano.
La espressione “regole corrispondenti”, proprio perché lascia all’interprete della legge ordinaria un opportuno margine di adeguamento, ha
evidentemente convinto la Corte — diversamente da ciò che accadde al
momento della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 30 Legge Tar a
motivo del medesimo impedimento della translatio — ad affidare a quell’interprete la soluzione di ogni problema applicativo, senza auspicare
come allora l’intervento del legislatore “con l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale”.
Ferma, e non necessitante di particolari adeguamenti di dettaglio, la
conservazione degli effetti sostanziali, nonché quella del fondamentale
effetto processuale della litispendenza in ordine alla prevenzione, si tratterà, tenuto conto delle due differenze che si son dette, di verificare quali
siano i meccanismi idonei alla “prosecuzione” processuale dall’un versante all’altro, individuando appunto regole nella sostanza corrispondenti,
anche se non rigorosamente equivalenti, a quelle dell’art. 50 ed alle altre
ad esso sistematicamente connesse.
5.1. Basterà anzitutto constatare che ove il giudice si dichiari incompetente non si può certo “riassumere” il giudizio davanti ad un organo
arbitrale che ancora non vi è, né del resto ha senso congetturare un “atto
di riassunzione” sconosciuto nel processo arbitrale.
La “prosecuzione” del giudizio avverrà dunque attraverso la notifica
di una normale domanda di arbitrato riproduttiva delle domande (eccezioni, se a riassumere è per avventura il “convenuto” in arbitrato),
deduzioni e conclusioni già svolte in sede ordinaria, o ad esse facente
relatio (con riserva di depositare innanzi al costituendo organo arbitrale gli
atti della precedente fase, ed eventuale delimitazione dei poteri del
difensore ai sensi dell’art. 816 bis ove lo si ritenga opportuno ed il
mandato cui ci si riferisce sia quello originariamente conferito in occasione
dell’avvio del giudizio ordinario). Il tutto — affinché il giudizio “prosegua” e si conservino gli effetti sostanziali e processuali — entro i medesimi
termini legali o giudiziali previsti dall’art. 50, e decorrenti per come da
questo stabilito.
Fermi ed inalterati restano i comuni insegnamenti giurisprudenziali
(v. Cass. 9.9.1993, n. 9444 ed altre) sulla utilizzabilità piena delle prove già
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assunte nel troncone processuale abortito con la declinatoria; il riferimento agli “argomenti di prova” di cui all’art. 59, u.c., l. n. 69/2009, in tema
di translatio fra diverse giurisdizioni statuali, è un eccesso di rigore
formalistico, tutto sommato praticamente innocuo e che però non vi è
ragione di trapiantare nel nostro caso.
Quanto alle preclusioni occorre ancor qui non farsi fuorviare dall’art.
59, c. 2° l. n. 69/2009 (del quale e dell’infelice formula “ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute” è data comunque una ragionevole
interpretazione riduttiva e salvifica). In definitiva mi sembra sensato dire
che, non esistendo, perfino per le domande nuove, preclusioni aprioristiche in arbitrato (salva la possibilità per gli arbitri, una volta costituiti, di
fissare opportunamente termini anche perentori), tutti i nova siano perfettamente ammissibili una volta che il giudizio trasmigri davanti agli
arbitri e nonostante l’intervenuto spirare, nel precedente troncone, dei
termini ex art. 183.
5.2. Nell’ipotesi inversa, ove cioè sia l’arbitro a dichiararsi incompetente (con eventuale indicazione di giurisdizione statuale, ordinaria o
amministrativa, o perfino di giudice competente ovviamente priva di
alcuna vincolatività e superabile con successiva semplice declinatoria del
giudice dello Stato, vista la perdurante inapplicabilità dell’art. 45 ed
insomma il tendenziale mantenimento delle “vie parallele”), la prosecuzione potrebbe pure avvenire — innanzi al giudice civile, non innanzi al
giudice amministrativo — con un atto formalmente intitolato alla “riassunzione”. Ma sarà gioco forza dare a quest’atto non il contenuto puramente ricognitivo della originaria domanda di arbitrato (che può essere ed
è di solito cosa contenutisticamente diversa dall’atto di citazione), bensì
quello di un vero atto di citazione.
Tanto vale allora semplificare le cose al pratico e dire anche qui che
la domanda formulata si ripropone (come si dice nell’art. 59 l. 2009/69),
con conservazione pur sempre degli effetti sostanziali e della litispendenza
originaria, sia innanzi al TAR che innanzi al giudice ordinario, ed innanzi
a quest’ultimo allora fors’anche potendosi scegliere la forma del ricorso
sommario ex art. 702 bis.
Il problema più spinoso è poi quello del termine di riassunzione, o
meglio della sua decorrenza, perché mi sembra invece pacifico che il
termine sia quello stesso di tre mesi previsto dall’art. 50 o quello diverso
che lo stesso art. 50 autorizza il giudice ed allora — perché no, caduto il
divieto ex art. 819 ter — anche l’arbitro a fissare.
Vale anche in caso di declinatoria della competenza arbitrale la
decorrenza, voluta dall’art. 50, dalla semplice “comunicazione” della
pronuncia (e cioè qui della comunicazione ex art. 824 del lodo di incompetenza anche se ancora impugnabile), ovvero occorre ritenere che la
“regola corrispondente” più adeguata vada desunta per imitazione dal96
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l’art. 59 l. n. 69/2009 ed il termine decorra dalla sopravvenuta definitività
della declinatoria?
Sarei per la seconda risposta. Non però per una intrinseca ed autonoma forza espansiva alla soluzione ex l. 69/2009, bensì in ossequio allo
spirito implicito della sentenza della Consulta e dello stesso art. 50.
In virtù di questo spirito non sembra possibile sacrificare o penalizzare l’attore che a fronte della declinatoria voglia, prima di proseguire con
effetti conservativi sull’altro versante, provare ad insistere in via impugnatoria per la competenza e perciò per il giudizio di merito del giudicante
originariamente adito, né sembra possibile penalizzare il suo diritto a
giovarsi dell’intero termine per tale impugnazione.
Salvando questo spirito, l’art. 50 può nondimeno ben prevedere che,
nella vicenda traslativa da giudice a giudice, ed oggi da giudice ad arbitro,
il termine decorrà dalla comunicazione della pronuncia declinatoria “o”
dalla comunicazione della pronuncia (della Cassazione) che la conferma in
sede di regolamento. La cosa è evidentemente razionale sul piano pratico,
perché anche il termine di impugnazione mediante regolamento prende
avvio dalla medesima comunicazione della prima pronuncia ed è assai più
breve del termine di riassunzione, di guisa che l’interessato ad impugnare
ha modo di riflettere, per l’intera durata del termine impugnatorio, sulla
opportunità di insistere per la potestas iudicandi del primo giudice, ed in
caso di mancata impugnazione ha poi ancora agio di riassumere.
Nella vicenda traslativa inversa — da arbitro a giudice — non avrebbe
invece senso una “regola” formalmente “corrispondente” a quella dell’art.
50, secondo cui il termine decorresse della declinatoria arbitrale ovvero
della pronuncia che definitivamente la conferma.
E ciò perché il termine per la impugnazione ex art. 828 della pronuncia di incompetenza resa dall’arbitro può essere praticamente equivalente
(90 giorni) a quello di riassunzione, e decorrere per altro da data successiva, quella della notificazione del lodo, ovvero può essere addirittura assai
più lungo in caso di mancata notifica.
Non resta dunque che concludere per l’unica decorrenza dal momento in cui la declaratoria della incompetenza arbitrale diviene definitiva
per mancata impugnazione o per la sua conferma in sede impugnatoria.
Naturalmente, e come le Sez. Unite (22.11.2010, n. 23596) hanno già
avuto modo di chiarire in relazione all’art. 59 l. n. 69/2009, nulla impedisce
all’interessato la immediata prosecuzione prima della scadenza del termine e prima della definitività della declinatoria arbitrale. Le conseguenze
della contemporanea pendenza del processo proseguito innanzi al giudice
e del giudizio di impugnazione instaurato dall’altra parte avverso il lodo di
incompetenza saranno decifrabili sulla base della dottrina delle “vie
parallele” per quel che essa attualmente è, con tutte le sue incertezze ed
i suoi margini di opinabilità. Voglio dire che ancor qui la sentenza della
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Corte apre un fronte pratico, prima insussistente, di applicazione di quella
dottrina; non ne muta i presupposti ed i contenuti teorici.
Trasferito avanti al giudice, il giudizio olim arbitrale non porterà di
norma seco preclusioni di sorta ed il problema relativo alla vicenda
inversa, dunque, neppure si porrà.
Spetterà a ciascuna parte decidere se giovano ancora le memorie ex
art. 183 o se sia miglior partito rifarsi agli scritti già versati nel giudizio
arbitrale e andare in decisione. In ogni caso riterrei che chi abbia assunto
in quel giudizio la posizione di attore possa con l’atto di riassunzione/
prosecuzione, e non oltre, proporre domande nuove (ma ammetto che una
preclusione in senso opposto potrebbe essere ritenuta intrinseca ad una
vicenda processuale che deve proseguire in una sede nella quale è regola
aurea che la domanda si proponga con l’atto introduttivo e non più oltre);
e che il “convenuto” possa e debba con l’atto di prosecuzione o con la
comparsa con cui a quello replica, e non oltre, svolgere le attività previste
a pena di decadenza dall’art. 167.
Quanto alla conservazione delle prove assunte davanti agli arbitri
(ipotesi ben rara se costoro si sono poi dichiarati incompetenti), essa non
impedirebbe la reiterazione della assunzione testimoniale ove si volesse
considerare decisivo il maggiore metus che compulsa il testimone a dire la
verità nel giudizio ordinario, ov’egli può commettere il reato di falsa
testimonianza, piuttosto che nel giudizio arbitrale, ov’egli non può commetterlo.
6. A seguito del responso all’arbitro remittente, la Corte dichiara
“assorbita” la identica questione póstale del Tribunale di Catania, traendosi dall’imbarazzo di doverla dire inammissibile per irrilevanza. Irrilevante, a rigore, lo era, ma per così dire di una irrilevanza a fin di bene, o
se si vuole “rilevante in prevenzione”, e non in relazione agli omnes e pro
futuro, bensì proprio in relazione alle parti della concreta vicenda processuale.
Il giudice catanese si preoccupava evidentemente delle ripercussioni
immediate che la sua declaratoria di incompetenza avrebbe avuto, sull’attore onerato del rispetto del termine decadenziale, ove mai l’art. 819 ter
non fosse stato nel frattempo dichiarato incostituzionale: l’incertezza sulla
conservazione o meno dell’effetto sostanziale della originaria domanda.
Non è questo di certo il nesso di rilevanza cui pensarono i conditores
del giudizio incidentale, ed altrettanto certamente la decisione sulla competenza del Tribunale di Catania (quella sola che ad esso toccava prendere) non era giuridicamente condizionata dalla soluzione della questione
di costituzionalità; né poteva minimamente prendersi in considerazione la
stravagante pretesa del convenuto: che il giudice dichiarasse contempora98
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neamente la propria carenza di potestas iudicandi e la decadenza dall’azione.
Ma non è detto che la Consulta in futuro ed in situazioni analoghe —
soprattutto ove questa sorta di “rilevanza in prevenzione” si ponga in
termini pratici più pressanti e drammatici (nel nostro caso all’attore
sarebbe bastato, per sortire dall’incertezza, semplicemente notificare nei
termini di riassunzione ex art. 50 una domanda di arbitrato e porre la
questione di costituzionalità all’arbitro, ma se ci fossimo trovati invece
nell’epoca in cui la questione non poteva essere rimessa dall’arbitro, bensì
solo e nei congrui casi, ed a buoi già usciti dalla stalla vale a dire a lodo
sfavorevole già emanato, dal giudice dell’impugnazione?) non sia disposta
ad addomesticare un poco il nesso di rilevanza.
ANTONIO BRIGUGLIO
III
1. A seguito della riforma della disciplina dell’arbitrato introdotta
dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e sulla base dell’interpretazione accolta
dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina prevalenti delle disposizioni generali del codice di rito e di quelle speciali in ordine al giudizio
arbitrale, i rapporti tra quest’ultimo e quello di fronte al giudice dello stato
possono essere così sinteticamente descritti (1).
In primo luogo, per l’art. 819-ter, comma 1, c.p.c., non opera l’istituto
della litispendenza, per cui eventuali giudizi, aventi ad oggetto la stessa
causa, proposti contemporaneamente davanti al giudice privato e a quello
pubblico, non subiscono alcun impedimento reciproco e debbono proseguire entrambi in modo autonomo. D’altro canto, alla luce della regolamentazione della sospensione, risultante dagli artt. 819-bis e 819-ter,
comma 2, c.p.c., deve essere esclusa anche la possibilità che venga sospeso
uno dei due procedimenti, in attesa che l’altro sia definito, con provvedimento di merito o, eventualmente, di rito declinatorio della competenza.
Ciò significa che non sussistono strumenti di raccordo preventivo tra i due
processi, che siano capaci di impedire il loro contemporaneo svolgimento
e la pronuncia di più provvedimenti, anche di contenuto difforme, di rito
o di merito, in ordine ad un’unica controversia.
In secondo luogo, la questione relativa alla validità, al contenuto e
all’ampiezza della convenzione di arbitrato, sollevata dinanzi al tribunale,
(1) In modo più esteso, si veda MENCHINI, Il controllo e la tutela della convenzione
arbitrale, in questa Rivista 2013, 363 ss., ed ivi ulteriori indicazioni e riferimenti.
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privato od ordinario, al fine di disconoscere la potestas iudicandi del
giudice adito rispetto alla domanda proposta, concerne la competenza
(artt. 817 e 819-ter, comma 1, c.p.c.). La pronuncia, che risolve tale
questione, è di competenza e, sempre che provenga dal giudice dello stato,
è impugnabile con regolamento di competenza (art. 819-ter, comma 1,
c.p.c.). Il giudice, davanti al quale è stata esercitata l’azione, ha il potere
di conoscere e di decidere circa le proprie attribuzioni rispetto alla stessa
e, in particolare, l’arbitro non vede incisa o eliminata tale potestà per il
solo fatto che, in sede ordinaria, con autonoma azione, sia posta in
discussione la validità e l’efficacia della convenzione (artt. 819-bis, comma
2, e 819-ter, comma 3, c.p.c.). Sulla base della communis opinio, per ciò che
attiene agli effetti prodotti dai provvedimenti sulla competenza emessi dai
due tribunali, essi, sia che riconoscano la competenza sia che la neghino,
non sono vincolanti al di fuori del processo in cui sono stati resi, né per il
giudice da cui promanano né per ogni altro giudice, qualora venga
riproposta la medesima causa. Al contrario, la pronuncia della Corte di
Cassazione, emanata in esito sia a regolamento di competenza sia a ricorso
ordinario, ex art. 360, comma 2, c.p.c., ha efficacia panprocessuale e rende
incontestabile, in ogni processo e per ogni giudice (pubblico e privato),
l’accertamento compiuto circa la spettanza della competenza e, prima
ancora, riguardo alla validità e all’efficacia della convenzione. Di conseguenza, a meno che non sia intervenuta una decisione della Suprema
Corte, possono insorgere conflitti vuoi positivi vuoi, peggio ancora, negativi di competenza tra i tribunali (ordinari e privati) davanti ai quali siano
state instaurate, contestualmente o una dopo l’altra, due controversie
aventi ad oggetto la stessa pretesa.
In terzo luogo, l’art. 819-ter, comma 2, stabilisce che “nei rapporti tra
arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli artt. 44, 45,
48 e 50 c.p.c.”; l’estraneità e la diversità tra il procedimento arbitrale e
quello statale, ad avviso del legislatore, non consentono che il processo,
erroneamente introdotto di fronte ad uno dei due organi, in qualche
modo, possa continuare o trasmigrare dinanzi all’altro, del quale il primo
abbia riconosciuto la titolarità del potere di giudicare. Perciò, da un lato,
diversamente da quanto previsto dall’art. 44 c.p.c. rispetto ai rapporti tra
giudici ordinari, il provvedimento del giudice a quo non è vincolante per
quello ad quem, ossia non rende incontestabile l’incompetenza dichiarata
e la competenza dell’ufficio indicato, e, dall’altro lato, non sono fatti salvi
gli effetti sostanziali e processuali della domanda invalidamente proposta
ad organo carente di competenza. Non essendo ammessa la riassunzione
del giudizio di fronte al tribunale (arbitrale od ordinario) dichiarato
competente, la parte è costretta a riproporre ex novo la domanda, esponendosi al pericolo di conflitti negativi di competenza e potendo incorrere
in decadenze nel frattempo maturate.
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Dottrina e giurisprudenza hanno tentato di superare, almeno in parte,
in via interpretativa, i gravi inconvenienti causati da questo sistema, sotto
l’aspetto della salvaguardia del diritto di azione e della sua effettività (2).
In particolare, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 6 dicembre
2012 n. 22002 della sesta sezione (pres. Finocchiaro ed estensore Frasca),
ha propugnato, relativamente ai rapporti tra arbitro e giudice, l’esistenza
di un fenomeno di translatio iudicii a senso unico. Infatti, per tale decisione, l’art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui afferma che nei
rapporti tra arbitrato e processo non si applica l’art. 50 c.p.c., riguarda
soltanto il caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed
a riconoscere quella del giudice ordinario; invece, allorché sia il giudice
togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli
arbitri, oppure sia la Corte di Cassazione, adita con riferimento ad una
pronuncia affermativa della competenza del giudice pubblico, a dichiarare
la competenza degli arbitri, è possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri
nel termine fissato o, in mancanza, in quello previsto dall’art. 50 c.p.c., con
salvezza dell’effetto interruttivo c.d. istantaneo della prescrizione, ai sensi
dell’art. 2943, comma 3, c.c., e di quello permanente, di cui all’art. 2945,
comma 2, dello stesso codice (3).
Tuttavia, la dottrina dominante ha rilevato, a più riprese, l’impossibilità di superare in via interpretativa l’irragionevolezza e la contrarietà ai
principi costituzionali della disciplina dettata dal legislatore ordinario,
ritenendo inevitabile l’intervento della Corte Costituzionale (4); pertanto,
sono state salutate favorevolmente le ordinanze di rimessione della questione alla Corte del Tribunale di Catania del 21 giugno 2012 e dell’Arbitro unico di Genova del 13 novembre 2012 (5).
2. Con la sentenza n. 223 del 2013 la Corte Costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma,
c.p.c., “nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e
(2) Per l’esame dei plurimi tentativi compiuti dalla dottrina, per ovviare alle criticità
denunciate, si rimanda, da ultimi, a MENCHINI, op. cit., 391 ss., e SALVANESCHI, Translatio iudicii
a senso unico nei rapporti tra arbitro e giudice?, in Riv. dir. proc. 2013, 1150 ss., specie 1152 ss.
(3) Vedi questa pronuncia pubblicata in Riv. dir. proc. 2013, 1150 ss., con nota critica di
Salvaneschi, e in questa Rivista 2013, 699 ss., con nota critica di FORNACIARI, Ancora sulla
conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti tra giudice e arbitro: Cassazione vs. Corte Costituzionale?
(4) Per tutti, si segnalano: LUISO, Effetti sostanziali della domanda e conclusione del
processo con una pronuncia di rito, in Riv. dir. proc. 2013, 1 ss., specie10 ss.; MENCHINI, op. cit.,
401 ss.; FORNACIARI, op. cit., 702 ss.; SALVANESCHI, op. cit., 1156.
(5) Si vedano tali provvedimenti pubblicati in questa Rivista 2012, 891 ss., con nota di
FORNACIARI, Conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti tra giudice e
arbitro: sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, comma 2, c.p.c.; e in
Riv. dir. proc. 2013, 467 ss., con nota di Boccagna, Translatio iudicii nei rapporti tra giudice ed
arbitro: sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c.
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processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del codice di
procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter” (6).
La pronuncia del giudice delle leggi consta di due parti distinte.
In un primo tempo, viene censurata, in quanto fondata su “argomentazioni fragili”, l’interpretazione accolta dalla Corte di Cassazione, con
l’ordinanza n. 22002 del 2012, per la quale il secondo comma dell’art.
819-ter c.p.c. si occupa soltanto dei rapporti tra arbitrato e processo
statuale, mentre quelli tra processo ordinario ed arbitrato sono regolati
dall’art. 50 c.p.c.; invece, costituisce diritto vivente, per il giudice delle
leggi, la conclusione che l’art. 819-ter, comma 2, c.p.c. inibisce l’applicazione di regole corrispondenti a quelle enunciate dall’art. 50 c.p.c., tanto
nel caso in cui sia l’arbitro a dichiararsi incompetente a favore del giudice
statale, quanto nell’ipotesi inversa.
Successivamente, richiamando i propri precedenti circa la funzione
dell’arbitrato (sentenza n. 376 del 2001) e in ordine alla necessità della
conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel
caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della
giurisdizione (sentenza n. 77 del 2007), conclude che “l’errore compiuto
dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo
effettivamente competente, una decisione sul merito della lite”. L’art. 24
Cost. impone che l’ordinamento giuridico preveda misure idonee ad
evitare che la scelta sbagliata del giudice al quale è proposta la domanda
abbia ricadute negative per i diritti oggetto della controversia; in particolare, se la parte sia incorsa in errore nello scegliere tra giudice ed arbitro,
alla stessa maniera di quanto accade per i rapporti tra giudice ordinario e
giudice speciale, è necessario che sia assicurata la conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice
o all’arbitro incompetenti.
Questa decisione ricalca quella del 2007 in materia di difetto di
giurisdizione; oggi, come allora, la Corte Costituzionale sancisce la sussistenza del principio di salvezza degli effetti della domanda giudiziale
proposta ad un ufficio che non ha il potere di giudicare, ma non si occupa,
né avrebbe potuto farlo, delle modalità tecniche di applicazione di esso e
di ulteriori questioni che stanno accanto o a valle di quella affrontata e
risolta.
Giova evidenziare che, non essendo stata colpita dalla censura di
incostituzionalità la parte del comma secondo dell’art. 819-ter c.p.c. che
stabilisce la non applicabilità, nei rapporti tra giudice ed arbitro, di regole
(6 )
Pertanto non sono colpite dalla pronuncia di incostituzionalità le disposizioni
contenute nei commi 1 e 3 dell’art. 819-ter e neppure quelle del secondo comma che escludono
l’applicabilità, nei rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti agli articoli 44, 45,
48 e 295 c.p.c.
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corrispondenti agli articoli 44, 45 e 48 c.p.c., non è stata espunta dal
sistema, in modo diretto dalla Corte, la regola per la quale il giudice ad
quem non è vincolato dal provvedimento di diniego della competenza
emesso da quello a quo e non è costretto, in caso di dissenso, a proporre
regolamento di competenza d’ufficio.
Ne segue una situazione di incertezza, rispetto alla quale il solo
elemento sicuro è che, anche nei rapporti tra arbitro e giudice, deve essere
assicurata la conservazione degli effetti della domanda originaria, mentre
restano non definite le regole corrispondenti a quelle dell’art. 50 c.p.c. che
dovrebbero essere applicate per conseguire tale risultato.
Prima di affrontare ex professo gli interrogativi ed i dubbi, deve essere
ancora osservato che il contenuto della sentenza della Corte e, prima
ancora, delle ordinanze di rimessione induce a ritenere che gli effetti della
pronuncia di incostituzionalità siano circoscritti alla disciplina dell’arbitrato rituale e non si propaghino, invece, a quella dell’arbitrato irrituale o
libero (7).
3. Quante volte si sia chiamati a disciplinare un fenomeno in senso
lato di translatio iudicii, in modo tale che il trasferimento di una causa da
un giudice ad un altro non pregiudichi il diritto dell’attore ad ottenere una
sentenza di merito e consenta la conservazione degli effetti della domanda
originaria, debbono essere affrontati e sciolti taluni nodi.
Innanzitutto, occorre individuare il modello di riferimento: riassunzione-prosecuzione della causa davanti al giudice indicato, sulla falsariga
di quanto stabilito dall’articolo 50 c.p.c. con riguardo alla declinatoria
della competenza tra giudici dello stato oppure riproposizione della domanda secondo quanto previsto per l’esercizio dell’azione di fronte al
secondo giudice e instaurazione di un nuovo giudizio, sulla base di quanto
imposto, con riferimento al diniego di giurisdizione, dagli articoli 59 l.
69/2009 e, in modo più coerente, dall’art. 11 d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104 (c.d.
codice del processo amministrativo)? Circa la forma dell’atto, le differenze tra i due schemi non sono secondarie: la riassunzione è un mero atto
d’impulso processuale, con il quale è richiamato il contenuto del precedente atto introduttivo e che può essere compiuto da qualsiasi parte del
processo; per contro, la riproposizione della domanda, introducendo un
nuovo giudizio sebbene in continuità con quello vecchio, deve essere
predisposta secondo le tecniche e le regole del processo ad quem, può
essere effettuata soltanto dall’originario attore e deve contenere una editio
(7) Confronta, nello stesso senso, CONSOLO, Il rapporto tra arbitri-giudici ricondotto, e
giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata
e viceversa, in Corr. giur. 2013, 1109 ss., specie 1109-1110; BOVE, Sulla dichiarazione di parziale
incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c., § 7, in corso di pubblicazione in Giust. proc. civ., 2013,
fasc. 4.
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actionis che, pur avendo a riferimento la situazione materiale già esercitata con la prima domanda, dal punto di vista sia sostanziale sia processuale, sia in linea con le caratteristiche delle tutele azionabili di fronte al
nuovo giudice (8).
In secondo luogo, è necessario regolare il procedimento di ripresa
della causa davanti al giudice competente, stabilendo il momento dal
quale essa possa essere riassunta o riproposta, il termine perentorio per il
compimento delle attività necessarie e le conseguenze per la sua inosservanza.
In terzo luogo, deve essere dettata la disciplina di raccordo tra i due
processi; in particolare, si deve chiarire se: a) restano ferme oppure no le
preclusioni maturate nella fase processuale che si è svolta dinanzi al
giudice a quo; b) conservano o meno effetti, ed eventualmente quali, gli
atti posti in essere nel primo giudizio e, in specie, le prove raccolte in esso;
c) perdono o meno efficacia le misure cautelari concesse dal primo
giudice.
Infine, ci si deve chiedere se, in caso di tempestiva ripresa della
controversia, le parti ed il giudice siano vincolati dalla decisione resa circa
l’incompetenza dichiarata e la competenza affermata. In caso di risposta
positiva a tale interrogativo: a) deve essere previsto l’obbligo di indicare,
nella pronuncia declinatoria della potestas iudicandi del giudice adito,
quale sia l’ufficio competente; esigenza questa che si apprezza vieppiù
quante volte il diniego provenga dall’arbitro e la lite appartenga alla
cognizione del giudice dello stato; b) deve essere specificato se il giudice
ad quem abbia oppure no il potere di rimettere d’ufficio la questione alla
Corte di Cassazione, ove dissenta dalla decisione assunta dal primo.
Quali sono le ricadute della sentenza della Corte Costituzionale
rispetto a tali problemi? E, prima ancora, qual’è la portata innovativa
della stessa?
Di certo, la pronuncia in commento non introduce nell’ordinamento
regole nuove rispetto a quelli che si possono definire i “temi a valle” del
trasferimento del processo dal giudice dello stato agli arbitri e viceversa
(vincolo del giudice ad quem rispetto alla declinatoria di competenza e suo
modo di operare; conservazione o meno degli effetti degli atti compiuti nel
primo giudizio e dei provvedimenti emessi dal tribunale incompetente; e
così via); la disciplina di essi è rimessa, dunque, all’intervento del legislatore (9).
Peraltro, sembra che anche in ordine alla tecnica della ripresa del
giudizio (riassunzione-prosecuzione oppure riproposizione della domanda) l’interprete e il futuro legislatore abbiano le mani libere; il giudice
(8 )
( 9)
Al riguardo, confronta LUISO, op.cit., 9-10.
In questo modo, già CONSOLO, op.cit., 1111-1112.
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delle leggi si è limitato a sancire la necessità dell’accoglimento, nei
rapporti tra giudice ed arbitro, del principio della salvezza degli effetti
della domanda originaria, ma non ha inserito, in via immediata, nell’ordinamento un regolamento identico a quello operante tra giudici dello
stato con riguardo alla declinatoria di competenza, incentrato sulla riassunzione ex art. 50 c.p.c. e sulla traslatio iudicii, per cui anche in ordine a
tale decisivo aspetto sussiste oggi una lacuna che deve essere in qualche
maniera colmata. (10)
4. Non è possibile fornire in via interpretativa la soluzione di questi
problemi; è indispensabile l’intervento del legislatore, il quale deve dettare un’apposita e specifica disciplina.
Ciò, principalmente, per due ordini di motivi.
La prima ragione è rappresentata dalla considerazione che talune
scelte sono assolutamente discrezionali, prescindono dal modello generale
adottato e non sono imposte da aspetti di ordine logico e giuridico
qualificabili come condizionanti. Un esempio per tutti: una volta riconosciuta l’efficacia vincolante della decisione del giudice di merito a quo
rispetto a quello ad quem circa l’operatività o meno della convenzione di
arbitrato e, quindi, in ordine all’incontestabilità da parte del secondo della
pronuncia del primo, resta da stabilire se il tribunale (pubblico o privato)
di fronte al quale è trasmigrata la causa abbia o meno il potere di sollevare
d’ufficio la questione di fronte alla Corte di Cassazione e, in caso di
risposta negativa, quale sia lo strumento tecnico (regolamento di competenza, regolamento di giurisdizione o altro ancora), quali siano i termini e
quali siano gli effetti prodotti sul giudizio di merito; la risposta a queste
domande prescinde del tutto dallo schema generale accolto (riassunzione
ovvero riproposizione della domanda), come è dimostrato, da un lato,
dagli artt. 44 e 45 c.p.c. e, dall’altro lato, dagli artt. 59, comma 3, l. 69/2009
e 11, comma 3, del c.p.a.
Il secondo argomento è costituito dal rilievo che entrambi i riferimenti di diritto positivo — la riassunzione dell’art. 50 c.p.c. e la riproposizione della domanda di cui agli artt. 59 l. 69/2009 e, soprattutto, 11 del
c.p.a. — non si attagliano completamente ai rapporti tra arbitro e giudice
dello stato.
La tecnica della riassunzione con conseguente prosecuzione del processo originario, dettata dall’art. 50 c.p.c. in caso di declinatoria di competenza nelle relazioni tra giudici ordinari, mal si presta ad essere utilizzata con riferimento ai rapporti tra giudizio arbitrale e giudizio statale, a
causa della radicale diversità di regole processuali nell’uno e nell’altro. In
particolare, specialmente nelle ipotesi di translatio iudicii dal tribunale
(10)
Analogamente BOVE, op. cit., § 5; contra, CONSOLO, op. cit., 1110 ss.
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ordinario a quello privato, la necessità che venga costituito il collegio
arbitrale prima della eventuale prosecuzione del processo non permettono
di tener fermo l’atto introduttivo del primo giudizio e di ritenere bastevole
il compimento di un semplice atto di riassunzione. Anche la disciplina
concernente lo svolgimento dei due processi presenta tratti di differenziazione troppo accentuati per ammettere una mera translatio iudicii; per
convincersi di ciò, basti pensare al regime delle preclusioni, delle prove,
delle nuove domande in corso di causa, degli interventi e della chiamata di
terzi (11).
Però, anche il sistema della riproposizione della domanda, nella sua
forma più coerente che è quella risultante dall’art. 11 del c.p.a., essendo
invece un ibrido la disciplina risultante dall’art. 59 l. 69/2009, seppure
incentrato sulla riproposizione della domanda e, dunque, sotto questo
punto di vista, maggiormente adeguato a regolare il trasferimento del
giudizio dal tribunale arbitrale a quello pubblico e viceversa, presenta
aspetti di criticità, allorché sia integralmente applicato ai rapporti tra
giudice ed arbitro. Infatti, tali ultimi rapporti sono ricondotti dal codice di
rito non alla giurisdizione ma alla competenza. Inoltre, i due giudizi, pur
alquanto diversi per ciò che attiene alle regole di svolgimento, hanno i
medesimi caratteri e lo stesso oggetto: si tratta sempre di processi di
accertamento, che dichiarano il modo di essere delle situazioni soggettive.
Ben diverso discorso vale, invece, per il processo amministrativo e per
quello civile, così differenti tra di loro per la struttura e per l‘oggetto: l’uno
di tipo impugnatorio e volto al controllo del potere e del suo esercizio;
l’altro di natura dichiarativa ed avente per oggetto direttamente i diritti
sostanziali preesistenti al processo.
In definitiva, appare non eludibile l’intervento del legislatore, che è
chiamato a prevedere una disciplina ad hoc, sulla base delle peculiarità e
delle caratteristiche sia dei due giudizi sia della questione che concerne
l’individuazione del tribunale (pubblico o privato) cui spetta il potere di
giudicare.
5. La sentenza della Corte Costituzionale ha introdotto nell’ordinamento, con operatività immediata, la regola che, nei rapporti tra giudice
ed arbitro, è consentito riprendere il processo davanti all’ufficio la cui
competenza sia stata riconosciuta, con salvezza degli effetti della domanda
originaria.
Da questo punto in avanti, però, si brancola nel buio, in quanto, sino
a che non interverrà il legislatore, l’operatore deve ricavare in via inter(11) Così, ad esempio: quale sorte hanno nel giudizio che prosegue di fronte agli arbitri
le domande proposte in via riconvenzionale o contro terzi chiamati, che riguardano pretese che
non rientrano nella convenzione di arbitrato?
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pretativa le modalità tecniche attraverso le quali può essere conseguito
tale risultato, balzando da una norma all’altra.
Nell’auspicio che il Parlamento provveda rapidamente, nell’attesa,
non si può sfuggire, tuttavia, ad una scelta tra i due paradigmi normativi:
quello dell’art. 50 c.p.c. e quello degli artt. 59 l. 69/2009 e 11 c.p.a.
Due sono i capisaldi da cui prendere le mosse: da un lato, l’estraneità
e la diversità tra giudizio statale ed arbitrale sotto l’aspetto del rito
applicabile; dall’altro lato, l’identità di oggetto, di struttura e di funzione
tra i due processi, i quali, allo stesso modo, risolvono una lite insorta tra
due soggetti, dichiarando l’esistenza o meno della situazione sostanziale
controversa e dettando la regola di condotta per il futuro (12).
Entrando ora nel particolare, la tecnica per riprendere la lite è quella
della riproposizione della domanda; tale conclusione è imposta dalla
radicale diversità di regole processuali nell’una e nell’altra sede (13).
È necessario, cioè, instaurare un nuovo giudizio mediante un nuovo
atto introduttivo, nel rispetto delle norme processuali previste per il rito
applicabile (14). In tale modo, sono fatti salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda originaria — del resto, oggi, la domanda
proposta agli arbitri è in grado di produrre i medesimi effetti di quella
introduttiva del processo statale — sempre che, ovviamente, il nuovo atto
abbia lo stesso petitum sostanziale e processuale di quello invalidamente
radicato davanti al tribunale incompetente.
Il riferimento normativo è costituto dagli artt. 59 l. 69/2009 e 11 c.p.a.,
per cui il giudizio deve essere riproposto entro il termine perentorio di tre
mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia (art. 59, comma 2, l.
69/2009 e art. 11, comma 2, c.p.a.).
Se la tecnica è quella della riproposizione della domanda, si dovrebbe,
poi, ritenere che essa possa essere introdotta soltanto dall’attore e non
anche dalle altre parti, che debba essere conferito un nuovo mandato al
legale e che l’atto debba essere notificato personalmente ai soggetti
convenuti.
Poiché i due giudizi presentano oggetti sostanziali omogenei, come
uguali sono le tecniche di tutela (dichiarativa e cautelare) che vengono in
campo, è da ritenere che le misure cautelari concesse dal primo giudice
(12) La Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ha valorizzato quest’ultimo
elemento, sostenendo che il giudizio degli arbitri è potenzialmente fungibile con quello degli
organi della giurisdizione.
(13) Così già BOVE, op. cit., § 5 ss., sulla base del rilievo che i rapporti tra giudice pubblico
e privato sono riconducibili alla giurisdizione; in forza delle premesse accolte circa la portata
della sentenza della Corte, invece, CONSOLO, op. cit., 1110 ss., ricorre allo schema della
riassunzione ex art. 50 c.p.c.
(14) Trova applicazione il comma 2 dell’art. 59 l. 69/2009, nella parte in cui dispone che
“la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al
giudice adito in relazione al rito applicabile”.
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conservino efficacia. Tale soluzione esce rafforzata dalla considerazione
che, di regola e fatto salvo soltanto il caso della sospensione delle delibere
impugnate (art. 35, comma 5, d.lgs. 5/2003), il potere cautelare appartiene
al giudice dello stato, quantunque la controversia sia compromessa in
arbitri.
Da escludere, invece, che le preclusioni processuali eventualmente
maturate nel primo procedimento valgano anche nel secondo, posto che
talune attività nel giudizio arbitrale non possono addirittura essere compiute (ad esempio, proposizione di domande riconvenzionali o verso terzi,
relative a diritti sostanziali non ricompresi nella convenzione) e che, ove
operassero nel procedimento arbitrale le preclusioni intervenute in quello
ordinario, le parti subirebbero, all’interno del primo, limitazioni ai propri
poteri non stabilite con la convenzione.
Le prove raccolte davanti al giudice (pubblico o privato) possono
essere valutate per lo meno come argomenti di prova, a meno che le
modalità di assunzione delle stesse non siano incompatibili con quelle
prescritte dalle norme processuali del rito applicabile davanti all’ufficio ad
quem; problema quest’ultimo che può porsi, specialmente, nel passaggio
dal giudizio arbitrale a quello statale (art. 59, comma 5, l. 69/2009 e art. 11,
comma 6, c.p.a.) (15).
Infine, è necessario che sia previsto il vincolo del giudice al quale è
riproposta la domanda rispetto alla pronuncia declinatoria della potestas
iudicandi; per esso è incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza indicata. Ciò significa, però, che l’arbitro non potrà limitarsi a statuire
che la controversia appartiene al giudice ordinario, ma dovrà anche stabilire
quale sia l’ufficio competente; in modo corrispondente, l’eccezione d’incompetenza formulata in sede arbitrale, sarà considerata inammissibile se
non sia indicato il tribunale pubblico ritenuto competente (16).
A questo proposito, però, sorge un dubbio, non risolvibile in via
interpretativa: fatto salvo il caso in cui la pronuncia provenga dalla Corte
di Cassazione, alla quale il giudice designato non può in alcun modo
sottrarsi, è consentito a quest’ultimo, ove vada di diverso avviso rispetto al
tribunale remittente, sollevare d’ufficio il conflitto di fronte alla Suprema
Corte? Poiché i rapporti tra arbitri e giudici sono assimilati alla competenza per territorio derogabile, adottando il criterio dell’art. 44 c.p.c., tale
domanda dovrebbe avere risposta negativa, anche se l’opposta soluzione
appare preferibile.
Come è facile intendere, l’operatore è chiamato a compiere un vero
(15) Si pensi, ad esempio, alle prove testimoniali che gli arbitri abbiano assunto con le
modalità di cui all’art. 816-ter, comma 2, c.p.c.
(16) Si applicano, dunque, in via analogica, gli artt. 59, commi 1 e 2, ed 11, comma 1,
c.p.a.
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e proprio slalom, saltando da una norma all’altra, con il rischio elevatissimo di incorrere in una buca e di cadere a terra.
Per quanto elevata sia la capacità dell’interprete di muoversi nei
meandri degli istituti coinvolti nei fenomeni riconducibili in senso lato alla
translatio iudicii, è pressoché impossibile fornire risposte anche soltanto
relativamente sicure a questi interrogativi.
Il pericolo che trovi applicazione il vecchio brocardo tot capita, tot
sententiae è elevatissimo.
L’intervento del legislatore deve essere immediato, per scongiurare che
errori processuali causati dall’incertezza delle regole applicabili rendano
difficile o addirittura impediscano alla parte di realizzare la conservazione
degli effetti della domanda erroneamente proposta a giudice (pubblico o
privato) sfornito del potere di giudicare in ordine alla controversia.
SERGIO MENCHINI
IV
1. L’idea della potenziale fungibilità dei mezzi per il risultato ha
indotto la Consulta a dare corpo all’esigenza di non vanificare la protezione del soggetto che, esercitando il diritto di azione, incorre nella fin de
non-recevoir dell’organo adito per un riscontrato difetto di competenza (in
senso lato) nel rapporto giudice privato/giudice pubblico. Echeggiando la
tematica della competenza, la decisione aggiunge peraltro un anello alla
nota catena di eventi che va sotto il nome di translatio: dapprima le Sezioni
Unite del 2007 con immediato feedback della Corte costituzionale; di
seguito l’art. 59 l. n. 69/2009 e l’art. 11 c.p.a. La direzione della sentenza
non può che trovare concordi gli interpreti, malgrado che, risolvendo un
problema di fondo, essa ne apra altri, anche in considerazione del fatto che
ormai translatio è diventata una sparkling word, buona a tutto (finanche
all’impensabile: v. in proposito lo sproposito di Cass. S.U. n. 2312/2012).
Ecco dunque il riconoscimento che un giudizio proveniente da arbitro
è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione
statuale: la Corte costituzionale emenda il codice di rito imponendo la
possibilità del passaggio da una tutela all’altra, in una corrispondenza
biunivoca che presuppone la reciprocità tra le due tutele. Si sa che questa
reciprocità era stata negata dalla ordinanza della Corte di cassazione n.
22002/12 (ampiamente presa in considerazione dalla stessa Corte costituzionale) che, introducendo la possibilità della translatio, l’aveva però
limitata al passaggio dal giudice agli arbitri, offrendo un facile bersaglio ai
commentatori. Si può però ritenere che, in tutta la sua irragionevolezza,
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sia stata proprio questa pronuncia ad aver asfaltato la strada percorsa poi
fluidamente dalla Consulta. Pur immersa in una curiosa logica autarchica
volta a garantire alla sola giurisdizione (ordinaria) la possibilità di condonare l’errore nella scelta iniziale dell’organo di tutela, la Cassazione aveva
eretto comunque un ponte tra due mondi che l’articolo 819-ter comma 2
c.p.c. sembrava rendere incomunicabili: una volta gettato il ponte appare
palesemente irrazionale porre all’imbocco di uno dei lati un cartello di
divieto di accesso.
2. Il secondo comma dell’art. 819-ter fu scritto per reagire alle defatiganti prassi domestiche, che — complice una malintesa ideologia “giurisdizionalistica” della Cassazione — rendevano lo svolgimento del giudizio arbitrale ancillare rispetto alla giurisdizione pubblica e lo esponevano
al ricatto continuo della sospensione. Con il tema della sospensione la
dinamica dell’art. 50 c.p.c. ha in realtà poco a che fare, ma il richiamo
anche di tale articolo nel comma in discorso fu frutto della opacità del
quadro, mancante all’epoca della possibilità di translatio tra organi eterogenei. In tale situazione il legislatore ammise il regolamento di competenza ma, prudentemente, solo rispetto alla pronuncia del giudice. Non
solo quindi contribuì ad adombrare la logica monodirezionale a cui si è
aggrappata la pronuncia della Cassazione, ma si sentì obbligato a non
vincolarsi, attraverso la recezione della dinamica delle pronunce sulla
competenza, ad una scelta sulla natura del rapporto tra procedimento
arbitrale e procedimento giurisdizionale (se rapporto di competenza, di
giurisdizione o di altro ancora). Le idee erano (e, beninteso, restano)
ancora confuse sul piano classificatorio, un piano dove dominano ancora
le preferenze tassonomiche degli interpreti.
La successiva attuazione dell’idea della translatio (termine che continuo ad usare solo per comodità) ha alterato non poco il contesto. Il
postulato dell’equivalenza di fondo — che non vuol dire identità — dei
responsi di tutela dei diritti attingibili tramite la tecnica “domanda/organo
giudicante/contraddittorio”, inibisce di penalizzare l’errore di chi sbaglia
ad imboccare la via della tutela; tantopiù che la qualificazione come errore
della scelta è spesso un posterius poco visibile ex ante, l’effetto del senno
di poi, la conseguenza di decisioni interpretative difficili e, quindi, non
obbligate a priori, imprevedibili in una certa misura. In un quadro siffatto
non v’è alcuna ragione perché i rapporti tra giurisdizione pubblica e
giurisdizione privata facciano eccezione.
La sentenza della Consulta questo coglie e l’efficacia e la semplicità
con cui lo mostra stanno ad indicare la naturalezza della scelta.
3. Il rapporto tra il tenore della dichiarazione di incostituzionalità e la
struttura della norma considerata apre però problemi tecnici di vario
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momento. Che deve fare la parte a cui viene sbarra la via della tutela
imboccata a favore dell’altra via? Si applicherà tout court l’art. 50 c.p.c.
(riassunzione vera e propria nei termini dettati dall’articolo), ovvero si
dovrà pensare alla riproposizione dell’azione con atto autonomo in luogo
della ripresa della procedura falciata dalla fin de non-recevoir? La seconda
soluzione sembra obbligata. Non ci si può far ingabbiare dal riferimento
all’art. 50 c.p.c., riferimento imposto alla Corte, in considerazione del testo
incriminato e del tenore delle rimessioni: il divieto di passaggio dall’una
all’altra via fu formulato dal legislatore del 2006 con il richiamo a tale
norma, onde il dispositivo della sentenza di accoglimento non può fare
altro che esprimersi di conseguenza (“illegittimità costituzionale dell’art.
819-ter, secondo comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai
rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni
dell’art. 50 c.p.c.”).
La soluzione della riassunzione si scontra però frontalmente con la
netta separazione del genus del procedimento di provenienza rispetto al
genus del procedimento da adottare nella diversa dimensione giurisdizionale. La riassunzione del procedimento richiamata dall’art. 50 c.p.c. è il
mezzo per una pura e semplice continuazione: ciò presuppone una identità
procedimentale addirittura inconcepibile nel nostro caso, un caso in cui
tanto le tecniche di introduzione della controversia, quanto quelle di
gestione del procedimento sono totalmente diverse. Non si capisce come
si possa parlare di continuazione: cos’è che continua? A quale soggetto si
aggancia il predicato?
La verità è che, parlando di translatio tra forme di tutela eterogenee
(pur se unificate dal fine e dal rispetto di comuni principi) si ricorre ad
un’immagine generica, meramente evocativa dell’esigenza di impedire che
l’errore nella scelta dell’organo produca le conseguenze irreparabili connesse alla mancata sterilizzazione degli eventi successivi. Per soddisfare
questa esigenza è sufficiente munire di retroattività la proposizione della
domanda all’organo sbagliato in caso di tempestiva riproposizione della
domanda all’organo corretto, senza dover immaginare l’impossibile, cioè
la prosecuzione di iter procedimentali eterogenei, talmente eterogenei che
il mero atto di impulso non è neppure immaginabile: per definizione gli
atti di impulso possono solo rimettere in moto un procedimento sopito ma
non chiuso, quindi idoneo alla riapertura aliunde. L’impulso non può
quindi mai sostituire una nuova domanda doverosamente articolata nelle
forme ad hoc imposte dalla regola di procedura concretamente applicabile. Il fatto che tale domanda veicoli la stessa cause of action su cui non
si è potuto pronunciare il primo organo, non contraddice il fatto che il
secondo organo deve essere investito da una autonoma domanda, confacente alla sua posizione e distinta rispetto a quella recapitata all’indirizzo
sbagliato.
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4. A ben guardare, comunque, il richiamo della Consulta all’art. 50
c.p.c. è temperato dal fatto che tanto l’art. 819-ter comma 2 quanto il
dispositivo della sentenza parlano (non di applicazione diretta, ma) di
applicazione di “regole corrispondenti alle previsioni” di tale articolo. Ciò
agevola la possibilità di andare al nocciolo del problema che è quello di
evitare la penalizzazione dell’attore che ha sbagliato strada, senza restare
impaniati in impossibili meccanismi di riassunzione. E proprio il rapporto
tra giurisdizione pubblica e giurisdizione privata mostra in maniera esemplare questa impossibilità. Di che riassunzione mai si potrà mai parlare
quando, a seguito della declinatoria del tribunale, occorrerà costruire ex
nihilo il procedimento arbitrale, a cominciare dalla nomina degli arbitri?
Si veda in proposito l’art. 810 e si osservi la successione di atti: si può
qualificare riassunzione la notifica dell’atto con cui la parte “rende nota
all’altra l’arbitro o gli arbitri che essa nomina, con invito a procedere alla
designazione dei propri”? Potrà mai considerarsi una vera riassunzione
quel che avviene spesso (e legittimamente) nell’arbitrato amministrato,
cioè il deposito della domanda presso la Camera arbitrale (in attuazione
del relativo regolamento scelto dalle parti), deposito che fa le veci delle
regole di introduzione della domanda arbitrale sancite dal codice di rito?
E che dire dell’arbitrato societario dove l’attore deve adire una
appointing authority, secondo modalità spesso prescritte dallo statuto, con
atto talora solo genericamente identificativo della materia del contendere?
Certo, per poter fruire del beneficio della retroattività occorre un certo
grado di chiarezza sulla sostanziale identità della editio actionis rispetto
alla prima, ma non si vede come una simile procedura possa assimilarsi
alla riassunzione, termine tecnico a significato univoco (almeno fino ad
una — non auspicabile — ridefinizione).
La cosa diventa poi quasi umoristica se la si guarda dall’altra sponda.
Si immagini la faccia del cancelliere presso il quale si vuol riassumere ...
che cosa? Un procedimento che non risulta da nessuna parte, né presso il
suo ufficio né presso alcun altro ufficio giudiziario? E ancora più stralunata si presenterebbe la richiesta nello scenario prossimo venturo del
processo telematico, che si regge sulla conformità di ogni passo a protocolli rigidamente formalizzati, tra i quali è decisamente dubbia la reperibilità di files idonei a permettere il tipo di passaggio dalla dimensione della
giurisdizione privata (“non-giurisdizione” per la burocrazia processuale)
alla giurisdizione pubblica. Questione di moduli, obietterà qualcuno, ma il
processo è anche (sempre di più, si direbbe) un fatto di moduli (cartacei
o elettronici).
La verità è che l’unica soluzione è quella, più modesta certo ma sola
praticabile, di accontentarsi della mera copertura retroattiva degli effetti
della prima domanda se, nei tre mesi successivi alla comunicazione del
provvedimento di chiusura in rito del procedimento contenente la negazione della via pubblica prescelta a favore della via privata, l’attore (non
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l’altra parte, come sarebbe possibile se di riassunzione/prosecuzione si
trattasse) compia formalmente l’atto di adizione della via privata secondo
le regole legali proprie del tipo di arbitrato o dettate ad hoc dalla relativa
convenzione. E, viceversa, se nei tre mesi dal lodo che dichiara l’impraticabilità della via privata, l’attore in arbitrato notifichi la citazione contenente — mutatis mutandis — l’azione già esercitata. Ovvero notifichi il
ricorso al TAR se la via giurisdizionale da seguire è quella del processo
davanti al giudice amministrativo.
Termini congelati, ovviamente, dalla (sempre possibile) impugnazione del provvedimento di declinatoria, e riprendenti a decorrere dal
passaggio in giudicato del provvedimento di conferma.
5. Detto questo, si può solo accennare ad altri problemi incombenti
sul funzionamento del meccanismo.
Problemi seri non dovrebbero sorgere rispetto alla presenza di provvedimenti cautelari (o di relativi procedimenti in corso). Il cambio dell’organo che decide il merito non altera la competenza del giudice statuale, rispetto alla quale è indifferente l’attribuzione della potestà
decisoria all’uno o all’altro organo. Più incerto il tema della sopravvivenza
della sospensiva di delibera assembleare direttamente proveniente dal
collegio arbitrale in caso di arbitrato societario seguito da translatio al
giudice statuale. Propenderei per la conservazione: concepibile, benché
teorico per la scansione dei tempi, il reclamo, restano pur sempre al
giudice statuale la possibilità di revoca, modifica e declaratoria di inefficacia.
Posto che contro la declinatoria del giudice è ammesso il regolamento
di competenza e che il suo mancato esperimento la rende definitiva e
incontestabile, lo stesso dovrebbe dirsi del mancato esperimento dell’azione di nullità contro la declinatoria arbitrale. Ne segue che il diverso
organo successivamente adito dovrebbe attenersi alla decisione senza
possibilità di ribellione. Questo però collide tanto con la previsione
dell’art. 59 l. 69/2009, che al suo terzo comma prevede l’esperibilità del
regolamento di giurisdizione d’ufficio, quanto con lo stesso art. 50 c.p.c. di
cui è appendice l’art. 45 sul c.d. conflitto di competenza: unica soluzione
sarebbe (una volta per tutte) il riconoscimento del valore vincolante della
decisione del primo organo, nella riconosciuta inapplicabilità diretta di
ambedue le discipline. Non è facile raffigurarsi un consenso esteso su
questa conclusione, ma la sensibilità della dottrina in tal senso appare
grandemente accresciuta e la sua diffusione promettente.
Da ultimo. Si può scommettere tranquillamente che il meccanismo
propugnato dalla Corte costituzionale verrà inteso come avente a termine
esclusivo di riferimento l’arbitrato rituale. Sarà questa linea a prevalere,
ma per inerzia di pensiero più che per fondatezza intrinseca. La Corte
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pone certo al centro della sua motivazione la “fungibilità di risultati” ma,
mi chiedo, forse la declinatoria proveniente dal giudice pubblico si cura di
chiarire la natura dell’arbitrato che funge da presupposto processuale
negativo? No di certo (e se lo facesse lascerebbe il tempo che trova non
essendo certo questo l’elemento portante e vincolante). Ora, ammettiamo
che l’attore abbia ottenuto un sequestro da parte del tribunale che si
spoglia però del merito ritenendo valida ed efficace una convenzione
d’arbitrato. è concepibile che, se tale convenzione indirizzi verso l’irritualità, egli, imboccando prontamente la via arbitrale, perda i benefici connessi alla domanda giudiziale e, con essi, lo stesso sequestro che la legge
gli garantisce indipendentemente dalla ritualità o meno dell’arbitrato? La
risposta positiva (che mi aspetto verrà ripetuta in coro) non ha senso.
L’art. 808-ter procedimentalizza fortemente l’arbitrato irrituale, garantendo il contraddittorio e la pronuncia di un organo terzo che non ha
meno autorità tra le parti rispetto a quella contemplata dall’art. 825 c.p.c.
per il fatto che il suo eventuale annullamento deve provenire “dal giudice
competente secondo le disposizioni del libro I”, invece che secondo il Capo
V del Titolo VIII del codice di rito.
Credo di aver dimostrato in altre occasioni i presupposti di questa
conclusione; non mi illudo che possa prevalere su radicati pregiudizi.
BRUNO SASSANI
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CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 10 ottobre 2011, n. 20741; FORTE
Est.; Sectram Servicos Comerciais Para Trasportes s.a. (avv. Manfredi) Millennium Shield s.r.l. in liquidazione (avv. Flavio Barigelletti).
Compromesso e clausola compromissoria - Interpretazione - Oggetto - « Controversie connesse all’esercizio dell’attività sociale » - Acquisto della qualità di
socio - Attività dannosa eseguita prima dell’acquisto - Compromettibilità Fondamento - Fattispecie.
La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società che preveda
la devoluzione ad arbitri delle controversie « connesse più in generale all’esercizio
dell’attività sociale » deve ritenersi estesa ad una domanda risarcitoria derivante da
attività svolta prima dell’ingresso nella compagine sociale da parte del socio, se i
danni lamentati si sono verificati dopo l’acquisto di tale qualità e se, comunque, con
la sua condotta anche anteriore, il socio abbia concorso ad impedire lo svolgimento
dell’attività sociale, con comportamento violativo degli obblighi assunti con i patti
parasociali. (Nella specie il socio, titolare dell’1% del capitale sociale, era rimasto
inadempiente all’obbligo di riempire il 72% della capienza della nave, di proprietà
della società, destinata a svolgere l’attività sociale di trasporto via mare di automezzi
pesanti).
CENNI DI FATTO. La società di diritto portoghese Sectram - Servicos Comerciais
Para Trasportes s.a. acquisiva l’1% del capitale sociale appartenente nel residuo
99% alla O.T.C. Overseas Trading Consulting s.r.l. (da ora: O.T.C.) della Millennium Shield s.r.l. (d’ora in poi: Millennium), società costituita per realizzare
l’indicato programma con una nave della società di cui era divenuta socia.
La stessa società portoghese, che già forniva nel suo paese servizi di assistenza
commerciale e amministrativa ad autotrasportatori, si era impegnata a riempire il
72% della capienza della nave della Millennium da utilizzare per l’attuazione del
programma con automezzi di clientela portoghese, garantendo con l’adempimento
di tale obbligo l’esecuzione del progetto da lei proposto e divenuto programma
societario.
Peraltro, essendo sin dall’inizio dell’attività sociale mancato il riempimento
della nave con autoarticolati e automezzi di clienti portoghesi nella percentuale
per la quale la Sectram s.a. si era impegnata (nei primi due viaggi i mezzi
trasportati erano stati meno di dieci), il programma societario fatto proprio dalla
Millennium era stato subito chiuso con gravi perdite e la società aveva notificato
alla socia minoritaria il 22 maggio 2001 atto di accesso a giudizio arbitrale, con
richiesta di condanna al risarcimento del danno. Non essendosi trovato tra le parti
l’accordo sul nome dell’arbitro unico di cui alla clausola compromissoria dello
statuto sociale, in conformità a questa, l’arbitro era stato nominato dal presidente
dell’ordine dei commercialisti di Ancona e l’eccezione della Sectram di inammissibilità e improcedibilità del giudizio arbitrale era stata respinta nel lodo così come
la sua domanda riconvenzionale di condanna dell’attrice al risarcimento del danno
ad essa prodotto per avere imposto di iniziare la esecuzione del programma di
trasporto in un periodo di scarso movimento delle merci e contro la volontà della
socia minoritaria.
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Il lodo del 27 settembre 2001 aveva invece parzialmente accolto la domanda
principale, condannando la convenuta al risarcimento del danno per il suo inadempimento causa unica della fine dell’attività della Millennium. Tale lodo è stato
impugnato dinanzi alla Corte d’appello di Ancona dalla Sectram, che ha dedotto
in via preliminare che la clausola compromissoria dell’art. 24 dello statuto sociale
non comprendeva l’azione risarcitoria esercitata tra quelle compromettibili, per
cui l’arbitro non aveva il potere di decidere la controversia; la causa inoltre era
stata decisa senza applicare le norme sull’arbitrato internazionale del codice di rito
italiano e nonostante il mancato accoglimento delle istanze istruttorie della
impugnante.
La Corte di merito ha rigettato l’eccezione già proposta nel giudizio arbitrale,
di incompetenza dell’arbitro per la inapplicabilità oggettiva della clausola compromissoria essendo l’impugnante divenuta socia della Millennium, dopo che già
si erano verificati i fatti a base dell’azione risarcitoria, per cui la domanda non era
collegabile alla condizione di socia della società portoghese, ma alla mera connessione del rapporto di agenzia di essa con la società o l’altra socia O.T.C., al di fuori
della stessa attività sociale.
Con sentenza del 10 settembre 2005, la Corte d’appello di Ancona ha
rigettato l’impugnazione del lodo della Sectram, riconoscendo la competenza
dell’arbitro sulla controversia considerata comunque connessa all’attività sociale,
anche se il danno era derivato da attività precedente all’acquisto della qualità di
socia della condannata, nessun rilievo avendo il fatto che si versava in una ipotesi
di arbitrato internazionale, non avendo l’impugnante chiarito come in concreto
tale carattere del giudizio arbitrale avesse inciso sulla validità del lodo, mancando
nella impugnazione ogni accenno alla nullità di quest’ultimo per effetto della
nazionalità portoghese della società impugnante, ai sensi dell’art. 838 c.p.c. nella
versione ratione temporis applicabile.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1.1. Il primo motivo di ricorso di Sectram
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., n. 4 e art. 817 c.p.c.,
anche per motivazione contraddittoria, erronea e insufficiente, in relazione all’art.
360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte di appello di Ancona ritenuto
irrilevante che i fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria si fossero
verificati prima dell’assunzione dalla ricorrente della qualità di socia di Millennium
per l’1% del capitale, in quanto l’art. 24 dello statuto costituente clausola compromissoria, secondo il lodo, non impone la qualità di socio delle parti come
presupposto necessario dell’azione da esercitare in sede arbitrale. La clausola
recita infatti: « le controversie che dovessero insorgere tra società e ciascun socio,
ovvero tra i soci medesimi, nonché tra gli eredi del socio defunto e gli altri soci e/o
la società, connesse alla interpretazione e all’applicazione dell’atto costitutivo e/o
più in generale, all’esercizio dell’attività sociale, verranno deferite alla decisione
dell’arbitro unico ».
Ad avviso della ricorrente Sectram, la Corte di merito ha erroneamente
ritenuto equivalenti « l’attività sociale » di cui alla clausola che precede con
« l’oggetto sociale », dovendosi limitare le controversie compromettibili a quelle
relative alle impugnazioni delle delibere sociali o al trasferimento di quote sociali
o alla esclusione di un socio, perché in tali casi è certa la loro connessione a dette
attività societarie, che non comprendono ogni causa tra socio e società sul mero
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svolgimento delle attività di cui sopra come quella oggetto della presente causa.
Nessuna previsione vera nell’art. 24 dello statuto sociale di un’azione risarcitoria
per l’inadempimento da un socio di un obbligo assunto nei confronti di un altro
socio, che non è qualificabile come controversia che attiene alla attività sociale,
non avendo alla base l’interpretazione o applicazione dell’atto costitutivo né
l’esercizio della attività sociale, anche a non considerare che, nella fattispecie,
l’azione si è fondata su fatti anteriori all’acquisto della quota sociale da parte della
ricorrente e ad inadempimenti di impegni assunti prima di acquisire la partecipazione alla società attrice.
L’arbitro unico poteva giudicare solo di controversie che avessero la loro
fonte nell’atto costitutivo della società e soltanto l’errata interpretazione della
clausola ne ha esteso la portata ad un inadempimento da parte di un socio di
obblighi non direttamente connessi a tale qualità. Afferma in replica la controricorrente che esattamente la Corte di merito ha rilevato che la qualità di socio non
costituisce elemento qualificante delle azioni da esercitare in sede arbitrale,
essendo previsto nella clausola compromissoria espressamente che tutte le cause
connesse « più in generale, all’esercizio dell’attività sociale verranno deferite alla
decisione dell’arbitro unico », per cui si è esattamente negata dalla Corte di merito
la fondatezza della impugnazione del lodo per il profilo che precede dell’abuso
della competenza arbitrale.
1.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 832, 833 e 834
c.p.c. nella versione vigente prima dei D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, perché si
sarebbe dovuta applicare la disciplina dell’arbitrato internazionale per la forma
della clausola compromissoria e in specie per la previsione specifica in essa delle
norme applicabili dall’arbitro nella decisione di merito, che invece nel caso
certamente mancava.
Ad avviso della ricorrente, l’art. 24 dello statuto sociale non rispetta le
previsioni dell’art. 833 c.c., avendo Sectram la sua sede in (Omissis), in quanto non
si era stabilito quale delle normative nazionali delle parti in causa o comunitaria
dovesse applicarsi alla fattispecie, essendo peraltro chiara l’esclusione del criterio
equitativo della decisione, adottato invece nella liquidazione dei danni dall’arbitro
che su di essi ha deciso senza prove e al di fuori di ogni previsione della equità
stessa come criterio di decisione della causa nel compromesso, in violazione
dell’art. 829 c.p.c., nn. 1 e 4, già richiamato nel primo motivo di ricorso. Ad avviso
della controricorrente, non vi era violazione delle norme processuali in sede
arbitrale, essendosi le stesse adottate senza opposizione della società portoghese
che aveva accettato il contraddittorio nei limiti di quanto chiesto da controparte
già in sede di giudizio arbitrale.
1.3. Si denuncia in terzo luogo la violazione dell’art. 829 c.p.c., per omessa e
insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere
la ricorrente inutilmente denunciato nella sua impugnazione dinanzi alla Corte di
merito la mancata prova del danno subito dalla controparte.
L’arbitro ha accolto la domanda principale, violando i limiti della clausola,
per avere fatto riferimento, nel liquidare il danno subito da Millennium, alle
perdite di bilancio, al lucro cessante, al danno all’immagine e persino alle spese
sostenute dalla società O.T.C, socia maggioritaria, cioè ai danni di un terzo e non
della società attrice, per un accordo concluso prima dell’acquisto della quota
minoritaria del capitale da Sectram. La ricorrente è stata condannata dal lodo per
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danni non provati e comunque subiti da un terzo estraneo alla causa (ad es. le
spese sostenute da O.T.C, per l’acquisto del 99% delle quote della società attrice),
in violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 828 c.p.c., n. 2, non essendosi tenute in
alcuna considerazione — dall’arbitro e poi dalla Corte d’appello in sede di
impugnazione — le richieste di prova di Sectram, così sottraendosi le dette due
decisioni alla esigenza di dare ragione della condanna in danno della ricorrente,
disposta senza valutare le prove chieste dalle parti. La controricorrente afferma
che è risultato documentalmente l’inadempimento di Sectram, per non avere
procurato a Millennium i clienti autotrasportatori portoghesi nella percentuale
promessa, cioè in misura tale che, con i loro mezzi, potessero occupare il 72% della
capienza della nave della società attrice, con conseguente insuccesso dei fini della
impresa societaria dipeso solamente dalla condotta omissiva della ricorrente, che
ha del resto proposto domanda riconvenzionale poi respinta dallo stesso arbitro
comunque in rapporto alla medesima attività sociale.
1.4. In quarto luogo è dedotta violazione di legge e omessa e/o insufficiente
motivazione del lodo sul rigetto della domanda riconvenzionale della ricorrente di
condannare la Millennium a pagare Escudos portoghesi 104.460.616, da convertire
in euro, non avendo la decisione dell’arbitro affermato la mancanza di prove a
base della richiesta di tale condanna o l’assenza di un inadempimento nell’attività
sociale della stessa società attrice.
La domanda riconvenzionale decisa negativamente dall’arbitro, anche se
Sectram non era socio, della società a l’epoca dei suoi impegni rimasti inadempiuti
e posti a base dell’azione nel giudizio arbitrale, è stata respinta senza evidenziare
tale specifica situazione nel lodo, con difetto di motivazione di questo sul punto,
che si estende anche alla sentenza della Corte d’appello sulla impugnazione per
nullità.
1.5. Si lamenta infine la violazione di legge in cui è incorsa la Corte territoriale
per omessa motivazione sulla eccezione di difetto di valida procura al difensore
della società appellata, avendo Sectram dedotto e provato che Millennium era
stata posta in liquidazione con delibera dell’assemblea straordinaria della società
impugnata, del 1 ottobre 2002.
La stato di liquidazione comporta per la ricorrente la necessità che la procura
al difensore sia rilasciata dal liquidatore e non consente di prorogare l’efficacia di
quella sottoscritta dall’amministratore della società prima che fosse in stato
liquidatorio, per cui nessun potere aveva l’originario amministratore della società
in bonis di conferire valida procura, efficace e vincolante pure per la società già in
fase di liquidazione, a tutela della quale solo il liquidatore poteva conferire ai
difensori il potere di agire in giudizio.
La controricorrente afferma che l’impugnazione del lodo è stata proposta alla
Corte territoriale quando la s.r.l. Millennium non era ancora in liquidazione, per
cui il mandato al difensore era stato correttamente conferito dall’amministratore
in carica della società a quella data e nessuna invalidità inficiava la procura sulla
quale era fondata l’impugnazione, correttamente decisa dalla sentenza oggetto di
ricorso.
La controricorrente richiama Cass. 26 marzo 1983 n. 2148 per la quale,
provenendo la procura solo dalla società tramite i propri organi e quindi non dal
legale rappresentante di essa come soggetto autonomo, il conferimento di poteri
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resta valido ed efficace anche dopo lo stato di liquidazione, con conseguente
infondatezza del motivo di ricorso che precede.
2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. E’ infatti da rigettare l’eccezione
già proposta da Sectram in sede di giudizio arbitrale e con l’impugnazione alla
Corte di appello relativa alla carenza di potere dell’arbitro di decidere la controversia relativa all’inadempimento del rapporto sorto dall’accordo che la ricorrente
aveva concluso con l’altra socia O.T.C, titolare del 99% del capitale della società
attrice per svolgere in Portogallo l’attività di agente della società.
Anche se l’obbligo di procacciare clienti in Portogallo all’attrice fu assunto da
Sectram prima di divenire socia, ciò non rileva per negare che la controversia fosse
compromettibile, avendo l’inadempimento di tale impegno inciso negativamente
sulla realizzazione dello scopo della Millennium; comunque la clausola compromissoria nell’atto costitutivo della società vincola anche soggetti che non siano
soci, qualora abbiano acquisito tale qualità dopo l’approvazione dello statuto e del
compromesso in esso inserito come incontestatamente accaduto nella fattispecie
(Cass. 11 maggio 1982 n. 2945) e inoltre allorché, come si rileva nel merito, i danni
si siano avuti successivamente all’acquisto della qualità di socio del convenuto che,
con la sua condotta, ha concorso a impedire lo svolgimento dell’attività sociale,
con comportamento violativo di obblighi assunti con patti parasociali.
La controversia assoggettata alla decisione dell’arbitro sorge da una domanda
della società Millennium contro la socia minoritaria Sectram e per il profilo
soggettivo rientra tra quelle espressamente comprese nella lettera della clausola
che prevede, come compromettibili, le cause tra « la società e il socio ».
Oggettivamente la controversia si è esattamente ritenuto rientrare tra quelle
dell’art. 24 dello statuto perché riguarda « l’esercizio dell’attività sociale », cioè il
trasporto marittimo di automezzi e autoarticolati tra Portogallo e Italia, per il
quale, ancor prima di divenire socia, Sectram si era impegnata ad assicurare
clientela portoghese che coprisse almeno il 72% della capienza della nave dell’attrice destinata all’attività sociale.
Anche a dare una lettura restrittiva della clausola compromissoria, in ragione
della deroga alla giurisdizione ordinaria di natura comunque eccezionale (S.U. 28
luglio 1998 n. 7398), Sectram deduce che la condotta a lei imputata come fonte dei
danni, cioè la mancata acquisizione della clientela in Portogallo, violerebbe un
obbligo sorto prima dell’acquisizione da essa della qualità di socia, ma ciò non
esclude la competenza arbitrale sulla controversia per gli effetti di tale condotta
sulla realizzazione del programma sociale e le ragioni sopra indicate che rendono
la causa compromettibile per la clausola di cui sopra. L’inadempimento causa
petendi dell’azione di Millennium dinanzi all’arbitro non si è dedotto come effetto
di un contratto fonte di un rapporto diverso da quello di società, quale sarebbe
stato un contratto di agenzia da eseguire in favore dell’altra socia o della stessa
società attrice, e quindi non osta alla estensione alla fattispecie della deroga alla
giurisdizione ordinaria (Cass. 7 febbraio 2006 n. 2598), ove si affermi, come la
Corte d’appello, con deduzione di certo logica e giuridicamente corretta, che
nell’attività sociale erano da comprendere anche l’obbligo di Sectram e il suo
inadempimento, tanto che la stessa convenuta in riconvenzione ha chiesto la
condanna della attrice per avere preteso l’inizio dell’attività di trasporto cui ineriva
il suo impegno inadempiuto, nel periodo meno adatto perché lo stesso avesse
successo. E’ infondata la censura della ricorrente che denuncia un errore della
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Corte di merito per aver equiparato « oggetto » e « attività sociale »; infatti, ai
sensi dell’art. 2463 c.c., comma 2, n. 3, nelle società a responsabilità limitata, l’atto
costitutivo indica « l’attività che costituisce l’oggetto sociale » con evidente equipollenza dei due concetti, da cui si desume che il trasferimento via mare con la
nave dell’attrice tra Portogallo e Italia di automezzi pesanti e autoarticolati,
costituiva il programma comune venuto meno e rimasto inattuato a causa dell’inadempimento dalla ricorrente degli obblighi assunti anche quale socia, per cui
la causa è stata correttamente ritenuta di competenza dell’arbitro.
L’obbligo della ricorrente di procacciare clienti in Portogallo per occupare il
72% della capienza della nave utilizzata con mezzi di costoro, così dando esecuzione al programma sociale, trova la sua fonte nell’attività della società e non solo
nell’accordo tra il socio al 99% del capitale della società e la Sectram, anteriore
alla acquisizione della qualità di socia di questa, forse costitutivo di un rapporto di
agenzia neppure prospettato come causa petendi della lite sia in sede di giudizio
arbitrale che nell’impugnazione e nel ricorso. La violazione degli impegni della
società portoghese si è correttamente esaminata dall’arbitro designato ai sensi
dell’art. 24 dello statuto sociale, perché tali obblighi inadempiuti hanno inciso
sull’oggetto sociale e come tali sono stati considerati valido contenuto delle
controversie compromettibili, di cui correttamente ha deciso l’arbitro designato in
conformità alla clausola compromissoria. Nessuna delle norme indicate nel primo
motivo di ricorso risulta violata e la competenza dell’arbitro non può che riaffermarsi, con rigetto del primo motivo di ricorso.
2.2. In ordine al secondo e terzo motivo di ricorso gli stessi sono strettamente
collegati in relazione alle censure sulle modalità di decisione del lodo e alle norme
o principi in esso applicabili e comunque relativi a carenze di motivazione della
sentenza della corte territoriale, sono entrambi infondati.
Non si comprende, anche dopo il ricorso in questa sede, quale sia stata nel
lodo la violazione delle norme sugli arbitrati internazionali dedotta dalla ricorrente come causa di nullità del lodo, in relazione agli artt. 833 e 834 c.p.c. nella
versione vigente alla data della impugnazione e del ricorso, né la ragione per la
quale la decisione dell’arbitro avrebbe dovuto ritenersi nulla in rapporto alle
predette norme.
Ad avviso di Sectram, le parti avrebbero dovuto concordare quali regole di
diritto dovevano applicarsi nel giudizio arbitrale, in ragione delle discipline giuridiche diverse dei distinti paesi cui appartengono i due soci della società internazionale ovvero stabilire se nella fattispecie fosse applicabile la disciplina comunitaria, ma non risulta in ricorso quale di tali norme in concreto sia stata disattesa
dall’arbitro e quindi dalla Corte di merito, con conseguente genericità del ricorso
che, per tale profilo, è inammissibile.
In assenza della previsione nella clausola della specifica normativa applicabile, non poteva che rilevare l’abrogato art. 834 c.p.c., che imponeva di applicare
la legge « con la quale il rapporto è più strettamente collegato », che correttamente
s’è individuato nel diritto interno italiano, cui faceva riferimento la società prima
dell’ingresso in essa del socio straniero per una quota assolutamente minoritaria.
La ricorrente non deduce una erronea applicazione di norme di diritto nel
lodo ma denuncia, nel terzo motivo di ricorso, l’errata liquidazione equitativa dei
danni per cui vi è stata la condanna, dovendosi a suo avviso determinare il dovuto
in base ai tradizionali canoni probatori. In assenza di espresso divieto nella
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clausola, secondo la Corte d’appello, l’arbitro ha esattamente applicato nel lodo il
diritto interno, liquidando in via equitativa i danni costituiti da perdite e spese
erogate per attuare il programma societario di Millennium, tutte provate in via
documentale e nel contraddittorio tra le parti, essendo la normativa italiana quella
cui si riferiva la clausola prima ancora dell’acquisizione della quota sociale dalla
società portoghese cui il compromesso era opponibile, nessuna obiezione essendosi sollevata sullo stesso con l’acquisto della partecipazione dalla società da
Sectram. La Corte d’appello rileva che, nell’impugnazione, la natura internazionale dell’arbitrato non è dedotta come ragione di nullità del lodo, deciso con
l’applicazione del diritto interno e tale ratio decidendi non è censurata nel ricorso,
mancando, come già detto, la specifica indicazione delle norme di diritto portoghese o comunitarie violate nel giudizio arbitrale e nel lodo, con conseguente
corretto rigetto per tale profilo dalla Corte territoriale dell’impugnazione per
nullità (in tal senso Cass. 4 maggio 2000 n. 5583, per il diritto interno, e S.U. 14
giugno 2007 n. 13894, per il diritto comunitario).
Non è dedotta dalla ricorrente violazione di alcuna delle norme inapplicabili
agli arbitrati internazionali, ai sensi dell’art. 838 c.p.c. nella versione vigente
all’epoca del ricorso, come l’art. 830 o l’art. 831 c.p.c., comma 2, anche essi oggi
abrogati e, pure per tale profilo, il motivo di ricorso è da rigettare, non potendo la
deduzione della liquidazione equitativa del danno ritenersi violativa di legge,
avendo la Corte di appello affermato che la stessa è avvenuta in rapporto alla
documentazione prodotta delle parti cioè su perdite dimostrate da documenti
sufficienti a decidere la causa ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Nessuna violazione vi è stata dell’art. 829 c.p.c., comma 2, anche a non
considerare che la liquidazione equitativa del danno di cui all’art. 1226 c.c. non può
confondersi con la decisione secondo equità dell’art. 114 c.p.c, esclusa di regola
nell’arbitrato internazionale (Cass. 11 dicembre 2007 n. 25943).
Il terzo motivo di ricorso denuncia pure difetti di motivazione del lodo stesso
ed è, per tale profilo, inammissibile, non potendo rilevare in questa sede senza la
indicazione dei fatti o delle circostanze controverse su cui la sentenza impugnata
non s’è pronunciata, e senza chiarire la erroneità delle ragioni della sentenza per
le quali si è respinta infondatamente la impugnazione del lodo per le pretese
carenze motivazionali di questo.
Tale conclusione assume rilievo peculiare in rapporto ai danni che la ricorrente afferma essersi liquidati in favore di Millennium, anche se subiti solo dalla
socia O.T.C., circostanza di fatto che, dalla sentenza oggetto di ricorso non risulta
essersi dedotta nel giudizio di merito, per cui, ai sensi dell’art. 366 c.p.c. anche nella
versione anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, la prospettazione di tale circostanza per
la prima volta in sede di legittimità è preclusa, non risultando comunque dalla
impugnativa in questa sede in quale fase del giudizio di merito la questione fu
sollevata.
2.3. In ordine al quarto motivo di ricorso che lamenta l’immotivato rigetto dal
lodo della domanda riconvenzionale di risarcimento proposta da Sectram, la
censura sembra colpire il lodo e non la sentenza della Corte territoriale, che ha
rigettato l’impugnazione dello stesso. Il ricorso censura, comunque in modo
generico e quindi non valutabile in questa sede, la soluzione della questione data
dalla Corte territoriale, la quale ha ritenuto assorbito ogni problema sul rigetto
della domanda riconvenzionale dall’accoglimento dell’azione risarcitorìa proposta
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in via principale incompatibile da solo sul piano logico con l’eventuale fondatezza
della medesima azione in riconvenzione di Sectram; pertanto il quarto motivo di
ricorso di questa è inammissibile.
3.4. Deve ritenersi inammissibile anche la censura di cui al quinto motivo di
ricorso sul tacito rigetto dell’eccezione di Sectram, che aveva dedotto il venir meno
della valida procura al difensore della società posta in liquidazione coatta successivamente alla impugnazione proposta alla Corte d’appello e nel corso del giudizio
svoltosi dinanzi a quest’ultima.
A tale motivo di ricorso replica la controricorrente con il richiamo ad una
giurisprudenza (la già cit. Cass. n. 2148 del 1983), per la quale la fase di liquidazione comporta solo una modificazione meramente formale delle modalità di vita
della società rimasta identica sul piano sostanziale, con conseguente permanere
degli effetti della procura rilasciata dagli organi di essa prima della messa nel
nuovo stato liquidatorio, anche per il periodo successivo a tale nuova situazione
della vita societaria.
Il motivo di ricorso è comunque inammissibile, risultando dal ricorso la sola
circostanza che la liquidazione è stata decisa nell’assemblea straordinaria dell’1
ottobre 2002 della società, non emergendo peraltro se vi sia stata nel caso la
cancellazione dal registro delle imprese della società e la relativa iscrizione in
questo di tale vicenda che, con la novella dell’art. 2495 c.c., comma 2 di cui al
D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4 avrebbe comportato l’estinzione di Millennium
s.r.l. nel corso del giudizio di impugnazione, cioè a decorrere dal 1 gennaio 2004
(S.U. 22 febbraio 2010 n. 4060).
Neppure viene chiarito in ricorso se vi è l’iscrizione nel registro delle imprese
della nomina del liquidatore, che solo all’esito dell’adempimento di tale onere di
pubblicità, acquisisce il potere di rilasciare procura in sostituzione dei preesistenti
amministratori (Cass. 18 settembre 2003 n. 13746).
In assenza di puntuali indicazioni dalla ricorrente sulle indicate circostanze
essenziali per la decisione, il motivo di ricorso non è autosufficiente e deve
dichiararsi quindi inammissibile, anche a non rilevare che la posizione di impugnata della Millennium, ove questa sia stata realmente cancellata dal registro delle
imprese, avrebbe comportato, in base alla citata novella del 2003, dal 1 gennaio
2004, l’estinzione della precedente società con la fine di ogni operatività degli atti
degli organi sociali che la procura avevano conferito e la conseguente improseguibilità del giudizio d’impugnazione di Sectram non più esercitatile nei confronti
della controparte venuta meno.
Tale dichiarazione di improseguibilità della impugnazione avrebbe concluso
il giudizio, rendendo definitivo il lodo e la condanna, per cui non si comprende
come tale soluzione possa soddisfare il concreto interesse della ricorrente, con
inammissibilità conseguente anche per tale profilo del quinto motivo di ricorso.
4. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi e la ricorrente deve essere
condannata a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione,
che si liquidano come in dispositivo.
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Brevi note sull’ambito oggettivo e soggettivo della clausola compromissoria, nonché sulla sua interpretazione.
1. Il provvedimento in epigrafe affronta, grazie alla fattispecie concreta piuttosto singolare, il delicato profilo dei limiti oggettivi (ed al
contempo soggettivi) della clausola compromissoria, anche alla luce delle
possibili interpretazioni del patto arbitrale.
Il caso sul quale la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi —
rispetto al quale non si rinvengono precedenti in termini e che proprio per
la peculiarità pare opportuno ricostruire — muove dai rapporti intercorsi
fra una società portoghese, specializzata nel proprio paese nell’assistenza
commerciale e amministrativa ad autotrasportatori, e una società italiana.
La prima, infatti, proponeva alla seconda un progetto di attività imprenditoriali di trasporto via mare di automezzi pesanti fra Portogallo e Italia.
La società italiana, con sede ad Ancona, interessata al suddetto progetto
(già approvato dalle competenti autorità portoghesi, nonché dalla stessa
Commissione europea), volto all’alleggerimento del traffico stradale in
Europa a favore di quello marittimo, dopo lunghe trattative con la società
straniera proponente, la quale si era impegnata a riempire per quasi due
terzi la capienza di una nave italiana con automezzi di clientela portoghese, decideva di costituire una società ad hoc, per la realizzazione
dell’indicato piano commerciale, che assurgeva a programma societario.
La società portoghese diveniva quindi socia di minoranza della nuova
società, la quale metteva a disposizione l’imbarcazione al fine della realizzazione degli accordi presi. Lo statuto sociale della neo costituita società
conteneva una clausola compromissoria dal seguente tenore: « le controversie che dovessero insorgere tra società e ciascun socio, ovvero tra i soci
medesimi, nonché tra gli eredi del socio defunto e gli altri soci e/o la
società, connesse alla interpretazione e all’applicazione dell’atto costitutivo e/o più in generale, all’esercizio dell’attività sociale, verranno deferite
alla decisione dell’arbitro unico ».
Nonostante gli accordi, sin dall’inizio dell’attività sociale era mancato
il riempimento della nave con autoarticolati e automezzi di clienti portoghesi nella percentuale pattuita. Per questo motivo la società aveva
notificato alla socia minoritaria la domanda di arbitrato, con richiesta di
condanna, ad una cospicua somma di denaro, a titolo di risarcimento del
danno causato con l’inadempimento dell’impegno di acquisire clientela
portoghese. La socia di minoranza si doleva, in via preliminare, dell’inammissibilità ed improcedibilità del procedimento arbitrale, sul rilievo dell’impossibilità di rimettere alla cognizione dell’arbitro ogni controversia
comunque connessa all’attività sociale, come l’azione nella specie promossa, relativa a condotte della società portoghese tenute prima che la
stessa divenisse socia. Essa tuttavia proponeva, a propria volta, domanda
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riconvenzionale di condanna dell’attrice al risarcimento del danno subito,
per averle imposto di iniziare l’esecuzione del programma di trasporto in
un periodo di scarso movimento delle merci e contro la propria volontà.
Il lodo che accoglieva, sia pur in misura ridotta la domanda principale,
veniva impugnato dinanzi alla Corte d’appello di Ancona dalla socia di
minoranza, la quale ribadiva la propria tesi secondo cui la clausola
compromissoria di cui all’art. 24 dello statuto sociale non comprendeva
l’azione risarcitoria esercitata tra quelle compromettibili, per cui l’arbitro
non aveva il potere di decidere la controversia. Essa sottolineava altresì,
a sostegno delle proprie ragioni, di essere divenuta socia solo dopo che già
si erano verificati i fatti a base dell’azione risarcitoria, per cui la domanda
si poneva al di fuori dell’attività sociale, non essendo ricollegabile alla
condizione di socia della società portoghese, ma — al limite — alla mera
connessione del rapporto di agenzia con la prima società italiana con la
quale aveva avuto contatti.
La Corte d’appello rigettava l’impugnazione del lodo, riconoscendo la
potestas iudicandi dell’arbitro sulla controversia.
Avverso la predetta decisione, veniva proposto ricorso per Cassazione, sul rilievo che la Corte di merito aveva erroneamente interpretato
la clausola compromissoria, ritenendo equivalenti « l’attività sociale » di
cui alla predetta clausola con « l’oggetto sociale », dovendosi invece
limitare le controversie compromettibili a quelle relative alle impugnazioni delle delibere sociali o al trasferimento di quote sociali o alla
esclusione di un socio, le sole direttamente ricollegabili all’attività societaria. Al contrario — si sostiene — l’azione risarcitoria per l’inadempimento di un socio di un obbligo assunto nei confronti di un altro socio, non
è qualificabile come controversia attinente all’attività sociale, non avendo
alla base né l’interpretazione o l’applicazione dell’atto costitutivo né
l’esercizio della attività sociale; senza dimenticare che, nel caso in esame,
l’azione era fondata su fatti anteriori all’acquisto della quota sociale da
parte della ricorrente nonché relativi ad inadempimenti di impegni assunti
prima di acquisire la partecipazione alla società attrice.
La Suprema Corte respinge il ricorso, riconoscendo la competenza
dell’arbitro a decidere della controversia, trattandosi di domande fra la
società e la socia minoritaria, rientranti, sia sotto il profilo soggettivo sia
sotto quello oggettivo, nell’ambito di applicazione del patto arbitrale
contenuto nello statuto.
2. Per valutare se la soluzione raggiunta dalla Cassazione sia o meno
condivisibile pare necessario premettere un breve e generale inquadramento sui limiti che il patto arbitrale può incontrare.
Come noto, vige in materia arbitrale il principio cardine della volontarietà delle parti: sono queste ultime che decidono di deferire agli arbitri
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(o all’arbitro unico) la decisione della lite, che può essere eventuale e
futura nel caso di clausola compromissoria, concreta ed attuale nell’ipotesi
di compromesso. E, di norma, sono sempre le parti che scelgono se il patto
arbitrale sia destinato a comprendere o meno ogni possibile controversia
relativa al contratto stipulato.
Seguendo questo assunto di base, si potrebbe essere portati ad
affermare che i limiti soggettivi della convenzione arbitrale sono facilmente individuabili: essi coincidono con i soggetti che hanno firmato
l’accordo. Quanto, invece, alla sfera oggettiva della convenzione è sufficiente considerare le controversie che le parti hanno inteso rimettere in
arbitrato, ferma ovviamente la loro compromettibilità.
Basta tuttavia un minimo di esperienza e di conoscenza, dei principali
problemi che la convenzione arbitrale pone, per comprendere l’ingenuità
e, al contempo, l’erroneità della predetta osservazione. Infatti, come è
stato sottolineato da chi si è occupato ex professo del tema in oggetto (1),
se da un lato sottoscrivere il patto compromissorio non significa necessariamente assumere la qualità di parte (si pensi al caso del subappaltatore
che sottoscriva il contratto di appalto senza assumere alcuna obbligazione
scaturente dall’accordo, al mero fine di attestare l’avvenuta conoscenza
del contratto pregiudiziale al proprio), dall’altro, in determinate situazioni, può essere ugualmente ritenuto parte del patto arbitrale un soggetto
che non l’abbia materialmente sottoscritto.
Del resto anche la prassi dell’arbitrato internazionale conosce, ed anzi
si può dire ha formalmente riconosciuto in alcuni paesi, l’estensione degli
effetti della clausola compromissoria a soggetti che non l’hanno firmata (i
c.d. non signatory) (2).
Ad esempio, in Francia a partire dal celebre caso Dow Chemical,
deciso nel 1983 dalla Corte d’Appello di Parigi (3), si ritengono assogget(1) Il riferimento è all’ampio ed interessante studio monografico di ZUCCONI GALLI
FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, Milano, 2004, 207 e segg.
(2) Sul tema cfr., senza alcuna pretesa di esaustività, DIMOLITSA, L’« extension » de la
clause compromissoire à des non-signataires: rien de neuf, in ASA Bull., 2012, 516; GIARDINA,
Gruppi di società e convenzioni arbitrali, in questa Rivista, 1993, 291; HANOTIAU, Consent to
Arbitration: Do We Share a Common Vision?, in Arb. int., 2011, 539; HANOTIAU, Problems
Raised by Complex Arbitrations Involving Multiple Contracts-Parties-Issues, An Analysis, in
Journal of International Arbitration, 2001, 251 e segg.; HOSKING, Non-Signatories and International Arbitration in the United States: The Quest for Consent, in Arb. int., 2004, 289; PARK,
Non-Signatories and International Contracts: an Arbitrator’s Dilemma, in Multiple Party Actions
in International Arbitration, Oxford University Press, 2009, 1; YOUSSEF, The Limits Of Consent:
the Right or Obligation to Arbitrate of Non-Signatories in Group of Companies, in Dossiers VII
of the ICC Institute of Word Business Law, 2010, 71.
(3) Cour d’Appel de Paris, 21 ottobre 1983, in Rev. arb., 1984, 98, con nota di CHAPELLE,
nel quale i giudici di merito francesi ai fini dell’estensione degli effetti di una clausola
compromissoria formalmente vincolante due sole società del gruppo ad altre società del gruppo
partecipanti alla fase di esecuzione si sono basati, da un lato, su « usages conformes aux besoins
du commerce international, notamment en présence d’un groupe de sociétés », dall’altro, sulla
« réalité économique unique » fra tutte le società coinvolte.
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tati al vincolo compromissorio tutti i soggetti che, pur non avendo manifestato formalmente il consenso, hanno comunque preso parte all’affare,
per essere intervenuti nelle trattative oppure nella fase esecutiva (4). La
posizione d’oltralpe è stata altresì condivisa da altri ordinamenti, come la
Svizzera (5), mentre è oggetto di discussione in Germania (6).
Il nostro ordinamento (sotto questa prospettiva per tradizione più
vicino a quello tedesco), pare invero piuttosto critico verso codeste forme
di consenso implicito (o addirittura presunto) sulla base della natura
formale del patto arbitrale; ciò nonostante possono venire in rilievo ai fini
dell’estensione soggettiva del vincolo compromissorio gli istituti della
rappresentanza apparente e, in materia di società, le ipotesi della società
apparente, della società occulta, della simulazione, dell’interposizione
fittizia di persona (7).
Sempre sotto il profilo soggettivo nel nuovo arbitrato societario si è
cercato di ampliare il più possibile « l’area dell’arbitrabilità »: la previsione contenuta nell’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, secondo cui la clausola
(4) In dottrina cfr. HANOTIAU, L’arbitrage et les groupes de sociétés, in Gazette du Palais,
Les Cahiers de l’arbitrage, 2002/2, 6. La posizione fatta propria con il caso Dow Chemical ha poi
trovato seguito nella giurisprudenza più recente, la quale si è orientata nel senso che: « les effets
de la clause compromissoire s’étendent aux parties directement impliquées dans l’exécution du
contrat dès lors que leur situation et leur activité font présumer qu’elles avaient connaissance de
l’existence et de la portée de cette clause afin que l’arbitre puisse être saisi de tous les aspects
économiques et juridiques du litige ». Così Cour d’Appel de Paris, 7 dicembre 1994, in Rev. arb.,
1996, 67, con nota di JARROSSON. Conf. Cour d’Appel de Paris, 30 novembre 1988, Cour d’Appel
de Paris, 14 febbraio 1989, entrambe in Rev. arb., 1989, 691, con nota di TSCHANZ; Cour d’Appel
de Paris, 11 gennaio 1990, in Rev. arb., 1992, 95, con nota di COHEN. Ancora la Cour d’Appel de
Paris, 7 maggio 2009, in Rev. arb., 2009, 440 ha espressamente statuito che: « la clause
compromissoire insérée dans un contrat international a une validité et une efficacité propres qui
commandent d’en étendre l’application aux parties directement impliquées dans l’exécution du
contrat ». Principio da ultimo fatto proprio anche dalla Corte di cassazione, nel caso Sté Alcaltel
Business Systems et autre c/ Sté Amkor Technology et autre: Cass., 1re civ., 27 marzo 2007, in
Rev. arb., 2007, 788, con nota di EL ADHAB. In argomento cfr. anche Cass., 1re civ., 7 novembre
2012, n 11-25.891, F-D, Sté Orthopaedic Hellas c/ Sté Amplitude, in Lexisnexis Jurisclausseur,
secondo la quale: « L’effet de la clause d’arbitrage international contenue dans le contrat initial
s’étend aux parties directement impliquées dans l’exécution du contrat. Tel est le cas d’une société
grecque qui s’est substituée à une autre pour l’exécution d’un contrat de distribution en Grèce
conclu avec une société française, en sorte que l’arrêt ayant annulé la sentence par laquelle
l’arbitre désigné conformément à la clause contenue dans le contrat initial s’est reconnu compétent
pour connaître des demandes introduites par les deux sociétés grecques contre la société française
doit être cassé pour violation des articles 1502, 1º et 1504 du Code de procédure civile dans leur
rédaction antérieure à celle issue du décret du 13 janvier 2011 ».
(5) Tribunal arbitral Suisse, 16 ottobre 2003, parti X Société Anonyme Libanaise, Y
Société Anonyme Libanaise, in Rev arb., 2004, 695, con nota di LEVY e STUCKI.
(6) La dottrina tedesca è piuttosto critica sull’estensione della convenzione arbitrale nel
quadro dei gruppi di società sulla base di un’accettazione presunta dell’arbitrato, sul rilievo del
contrasto con § 1031 della ZPO, che impone la forma scritta per la validità della convenzione
arbitrale, come pure con l’art. 101 Al. 1 della Costituzione tedesca, poiché priva ingiustificatamente le parti non firmatarie del loro diritto ad essere giudicate da un giudice statale. Sul punto,
anche per ulteriori indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, si vedano MÜLLER, KEILMANN,
Beteiligung am Schiedsverfahren wider Willen?, in SchiedsVZ, 2007, Heft 3, 113; BUSSE, Die
Bindung Dritter an Schiedsvereinbarungen, in SchiedsVZ, 2005, Heft 3, 118.
(7) Cfr. ancora ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 213 e segg.
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è vincolante per la società e per tutti i soci, opera infatti non solo rispetto
a coloro che si trovano a far parte della compagine sociale al momento
dell’approvazione della clausola compromissoria, ma anche rispetto ai soci
nuovi, cioè quelli che succedono nella qualità di socio a seguito di atto
inter vivos o mortis causa oppure che entrino, in virtù di un atto di
adesione, in un momento successivo alla costituzione della società (8).
Inoltre la clausola statutaria è, per legge, sempre nell’ottica di promuovere
la via arbitrale, vincolante anche nei confronti di quei soggetti la cui
qualità di socio è oggetto della controversia; il che impedisce al giudice
statale di poter procedere de eadem re, finché l’accertamento della qualità
in questione intervenga in sede arbitrale a sancire l’inopponibilità della
clausola alla parte (9).
Infine, occorre ricordare che esistono, nel nostro sistema, financo
delle ipotesi in cui il patto compromissorio produce effetti ultra partes: così
accade, ad esempio, per il creditore che agisce in surrogatoria (10), per il
successore nel diritto di credito per effetto di surrogazione legale (11),
nonché per il successore a titolo universale (12).
3. Per quanto concerne poi l’ambito oggettivo del patto arbitrale è
sufficiente esaminare la copiosa giurisprudenza in argomento per rendersi
conto di come sovente la questione della concreta individuazione delle liti,
(8) Sulla vincolatività della clausola rispetto a questi nuovi soci cfr. ZUCCONI GALLI
FONSECA, La convenzione arbitrale delle società dopo la riforma, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
2003, 945 e segg.; SASSANI-GUCCIARDI, Arbitrato societario, in Digesto disc. priv., sez. civ.,
Aggiornamento, III, Torino, 2007, 10 e segg.
(9) Così osserva AULETTA, Commento all’art. 34, in La riforma delle società, Il processo,
a cura di Sassani, Torino, 2003, 343, il quale sottolinea altresì, alla nota 58, come « la
disposizione circa il carattere vincolante dalla clausola statutaria « per tutti i soci » può assumere
un significato particolare anche là dove, come nella società semplice, l’acquisto della qualità di
socio può conseguire a un contegno concludente avulso dai requisiti di forma che soddisfano le
caratteristiche del patto compromissorio sotto pena di nullità ».
(10) In argomento, Cass., 25 maggio 1995, n. 5724, in Giur. it., 1996, I, 1, 1524, con nota
adesiva di MURONI, L’ambito soggettivo di efficacia della clausola compromissoria e la sua
opponibilità al creditore attore in surrogatoria, e Postilla di CONSOLO, Su arbitrato, azione
surrogatoria e designazione degli arbitri, nonché in Corr. giur., 1995, 1373, con nota diversamente orientata di CECCHELLA, Limiti soggettivi di efficacia del patto compromissorio. Cfr. anche
Trib. Rimini, 28 marzo 2003, in Giur. it., 2004, 1655, con nota di BARBIANI, La qualificazione
della clausola compromissoria e i suoi limiti soggettivi di efficacia: il difficile cammino della nuova
concezione negoziale dell’arbitrato rituale.
(11) Si veda, ad esempio, Trib. Reggio Emilia, 24 maggio 1996, in Giust. civ., 1997, I,
2015, con nota di DI GARBO, Clausola arbitrale e surrogazione dell’assicuratore: un discutibile
caso di improponibilità dell’azione ordinaria.
(12) Secondo Cass., 27 luglio 1990, n. 7597, in questa Rivista, 1992, 269, con nota di
FAZZALARI, Osservanza dovuta al patto compromissorio: quando il suo vincolo perdura dopo la
dichiarazione di nullità del lodo, l’erede subentra al de cuis nel rapporto posto in essere con la
stipulazione della clausola compromissoria, non così invece il legatario ex lege. Per App. Napoli,
7 luglio 1997, in questa Rivista, 1998, 286 la clausola compromissoria stipulata da una regione
è vincolante per la Usl, la quale, in relazione a determinate attività, risulta essere successore a
titolo universale del primo ente. La stessa soluzione è stata raggiunta, in caso di cessione
d’azienda, da Cass., 28 marzo 2007, n. 7652, in Foro it., 2008, 3, I, 903.
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che le parti hanno inteso devolvere alla cognizione degli arbitri, sia
tutt’altro che piana.
In proposito si è detto che la determinazione dell’ambito oggettivo
della clausola compromissoria — ossia l’individuazione delle controversie,
nascenti dal contratto, che le parti, nell’esercizio della loro autonomia
privata, hanno inteso compromettere in arbitri — integra un problema la
cui soluzione richiede l’indagine sulla determinazione della « comune
intenzione delle parti » circa il contenuto oggettivo che le stesse hanno
inteso dare alla clausola medesima. A tal fine occorre interpretare la
clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici che il codice civile detta
per l’interpretazione dei contratti agli artt. 1362 e segg. c.c., fra i quali un
ruolo importante gioca il canone della buona fede (13). Qualora poi il
« senso letterale delle parole » in essa utilizzate non conduca univocamente alla individuazione della comune volontà delle parti, deve valutarsi
pure « il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto », e, in questo senso, darsi rilievo al comportamento
tenuto dalle parti nel procedimento arbitrale, al fine di verificare la
sussistenza di una inconciliabile incompatibilità tra un determinato comportamento, che sia univocamente volto al riconoscimento della « competenza » arbitrale, e la mera espressione della volontà di avvalersi dell’eccezione stessa (14).
Si è altresì sottolineato come ove non risulti una espressa volontà,
deve ritenersi che tutte le controversie riferibili a pretese, che hanno come
« causa petendi » il contratto (della cui interpretazione, applicazione ed
esecuzione si tratta), vanno ricomprese nell’ambito oggettivo di operatività della clausola compromissoria (15).
Ancora: quando con una clausola compromissoria le parti deferiscono
ad un collegio arbitrale le controversie relative all’applicazione o interpretazione di un contratto, cui la clausola accede, tale patto va interpretato in senso lato, se non c’è una volontà contraria, fino a ricomprendere
ogni controversia relativa al contratto stesso, anche in merito alla sua
esecuzione o al suo inadempimento (16), inclusa la domanda di risarcimento del danno da inadempimento, la quale, analogamente alla do(13) Per un quadro complessivo sull’applicabilità dei criteri di cui agli artt. 1362 e segg.
c.c. ai fini dell’interpretazione della convenzione arbitrale si rinvia allo studio di OCCHIPINTI, La
cognizione degli arbitri sui presupposti dell’arbitrato, Torino, 2011, 123 e segg.
(14) In questi termini Cass., 21 settembre 2004, n. 18917, in questa Rivista, 2006, 1, 82, con
nota di MOTTO, In tema di clausola compromissoria: forma, oggetto, rilevanza del comportamento delle parti.
(15) Così Cass., 20 febbraio 1997, n. 1559, in Mass. Giust. civ., 1997, 280; Cass., 14 aprile
1994, n. 3504, in Giur. it., 1994, I, 1, 1264.
(16) In questo senso Cass., 20 giugno 2011, n. 13531, in questa Rivista, 2012, 79, con nota
di COMASTRI, Favor arbitrati e art. 808-quater c.p.c.
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manda di risoluzione, attiene alla fase esecutiva, implicando l’accertamento dell’inottemperanza delle parti alle obbligazioni assunte (17).
Alla luce dei suindicati criteri si sono considerate incluse nell’ambito
oggettivo di una clausola compromissoria anche le controversie derivanti
da un accordo separato e successivo a quello contenente la clausola
compromissoria, che si riferisca alle controversie dipendenti dal contratto,
in quanto con tale espressione si intende la complessiva operazione
economica (18).
L’esame dei precedenti (sia arbitrali sia giudiziali) evidenzia dunque
come la tendenza sia quella di estendere il più possibile l’ambito di
applicazione oggettivo del patto arbitrale.
Ebbene, il medesimo orientamento più favorevole alla giustizia privata si ritiene valga anche rispetto all’ambito oggettivo del nuovo arbitrato
societario (19).
Da ultimo, occorre considerare il disposto del nuovo art. 808 quater
c.p.c., che introduce un preciso criterio metodologico nell’interpretazione
delle clausole compromissorie (e, più in generale, di tutti i patti arbitrali):
nel dubbio, la convenzione di arbitrato deve essere interpretata nel senso
che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano
dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce (20).
Tale disposizione sancisce dunque il seguente canone ermeneutico
(17) Cass., 10 settembre 2012, n. 15068, in Mass. Giust. civ., 2012, 1101.
(18) Coll. arbitrale, 31 ottobre 2003, in Foro pad., 2004, I, 143.
(19) Cfr. SALVANESCHI, L’oggetto del nuovo arbitrato societario, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, III, Milano, 2005, 2221 s. Sul principio di elaborazione
giurisprudenziale in base al quale ove non risulti una espressa volontà contraria, deve ritenersi
che tutte le controversie riferibili a pretese che hanno come causa petendi il contratto vadano
ricomprese nell’ambito oggettivo di operatività della clausola compromissoria, ad eccezione di
quelle espressamente escluse si rinvia ancora, anche per ulteriori indicazioni, a SALVANESCHI,
Ambito oggettivo della clausola compromissoria e dolo incidente, in Riv. dir. proc., 2001, 659. In
generale per un ampio quadro sul profilo problematico dell’oggetto della controversia devolvibile in arbitrato societario e, in particolare, sulle specifiche ipotesi controverse del trasferimento di quote sociali e dei patti parasociali v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, in
Arbitrati speciali, commentario diretto da Carpi, Bologna, 2008, 64 e segg. Sul punto, per un
diverso ordine d’idee, cfr. CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it.,
2003, 1290. Sull’arbitrato societario e sui problemi che si pongono in relazione ai gruppi societari
si v. anche BRIGUGLIO, Gruppi societarie e arbitrato, in Rassegna giuridica dell’energia elettrica,
2004, 725 e segg.
(20) La dottrina osserva come la locuzione normativa « controversie che derivano dal
contratto » sia più ampia di quella contenuta nell’art. 808 c.p.c. di controversie « nascenti dal
contratto »: infatti la derivazione di una controversia può aversi anche da un contratto ormai
spogliato degli effetti, mentre la nascita di una controversia da quel contratto ne presuppone la
validità ed efficacia. Così NELA, Commento all’art. 808 quater c.p.c., in AA.VV., Le recenti
riforme del processo civile, commentario diretto da Chiarloni, II, Bologna, 2007, 1648, il quale
sottolinea altresì come l’innovazione sarebbe da ricondurre, secondo la Relazione illustrativa al
decreto legislativo, a « ragioni di efficienza operativa e di apertura verso le procedure arbitrali »,
ovvero più semplicemente ad un favore verso l’arbitrato. In argomento si v., anche per ulteriori
riferimenti, ZUCCONI GALLI FONSECA, Commento all’art. 808 quater c.p.c., in AA.VV., La nuova
disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 102.
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teso a favorire l’arbitrato: il giudice deve ritenere comprese, nell’ambito
della clausola, tutte le controversie che derivano dal contratto, salvo
espressa e diversa volontà delle parti (21).
4. La cornice normativa e giurisprudenziale sin qui esaminata dimostra come, sotto il profilo soggettivo, non basti alla parte che si è vista
notificare una domanda d’arbitrato eccepire di non aver materialmente
sottoscritto la clausola arbitrale per ritenersi sciolta dal vincolo ed escludere, di conseguenza, la competenza degli arbitri a risolvere la lite; allo
stesso modo, sotto il profilo oggettivo, non è sufficiente dolersi della
mancata espressa enunciazione della controversia nella clausola arbitrale,
dovendosi di contro dimostrare una precisa ed inequivocabile volontà
(s’intende di entrambe le parti) di esclusione.
A questo punto si può analizzare il caso di specie e agevolmente
comprendere come la soluzione raggiunta dalla Cassazione appaia condivisibile sotto più punti di vista.
L’obbligo assunto dalla società portoghese di procacciare clienti in
Portogallo con la società italiana, trasfuso sin dall’inizio nei patti parasociali, era poi divenuto lo scopo stesso per la costituzione di una società ad
hoc, della quale la società italiana deteneva la maggioranza del capitale
sociale. Esso rappresentava dunque tanto l’elemento cardine del « programma », capace di determinare nei soci la decisione di unire le loro
risorse, quanto lo scopo per la cui realizzazione le suddette risorse
venivano destinate. Ne consegue che la violazione dell’obbligo in questione ha senz’altro inciso in via diretta ed immediata sul rapporto (da
intendersi quale « attività sociale », come menzionata nella clausola compromissoria contenuta nello statuto) derivante dall’atto costitutivo,
avendo impedito la realizzazione del programma societario.
Già questo porta a ritenere che la lite, sul mancato riempimento della
nave nella percentuale pattuita, rientrava nell’ambito applicativo del patto
arbitrale, a nulla rilevando che l’impegno in questione fosse stato assunto
della socia di minoranza prima di entrare nella compagine sociale.
Del resto, come ben ha sottolineato la Suprema Corte nella sentenza
in commento, l’inadempimento (causa petendi dell’azione proposta dinanzi all’arbitro) non è stato dedotto come effetto di un contratto, fonte
di un rapporto diverso da quello di società, quale sarebbe stato un
contratto di agenzia da eseguire in favore dell’altra socia o della stessa
società attrice, bensì come effetto della mancata realizzazione dell’attività
sociale.
(21) Autorevole dottrina (CAPPONI, Arbitrato e giurisdizione, in Il Giusto processo, 2007,
52 s.) ha tuttavia segnalato i rischi collegati ad un’interpretazione troppo lata della norma in
questione.
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Si consideri poi che ai sensi dell’art. 2463, 2 comma, n. 3 c.c., nelle
società a responsabilità limitata, l’atto costitutivo indica « l’attività che
costituisce l’oggetto sociale » con evidente coincidenza fra i due concetti:
il trasferimento via mare con la nave tra Portogallo e Italia di automezzi
pesanti e autoarticolati, costituiva il programma comune venuto meno e
rimasto inattuato proprio a causa dell’inadempimento dalla socia di minoranza, per cui la causa è stata correttamente ritenuta di competenza
dell’arbitro.
Circoscrivere il concetto di attività sociale alle regole di funzionamento della società stessa è del tutto fuorviante. Occorre difatti che quelle
medesime regole siano nel concreto riferite al motivo per le quali vengono
scritte, vale a dire l’oggetto sociale.
Le conclusioni prospettate trovano ulteriore conferma nelle disposizioni codicistiche dettate in tema di comportamento delle parti prima della
conclusione del contratto e durante il suo svolgimento, anche ai fini della
sua interpretazione. Il richiamo è, all’evidenza, al disposto degli artt. 1362,
2º comma, 1366, 1375 c.c.
Il principio di correttezza e buona fede « richiama nella sfera del
creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del
debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore », come ben ci ricorda
la Relazione ministeriale al codice civile. In proposito la giurisprudenza è
pacifica nell’affermare che « la buona fede nell’esecuzione del contratto si
sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle
parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere
tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo
limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto,
pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si
rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella
misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico » (22).
Ed ancora, si specifica: « l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale
principio di solidarietà sociale, che, nell’ambito contrattuale, implica un
obbligo di reciproca lealtà di condotta che deve presiedere sia all’esecuzione del contratto che alla sua formazione ed interpretazione, accompagnandolo, in definitiva, in ogni sua fase » (23).
Si può ravvisare dunque nel sistema ideato dal legislatore del 1942,
un’imprescindibile circolarità tra la buona fede, che deve accompagnare il
comportamento delle parti in ogni momento (dai primi contatti fino
(22) Così Cass., 4 maggio 2009, n. 10182, in Mass. Giust. Civ., 2009, 707. Cfr. anche Cass.,
15 ottobre 2012, n. 17642, in De Jure.
(23) In questi termini Cass., 5 marzo 2009, n. 5348, in Mass. Giust. Civ., 2009, 391.
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all’esecuzione del contratto) ed il principio di solidarietà sociale (o di
cooperazione) che trova ancoraggio diretto nella nostra Carta Fondamentale, all’art. 2.
Tali principi valgono altresì nelle fasi precedenti la stesura del contratto, al punto tale che già nelle trattative e nella formazione del contratto le parti devono comportarsi secondo buona fede (art. 1337 c.c.).
Tutto ciò tutela un principio dell’affidamento nella correttezza altrui,
che non può essere leso senza conseguenze.
Anche sotto il profilo codicistico, dunque, non è accoglibile la tesi
della società portoghese, poiché non è ipotizzabile un limite temporale (la
conclusione del contratto, nella specie la costituzione della società) dopo
il quale il comportamento delle parti debba essere improntato a maggior
rigore o serietà. Avviata la trattativa, la buona fede deve essere immanente per l’intera durata del rapporto.
Infine una considerazione processuale e una pratica.
Le parti scelgono l’arbitrato quando sono alla ricerca di una soluzione
più celere rispetto a quella statale. Orbene, proprio tale obiettivo può
divenire uno strumento di lettura, in caso di incertezza, della volontà delle
parti: pare infatti irrazionale, rispetto allo scopo prefissato, in assenza di
specifiche delimitazioni, pensare che le parti abbiano inteso ripartire la
competenza fra arbitro e giudice ordinario su controversie riferibili a
pretese che hanno tutte come causa petendi il medesimo contratto. Rileva
anche, come sottolineato nel precedente paragrafo, il comportamento
processuale: la convenuta eccepisce l’inammissibilità dell’arbitrato e poi
propone davanti all’arbitro una domanda riconvenzionale, con la quale
richiede la condanna dell’attrice per avere preteso l’inizio dell’attività di
trasporto (cui ineriva il suo impegno inadempiuto), nel periodo meno
adatto perché lo stesso avesse successo. Ora, pure il suddetto comportamento sembra rilevante sul piano dell’interpretazione del contenuto della
clausola compromissoria: la richiesta della parte al giudice privato di
emettere una statuizione relativa al rapporto processuale dedotto in
giudizio denota la volontà di rinuncia all’eccezione proposta.
Senza dimenticare che, sotto il profilo pratico, il « frazionamento » del
giudizio sul medesimo contratto fra due autorità giudicanti diverse può
causare gravi problemi di coordinamento; problemi che, come si è detto,
il legislatore con le ultime riforme ha inteso superare con la previsione
della regola in dubio pro arbitrato.
CHIARA SPACCAPELO
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CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 6 aprile 2012, n. 5634; CARNEVALE
Pres.; RAGONESI Est.; CAPASSO P.M. (concl. diff.); Lentini (avv. Altavilla) c.
Cooperativa Edilizia Simi 1977.
Arbitrato - Lodo parziale - Riserva facoltativa d’impugnazione - Ammissibilità Esclusione.
Arbitrato - Eccezione d’incompetenza - Lodo parziale di merito - Impugnazione
immediata - Necessarietà.
Nel procedimento arbitrale non trova applicazione l’istituto della riserva
facoltativa d’impugnazione, attesa la mancanza dei presupposti pratici funzionali
all’applicabilità di tale istituto, quali la comunicazione della sentenza parziale e la
fissazione di un’udienza successiva al deposito della sentenza, entro la quale
formulare la riserva.
La pronuncia con cui gli arbitri rigettano un’eccezione d’incompetenza costituisce un lodo parziale di merito e, pertanto, ai sensi dell’art. 827, 3° comma, c.p.c.,
deve essere impugnata immediatamente.
CENNI DI FATTO. — Sorta una controversia fra una società cooperativa e un
professionista, questa viene devoluta alla cognizione di un collegio arbitrale. Con
un primo lodo depositato il 4 luglio 2002, gli arbitri statuiscono unicamente sulla
questione di competenza e dispongono la prosecuzione del giudizio. Con lodo
definitivo del 4 novembre 2003, dichiarato esecutivo in data 22 dicembre 2003, gli
arbitri condannano la società al pagamento di una somma di denaro in favore del
professionista.
Con atto di citazione notificato il 19 dicembre 2003, la società impugna per
nullità entrambe le decisioni arbitrali dinanzi alla Corte d’appello di Catania. Si
costituisce in giudizio il professionista, chiedendo il rigetto dell’impugnazione e
proponendo impugnazione incidentale. La Corte d’appello dichiara con sentenza
la nullità di entrambi i lodi. Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per
cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con il primo motivo di ricorso il ricorrente
deduce l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha affermato che il lodo
parziale doveva essere impugnato unitamente a quello definitivo.
Con il secondo ed il terzo motivo lamenta l’erroneità della sentenza laddove
ha ritenuto che, nel caso di specie, vi sarebbero stati due diversi contratti, mentre,
invece, si tratterebbe di un unico contratto stipulato nel 1982 e che questo non era
stato estinto per dar luogo ad un nuovo contratto.
Con il quarto motivo contesta la pronuncia sotto il profilo del vizio motivazionale laddove ha ritenuto l’inesistenza di un accordo compromissorio.
Con il quinto motivo deduce che non ricorrevano le condizioni per proporre
innanzi a questa Corte regolamento di competenza.
Il primo motivo è fondato.
Il lodo parziale in data 28.6.2002 ha deciso sulla « competenza » degli arbitri
a decidere della controversia ritenendo la sussistenza di una valida clausola
compromissoria.
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Tale decisione non è stata oggetto di immediata impugnazione, ma è stata
gravata successivamente insieme al lodo definitivo del 16.10.2003.
Il problema che si pone è se il lodo parziale doveva essere oggetto di
immediata impugnazione oppure no.
La Corte d’appello ha optato per tale seconda soluzione.
La decisione deve ritenersi erronea.
Va premesso che nel caso di specie deve applicarsi ratione temporis la
normativa in tema di arbitrato conseguente alle modifiche al codice di procedura
civile apportate dalla L. n. 25 del 1994, e che, secondo tale regime, il lodo parziale
è impugnabile soltanto unitamente al lodo definitivo, non essendo utilizzabile, nel
procedimento arbitrale, l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione (Cass., 7
febbraio 2007, n. 2715; Id., 3 febbraio 2006, n. 2444), attesa la mancanza, nell’indicato procedimento, dei presupposti pratici funzionali all’applicabilità dell’istituto predetto, quali la comunicazione della sentenza parziale da parte della
cancelleria e la fissazione di un’udienza successiva al deposito di detta sentenza,
utile a segnare il termine finale per la formulazione della riserva. (Cass., 22
febbraio 2002, n. 2566).
Ciò premesso, va tuttavia rilevato che l’art. 827, comma 3, prevedeva, nel
vigore della normativa applicabile al caso di specie, (e prevede tuttora) che « il
lodo che decide parzialmente il merito della controversia è immediatamente impugnabile, ma il lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio
arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo », e che in relazione a tale
norma questa Corte ha avuto modo di chiarire che « il termine « lodo parziale »
esige di essere interpretato in comparazione con il concetto di sentenza non
definitiva con riferimento all’art. 277 c.p.c., comma 2, art. 278 c.p.c. e art. 279 c.p.c.,
n. 4. Nel sistema del codice, sia le decisioni su questioni di giurisdizione o di
competenza, sia le decisioni su questioni pregiudiziali attinenti al processo o su
questioni preliminari di merito, sia le decisioni non esaurienti del merito, possono
costituire materia di sentenze non definitive, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n.
4, in relazione ai nn. 1, 2, 3 della stessa disposizione, e la stessa caratterizzazione
riveste la « condanna generica » di cui all’art. 278; tali sentenze, infatti, si qualificano
come sentenze « non definitive » suscettibili di impugnazione immediata o differita
ai sensi degli artt. 340 e 361 c.p.c. Nel procedimento arbitrale, nel quale la categoria
delle questioni incidentali assume una sua autonomia rispetto al merito in funzione
dell’esigenza della discriminazione tra le questioni suscettibili di decisione ad opera
degli arbitri e questioni sottratte ratione materiae alla cognizione degli arbitri,
l’impugnabilità immediata viene circoscritta, per volontà del legislatore della riforma, alle ipotesi di decisione non totale del merito, cioè alle ipotesi corrispondenti
alla previsione dell’art. 279 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4: e di tale differenziazione
sembra costituire espressione formale il mancato riferimento da parte del legislatore
del 1994 alla nozione di non definitività » (Cass., 19 maggio 2000, n. 6522; v. anche
Id., 7 febbraio 2007, n. 2715).
A tale proposito si osserva in particolare che l’art. 279, comma 2, n. 4,
stabilisce che il collegio pronuncia sentenza quando, decidendo alcune delle
questioni di cui ai nn. 1 (decisioni di questioni di giurisdizione o di competenza),
2 (decisioni di questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari
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di merito) e 3 (merito), non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti
per l’istruzione della causa.
Nel caso di specie, dunque, al fine di valutare l’immediata impugnabilità o
meno del lodo parziale che ha escluso la nullità ovvero l’inesistenza della clausola
compromissoria, occorre valutare se questo rientra in una delle ipotesi previste
dall’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c.
La risposta non può che essere positiva dovendosi ritenere che il lodo parziale
in esame, avendo riconosciuto il potere di decidere degli arbitri in virtù della
esistenza di una clausola compromissoria intercorsa tra le parti, ha deciso una
questione preliminare di merito ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c. in
riferimento alla ipotesi di cui allo stesso art. 279, comma 2, n. 2.
In questo senso la giurisprudenza di questa Corte, nel vigore della normativa
arbitrale conseguente alla riforma introdotta dalla L. n. 25 del 1994, applicabile al
caso di specie, aveva ritenuto pacifico il principio secondo cui, « gli arbitri, anche
nell’arbitrato rituale, non svolgono comunque una forma sostitutiva della giurisdizione né sono qualificabili come organi giurisdizionali dello Stato per cui la
questione relativa alla loro potestas iudicandi in ragione della esistenza di una
clausola compromissoria attiene al merito e non alla giurisdizione o alla competenza in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della
ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria; ne deriva che, ancorché formulata nei termini di decisione di accoglimento o
rigetto di un’eccezione d’incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza
di un’eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non
chiude il processo davanti a sé va riguardata come decisione pronunziata su
questione preliminare di merito perché inerente alla validità o all’interpretazione del
compromesso o della clausola compromissoria » (Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n.
527; Id., 27 maggio 2005, n. 11315; Id., 28 luglio 2004, n. 14234; Id., 30 dicembre
2003, n. 19865; Id., Sez. Un., 3 ottobre 2002, n. 14223; Id., 21 novembre 2006, n.
24681).
Il motivo va pertanto accolto.
Sulla questione quindi della esistenza nel caso di specie di una clausola
arbitrale conferente agli arbitri la potestas iudicandi deve ritenersi formato il
giudicato.
Gli altri motivi restano assorbiti dovendo le questioni da essi poste essere
rivalutate, alla luce della decisione assunta dalla presente sentenza, dalla Corte
d’appello di Catania in sede di rinvio che, in diversa composizione, provvedere
anche a liquidare le spese del presente giudizio.
(Omissis).
Sull’impugnazione del lodo dichiarativo della competenza arbitrale.
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di cassazione si pronuncia sul regime d’impugnazione del lodo con il quale gli arbitri si siano
limitati a rigettare un’eccezione di difetto di potestas judicandi senza
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decidere il merito della lite (1). La vicenda sottoposta alla cognizione dei
giudici di legittimità trae origine da un procedimento arbitrale nel quale
gli arbitri, con un primo lodo del 4 luglio 2002, avevano rigettato l’eccezione d’incompetenza sollevata da una delle parti, disponendo la prosecuzione del giudizio. Contro tale pronuncia non era stata intrapresa alcuna
iniziativa (non sappiamo se, nel corso del procedimento, le parti avessero
formulato una riserva d’impugnazione); il procedimento arbitrale era
quindi proseguito con l’esame del merito della controversia ed era stato
poi definito con lodo del 22 dicembre 2003. Entrambe le decisioni erano
state impugnate dinanzi alla Corte d’appello di Catania, la quale ne aveva
dichiarato la nullità.
La sentenza veniva impugnata con ricorso per cassazione. Essa veniva
censurata nella parte in cui i giudici catanesi, ritenendo tempestiva l’iniziativa intrapresa nei confronti della prima decisione, avevano ammesso
l’impugnazione congiunta di entrambi i lodi. Al Supremo Collegio veniva
dunque richiesto di stabilire se il lodo con cui gli arbitri avevano risolto
positivamente la questione inerente alla loro competenza fosse o meno
suscettibile di impugnazione immediata.
Al quesito la Corte di cassazione dà una risposta positiva. Nella
propria motivazione, i giudici di legittimità affermano, nell’ordine, che: a)
il disposto dell’art. 827 c.p.c. rende inutilizzabile, nel procedimento arbitrale, l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione; b) il lodo con cui
gli arbitri decidono una questione di merito deve essere qualificato come
lodo parziale; c) la questione relativa alla sussistenza della potestas judicandi arbitrale è questione sostanziale e pertanto il lodo che la decide deve
essere considerato come lodo parziale di merito.
Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di cassazione accoglie il
ricorso, rilevando come il primo lodo dovesse essere impugnato immediatamente e non già insieme al lodo definitivo e, pertanto, che all’epoca in
cui era stata proposta l’impugnazione per nullità, la statuizione sulla
competenza arbitrale era ormai passata in giudicato.
2. Nel proprio iter argomentativo la Corte di cassazione muove da
una premessa, ossia la non configurabilità, nel procedimento apud arbitros, dell’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione (sub a). Sul
punto, la pronuncia si pone in continuità con l’orientamento giurispru(1) La pronuncia segue, di poche settimane, la sentenza n. 4790 del 26 marzo 2012
(consultabile in Juris data), con cui la stessa Sezione, chiamata a pronunciarsi sul medesimo
quesito, è pervenuta a una conclusione diametralmente opposta, qualificando il lodo dichiarativo della competenza arbitrale come un lodo non definitivo su questione inerente all’ammissibilità della domanda, impugnabile solo unitamente al lodo definitivo. Nel medesimo senso, più
recentemente, si è espressa anche la Corte d’appello di Roma, con la sentenza dell’11 aprile
2013, edita in questa Rivista, 2013, 963, con nota di MARINUCCI, Note sul contrasto fra lodo non
definitivo e lodo definitivo nel giudizio di impugnazione per nullità.
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denziale sviluppatosi all’indomani dell’intervento riformatore del 1994,
secondo il quale la distinzione operata dall’art. 827 c.p.c. (come novellato
dalla riforma) fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo su questione avrebbe reso tale istituto inammissibile in sede arbitrale (2). Secondo questo orientamento, il lodo non definitivo su questione, non
essendo suscettibile di impugnazione immediata, sarebbe stato censurabile solo unitamente al lodo definitivo e senza la necessità di alcuna
riserva, mentre il lodo parziale di merito avrebbe dovuto ritenersi impugnabile immediatamente, essendo irrilevante la riserva d’impugnazione
eventualmente formulata nel corso del procedimento (3).
(2) Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit.; Id., 3 febbraio 2006, n. 2444, in Rep. Giur. it., 2006,
voce « Arbitrato », n. 143; Id., 22 febbraio 2002, n. 2566, in questa Rivista, 2002, 691, con nota
di BOCCIOLETTI, Note sul divieto d’impugnazione immediata del lodo parziale.
Prima della legge n. 25 del 1994, la giurisprudenza, pur riconoscendo l’ammissibilità dei
lodi parziali su domande e dei lodi non definitivi su questioni, li riteneva entrambi impugnabili
solo unitamente alla pronuncia definitiva (Cass., Sez. Un., 2 maggio 1997, n. 3829, in Foro it.,
1997, I, 1751; Id., Sez. Un., 9 giugno 1986, n. 3835, in Foro it., 1986, I, 1525 con nota senza titolo
di BARONE; Id., 12 luglio 1979, n. 4020, in Giur. it., 1980, I, 1, 1695, con nota di LEVONI, La
controversa impugnabilità della sentenza arbitrale non definitiva). Tale orientamento era il
frutto, da un lato, del principio di indivisibilità del lodo, il cui addentellato normativo era
ravvisato nell’art. 830 c.p.c. (che, nella sua originaria formulazione, prevedeva che la Corte
d’appello, nell’accogliere l’impugnazione per nullità, dovesse dichiarare la « nullità del giudizio
e della sentenza »); dall’altro, della convinzione che l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione, introdotto con la riforma del 1950, non trovasse applicazione in sede arbitrale.
L’unica eccezione a questa regola era rappresentata dall’ipotesi in cui oggetto d’arbitrato
fossero più controversie relative a rapporti giuridici distinti e autonomi, le cui decisioni,
proprio in quanto definitive, dovevano ritenersi immediatamente impugnabili (Id., 28 giugno
1994, n. 6206, in Giust. civ., 1995, I, 462). In questo contesto si inserì la novella del 1994, con cui
il legislatore, dopo aver infranto il dogma dell’indivisibilità del lodo, introdusse, all’art. 827
c.p.c., la distinzione fra « lodo che decide parzialmente il merito », immediatamente impugnabile, e « lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale »,
impugnabile solo unitamente al lodo definitivo, prevedendo, all’art. 820 c.p.c., la possibilità
per gli arbitri che avessero pronunciato un « lodo non definitivo » di prorogare, per una sola
volta e per non più di centottanta giorni, il termine per la decisione finale. Sull’argomento
CIPRIANI, Sentenze non definitive e diritto di impugnare (a proposito dell’art. 827 c.p.c.), in
questa Rivista, 1999, 225 ss. e RUFFINI, La divisibilità del giudizio arbitrale, ibid., 431 ss.; più
recentemente, v. i contributi di DALFINO, Lodi non definitivi su questioni preliminari di merito,
in AA. VV., Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 303 ss. e di RUFFINI,
BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c., in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed
internazionale, a cura di Massimo V. BENEDETTELLI, Claudio CONSOLO e Luca RADICATI DI
BROZOLO, Padova, 2010, 321 ss.
(3) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, Padova, 2000, 166 e 168; RUFFINI, op. ult.
cit., 440; MONTESANO, Sui lodi parziali di merito, in questa Rivista, 1994, 252; TARZIA, Sub art. 19
l. 5 gennaio 1994, n. 25, in Legge 5 gennaio 1994, n. 25, a cura di Giuseppe TARZIA, Riccardo
LUZZATTO ed Edoardo Flavio RICCI, Padova, 1995, 156. In senso contrario, per l’ammissibilità del
differimento dell’impugnazione anche rispetto ai lodi parziali di merito non definitivi, v.
FAZZALARI, La riforma dell’arbitrato, in questa Rivista, 1994, 10; ID., Sub art. 827 c.p.c., in La
nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Antonio BRIGUGLIO, Elio FAZZALARI e Roberto MARENGO, Milano, 1994, 194 e 195; LUISO, Le impugnazioni del lodo dopo la riforma, in questa
Rivista, 1995, 20. Di opinione ancora diversa CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi non
definitivi della nuova disciplina dell’arbitrato, ibid., 41, 42 e 56, secondo il quale l’art. 827 c.p.c.
si sarebbe limitato a prevedere come meramente facoltativa la proposizione dell’impugnazione
immediata avverso tali lodi, garantendo la possibilità di procrastinare la loro l’impugnazione
senza la necessità di formulare alcuna riserva; così pure LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e
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Con il provvedimento in esame, la Corte conferma l’orientamento in
parola, individuandone il fondamento nella mancanza, nel procedimento
arbitrale, « dei presupposti pratici funzionali all’applicabilità dell’istituto
predetto (quello della riserva, n.d.r.), quali la comunicazione della sentenza
parziale da parte della cancelleria e la fissazione di un’udienza successiva al
deposito di detta sentenza, utile a segnare il termine finale per la formulazione della riserva » (4). Invero, tale affermazione non appare pienamente
condivisibile, dal momento che, più che da ostacoli di carattere pratico (5),
l’applicazione dell’istituto della riserva d’impugnazione sembra impedita
dalla regola in forza della quale tutti i provvedimenti giurisdizionali sono
immediatamente impugnabili; regola a cui, in virtù del disposto degli artt.
340 e 361 c.p.c., si sottraggono soltanto l’appello e il ricorso per cassazione (6).
Tale orientamento sembra destinato a trovare una conferma anche
nell’attuale contesto normativo. Il legislatore del 2006 si è infatti astenuto
dall’intervenire sul terzo comma dell’art. 827 c.p.c. e anzi ha inserito una
norma di tenore analogo nella disciplina del ricorso per cassazione (7).
Pertanto, in assenza di una disposizione di segno opposto, l’alternativa
l’esperienza, Milano, 1999, 153. Recentemente, questi rilievi sono stati ripresi da VERDE,
Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 3ª ed., Torino, 2010, 187 e 188, secondo il quale, contrariamente all’intenzione del legislatore, la formulazione dell’art. 827 c.p.c. parrebbe esprimere una
mera facoltà e non un obbligo. In senso contrario v. però CIPRIANI, op. ult. cit., 240, il quale rileva
che, in caso di cumulo oggettivo di domande o di litisconsorzio facoltativo, la domanda sulla
quale sia pronunciato un lodo parziale è una domanda che, se proposta autonomamente in un
giudizio ad hoc, sarebbe decisa con un lodo definitivo immediatamente impugnabile, sicché non
sarebbe corretto consentire alla parte soccombente di sfruttare la presenza di altre domande per
posticipare l’impugnazione.
(4) In tal senso Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit.; Id., 28 agosto 1995, n. 9028, in Rep.
Giur. it., 1995, voce « Arbitrato », n. 147 e Id., Sez. Un., 9 giugno 1986, n. 3835, cit., 1525.
(5) I quali non sembrano insormontabili, essendo sufficiente — in ipotesi — che in
seguito alla comunicazione del lodo ed entro il termine d’impugnazione (breve o lungo, a
seconda che la decisione sia notificata) la parte soccombente porti a conoscenza dell’altra, con
ogni mezzo idoneo, la propria volontà di differire l’impugnazione del lodo; cfr. FAZZALARI, op.
loc. ult. cit. e LUISO, op. ult. cit., 22. Critico sul punto è VERDE, op. loc. ult. cit., ad avviso del quale
ciò si tradurrebbe nell’imposizione di un onere (e in una conseguente decadenza) non previsto
dalla legge.
(6) Cfr. Cass., 22 febbraio 2002, n. 2566, cit.; in dottrina, CIPRIANI, op. loc. ult. cit. In
assenza di una previsione di tenore identico a quelle contenute nelle norme di cui al testo,
l’applicazione analogica di queste ultime all’arbitrato avrebbe potuto giustificarsi solo assimilando l’impugnazione per nullità a uno dei due mezzi d’impugnazione (PUNZI, op. ult. cit., 167);
soluzione, questa, difficilmente percorribile nel contesto successivo alla novella del 1994, nel
quale il giudizio d’impugnazione del lodo era considerato come un giudizio in unico grado
avente ad oggetto la validità di un atto negoziale (Id., 1 luglio 2004, n. 12031, in Giust. civ., 2005,
I, 2098; in dottrina, TARZIA, op. loc. ult. cit.).
(7) L’art. 360, 3º comma, c.p.c. (introdotto ex novo dal d.lgs. n. 40 del 2006) esclude
infatti l’immediata ricorribilità per cassazione delle « sentenze che decidono di questioni insorte
senza definire, neppure parzialmente il giudizio », prevedendo che « il ricorso per cassazione
avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la
sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio »; sul punto BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c.,
in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio MENCHINI, Padova, 2010, 452.
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continua ad essere fra il lodo non definitivo su questione, la cui impugnazione è automaticamente differita (8), e il lodo parziale di merito, la cui
immediata impugnazione non ammette riserve (9).
3. Compiuta tale premessa, la Corte si sofferma poi sulla nozione di
« lodo che decide parzialmente il merito della controversia » (sub b).
Nel contesto successivo alla novella del 1994, tale nozione, al pari di
quella di « lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il
giudizio arbitrale », va individuata sulla base del combinato disposto
dell’art. 827, 3º comma, c.p.c. e dell’art. 816, ult. comma, c.p.c. (applicabile
ratione temporis), a mente del quale, fatta eccezione per l’ipotesi di cui
all’art. 819 c.p.c., « su tutte le questioni » che si fossero presentate « nel
corso del procedimento » gli arbitri avrebbero dovuto provvedere « con
ordinanza non soggetta a deposito e revocabile ».
Per la quasi totalità degli interpreti, il disposto dell’art. 827 c.p.c.
confermava la distinzione fra i provvedimenti di carattere istruttorio o
ordinatorio, i quali avrebbero dovuto essere resi con l’ordinanza revocabile di cui all’art. 816 c.p.c., e i provvedimenti resi su domande, su
questioni pregiudiziali di rito e su questioni preliminari di merito (cioè
quei provvedimenti con cui fossero state decise questioni idonee, anche
astrattamente, a definire il giudizio, fra i quali rientrava la pronuncia
sull’eccezione d’incompetenza (10)), i quali avrebbero richiesto inderogabilmente la forma del lodo (11). E alla distinzione operata dal terzo
(8) Fermo restando che, nell’ipotesi in cui al lodo su questione faccia seguito un lodo
parziale non definitivo, la prima pronuncia deve essere necessariamente impugnata unitamente
alla seconda; cfr. CALIFANO, Le vicende del lodo: impugnazione e correzione, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Giovanni Verde, Torino, 2005, 480 e 481 e, più recentemente, PUNZI, Disegno
sistematico dell’arbitrato, II, 2ª ed., Padova, 2012, 504.
(9) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 503; ID., Il processo civile. Sistema e
problematiche, III, 2ª ed., Torino, 2010, 224; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi,
3ª ed., Padova, 2012, 526; COMOGLIO, Lodo parziale e lodo non definitivo dopo l’ultima riforma,
in Riv. dir. proc., 2009, 610 ss. e 615 e, sia pur dubitativamente, VERDE, op. loc. ult. cit. Per
l’applicazione dell’istituto della riserva d’impugnazione v. invece ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub
art. 827 c.p.c., in Arbitrato. Titolo VIII libro IV codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a cura
di Federico CARPI, 2ª ed., Bologna 2007, 667 ss. Ora, non v’è dubbio che l’ultima riforma abbia
apportato un contributo non secondario al processo di « giurisdizionalizzazione » dell’arbitrato
rituale; tuttavia, anche nel novellato contesto normativo sembra difficile assimilare pienamente
l’impugnazione per nullità del lodo all’appello o al ricorso per cassazione. Del resto, a fronte del
dibattito dottrinale sull’argomento (cfr. nota 3), il legislatore del 2006 avrebbe ben potuto
intervenire sulla materia ed estendere l’istituto della riserva d’impugnazione al giudizio arbitrale; il fatto che egli abbia lasciato inalterato l’art. 827 c.p.c. è un dato che non può essere
trascurato.
(10) Cfr. ACONE, Arbitrato e competenza, in questa Rivista, 1996, 243; SCHIZZEROTTO,
Dell’arbitrato, 3ª ed., Milano, 1988, 544; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3ª
ed., Napoli, 1964, 835. Per il carattere decisorio del provvedimento reso su tale eccezione v. la
risalente Cass., Sez. Un., 19 luglio 1957, n. 3050, in Giust. civ., 1957, I, 1460, in motivazione.
(11) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 71; TARZIA, op. ult. cit., 155; RUFFINI, op. ult.
cit., 439. Secondo CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 39, la riprova di tale
distinzione sarebbe stata rinvenibile nella diversità di formulazione fra gli artt. 816 e 827 c.p.c.:
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comma dell’art. 827 c.p.c. fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo
su questione sarebbe corrisposta la distinzione fra domanda e questione,
nel senso che la prima qualifica avrebbe dovuto essere riferita ai lodi con
cui gli arbitri avessero deciso una o più domande o uno o più capi di
domanda (dunque a lodi attributivi di un bene della vita, produttivi di
effetti giuridici nella sfera giuridica dei litiganti e idonei ad essere portati
in esecuzione nei confronti della parte soccombente (12)), mentre la
seconda sarebbe stata attribuibile alle pronunce con cui gli arbitri
avessero risolto in senso non ostativo alla prosecuzione del giudizio una o
più questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito (ossia a lodi la
cui emanazione, pur non esaurendo il potere decisorio degli arbitri
rispetto alla controversia, avrebbe loro impedito loro di « ripensare »
quanto deciso (13)) (14). Nella nozione di lodo parziale di merito sarebbero quindi ricadute le pronunce rese ai sensi degli artt. 277, 2º comma e
la prima norma, nel riferirsi alle questioni postesi nel corso « del procedimento », conteneva,
infatti, un implicito riferimento alla fase istruttoria, mentre la seconda, nel prevedere la forma
del lodo in relazione alle questioni insorte « nel giudizio arbitrale », presupponeva il passaggio
alla fase di decisione. Così anche ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato.
Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a cura di
Federico CARPI, Bologna, 2001, 538 e RASCIO, La decisione, in Diritto dell’arbitrato a cura di
Giovanni VERDE, Torino, 2005, 403, 404 e 405, secondo il quale la non fungibilità fra ordinanza
e lodo non definitivo sarebbe stata suffragata dal tenore dello stesso art. 816 c.p.c., che, vietando
il ricorso all’ordinanza per le questioni pregiudiziali non compromettibili, escludeva tale forma
proprio con riferimento a questioni idonee, per eccellenza, a definire il giudizio. Tale circostanza, secondo l’A., avrebbe circoscritto l’ambito di applicazione delle ordinanze ex art. 816
c.p.c. alle sole questioni che non fossero state idonee, neppure astrattamente, a chiudere il
procedimento. Sul punto anche CIPRIANI, op. ult. cit., 248 e 249. In senso difforme v. però LA
CHINA, op. ult. cit., 140 e 141, per il quale il grado di stabilità della decisione conseguente
all’adozione del lodo o dell’ordinanza sarebbe dipeso unicamente della volontà degli arbitri
(cioè da una loro valutazione di opportunità) e non già dal tipo di questione risolta, nonché
CAVALLINI, Questioni preliminari di merito e lodo non definitivo nelle riforma dell’arbitrato, in
Riv. dir. proc., 1995, 1151, per il quale sarebbe stata invece determinante la volontà delle parti,
nel senso che gli arbitri avrebbero dovuto risolvere ogni questione adottando la forma
dell’ordinanza revocabile, salvo che le parti non li avessero autorizzati, ai sensi dell’art. 816, 2º
comma, c.p.c., a decidere con lodo interlocutorio.
(12) LUISO, op. ult. cit., 20; CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 41; ID., Le
vicende del lodo: impugnazione e correzione, cit., 468; RASCIO, op. ult. cit., 401.
(13) Tali lodi sono infatti vincolanti nella prosieguo del giudizio arbitrale, nel senso che
con il lodo parziale o il lodo definitivo che vengano resi successivamente gli arbitri non possono
disattendere la loro precedente statuizione; cfr. LUISO, op. ult. cit., 13; ID., Intorno agli effetti dei
lodi non definitivi o parzialmente definitivi (nota ad Arbitro unico Vercelli, 20 febbraio 1997), in
questa Rivista, 1998, 594; CAVALLINI, op. ult. cit., 1159 e, da ultimo, DALFINO, op. ult. cit., 318.
Inoltre, laddove essi non siano impugnati unitamente alla pronuncia definitiva (o laddove
l’impugnazione venga rigettata), il giudice, quand’anche pronunci la nullità del lodo definitivo
per vizi suoi propri, non potrebbe compiere un nuovo esame delle questioni decise con la
pronuncia non definitiva, la cui efficacia conformativa rimane estesa anche all’eventuale fase
rescissoria; cfr. RUFFINI, op. ult. cit., 443 e, più recentemente, ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art.
827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670.
(14) FAZZALARI, op. loc. ult. cit.; PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 72; LUISO, Le
impugnazioni del lodo, cit., 18; CIPRIANI, op. ult. cit., 239; RUFFINI, op. ult. cit., 437; RASCIO, op.
ult. cit., 402; CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 40; ID., Le vicende del lodo:
impugnazione e correzione, cit., 468.
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279, 2º comma, n. 5, c.p.c. (15), mentre nella nozione di lodo non definitivo
su questioni quelle riconducibili all’art. 279, 2º comma, n. 4, c.p.c. (16).
Nel provvedimento che qui si annota, la Corte di cassazione si
discosta da tale orientamento. Richiamandosi ad alcuni propri precedenti,
il Supremo Collegio afferma, infatti, che « nel procedimento arbitrale ...
l’impugnabilità immediata viene circoscritta, per volontà del legislatore
della riforma, alle ipotesi di decisione non totale del merito, cioè alle ipotesi
corrispondenti alla previsione dell’art. 279 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4 ».
Nella nozione di lodo parziale di merito vengono quindi ricondotte non
solo le pronunce rese ai sensi degli artt. 277, 2º comma e 279, 2º comma,
n. 5, c.p.c. (ossia le decisioni su domande oggettivamente o soggettivamente connesse), ma anche le decisioni rese ai sensi dell’art. 279, 2º
comma, n. 4, c.p.c., più precisamente quelle aventi ad oggetto « questioni
preliminari di merito » di cui all’art. 279, 2º comma, n. 2, c.p.c.; decisioni
che, se rese in sede ordinaria, sarebbero sottoposte al regime delle
pronunce non definitive (17). Tale conclusione appare come il portato
della formulazione dell’art. 827 c.p.c., che, nel riferirsi alle decisioni
parziali di merito, sembrerebbe non consentire alcuna distinzione fra lodo
su domanda e lodo su questione.
La decisione in commento evidenzia una sensibile differenza rispetto
alla disciplina del processo ordinario, nella quale il regime dell’impugnazione della sentenza non definitiva prescinde dal suo contenuto (18);
(15) E ciò indipendentemente dal provvedimento di liquidazione delle spese e di separazione del giudizio che gli arbitri avessero emesso contestualmente alla decisione: nessuna
distinzione sarebbe stata infatti configurabile fra lodi parziali non definitivi e lodi parziali
definitivi; cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 73 e 74; MONTESANO, op. ult. cit., 249 e,
dopo l’ultima riforma, ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 660 e
661. Ai fini dell’impugnazione, il lodo parziale di merito non sarebbe stato diverso, quindi, dal
lodo con cui gli arbitri avessero deciso una o più domande non connesse fra loro benché
rientranti nella medesima convezione arbitrale, il quale è di norma considerato come pronuncia
definitiva (Cass., 18 aprile 2000, n. 4992, in Rep. Giur. it., 2000, voce « Arbitrato », n. 166). Ciò
contrariamente a quanto accade in sede ordinaria, dove le sentenze parziali vengono qualificate
come definitive o non definitive a seconda che il giudice disponga la separazione delle cause e
provveda alla liquidazione delle spese; cfr. Id., Sez. Un., 1 marzo 1990, n. 1577, in Foro it., 1990,
I, 836. Sul punto v. COMOGLIO, op. ult. cit., 607 e 608.
(16) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 74; LUISO, Le impugnazioni del lodo, cit., 18;
CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 40 e 41; RASCIO, op. loc. ult. cit.
(17) Ad esempio, il lodo con cui gli arbitri rigettino un’eccezione di prescrizione. In
giurisprudenza v. Cass., 7 febbraio 2007, n. 2715, in questa Rivista, 2007, 581, con nota di
OCCHIPINTI, La cassazione conferma i propri orientamenti in tema di impugnazione del lodo per
nullità e Id., 16 maggio 2000, n. 6522, in Giur. it., 2001, 254. In dottrina, sia pur limitatamente
alle eccezioni di merito in senso proprio, la tesi è sostenuta da MONTESANO, op. ult. cit., 250 e
253, da TARZIA, op. loc. ult. cit. e da LA CHINA, op. loc. ult. cit. Contra v. gli autori citati alla nota
14 e, in particolare, RASCIO, op. loc. ult. cit., per il quale il tenore letterale dell’art. 827 c.p.c. non
legittimerebbe alcuna distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato, posto
che entrambi i tipi di eccezione danno origine a questioni astrattamente idonee a definire il
giudizio.
(18) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 656. Come
ricordato poc’anzi (cfr. nota 15), nel giudizio ordinario il regime d’impugnazione delle decisioni
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differenza le cui ragioni dovrebbero ricercarsi, ad avviso della Corte, nel
« mancato riferimento da parte del legislatore del 1994 alla nozione di non
definitività » (19).
Pur nella sua (apparentemente maggiore) aderenza al dettato normativo (20), essa non presenta alcuna utilità: essa non risponde alla necessità
di salvaguardare la posizione della parte soccombente sulla questione
preliminare dal momento che, contrariamente al caso del lodo su domanda, non vi è alcun rischio che la decisione venga messa in esecuzione (21); inoltre, essa paga un prezzo molto alto in termini di economia
processuale, posto che, stante l’inammissibilità della riserva d’impugnazione, ogni decisione su questione preliminare di merito deve essere
impugnata immediatamente, a prescindere da una concreta soccombenza
della parte che tale questione abbia sollevato (22).
Si è già detto che la formulazione dell’art. 827 c.p.c. è rimasta
inalterata anche dopo l’ultimo intervento riformatore (23); è però mutata
la disciplina delle ordinanze, prima contenuta all’art. 816 c.p.c. e oggi
trasfusa nell’ultimo comma del nuovo art. 816 bis c.p.c. Il legislatore del
2006 ha infatti modificato la vecchia disposizione, prevedendo che su tutte
le questioni che si presentano nel corso del procedimento gli arbitri
provvedono con ordinanza revocabile non soggetta a deposito « se non
ritengono di provvedere con lodo non definitivo ». Il tenore della norma
sembrerebbe rimettere agli arbitri ogni valutazione in ordine all’opportunità di adottare la forma del lodo piuttosto che quella dell’ordinanza; per
la dottrina maggioritaria, con questa disposizione il legislatore avrebbe
infatti sancito la piena fungibilità di queste due forme rispetto alle decisioni sulle questioni pregiudiziali di rito e sulle preliminari di merito (24).
parziali dipende dal provvedimento di separazione delle cause e di liquidazione delle spese;
circostanza, questa, che è invece irrilevante in sede arbitrale.
(19) In tal senso già Cass., 7 febbraio 2007, n. 2715, cit.
(20) Secondo LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa Rivista, 1996, 677 e
RUFFINI, op. ult. cit., 443, imponendo l’immediata impugnazione del lodo su questione preliminare di merito, si finisce però per costringere la Corte d’appello a « cimentarsi » su di una
controversia che, proprio per la sua natura, in sede giurisdizionale non potrebbe essere dedotta
in via autonoma.
(21) LUISO, Le impugnazioni del lodo, cit., 19 e RASCIO, op. loc. ult. cit.
(22) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 75; così pure RUFFINI, op. ult. cit., 437, nt. 21.
Sul punto v. anche MONTESANO, op. ult. cit., 253.
(23) Il che ha indotto gli interpreti a confermare il proprio pregresso orientamento in
ordine alla distinzione fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo su questioni (v. nota 14);
cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 387 e ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c.,
in Arbitrato, cit., 2007, 659 e 662; più recentemente MARINUCCI, Note sul contrasto, cit., 970.
(24) Cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 386; ID., Il processo civile, cit., 212;
VERDE, op. ult. cit., 148; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, 4º ed., Milano, 2011, 232;
ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658; BOCCAGNA, op. ult. cit.,
452 e 453; GHIRGA, Sub art. 816 bis c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio
MENCHINI, Padova, 2010, 212, secondo la quale la discrezionalità degli arbitri troverebbe
comunque un limite nella regolamentazione imposta dalle parti ai sensi del medesimo art. 816
bis c.p.c.
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Non mancano, tuttavia, coloro i quali, anche dopo la riforma, continuano
a ritenere che la scelta fra lodo e ordinanza dipenda dalla natura della
questione decisa e che, pertanto, tutte le questioni astrattamente idonee a
definire il giudizio vadano decise con la forma del lodo (25).
Stante all’ampia nozione di lodo parziale adottata dalla Corte di
cassazione, è di tutta evidenza che l’opzione per l’una o per l’altra
interpretazione rileva non solo sotto il profilo dell’impugnazione del
provvedimento (26), ma anche sotto il profilo della sua stabilità nel prosieguo del giudizio (27).
(25) COMOGLIO, op. ult. cit., 609, per il quale anche nel novellato contesto l’ordinanza
conserverebbe natura di provvedimento ordinatorio, e G.F. RICCI, Sub art. 816 bis c.p.c., in
Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a
cura di Federico CARPI, Bologna, 2007, 405 ss., secondo cui la forma dell’ordinanza revocabile
mal si concilierebbe con la risoluzione di questioni « di per sé idonee a chiudere il giudizio e
quindi destinate ad una stabilità ». In senso conforme anche DALFINO, op. ult. cit., 315 e 316, ad
avviso del quale contro la tesi maggioritaria militerebbe il combinato disposto del nuovo art. 816
bis c.p.c. e dell’art. 827 c.p.c., la cui formulazione è rimasta invariata. Secondo l’A., con l’inciso
« se non ritengono di provvedere con lodo non definitivo » il legislatore non avrebbe fatto altro
che sancire il potere degli arbitri di scegliere se risolvere immediatamente la questione (di rito
o di merito) con lodo non definitivo oppure rinviarne la decisione insieme al lodo definitivo (ma
per la sussistenza di un simile potere anche prima della riforma v. LUISO, Intorno agli effetti dei
lodi non definitivi, cit., 595 ss.), con la conseguenza che, una volta optato per la prima
alternativa, nessuna discrezionalità residuerebbe in capo agli arbitri, i quali sarebbero vincolati
all’emanazione di un lodo non definitivo; così anche TOTA, Sub art. 816 bis c.p.c., in Commentario alle riforma del processo civile, a cura di Antonio BRIGUGLIO e Bruno CAPPONI, III, 2º tomo,
Padova, 2009, 707 ss. Critico in proposito PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 387, secondo
il quale la formulazione dell’art. 816 bis, ult. comma, c.p.c. non lascerebbe spazio a interpretazioni di segno diverso.
(26) Sia pur limitatamente a quello reso su questioni preliminari di merito, essendo il
lodo non definitivo su pregiudiziali di rito impugnabile solo unitamente al lodo definitivo.
Peraltro, come rileva BOCCAGNA, op. loc. ult. cit., laddove si opti per la piena fungibilità fra lodo
e ordinanza, sarebbe necessario stabilire se il lodo sia scomponibile in tante parti quante sono
le questioni esaminate dagli arbitri; ciò al fine di capire se, onde evitare il passaggio in giudicato
di tutta la decisione, la parte soccombente sia comunque onerata dall’impugnare ogni singola
pronuncia su questione, anche se resa con ordinanza (in tal senso RUFFINI, op. ult. cit., 443 e 444),
oppure se la minima unità strutturale in grado di dar vita ad un autonomo potere (e quindi ad
un onere) d’impugnazione sia sempre e solo il lodo (CONSOLO, op. ult. cit., 540). In tal caso,
infatti, la Corte d’appello potrebbe riesaminare le questioni tutte le volte in cui esse siano decise
con semplice ordinanza, essendo il riesame precluso solo laddove su di esse sia pronunciato un
lodo e questo non sia impugnato.
(27) Come rilevato da autorevole dottrina (PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012,
504), il legislatore dell’ultima riforma ha mancato di regolare la sorte del lodo non definitivo su
questione nel caso in cui il procedimento arbitrale non giunga a una pronuncia definitiva o
parziale. Secondo un orientamento consolidato, i lodi non definitivi su questioni sarebbero
incapaci di sopravvivere all’“estinzione” del giudizio arbitrale, essendo sforniti di quell’efficacia
panprocessuale che tradizionalmente è attribuita alle sentenze su questioni; ciò in ragione
dell’impossibilità di esperire contro di essi l’impugnazione immediata e dell’assenza di norme
eccezionali quali gli artt. 310 c.p.c. e 129 disp. att. c.p.c. (in argomento v. MONTESANO, op. ult.
cit., 251 e CAVALLINI, op. ult. cit., 1157 ss. e 1159). Ora, se si dovesse dare continuità a tale
orientamento (cfr. ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670), la
scelta fra la forma del lodo e quella dell’ordinanza esplicherebbe i propri effetti esclusivamente
in ambito endoprocedimentale, rilevando solo ai fini della (im)possibilità per gli arbitri di
ritornare sulla questione già decisa. Se invece si accedesse all’opinione, prospettata all’indomani della recente riforma, secondo la quale il lodo non definitivo avrebbe gli stessi effetti
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4. Precisata la nozione di lodo parziale di merito, i giudici di
legittimità si domandano se la pronuncia con cui gli arbitri abbiano deciso
solo l’eccezione d’incompetenza possa rientrare nella previsione di cui
all’art. 279, 2º comma, n. 4, c.p.c. (sub c). La risposta al quesito non può
che essere positiva, dal momento che — afferma il Supremo Collegio —
la questione inerente alla sussistenza della potestas judicandi arbitrale
deve essere qualificata come questione preliminare di merito. Tale
affermazione è frutto dell’orientamento consolidatosi in seguito alla
riforma del 1994, allorquando la Corte di cassazione, dopo aver a lungo
considerato l’eccezione in parola come eccezione di natura processuale (28), attribuì all’istituto arbitrale un carattere tout court negoziale e
prese a considerare l’exceptio compromissi come eccezione di natura
sostanziale (29). Indipendentemente dalla condivisibilità di questo assunto (30), è evidente che se la questione di « competenza » integra in
realtà una questione preliminare di merito (31), allora anche il lodo che la
decide deve essere considerato a tutti gli effetti come un lodo di merito e
— stante l’ampia nozione di lodo parziale adottata dalla Corte — esso
deve ritenersi impugnabile immediatamente ai sensi dell’art. 827, 3º
conformativi previsti per le sentenze non definitive (in tal senso DALFINO, op. ult. cit., 321), la
scelta fra la forma del lodo e quella dell’ordinanza sarebbe chiaramente foriera di ben più
rilevanti conseguenze.
(28) Riconducendo i rapporti fra arbitrato e processo ordinario alla categoria della
competenza; cfr. Cass., 15 settembre 2000, n. 12175, in Giur. it., 2001, I, 1, 2035, con nota di
NELA, Arbitrato rituale e regolamento necessario di competenza; Id., 8 febbraio 1999, n. 1079, in
Foro it., 2000, I, 2308, con nota di DE SANTIS, In tema di rapporti tra giudice ordinario e arbitri;
Id., 23 gennaio 1990, n. 354, in questa Rivista, 1991, 79, con nota di MIRABELLI, Regolamento o
ricorso per cassazione per incompetenza dell’arbitro; Id., 27 luglio 1957, n. 3167, in Riv. dir. proc.,
1958, 244, con nota di COLESANTI, Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri; Id., Sez.
Un., 9 maggio 1956, n. 1505, in Foro it., 1956, I, 847, con nota di ANDRIOLI, Procedura arbitrale
e regolamento di giurisdizione.
(29) Aderendo così alla tesi sostenuta da una parte della dottrina (per tutti PUNZI,
Disegno sistematico, cit., II, 2000, 142). In tal senso Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527, in
questa Rivista, 2000, 699, con nota di FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla « natura »
dell’arbitrato rituale; in Riv. dir. proc., 2001, 254, con nota di E.F. RICCI, La « natura »
dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite. Nello stesso senso v. le
successive Id., Sez. Un., 5 dicembre 2000, n. 1251, in Corr. giur., 2001, 1448, con nota di CONSOLO
e MURONI, L’eccezione di arbitrato rituale come eccezione « di merito » e la supposta inammissibilità del regolamento di competenza; Id., 1 febbraio 2001, n. 1403, in Giur. it., 2001, I, 1, 2035,
con nota di NELA, Arbitrato rituale, cit.; Id., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9289, in questa Rivista,
2002, 511, con nota di BRIGUGLIO, Le Sezioni Unite ed il regime della eccezione fondata su
accordo compromissorio e in Giust. civ., 2003, 717, con nota di PUNZI, Natura dell’arbitrato e
regolamento di competenza e, infine, Id., 5 gennaio 2007, n. 35, in Riv. dir. proc., 2007, 1293, con
nota di E. F. RICCI, La Cassazione si pronuncia ancora sulla convenzione di arbitrato rituale: tra
l’attaccamento a vecchi schemi e qualche incertezza concettuale.
(30) Sul punto, si vedano gli scritti di E.F. RICCI, fra cui La « natura » dell’arbitrato rituale
e del relativo lodo, cit., 259 ss.; La never ending story della natura negoziale del lodo: ora la
Cassazione risponde alle critiche, in Riv. dir. proc., 2003, 557 ss.; La Cassazione si pronuncia
ancora sulla convezione di arbitrato rituale, cit., 1294 ss.
(31) In questi termini Cass., 21 novembre 2006, n. 24681, in Rep. Giur. it., 2006, voce
« Arbitrato », n. 88 e Id., 28 luglio 2004, n. 14234, in Mass. Giur. it., 2004, 1118 e 1119, entrambe
citate nella motivazione.
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comma, c.p.c. (32). Donde la tardività, nel caso di specie, dell’impugnazione proposta nei confronti del primo lodo ed il conseguente passaggio
in « giudicato » della decisione resa sull’eccezione d’incompetenza.
Su questo punto, non possiamo non dare evidenza di quanto statuito
dalla sentenza n. 4790 del 26 marzo 2012, con cui la stessa Sezione,
qualificando la questione inerente alla sussistenza della potestas judicandi
arbitrale come questione pregiudiziale attinente all’ammissibilità della
domanda, ha opinato nel senso della impugnabilità del lodo dichiarativo
della competenza arbitrale solo unitamente al lodo definitivo (33). A fronte
(32) Nel medesimo senso, sia pur con riferimento ad una vicenda parzialmente diversa,
App. Milano, 9 giugno 1998, in questa Rivista, 2000, con nota di DANOVI, Lodi non definitivi e
limiti soggettivi di efficacia del patto compromissorio. Non sembra, invece invocabile Cass., Sez.
Un., 19 luglio 1957, n. 2050, cit., 1460, con cui i giudici di legittimità avevano ritenuto
suscettibile di impugnazione immediata il lodo con cui gli arbitri si erano dichiarati competenti
a conoscere della domanda proposta in via principale, disponendo la sospensione del procedimento a fronte di un’eccezione di nullità di un brevetto. Tale ultimo precedente risulta infatti
emesso all’indomani della novella del 1950, in un momento in cui parte della dottrina e della
giurisprudenza di merito avevano ritenuto che, di fronte all’intervento riformatore, la regola
dell’impugnabilità immediata delle sentenze dovesse trovare applicazione anche in sede
arbitrale. Come noto, tale orientamento è stato poi sconfessato dalla Corte di cassazione nelle
celebre sentenza n. 4020 del 12 luglio 1979, con cui la Corte, argomentando sulla base
dell’inapplicabilità all’arbitrato degli artt. 340 e 361 c.p.c., confermò l’operatività in sede
arbitrale del principio di concentrazione delle impugnazioni e dunque l’inammissibilità dell’impugnazione immediata nei confronti dei lodi parziali; cfr. Id., 12 luglio 1979, n. 4020, cit., 1707
e 1708.
(33) Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit. La fattispecie era pressoché identica a quella
decisa nel provvedimento in esame. Anche in questo caso, infatti, il collegio arbitrale aveva reso
un primo lodo con cui si era dichiarato regolarmente costituito nonché competente a conoscere
la controversia, al quale era seguita la decisione sul merito della lite ed entrambe le decisioni
erano state impugnate congiuntamente dinanzi alla Corte d’appello. Va tuttavia precisato che,
dall’esame della motivazione, non è chiaro se la conclusione cui pervengono i giudici di
legittimità sia il frutto della natura processuale attribuita alla questione di competenza, piuttosto
che di una rimeditazione della nozione di lodo su questione e di lodo parziale (su cui ci siamo
intrattenuti poc’anzi), anche se il richiamo alle categoria dell’ammissibilità e della procedibilità
induce a privilegiare la prima lettura.
Nello stesso senso e sempre con riferimento alla disciplina anteriore alla riforma del 2006,
v. App. Roma, 11 aprile 2013, cit. Da segnalare anche Cass., 19 agosto 2004, n. 16205, in Arch.
giur. oo. pp., 2004, 265. Questa pronuncia trae origine da una fattispecie nella quale gli arbitri
avevano reso un lodo con cui avevano rigettato l’eccezione di nullità della clausola compromissoria e, al contempo, pronunciato la risoluzione del contratto sul quale era sorta la
controversia. Per la Corte di cassazione, tale decisione costituiva un lodo parziale di merito (in
forza del capo risolutorio), con la conseguenza che, data l’impossibilità di scindere in momenti
diversi l’impugnazione di un unico provvedimento (sull’impugnazione dei lodi a contenuto
“misto” v. COMOGLIO, op. ult. cit., 614), essa avrebbe dovuto ritenersi impugnabile immediatamente anche nella parte con cui gli arbitri avevano rigettato l’eccezione d’incompetenza. Nella
propria motivazione, la Corte ha però specificato che detto lodo non sarebbe stato suscettibile
di impugnazione immediata laddove si fosse limitato a rigettare l’eccezione di nullità,
dal momento che, in tal caso, esso non avrebbe inciso sul merito della lite. Per l’inammissibilità
dell’impugnazione proposta nei confronti del lodo dichiarativo della competenza arbitrale
v. anche Cass., 9 agosto 1983, n. 5311, in Rass. avv. Stato, 1983, I, 702, la cui motivazione
risulta però fondata sul principio di indivisibilità del lodo (cfr. nota 2). In dottrina la natura
non definitiva del lodo dichiarativo della competenza arbitrale è sostenuta da TARZIA, op. loc.
ult. cit.
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di tale contrasto, non resta che auspicare un intervento risolutore da parte
delle Sezioni Unite, nella speranza che il Supremo Collegio colga l’occasione per fare chiarezza sul punto anche con riferimento alla situazione
attuale, tenendo conto cioè delle significative novità introdotte con il d.lgs.
n. 40 del 2006 (sulle quali ritorneremo infra).
In attesa di tale intervento, riteniamo opportuno compire un’ulteriore
riflessione, che ci è indotta dal passaggio della motivazione in cui la Corte
fa riferimento alla formazione del « giudicato ».
Invero, è probabile che, nell’utilizzare tale termine, i giudici di legittimità abbiano inteso riferirsi al giudicato formale, volendo significare
soltanto la sopravvenuta insindacabilità, nell’ambito di quel giudizio, della
decisione arbitrale relativa alla questione di competenza; del resto, è noto
come la Corte di cassazione abbia da sempre ritenuto che la statuizione
sull’eccezione d’incompetenza non possa costituire un capo autonomo
della decisione (emessa dagli arbitri o dal giudice ordinario) e che,
pertanto, essa non sia idonea ad acquisire l’autorità della cosa giudicata ai
sensi dell’art. 2909 c.c. (34). Si consideri inoltre che, nonostante il diverso
avviso della dottrina (35), tale orientamento, tradizionalmente fondato sul
carattere processuale attribuito all’exceptio compromissi e su un’interpretazione rigorosa del principio di Kompetenz-Kompetenz, non è parso
subire significativi mutamenti nemmeno all’indomani del revirement del
2000 (36). Tuttavia, laddove si condivida l’opinione secondo la quale
l’eccezione con cui si contesta la competenza arbitrale avrebbe natura
sostanziale, sarebbe necessario verificare se detta eccezione dia origine ad
una semplice questione preliminare o a una vera e propria questione
pregiudiziale (37).
(34) Cass., 28 marzo 1991, n. 3361, in Giur. it., 1992, I, 1, 552, con nota senza titolo di
FADEL; Id., 27 maggio 1961, in Giur. it., 1961, I, 1, 884, con nota senza titolo di COLESANTI, e in
Giust. civ., 1961, I, 1836, con nota di SAMMARCO, Trasmigrazione del processo dall’arbitro al
giudice ordinario; Id., 27 luglio 1957, in Riv. dir. proc., 1958, 247 e 258, con nota di COLESANTI,
Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri.
(35) Fra i molti LUISO, Ancora sui rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 1997,
525, BOVE, Rapporti tra arbitro e giudice statale, ivi, 1999, 420 e, sia pur de jure condendo,
CONSOLO, Litispendenza e connessione fra arbitrato e giudizio ordinario (evoluzione e problemi
irrisolti), ivi, 1998, 672.
(36) Si veda, infatti, Cass., 8 giugno 2007, n. 13508, in Rep. Giur. it., 2007, voce
« Arbitrato », 75, nella quale la Corte ha affermato che « la mancata impugnazione della
pronuncia sulla competenza dà luogo soltanto ad un giudicato formale che preclude la
riproposizione della questione davanti al giudice dello stesso processo, ma non fa stato in un
diverso processo promosso dalle parti dinanzi a un giudice diverso e, meno che mai, nel giudizio
arbitrale, che non costituisce prosecuzione del giudizio instaurato dinanzi al giudice incompetente ... ».
(37) Per comodità del lettore, ricordiamo che per questione pregiudiziale di merito
s’intende la questione dalla cui definizione dipende la decisione della causa. Si tratta di una
questione dotata di intrinseca autonomia, suscettibile di divenire causa autonoma (come tale
azionabile anche in un separato giudizio), che ha ad oggetto un rapporto giuridico sostanziale
diverso da quello principale, dalla cui esistenza dipende l’esistenza di quest’ultimo e la cui
inesistenza rende superfluo l’esame degli altri elementi della fattispecie; e che, ai sensi dell’art.
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Ora, è innegabile che la questione inerente alla sussistenza della
potestas arbitrale sia dotata di una propria autonomia rispetto al rapporto
sostanziale cui accede il patto compromissorio: essa, infatti, riguarda un
autonomo « bene della vita » (38) (l’arbitrabilità della lite) e non può
essere ridotta a mero elemento costitutivo del rapporto principale; con la
conseguenza che, laddove ci si muova nell’ambito delle questioni sostanziali, parrebbe corretto riconoscerle il rango di questione pregiudiziale di
merito. Così opinando, la relativa statuizione potrebbe assurgere a capo
autonomo della decisione (o a decisione parziale) ed esplicare un’efficacia
conformativa in tutti gli eventuali successivi giudizi (arbitrali e ordinari)
in cui la questione fosse eventualmente riproposta. Ovviamente, ipotizzando di ricondurre la fattispecie in esame alla previsione di cui all’art. 34
c.p.c., si dovrebbe concludere che, in difetto di una norma che imponga
una decisione della questione con efficacia di giudicato, essa possa
conseguire solo alla formulazione di una domanda di accertamento
incidentale (39). Aderendo a questa ricostruzione, anche la sentenza resa
della Corte di cassazione potrebbe ritenersi corretta, sia pur in forza di
una diversa ratio: in questo modo, infatti, la decisione sull’eccezione
d’incompetenza dovrebbe — in ipotesi — essere considerata non già
come una semplice decisione su questione preliminare, bensì come una
decisione su questione pregiudiziale trasformata in causa, la quale, al pari
di ogni altra decisione su domanda, sarebbe immediatamente impugnabile ai sensi dell’art. 827, 3º comma, c.p.c. (40).
5. La ricostruzione sopra ipotizzata deve però essere verificata alla
luce della disciplina positiva; disciplina di cui, come noto, il nostro codice
di procedura civile è rimasto a lungo privo e che è stata introdotta solo in
occasione dell’ultimo intervento riformatore. Questo breve scritto non ci
consente di affrontare diffusamente il tema della natura dell’eccezione con
cui si contesta la potestas judicandi degli arbitri e di trattare ex professo il
34 c.p.c., può essere trasformata in causa pregiudiziale (ed essere quindi decisa con efficacia di
giudicato) in forza di una previsione di legge o di una domanda di parte. La questione
preliminare di merito consiste, invece, in una questione anch’essa idonea a definire il giudizio,
ma riguardante un elemento costitutivo della fattispecie e, soprattutto, insuscettibile di un
autonomo giudizio. Inoltre, mentre la sentenza non definitiva su questione pregiudiziale è
idonea alla formazione della cosa giudicata (a condizione che la questione sia stata trasformata
in causa) e, anche in caso di estinzione del giudizio, fa stato fra le parti ai sensi dell’art. 2909 c.c.,
la sentenza non definitiva su questione preliminare di merito è dotata solo della c.d. efficacia
panprocessuale, nel senso che essa vale solo nei successivi giudizi fra le parti aventi ad oggetto
la medesima controversia; cfr. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli,
2006, 195. Su questi temi si rinvia a GARBAGNATI, Questioni preliminari di merito e questioni
pregiudiziali, in Riv. dir. proc., 1976, 257 ss. Sul punto v. anche COMOGLIO, op. ult. cit., 602 ss. e
DALFINO, op. ult. cit., 310 ss.
(38) CONSOLO, Litispendenza e connessione, cit.
(39) BOVE, op. ult. cit., 421.
(40) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670 e 672.
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problema legato all’efficacia della pronuncia sul patto compromissorio (41). Qui ci limitiamo a osservare soltanto che le modifiche apportate
all’art. 817 c.p.c., unitamente alla novellazione dell’art. 819 ter c.p.c.,
hanno indotto molti interpreti a ritenere che la questione inerente alla
sussistenza di un valido patto compromissorio sia oggi restituita all’ambito
delle questioni processuali, ancorché rimanga poi dubbio se essa vada
qualificata come questione di giurisdizione, di competenza o di ammissibilità della domanda. Il che dovrebbe indurre a confermare il pregresso
orientamento giurisprudenziale circa la presunta inefficacia della pronuncia sul patto compromissorio al di fuori del giudizio in cui questa venga
resa (42), ad opinare nel senso che essa possa essere emessa indifferentemente con la forma dell’ordinanza o con quella del lodo e, infine, a
ritenere che, ove resa sotto forma di lodo, essa possa essere impugnata
solo unitamente alla pronuncia definitiva (43).
Sennonché, a fianco delle disposizioni volte a rafforzare il carattere
processuale della questione in parola ve ne sono altre di segno opposto,
che sembrano invece attribuirle il rango di autonomo bene della vita (44);
intendiamo riferirci alla disposizione contenuta nell’art. 819 ter, ult.
comma, c.p.c., che, ammettendo la proposizione di domande aventi ad
(41) Sul punto v. BOCCAGNA, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Commentario breve al diritto
dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di Massimo BENEDETTELLI, Claudio CONSOLO e
Luca Radicati di BROZOLO, Padova, 2010, 255 ss. e 276 ss.; ACONE, Arbitrato e translatio iudicii:
un parere eretico, in AA. VV., Sull’arbitrato, cit., 1 ss.; RUFFINI, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in La
nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio MENCHINI, Padova, 2010, 281 ss. e 364 ss.;
PELLEGRINELLI, Sub art. 817 c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di
Antonio BRIGUGLIO e Bruno CAPPONI, III, 2º tomo, Padova, 2009, 817; CAPPONI, Sub art. 819 ter
c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Antonio BRIGUGLIO e Bruno
CAPPONI, III, 2º tomo, Padova, 2009, 873; ID., Modestino Acone, la competenza e l’arbitrato, in
Il giusto processo civile, 2009, 391; G.F. RICCI, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Arbitrato.
Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile — artt. 806 — 840, a cura di
Federico CARPI, Bologna, 2007, 467 ss. e 500 ss.; LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa
Rivista, 2005, 776; NELA, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Le recenti riforme del processo civile,
a cura di Sergio CHIARLONI, 2º tomo, Bologna, 2006, 1768 ss. e 1809 ss.; BOVE, Ancora sui rapporti
tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 361; ID., Ricadute sulla disciplina dell’arbitrato della legge n. 69/2009, in AA. VV., Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli,
2010, 81 ss.; IZZO, Appunti sull’eccezione di compromesso e sulla sentenza che la decide, in AA.
VV., Sull’arbitrato, cit., 451 ss. Più di recente v. PUNZI, Disegno sistematico, cit., I, 2012, 155 ss.
e MENCHINI, Il controllo e la tutela della convenzione arbitrale, in questa Rivista, 2013, 363 ss.
(42) In tal senso CAPPONI, Sub art. 819 ter c.p.c., in Commentario alle riforme, cit., 880;
NELA, Sub art. 817 c.p.c., in Le recenti riforme, cit., 1771; G.F. RICCI, Sub art. 819 ter c.p.c., in
Arbitrato, cit., 2007, 506 ss., i quali, argomentando sulla base del carattere processuale attribuito
alla questione in parola e del principio di Kompetenz-Kompetenz di cui all’art. 817 c.p.c.
(principio che del resto si pone in perfetta sintonia con la soluzione delle “vie parallele” adottata
dal legislatore all’art. 819 ter c.p.c.), ritengono che l’accertamento compiuto dagli arbitri o dal
giudice ordinario in ordine alla propria competenza non sia in grado di esplicare effetti al di
fuori della sede in cui viene reso.
(43) Così DE ZANETTI, Il lodo, in AA.VV., Arbitrato, a cura di Bonelli Erede Pappalardo,
Milano, 2012, 191, nonché MARINUCCI, op. ult. cit., 967.
(44) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658.
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oggetto la questione inerente alla sussistenza della potestas arbitrale (45),
sembrerebbe legittimare l’idea che detta questione possa essere decisa con
efficacia di giudicato anche quando sorga nell’ambito di una controversia
avente ad oggetto il rapporto giuridico sostanziale (46). Valorizzando
questi elementi, dovrebbe ritenersi che la pronuncia sull’eccezione d’incompetenza richieda inderogabilmente la forma del lodo (47) e che essa
costituisca una decisione parziale, come tale impugnabile immediatamente (48).
Di fronte alla non univocità del dettato normativo, questa seconda
opzione sembrerebbe preferibile dal momento che, pur gravando la parte
soccombente dell’onere di proporre impugnazione immediata, essa è
(45) La norma, nell’escludere che in pendenza del giudizio arbitrale possano essere
proposte domande giudiziali aventi ad oggetto l’invalidità o l’inefficacia della convenzione
d’arbitrato, è stata interpretata a contrario nel senso che, prima di tale momento, la proposizione di simili domande sarebbe ammissibile; cfr. LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., 776;
BOVE, Ancora sui rapporti, cit., 361. Tale lettura ha trovato riscontro nella giurisprudenza di
legittimità; cfr. Cass., 4 agosto 2011, n. 1709, in Foro it., 2012, 1143. In senso contrario v. però
NELA, Sub art. 819 ter c.p.c., in Le recenti riforme, cit., 1821.
(46) PUNZI, Il processo civile, cit., 212; LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., 783;
RUFFINI, Sub art. 817 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 285. Ulteriori argomenti in
favore del carattere autonomo della questione vengono tratti dal disposto dell’art. 817, 1º
comma, c.p.c., a mente del quale, in caso di contestazione sulla validità, il contenuto o
l’ampiezza della convenzione arbitrale, « gli arbitri decidono sulla propria competenza », nonché
dalla disposizione contenuta nell’art. 830, 3º comma, c.p.c., che, nel disciplinare il passaggio alla
fase rescindente a quella rescissoria del giudizio d’impugnazione, prevede che « quando la corte
d’appello non decide nel merito, alla controversia si applica la convenzione d’arbitrato, salvo che
la nullità dipenda dalla sua invalidità ». Fra coloro i quali ipotizzano che la decisione sul patto
compromissorio possa conseguire l’autorità propria del giudicato, si discute, tuttavia, se una
simile efficacia possa discendere solo dalla proposizione di una domanda di accertamento
incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c. (MENCHINI, op. ult. cit., 372 e IZZO, op. ult. cit., 460 ss.) o
anche alla proposizione di una mera eccezione (LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., il quale
invoca la teoria dell’antecedente logico necessario). In senso contrario MARINUCCI, op. loc. ult.
cit., secondo la quale, in sede arbitrale, la questione inerente alla competenza del giudice privato
manterrebbe inalterato il proprio carattere processuale.
(47) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658. D’altro canto,
opinando nel senso dell’ammissibilità dell’ordinanza ex art. 816 bis c.p.c. si determinerebbe una
forte discrasia rispetto al giudizio ordinario, dove, stante l’immutata formulazione dell’art. 819
ter c.p.c., la questione di competenza continua a dover essere decisa con la forma della sentenza;
sarebbe infatti piuttosto singolare che sulla medesima questione il giudice ordinario sia tenuto
ad adottare il provvedimento decisorio per eccellenza, mentre gli arbitri possano emettere
addirittura un provvedimento revocabile.
(48) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 662. Del resto, se
la ratio del divieto di impugnazione immediata per il lodo non definitivo su questioni è quella
di evitare di impegnare la Corte d’appello su questioni che, da sole, non sarebbero suscettibili
di accertamento davanti all’autorità giudiziaria (LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 677)
e se le controversie sulla validità e sull’ampiezza della clausola compromissoria possono
costituire oggetto di autonomo accertamento in sede giurisdizionale (cfr. art. 819 ter, ult.
comma, c.p.c.), allora non vi sarebbe motivo per escludere che il lodo reso su di esse possa
essere immediatamente impugnato. Naturalmente, qualora si opini nel senso che il giudicato
possa formarsi soltanto in presenza di un’esplicita domanda di parte (IZZO, op. loc. ult. cit.),
ragionevolmente l’impugnazione dovrà essere proposta immediatamente solo laddove tale
domanda sia stata effettivamente formulata; in caso contrario, stante la cennata distinzione fra
lodo su domande e lodo su questioni (cfr. note 14 e 23), la pronuncia dovrebbe ritenersi
impugnabile solo unitamente alla decisione definitiva.
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l’unica in grado di assicurare alle parti una decisione “tombale” sulla
questione di competenza. D’altronde, l’unica possibilità di risparmiare alle
parti un simile incombente risiederebbe nell’estensione al procedimento
arbitrale dell’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione.
6. L’immediata impugnabilità della decisione resa sulla questione
di competenza impone, infine, una breve riflessione sul coordinamento
fra il giudizio d’impugnazione del lodo e il procedimento arbitrale (che,
come nel caso di specie, prosegua con l’esame del merito della controversia).
La prima conseguenza dell’emanazione di un lodo non definitivo su
questione o di un lodo parziale è l’automatica proroga del termine per la
pronuncia della decisione finale di ulteriori centottanta giorni (49). Si
tratta, naturalmente, di uno strumento inadeguato; per cui, al fine di
garantire un coordinamento fra le due sedi, non sembrano esservi alternative a una sospensione concordata del procedimento arbitrale in attesa
della definizione della questione di competenza (50). Ove, invece, il procedimento arbitrale prosegua, l’accoglimento dell’impugnazione del lodo
parziale determinerà, ai sensi dell’art. 336, 2º comma, c.p.c., la caducazione
del lodo definitivo che sia stato nel frattempo pronunciato (51). E dal
momento che la legge n. 353/1990 ha espunto dall’art. 336 c.p.c. il riferimento al passaggio in giudicato della sentenza, l’effetto espansivo esterno
si produrrà immediatamente, in seguito al deposito della sentenza resa
dalla Corte d’appello (52); con la conseguenza che, qualora tale sentenza
sia a sua volta impugnata dinanzi alla Corte di cassazione e l’impugnazione venga accolta, non si potrà fare altro che riaprire il procedimento
davanti agli arbitri (53). Laddove, invece — per ipotesi — il lodo sia
(49) Il legislatore della riforma ha infatti modificato l’art. 820 c.p.c., rendendo automatica
la proroga del termine per la pronuncia del lodo definitivo ed estendendo la previsione anche
al caso in cui venga reso un « lodo parziale ».
(50) TARZIA, op. ult. cit., 157 e 158. Non sembra invece possibile applicare analogicamente
il disposto dell’art. 279, 4º comma, c.p.c. Tale norma, infatti, potrebbe essere trasposta nel
procedimento arbitrale solo in presenza di un’esplicita indicazione delle parti; cfr. PUNZI,
Disegno sistematico, cit., II, 2012, 502; ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato,
cit., 2007, 665 e 666.
(51) PUNZI, Disegno sistematico, cit., 2012, II, 503; CONSOLO, Le impugnazioni delle
sentenze, cit., 527; così già TARZIA, op. loc. ult. cit. e MONTESANO, op. loc. ult. cit. Il lodo definitivo
sarà dunque travolto per effetto della dichiarazione di nullità del lodo parziale anche laddove
il primo non sia stato impugnato e sia nel frattempo divenuto incontrovertibile.
(52) TEDOLDI, Sub art. 336 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, a cura di
Claudio CONSOLO, 4ª ed., 2010, 524.
(53) Con riferimento al procedimento ordinario v. CONSOLO, Sub art. 336 c.p.c., in
Commentario alla riforma del processo civile, a cura di Claudio CONSOLO, Francesco Paolo LUISO
e Bruno SASSANI, Milano, 1996, 358.
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annullato prima della conclusione del giudizio arbitrale, gli arbitri dovranno conformarsi alla statuizione della Corte d’appello e respingere la
domanda, prendendo atto della propria incompetenza (54).
ENRICO DEBERNARDI
(54) RUFFINI, BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, a
cura di Claudio CONSOLO, 4ª ed., 2010, 1193.
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CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 14 maggio 2012 n. 7450; CARNEVALE
Pres.; FORTE Est.; Sorrentino P.M. — Comune di Savoca c. Natoli Alfredo.
Mancata tempestiva nomina dell’arbitro di parte - Nomina giudiziale dell’arbitro,
ai sensi dell’art. 810, comma 2, c.p.c. - Rispetto delle qualifiche convenzionalmente pattuite dalle parti - Ricusazione ex art. 815, comma 1, n. 1, c.p.c. Impugnazione per nullità del lodo emesso dal collegio arbitrale.
Il presidente del tribunale, nel designare l’arbitro, non tempestivamente nominato dalle parti ai sensi degli artt. 810 e 811 c.p.c., non è vincolato al rispetto delle
categorie professionali previste nella convenzione arbitrale. Quest’ultima vincola
solo le parti, ex art. 1372 c.c., e non può estendere i propri effetti sui poteri di nomina
di cui la legge investe, nell’inerzia delle parti, l’autorità giudiziaria, il cui intervento
non è, dunque, soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata, ma si attua con la
discrezionalità tipica del magistrato.
CENNI DI FATTO. — La sentenza in epigrafe muove da una controversia insorta
tra il Comune di Savoca e Tizio, al quale è conferito l’incarico di uno studio
geologico dell’area limitrofa alla Chiesa della SS. Immacolata, oggetto di lavori di
ristrutturazione.
In seguito al rifiuto del Comune di pagare il conto finale dei lavori presentato
da Tizio, quest’ultimo avvia un giudizio arbitrale, in conformità all’art. 16 del
disciplinare di incarico, nominando il proprio arbitro. Nell’inerzia del Comune in
merito alla nomina dell’arbitro di parte, Tizio, ai sensi dell’art. 810, comma 2,
c.p.c., chiede al Presidente del Tribunale di Messina di provvedere alla nomina
dell’arbitro di parte. Il collegio formato dall’arbitro nominato da Tizio e dai due
arbitri nominati dal Presidente del Tribunale di Messina (l’arbitro di parte e il
presidente del collegio arbitrale) pronuncia il lodo, riconoscendo il credito di Tizio
e condannando il Comune di Savoca al pagamento della somma richiesta. Il lodo
così pronunciato viene impugnato, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., dal Comune di
Savoca, in particolare, per l’errata composizione del collegio arbitrale, il mancato
rispetto dei termini di costituzione e lesione del diritto di difesa, ex art. 816 bis
c.p.c. La Corte d’Appello competente rigetta l’impugnazione del lodo (con la
sentenza del 18 gennaio 2006, n. 22), condannando il Comune.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis) 3.1. Il primo motivo di ricorso è
infondato e da rigettare. In ordine al provvedimento del Presidente del tribunale
di designazione dell’arbitro non nominato tempestivamente dal Comune di Savoca
al di fuori delle categorie professionali previste nella clausola compromissoria,
l’atto di nomina è censurato per avere individuato il componente del collegio privo
della qualifica che avrebbe dovuto avere secondo la clausola arbitrale. (Omissis).
Peraltro la previsione limitativa dell’autonomia del Comune di Savoca contenuta nel compromesso, con la individuazione delle categorie di avvocato dello
Stato o di componente dell’ufficio legislativo e legale della Regione siciliana con la
qualifica di avvocato per l’arbitro che esso doveva nominare, non può estendere i
suoi effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe il Presidente del tribunale
nell’inerzia delle parti. Non avendo l’ente locale provveduto alla nomina ad esso
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spettante nel termine di venti giorni di cui all’art. 810 c.p.c. (sia prima che dopo la
riforma dell’arbitrato del 2006), su istanza della parte più diligente, il Presidente
del tribunale deve procedere alla nomina del secondo arbitro come sancito dalla
legge e può quindi discostarsi dalle previsioni della clausola compromissoria che
vincola solo i suoi autori (art. 1372 c.c.).
Una volta che la nomina avviene a cura del Presidente per non avere la parte
interessata provveduto nei termini di legge alla designazione, l’intervento sollecitato del presidente del tribunale per procedere a nominare il secondo arbitro, non
è soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata ma si attua con la discrezionalità
del magistrato, che opera secondo legge nell’esercizio dei suoi poteri e senza
vincoli di mandato. Si è già rilevato come il termine di venti giorni dall’invito a
nominare il proprio arbitro dopo la notifica della designazione dell’altra parte che
non vi ha provveduto, non è perentorio (Cass. 2 dicembre 2005 n. 26257), tanto che
l’inadempiente può provvedere anche dopo tale termine e finché alla nuova
nomina non ha provveduto il presidente del tribunale, il quale esercita un suo
potere, sostituendo, in base alla legge, la volontà della parte rimasta inerte nella
nomina, che quindi non è più quella di cui alla clausola arbitrale. Il presidente del
tribunale non da attuazione al compromesso ma nomina l’arbitro nell’esercizio di
suoi poteri giudiziari con provvedimento di volontaria giurisdizione non decisorio
e neppure impugnabile (Cass. 18 maggio 2007 n. 11665, 19 gennaio 2006 n. 101, 6
giugno 2003 n. 9143).
L’intervento del presidente del tribunale supera la volontà delle parti che non
vi abbiano provveduto e può aversi anche quando la nomina non sia stata accettata
(così Cass. 21 luglio 2010 n. 17114); anche quando sia prevista nella convenzione
d’arbitrato la categoria professionale dei soggetti tra cui nominare l’arbitro, il
potere del magistrato non è limitato dalla volontà delle parti espressa nella
clausola, potendo designare come arbitri anche soggetti al di fuori delle categorie
indicate nella clausola (così la già citata Cass. n. 15290 del 2001, cui fanno
riferimento entrambe le parti). Resta quindi assorbito per irrilevanza ogni rilievo
delle norme sull’interpretazione del compromesso, cui fa riferimento il primo
motivo di ricorso, dovendo il presidente del tribunale esercitare il suo potere solo
nei limiti della legge. La designazione, con ordinanza del presidente del tribunale,
del componente del collegio arbitrale scelto al di fuori delle categorie indicate nel
compromesso, non incide sulla valida e regolare costituzione del collegio, che è
pienamente legittimo quando alla nomina provveda l’autorità giudiziaria, nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge e non in mera sostituzione delle
volontà delle parti. Il presidente del tribunale non è soggetto ai limiti convenzionali che vincolano le parti, quando provvede alla nomina di arbitri, nei casi previsti
dagli artt. 810 e 811 c.p.c., in entrambe le versioni, anteriore e successiva al D.Lgs.
2 febbraio 2006, n. 40. In ordine poi alla mancata concessione dei termini al
ricorrente, per consentirgli di indicare le ragioni per contestare la validità della
nomina degli arbitri operata dal giudice e comunque per svolgere, nell’ambito di
un corretto contraddittorio, le sue difese, il primo motivo di ricorso è privo di
autosufficienza e quindi inammissibile. (Omissis). La pretesa nullità della comunicazione del nome del terzo arbitro all’avv. Biondo, che ancora non era costituito
difensore del comune nel giudizio arbitrale, in mancanza di deduzioni che rendano
invalida detta nomina dell’arbitro, resta superata dalla integrità del contraddittorio instaurato dinanzi al collegio arbitrale (Cass. 14 febbraio 2007 n. 3269, 6
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settembre 2006 n. 19129 e S.U. 3 marzo 2003 n. 3075). Non risulta dal ricorso in che
modo si siano violati i termini a difesa o il principio del contraddittorio nel giudizio
arbitrale e correttamente si è respinta la impugnazione per nullità del lodo per tali
profili. (Omissis).
3.2. In ordine al secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, non risulta
adeguatamente censurata l’affermazione, a pag. 8 della sentenza della Corte di
merito, per la quale “per le opere geognostiche e per le competenze tecniche
complessive il comune aveva a disposizione la somma complessiva di L.
519.253.929”, assai maggiore di quella poi in concreto erogata per tali prestazioni.
Secondo il comune, (pag. 14 del ricorso), per la Delib. giunta n. 147 del 1993, al
professionista si doveva corrispondere “la somma stabilita dalla tariffa per le
prestazioni professionali dei geologi e, comunque, pari a quella prevista, per tale
scopo nel relativo progetto”, precisandosi che si doveva liquidare “l’onorario
spettante dalle tariffe professionali, la cui spesa verrà affrontata, con gli appositi
fondi previsti nel finanziamento dell’opera e inclusi nel progetto”.
Allo stesso onorario determinato in base alla tariffa approvata con D.M. 18
novembre 1971 fa riferimento anche l’art. 8 del disciplinare, anche se il successivo
art. 11 prevede che il corrispettivo da versare al professionista è quello di cui al
progetto, nella misura concretamente erogata al dr. Natoli nel 1994. (Omissis). Il
secondo motivo di ricorso è quindi infondato, non potendo applicarsi nella
fattispecie il D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35 che regola i soli debiti fuori bilancio, per
cui resta legittimato l’ente locale a pagare al dr. Natoli quanto dovuto e liquidato
in base alle tariffe professionali, cui si è fatto espresso riferimento sia nella delibera
di incarico che nel disciplinare, atti in cui il richiamo alle somme previste allo scopo
in progetto sembra riportato subordinatamente all’applicazione delle tariffe, con
conseguente infondatezza del motivo di ricorso.
In rapporto alle carenze motivazionali denunciate nel terzo motivo di ricorso.
(Omissis).
Nell’incarico e nel disciplinare, le tariffe professionali sono specificamente
richiamate, e la loro applicazione è giustificata in sentenza in ragione delle
Delibere di incarico e del disciplinare, come affermato nella sentenza adeguatamente e correttamente motivata su tale punto, con infondatezza conseguente del
terzo motivo di ricorso.
Dato il corretto pagamento del compenso in conformità al contratto e poiché
la somma pretesa non era maggiore dei fondi disponibili iscritti in bilancio a
copertura del debito, deve negarsi non solo qualsiasi incertezza motivazionale sul
punto ma pure la dedotta violazione dell’art. 2233 c.c., con conseguente infondatezza, oltre che del terzo, anche del quarto motivo del ricorso.
(Omissis).
La nomina degli arbitri: capacità e qualifiche tra autonomia privata e
poteri discrezionali dell’autorità giudiziaria.
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione esamina la
natura della nomina giudiziale dell’arbitro, ai sensi dell’art. 810, comma 2,
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c.p.c., e quanto incida (o possa incidere) sull’autonomia privata il potere
(discrezionale) dell’autorità giudiziaria.
In via preliminare pare opportuno chiarire che « la scelta dell’arbitro
è forse il momento più delicato dello svolgimento del procedimento arbitrale: si tratta, infatti, di designare il giudice della controversia » (1). La
nomina degli arbitri costituisce uno degli atti maggiormente espressivi
dell’autonomia negoziale delle parti (2).
Come noto, il fondamento dell’arbitrato deve rinvenirsi nella natura
privatistica del giudizio e nella, consequenziale, matrice genetica del
potere degli arbitri di decidere la controversia altrui. L’arbitro deriva il
proprio potere di ius dicere direttamente dalla volontà delle parti: riceve
il proprio incarico giudiziario dalla parte, la quale confiderà di essersi
assicurata, per tale via, un « judge of his choice », un giudice attento e
predisposto alle proprie argomentazioni.
La matrice volontaria della nomina del giudice privato rende la
costituzione dell’organo giudicante il momento fondante l’istituto arbitrale (3).
Nella prassi ciascuna parte nomina un arbitro mediante una dichiarazione unilaterale di volontà, che non richiede alcuna accettazione da
parte degli altri litiganti, e un terzo arbitro viene scelto di comune accordo
dai due arbitri nominati.
Il Tribunale arbitrale risulta, in queste ipotesi, formato da un arbitro
che non è scelto da alcuna parte e due arbitri che sono scelti ciascuno da
una sola parte.
Ciascuna parte tenderà a designare come arbitro una persona che
conosce, verso la quale nutre rispetto e stima, e a cui è legato da un vincolo
(1) BENATTI, Una conversazione sui criteri di nomina dell’arbitro, in Corr. Giur., 2006, 6,
880. L’A. evidenzia che nella disciplina dell’arbitrato convivono norme di ordine pubblico e
regole che sono espressioni dell’autonomia privata.
(2) Autorevole dottrina ha precisato che lo stesso « ricorso all’arbitrato è, negli ordinamenti democratici, la necessaria e insopprimibile conseguenza del riconoscimento dell’autonomia
privata », VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 4. In generale sul tema si v.
AA.VV. Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, a cura di Carpi, Milano, 2006.
(3) Come è stato osservato da CARPI, Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, in Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, cit., 13 « La scelta e nomina
dell’arbitro è il momento della gelosa esplicazione della volontà delle parti ». L’analisi efficace
sull’importanza della formazione dell’organo giudicante nell’istituto dell’arbitrato, si rinviene
nella dottrina anglosassone: EASTWOOD, A real danger of confusion? The English Law Relating
to Bias in Arbitrators, in questa Rivista, 2001, vol. 17, n. 3, 292. Secondo l’A., in particolare:
« There are two intrinsic difficulties in selecting an arbitrator which themselves may threaten the
integrity of the process. First, the method by which each party chooses one member of a
three-member tribunal may cast doubt on the indipendence and impartiality of the nominee.
Further, and paradoxally, the very factors which may most recommend an individual as an
appropriete arbitrator (familiarity with a particolar industry, or knowledge of a specialist legal or
technical area) may also leave him most vulnerable to a suspicion of bias ».
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fiduciario. Le relazioni, i legami e i rapporti con le parti (4) sono il
presupposto della nomina stessa degli arbitri di parte, ma possono anche
rappresentare un elemento perturbatore dell’equidistanza (5) che ogni
(4) Ovviamente i legami tra arbitri e parti devono tenere conto delle ipotesi di ricusazione previste dall’art. 815 c.p.c. La disposizione stabilisce che il giudice privato può essere
ricusato in primis se ha un interesse nella causa. Tale motivo di ricusazione si riferisce al
brocardo latino per cui nemo iudex in rem propriam e comprende due forme di interesse: diretto
e indiretto (DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Padova, 1991,
84 ss.). La nozione di interesse diretto è molto discussa, talvolta si è ricondotta all’interesse del
giudice quale parte formale del processo; altre volte all’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., altre
ancora all’interesse che legittima l’intervento ai sensi dell’art. 105 c.p.c. In termini generali si
può affermare che quando dalla decisione deriva necessariamente un vantaggio o un danno per
il giudice saremo nel campo dell’interesse diretto, laddove, invece, il nesso tra la decisione e il
vantaggio o danno per il giudice è un nesso di semplice probabilità, l’interesse è indiretto
(SATTA, voce Astensione e ricusazione del giudice (dir. Proc. civ.), in Enciclopedia del diritto,
Milano, 1958, III, 203; LA CHINA, Giudice (astensione e ricusazione) voce, in Dig. Disc. Priv., sez.
civ., IX, Torino, 1993, 30; DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice statale,
cit., 102). L’arbitro può essere ricusato se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado
o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle
parti, o di alcuno dei difensori. I legami affettivi e di sangue che legano il giudice privato ad una
delle parti, al loro rappresentante legale o ad alcuno dei difensori determinano la presunzione
che l’arbitro terrà una condotta parziale. L’arbitro può essere inoltre ricusato se egli o il coniuge
ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale, o con
alcuno dei suoi difensori. Sebbene l’espressione causa pendente indichi una controversia e un
procedimento instauratosi prima dell’arbitrato, la giurisprudenza considera ricusabile il giudice
privato anche quando la lite inizi durante il procedimento arbitrale (Cfr. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, Milano, 1923, 486). È possibile la ricusazione
anche ove sussista: un legame lavorativo; altri rapporti di natura patrimoniale o associativa; un
legame di tutela o curatela. La prima ipotesi riguarda i rapporti di lavoro subordinato o di
consulenza a carattere continuativo o di prestazione d’opera retribuita che intercorrono tra il
giudice privato e uno dei litiganti o società da questo controllate, il soggetto che le controlla o
società sottoposte a comune controllo. La seconda ipotesi considera ricusabile l’arbitro quando
ricorrono altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza. La norma è formulata in modo molto generico ed è foriera di molteplici interpretazioni.
Il termine associazione va riferito ad ogni tipo di aggregazione tra soggetti finalizzato al
raggiungimento di scopi o interessi comuni (CONSOLO, Imparzialità degli arbitri. Ricusazione, in
questa Rivista, 2005, 703 ss.). Infine ove l’arbitro abbia prestato consulenza, assistenza o difesa
ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o deposto come testimone può essere
ricusato (Cfr. SEGRÉ, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, Commentario del c.p.c.,
diretto da Allorio, Torino, 1973, 637; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1982, 423).
(5) Tradizionalmente (RUBINO SAMMARTANO, Diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 484 s.),
si ritiene che l’imparzialità si componga di tre distinti sottovalori: l’indipendenza, la neutralità
e l’imparzialità strictu sensu intesa. L’indipendenza consiste nell’assenza di relazioni, precedenti
o attuali, dell’arbitro con una delle parti. Si tratta, dunque, di una nozione specifica che
presuppone la non dipendenza di natura economica, professionale o psicologica del giudice
privato dalle parti o dai difensori delle stesse. La neutralità si concretizza in un atteggiamento
psicologico o intellettuale di estraneità su un piano generale, nei confronti della più ampia
categoria di cui la controversia fa parte e non in relazione alla specifica situazione in questione
(RICCIARDI, La scelta degli arbitri e la costituzione del collegio arbitrale: deontologia e prassi, in
questa Rivista, 1992, 804 ss.). L’imparzialità in senso stretto è un requisito soggettivo dell’arbitro
presuppone che il suo « animo » sia privo di pregiudizi nei confronti di una delle parti (BERNINI,
Quale arbitrato?, Convegno AIA, L’arbitrato: un servizio per l’impresa, Torino, 10 ottobre
1991). L’indipendenza e la neutralità sono requisiti preventivi volti a garantire l’imparzialità,
sono cioè dei cd. valori-mezzo (BRIGUGLIO, Epigramma sulla ricusazione degli arbitri (con due
note a piè di pagina), in Giur. it., 2004, 460), solo l’imparzialità è il valore finale. Il carattere
soggettivo dell’imparzialità e la relativa difficoltà di individuare prevenzioni o pregiudizi
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giudicante dovrebbe avere nei confronti di tutti i litiganti. Le parti, infatti,
nella designazione cercheranno inevitabilmente di scegliere come arbitri
persone predisposte alle proprie argomentazioni e vicine alle proprie
domande e che nella decisione della lite manifestino tale inclinazione. Ago
della bilancia dovrebbe essere il presidente del collegio arbitrale cui
rimettere la decisione concreta della lite e da cui dipenderebbe la buona
conduzione dell’intera procedura (6).
La nomina dell’arbitro (7) costituisce, quindi, esercizio di un diritto
della parte, poiché solo attraverso la libera scelta del giudice privato è
garantito il principio di ordine pubblico della imparzialità degli arbitri e la
consensualità in genere dell’istituto. Tuttavia la nomina dell’arbitro costituisce al contempo un obbligo della parte (8), considerato che solo attraverso il negozio corrispondente può essere attuato il rapporto obbligatorio
costituito dal contratto d’arbitrato. A tale obbligo corrisponde il diritto
dell’altra parte di pretendere che il proprio contraddittore manifesti la sua
volontà di nomina. Il rilievo dell’adempimento di tale obbligo è palesato
nell’art. 810 c.p.c. ove l’ordinamento disciplina una tutela specifica rappresentata dalla nomina giudiziale del Presidente del Tribunale, che
decide senza formalità.
2. Le regole iuris dettate per la costituzione del tribunale arbitrale
appaiono orientate da due direttrici: per un verso assicurano alle parti, in
modo paritario, piena libertà nella scelta del giudice privato; per altro
verso garantiscono l’effettiva esecuzione del contratto di arbitrato attraverso la nomina giudiziale dell’arbitro in caso di inerzia di alcuna delle
parti.
L’esigenza di autonomia delle parti, di libertà nella scelta e nella
formazione del tribunale arbitrale, trova un limite nella necessità che il
dell’arbitro riguardo la lite determinano, però, la necessità di trovare e disciplinare indici,
circostanze, rapporti in presenza dei quali presumere la parzialità dell’organo giudicante. Le
autorità statuali predispongono a tal fine rimedi quali la ricusazione, l’impugnazione del lodo e
il duty of disclosure. Ma questi non sono che « tentativi di « giuridificare » la deontologia
dell’arbitro » (PICARDI, Vent’anni di rivista dell’arbitrato nel ricordo di Elio Fazzalari, Atti del
convegno tenutosi in Roma, il 2 dicembre 2011). Nessuno dei rimedi predisposti come presidio
dell’imparzialità del giudice privato è effettivamente idoneo ad assicurarla, in quanto l’assenza
di prevenzioni e pregiudizi riguardo alla singola lite rimane necessariamente affidata al corredo
etico del singolo arbitro.
(6) Cfr. RONCO, Dialogo sulla ricusazione degli arbitri, in Giur. it., 2003, 1975.
(7) Si veda GIOVANNUCCI ORLANDI, Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, 139 ss.;
LAUDISA, Arbitrato rituale e libero: ragioni del distinguere, in questa Rivista, 1998, 217.
(8) In questo senso CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 136 ss., ove l’A. precisa che
all’obbligo della parte di nominare l’arbitro corrisponde il diritto dell’altra a pretendere che il
contraddittore manifesti la volontà di nomina. Nell’eventualità di inadempimento possono
seguire la risoluzione per inadempimento del contratto (Cass. 9 novembre 1985, n. 5499, in
Giust. Civ., 1986, I, 2887 con nota di Cecchella) oppure un’azione di adempimento contrattuale
volta ad ottenere l’effetto dell’adempimento. La disciplina dell’arbitrato in aggiunta a queste
forme di tutela offre una « speciale azione di tutela specifica, costituita dalla nomina giudiziale ».
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procedimento arbitrale abbia avvio e che non venga impedito il funzionamento dell’istituto da tattiche dilatorie delle parti.
Sembra quindi utile esaminare anzitutto le regole a tutela dell’autonomia privata e quelle a presidio dell’effettività della convenzione arbitrale.
L’autonomia privata si manifesta, in particolare, nella facoltà riconosciuta alle parti della convenzione arbitrale di individuare liberamente le
persone che dovranno rivestire il ruolo di giudicare la lite e le modalità di
formazione del tribunale arbitrale.
Cosicché il legislatore non stabilisce espressamente i requisiti o le
qualifiche che devono possedere i soggetti per rivestire il ruolo di arbitro:
l’unico limite (9), imposto ex lege, è previsto dall’art. 812 c.p.c.
Prima della riforma introdotta con il d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, il
codice di procedura civile italiano stabiliva che « gli arbitri possono essere
sia cittadini italiani sia stranieri ». La capacità degli stranieri di rivestire il
ruolo di arbitro era stata introdotta solo nel 1983 nell’ordinamento giuridico italiano, che così si allineava alle convenzioni internazionali. La
norma, tuttavia, non includeva, né escludeva gli apolidi. Si riteneva
possibile nel silenzio della legge che questi ultimi potessero diventare
arbitri, dato che la ratio della nuova norma era di eliminare un divieto, non
introdurne di nuovi (10).
Venivano espressamente individuate alcune incapacità specifiche all’assolvimento della funzione arbitrale, così non potevano esercitare tale
funzione i minori, i falliti, gli interdetti, gli inabilitati e gli interdetti dai
(9) Sembra interessante il confronto con l’ordinamento giuridico spagnolo che in origine
richiedeva per la valida assunzione dell’incarico di decidere una controversia il titolo di
avvocato. La disposizione è stata oggetto poi di modifica ad opera della legge n. 11 del 20
maggio 2011. Alle parti è riconosciuta la libertà di scegliere i requisiti degli arbitri e dunque di
prescrivere o meno che abbiano un particolare titolo professionale, ma si considera necessario,
nel silenzio dei privati, non più la qualifica di « abogado en ejercicio », bensì quella di «jurista».
Il nuovo testo dell’articolo 15 Ley Arbitraje 60/2003 richiede per tutti gli arbitrati di
diritto, in relazione ai quali le parti non abbiano previsto alcunché, la condizione di giurista
dell’arbitro se unico e di almeno uno degli arbitri nel caso di collegio formato da tre o più
soggetti. In questo modo il legislatore spagnolo aumenta la rosa dei professionisti che possono
svolgere il ruolo di arbitro, includendovi notai, professori universitari o anche gli stessi
magistrati in pensione. Il ricorso al termine « jurista » molto generico, crea notevoli dubbi e
lascia spazio a criteri e interpretazioni molteplici. L’intento del legislatore di sottrarre alla
categoria degli avvocati un ruolo esclusivo nelle procedure arbitrali e garantirne la partecipazione anche ad altri professionisti ha come inconveniente l’incertezza sul significato da attribuire alla disposizione. L’indeterminatezza della « condición de jurista » garantisce però nuovi e
più ampi spazi all’autonomia delle parti che nelle convenzioni arbitrali non saranno più tenute
a scegliere organi giudicanti all’interno della stringente categoria degli avvocati. Cfr. PÉEREZ
CONESA, Reforma de la Ley de Arbitraje introducida por la Ley 11/2011, de 20 de mayo, in
Aranzadi Civil-Mercantil, num. 5/2011, parte Comentario, Editorial Aranzadi, SA, Pamplona,
2011, 1117.
(10) In tal senso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, I, 2000, 308; CARPI, Gli
aspetti processuali della riforma dell’arbitrato, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1984, 51 ss.
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pubblici uffici. L’elenco si riteneva tassativo, pertanto il divieto era limitato ai casi espressamente elencati (11).
Il legislatore del 2006 ha semplificato la disciplina, stabilendo, all’art.
812 c.p.c., che « non può essere arbitro chi è privo, in tutto o in parte, della
capacità legale di agire » (12). Venuta meno l’elencazione tassativa dei casi
di incapacità arbitrale, si deve fare riferimento alla disciplina sostanziale
delle limitazioni della capacità di agire.
Secondo una parte della dottrina (13), non possono essere nominati
arbitri gli interdetti e gli inabilitati, ma in astratto potrebbero esserlo i
beneficiari di amministrazione di sostegno, ove la loro limitazione o
infermità non sia inerente alla fase intellettiva.
Il divieto di diventare arbitri è escluso per i falliti (14), in quanto la
dichiarazione di fallimento non determina più la perdita della capacità di
agire da parte del fallito, ma dovrebbe permanere per chi sia stato
interdetto dai pubblici uffici, limitatamente al periodo della interdizione (15).
Discusso è se tale ruolo possa essere ricoperto da una persona
giuridica (16).
(11) Si veda Cass., 8 agosto 1989, n. 3637, in Arch. Civ., 1990, 583.
(12) La differenza tra vecchio e nuovo testo dell’art. 812 c.p.c. si rinviene già nella
rubrica: intitolata oggi « Incapacità di essere arbitro », mentre in passato « Capacità ad essere
arbitro ». Il senso del cambiamento è individuato nel proporre in modo esplicito la capacità
arbitrale come regola generale, la incapacità come eccezione, con la conseguente applicabilità
ad essa del criterio interpretativo dell’art. 14 delle Preleggi. Cfr. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema
e l’esperienza, cit., 82.
(13) MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, Torino, 2009, 397. Di contrario avviso altra
parte della dottrina che ritiene che il nuovo testo dell’art. 812 c.p.c. impedisca di rivestire il ruolo
di arbitro a tutti cloro i quali sono anche solo parzialmente privi della capacità di agire e quindi
anche ai beneficiari di amministrazione di sostegno e ai minori emancipati. Così PUNZI, Disegno
sistematico dell’arbitrato, cit., 504.
(14) Il divieto di assumere l’ufficio di arbitro per i falliti era stato introdotto nel vecchio
testo dell’art. 812, comma 2, c.p.c. ma assente nel codice del 1865. Il divieto era interpretato in
modo tassativo, di modo che non poteva ritenersi estensibile agli imprenditori ammessi al
concordato preventivo o all’amministrazione controllata (PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit. 504 ss.; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1971, 260).
(15) La nomina dell’arbitro incapace è nulla, ma non lo è invece il compromesso, e si
considera come tamquam non esset, ove la parte avente diritto non provveda alla nomina di un
sostituto, la controparte potrà chiedere la nomina giudiziale dell’arbitro mancante. Se la nullità
non è rilevata dalle parti, né dagli arbitri il lodo emesso sarà impugnabile ai sensi del n. 3
dell’art. 829 c.p.c. VERDE, Gli arbitri, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino, 2000, 13.
(16) La questione della deferibilità ad una persona giuridica del ruolo di arbitro è
dibattuta anche in altri ordinamenti europei. La legge arbitrale spagnola espressamente stabilisce che possono essere arbitri solo le persone natural nel pieno esercizio dei diritti civili. Tale
ruolo non può essere rivestito da persone giuridiche. La designazione di una persona giuridica
secondo la dottrina maggioritaria deve intendersi riferita al rappresentante legale della stessa.
Diversamente una simile previsione determinerebbe la nullità della convenzione arbitrale,
nonché l’impugnabilità del lodo per violazione di una norma imperativa, ai sensi dell’art. 41, n.
4, Ley Arbitraje. Alle stesse conclusioni interpretative in assenza di una disposizione di legge ad
hoc, giunge altresì la dottrina tedesca, secondo cui la nomina di una persona giuridica si deve
intendere rivolta al rappresentante legale della stessa. Il nuovo codice di procedura civile
francese limita la scelta degli arbitri alle persone fisiche, ma espressamente disciplina le
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L’orientamento maggioritario in dottrina ritiene che la funzione di
giudicare debba essere necessariamente svolta da una persona fisica. Le
funzioni di arbitro sono legate all’intuitus personae, che esiste solo in
relazione alle persone fisiche. Inoltre, l’attività di giudizio che i giudici
privati svolgono presuppone necessariamente una serie di operazioni
intellettuali proprie di una persona fisica.
Pertanto, discussi sono gli effetti della nomina di una persona giuridica in qualità di arbitro. Secondo un orientamento dottrinale tale nomina
deve intendersi finalizzata ad individuare per relationem il rappresentante
legale pro tempore della persona giuridica (17).
Altra tesi (18), al contrario, considera necessario, caso per caso, interpretare la volontà delle parti al fine di individuare la persona dell’arbitro
all’interno della struttura organizzativa dell’ente di riferimento. Parte
della dottrina (19) considera, invece, possibile la designazione di persone
giuridiche in qualità di arbitri, in assenza di un espresso divieto legislativo.
Dunque la disciplina codicistica della capacità dell’arbitro non preclude la possibilità astratta che rivesta il ruolo di arbitro un soggetto privo
di cultura, sino a giungere al caso limite dell’analfabeta (20).
La tutela dell’autonomia negoziale delle parti, che in questa fase del
procedimento arbitrale impera, fa si che alle parti venga riconosciuta non
solo la possibilità di nominare arbitri persone analfabete, ma anche la
facoltà di determinare ex ante le qualifiche che gli arbitri devono avere per
rivestire tale ruolo e decidere la controversia tra loro insorta (art. 815,
comma 1, n. 1, c.p.c.).
Il termine « qualifiche » sembra riferirsi a qualità tecniche, specialistiche o personali oggettivamente riscontrabili. Nel disposto dell’art. 815
conseguenze dell’eventuale nomina nella convenzione arbitrale di una persona giuridica. Il
secondo comma dell’art. 1450 n.c.p.c. prevede che ove venga nominata come arbitro una
personne morale, quest’ultima provvederà all’organizzazione dell’arbitrato stesso. Nessuna
specifica qualifica o capacità è richiesta dal legislatore inglese per l’assunzione del ruolo di
arbitro, che, nel caso di incapacità fisica o mentale del giudice privato, attribuisce alle parti il
potere di rimuoverlo.
(17) Cfr. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 79; ANDRIOLI, Commento al
codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 746.
(18) Cass. 30 giugno 1969, n. 2395, in Rep. Foro it., 1969, voce Arbitrato, 63 ss.
(19) CUSA, La società di arbitrato amministrato, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2007, 779 ss.
(20) Come ben chiarito da PUNZI, L’arbitro: modalità di nomina, criteri di selezione, in
Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 645 ss., il problema non è quello di
verificare se l’arbitro sia o meno analfabeta o quale sia il suo livello culturale, bensì se sia o
meno in condizione di giudicare e decidere una determinata controversia. Un arbitro privo di
qualsiasi titolo di studio potrebbe essere perfettamente capace di giudicare e decidere una
controversia, secondo il criterio fissato dalle parti, come potrebbe essere il caso in cui le parti
abbiano demandato agli arbitri il compito di decidere secondo equità. Al contrario un arbitro
fornito di adeguato titolo di studio potrebbe essere del tutto incapace di giudicare secondo
diritto. Si veda in proposito Cass., 7 giugno 1989, n. 2765, in Giust. Civ., 1989, I, 2345, ove le parti
avevano nominato un collegio arbitrale formato da ingegneri, dunque tutti laureati, ma incapaci
di decidere la controversia secondo diritto.
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c.p.c. non si dovrebbero ritenere ricomprese invece « qualità » dell’arbitro
quali l’imparzialità, l’indipendenza o la fairness di giudizio, da considerarsi
qualità necessarie e intrinseche « al compito di giudicare l’altrui contesa, e
(che) si estende(ono), quindi, tanto al giudice statale quanto all’arbitro,
prima ed a prescindere dall’imposizione normativa (21) ».
I contraenti possono dunque determinare le condizioni che gli arbitri
devono soddisfare per l’assunzione dell’incarico: condizioni che di regola
si riferiscono alle « capacità » dell’arbitro, nel senso di abilità, competenza
ed esperienza.
I giudici statali devono avere conseguito la laurea in giurisprudenza e
aver superato un concorso pubblico per divenire magistrati. Ciò non vale
per gli arbitri, che sono scelti dalle parti e possono essere anche nongiuristi. La competenza degli arbitri in materia di diritto non è dunque così
certa come quella dei giudici, ragion per cui il legislatore affida alle stesse
parti il compito di stabilire le competenze specifiche dei giudici privati.
3. A presidio della volontà negoziale delle parti, il legislatore della
riforma del 2006 ha introdotto la mancanza « delle qualifiche espressamente convenute dalle parti » tra le cause di ricusazione dell’arbitro.
Come noto, il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ha inciso in modo significativo sul testo dell’art. 815 c.p.c., in tema di ricusazione degli arbitri.
Il capo II del titolo VIII del libro IV è rubricato « Degli arbitri » ed è
stato riformato ad opera dell’art. 26 del citato decreto legislativo. L’art.
815 c.p.c. si compone di due parti: la prima contiene i motivi di ricusazione; la seconda ne disciplina il procedimento.
Prima della riforma del 2006 i motivi di ricusazione non erano
enunciati in modo espresso, ma con un rinvio ai casi previsti dall’art. 51
c.p.c. per i giudici statali (22). Al contrario il testo legislativo vigente elenca
in modo espresso le cause di ricusazione, che corrispondono, però, in gran
parte a quelle previste dall’art. 51 (23) c.p.c., se pur opportunamente
integrate e modificate.
(21) FAZZALARI, L’etica dell’arbitrato, in questa Rivista, 1992, 2.
(22) Il rinvio operato dal legislatore all’art. 51 c.p.c. è stato definito « pigrizia intellettuale » da VERDE, Gli arbitri, in Diritto dell’arbitrato, Torino, 2000, 155. Infatti « l’arbitro non è
un giudice dello Stato, non è equiparabile a un giudice dello Stato e neppure un suo ausiliario; egli
è un privato al quale le parti hanno affidato il compito di rendere giustizia su diritti controversi
di cui possono disporre. » ID., La posizione dell’arbitro dopo l’ultima riforma, in questa Rivista,
1997, 475.
(23) Il rinvio alle ipotesi di ricusazione dei giudici statali aveva sollevato dubbi sulla
ricusabilità degli arbitri anche per « gravi ragioni di convenienza », di cui al secondo comma
dell’art. 51 c.p.c. Sull’interpretazione del rinvio all’art. 51 c.p.c. si erano distinti due orientamenti. Un orientamento più restrittivo, riteneva che il rinvio contenuto nell’art. 815 c.p.c.
riguardasse solo le ipotesi di ricusazione del giudice statale e quindi le ipotesi di astensione
obbligatoria di cui all’art. 52 c.p.c. Cfr. BRIGUGLIO, Commento all’art. 815 c.p.c., in La nuova
disciplina dell’arbitrato, Briguglio - Fazzalari - Marengo, Milano, 1994, 90. Secondo altre voci
dottrinali, al contrario, le peculiarità del giudizio arbitrale e le modalità di nomina del giudice
privato inducevano ad un’estensione delle cause di ricusazione arbitrali rispetto a quelle
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L’attuale formulazione della norma per casistica presenta profili
critici considerato che le ipotesi di ricusabilità dell’arbitro elencate risultano « da un lato troppo analitiche e, al tempo stesso, inevitabilmente
generiche e, dall’altro lato, rischiano di lasciar fuori ipotesi più rilevanti (24) ».
Una delle principali novità della novella del 2006 è contenuta nel
primo numero, del comma 1, dell’art. 815 c.p.c., ove si chiarisce che
l’arbitro può essere ricusato se manca delle qualifiche convenute dalle
parti.
Tale ipotesi di ricusazione arbitrale, a differenza delle altre divisate
dall’art. 815 c.p.c., non è volta a tutelare e garantire l’imparzialità e
l’indipendenza del collegio arbitrale, bensì ad assicurare la capacità dell’arbitro rispetto alla lite. Le ipotesi di ricusazione tassativamente elencate
nell’art. 815 c.p.c. attengono alla garanzia dell’imparzialità o dell’indipendenza, ma non assicurano la competenza o l’esperienza dell’arbitro: la
ricusazione è il tipico strumento a presidio dello « iudex suspecuts », non
di « iudex inhabilis ».
Il primo comma dell’art. 815, al n. 1, c.p.c. è, invece, finalizzato
proprio ad assicurare che l’organo giudicante presenti i requisiti di competenza considerati essenziali dalle parti in lite.
La citata disposizione svolge la funzione di garantire che l’organo
giudicante corrisponda a quanto scelto dalle parti e che venga, in definitiva, rispettata la matrice volontaristica dell’arbitrato.
Tale ratio consente di equiparare l’ipotesi in cui le parti abbiano
espressamente concordato le qualifiche arbitrali, a quella in cui le parti
abbiano espressamente escluso che l’organo giudicante abbia talune qualifiche (25).
La disposizione così interpretata ben si sarebbe relazionata al novellato art. 812 c.p.c., che individua « la capacità legale di agire » quale
requisito unico di capacità dell’arbitro, con la conseguenza che la mancanza di una qualifica voluta dalle parti avrebbe inciso sulla capacità di
essere arbitro.
Il legislatore nazionale al contrario ha ritenuto opportuno tutelare
l’autonomia negoziale delle parti, manifestata nella richiesta di qualifiche
espresse dell’arbitro, attraverso un istituto, la ricusazione, integralmente
rimesso alla stessa volontà delle parti.
giudiziali. Un argomento a sostegno di tale tesi veniva ravvisato anche nel dato letterale dell’art.
815 c.p.c. che non distingueva tra astensione e ricusazione giudiziale ma si limitava a rinviare al
disposto dell’art. 51 c.p.c. In tal senso CONSOLO, La ricusazione dell’arbitro, in questa Rivista,
1998, 20; SALVANESCHI, Sull’imparzialità dell’arbitro, in Riv. dir. proc., 2004, 415.
(24) VERDE, Bastava solo inserire una norma sui rapporti tra giudici e arbitri, in Guida al
diritto, 2006, f. 8, 82.
(25) In tal senso in particolare BERGAMINI, Sub art. 815, in Commentario alle riforme del
processo civile, a cura di Briguglio - Capponi, Padova, 2009, vol. III, tomo II, 657 ss.
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La scelta nazionale è in realtà in linea con gli ordinamenti stranieri:
l’assenza delle qualifiche pattuite dalle parti è considerata causa di ricusazione dell’arbitro anche nell’ordinamento giuridico tedesco dal par.
1036 (26), secondo comma, ZPO (27) e in quello spagnolo all’art. 17 Ley de
Arbitraje (28), per il legislatore inglese è motivo di removal dell’arbitro,
secondo la section 24 Arbitration Act del 1996 (29). Il legislatore francese
non disciplina espressamente la violazione delle qualifiche convenute dalle
parti per la nomina dell’arbitro, ma il vizio, opportunamente rilevato alla
prima udienza di discussione successiva alla scoperta dello stesso, potrebbe trasformarsi in motivo di impugnazione del lodo, ai sensi dell’art.
1492, n. 2, n.c.p.c.
(26) Il par. 1036 ZPO dispone che: « (1) Eine Person, der ein Schiedsrichteramt angetragen wird, hat alle Umstände offen zu legen, die Zweifel an ihrer Unparteilichkeit oder Unabhängigkeit wecken können. Ein Schiedsrichter ist auch nach seiner Bestellung bis zum Ende des
schiedsrichterlichen Verfahrens verpflichtet, solche Umstände den Parteien unverzüglich offen zu
legen, wenn er sie ihnen nicht schon vorher mitgeteilt hat.(2) Ein Schiedsrichter kann nur
abgelehnt werden, wenn Umstände vorliegen, die berechtigte Zweifel an seiner Unparteilichkeit
oder Unabhängigkeit aufkommen lassen, oder wenn er die zwischen den Parteien vereinbarten
Voraussetzungen nicht erfüllt. Eine Partei kann einen Schiedsrichter, den sie bestellt oder an
dessen Bestellung sie mitgewirkt hat, nur aus Gründen ablehnen, die ihr erst nach der Bestellung
bekannt geworden sind ». Dunque le parti, nell’esercizio della propria autonomia negoziale,
possono stabilire nella convenzione d’arbitrato che il giudice privato possegga determinate
caratteristiche o qualifiche. Secondo un’autorevole Dottrina la nomina di un soggetto che non
abbia tali requisiti è inefficace (HENN, Schiedsverfahrensrecht, Heidelberg, 2000, 68).
(27) La legge tedesca prevede che un arbitro può essere ricusato solo quando sussistono
elementi che fanno sorgere dubbi giustificati sulla sua imparzialità o indipendenza oppure
quando non soddisfa i requisiti fissati dalle parti (par. 1036, comma 2, ZPO). La disposizione si
rivolge esclusivamente gli arbitri e non interessa soggetti diversi. In particolare non sussiste la
possibilità di ricusare i soggetti che sono chiamati a nominare gli arbitri. La convenzione
arbitrale potrebbe, ad esempio, avere rimesso a una determinata autorità il potere di nominare
gli arbitri: tale persona non può essere ricusata; mentre ben potrà essere successivamente
ricusata la persona nominata. In tal senso SANGIOVANNI, La ricusazione dell’arbitro nella legge e
nella giurisprudenza tedesche, in Riv. Dir. Proc., 2010, f. 4, 891 ss.; GEIMER, Commento al § 1036,
in Zöller (a cura di), Zivilprozessordnung, Köln, 2009, 2604.
(28) L’art. 17 della Ley de Arbitraje n. 60 del 2003 è rubricato « Motivos de abstención y
recusación » prevede espressamente che « Todo árbitro debe ser y permanecer durante el
arbitraje independiente e imparcial. En todo caso, no podrá mantener con las partes relación
personal, profesional o comercial. 2. La persona propuesta para ser árbitro deberá revelar todas
las circunstancias que puedan dar lugar a dudas justificadas sobre su imparcialidad e independencia. El árbitro, a partir de su nombramiento, revelará a las partes sin demora cualquier
circunstancia sobrevenida. En cualquier momento del arbitraje cualquiera de las partes podrá
pedir a los árbitros la aclaración de sus relaciones con algunas de las otras partes. 3. Un árbitro
sólo podrá ser recusado si concurren en él circunstancias que den lugar a dudas justificadas sobre
su imparcialidad o independencia, o si no posee las cualificaciones convenidas por las partes. Una
parte sólo podrá recusar al árbitro nombrado por ella, o en cuyo nombramiento haya participado,
por causas de las que haya tenido conocimiento después de su designación. 4. Salvo acuerdo en
contrario de las partes, el árbitro no podrá haber intervenido como mediador en el mismo
conflicto entre éstas ».
(29) La section 24 dell’Arbitration Act del 1996 prevede, in particolare, che: « (1) A party
to arbitral proceedings may (upon notice to the other parties, to the arbitrator concerned and to
any other arbitrator) apply to the court to remove an arbitrator on any of the following grounds
— (a) that circumstances exist that give rise to justifiable doubts as to his impartiality; (b) that he
does not possess the qualifications required by the arbitration agreement; (...) ».
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4. Come abbiamo anticipato, l’autonomia privata nella nomina dell’arbitro e nella costituzione del tribunale arbitrale trova il suo limite
nell’effettività dell’esecuzione del contratto di arbitrato. Il legislatore
italiano non si limita a riconoscere ai privati la libertà di formare l’organo
giudicante, ma detta le regole da applicare nell’ipotesi in cui l’inerzia di
alcune delle parti dell’arbitrato impedisca il corretto funzionamento dell’istituto. L’art. 810 c.p.c. (30) prevede, pertanto, un meccanismo di nomina
degli arbitri sostitutivo della volontà delle parti, operante nelle ipotesi di
inadempimento, nel termine di venti giorni dalla notifica della nomina, di
una delle parti della convenzione di arbitrato. Ormai la giurisprudenza è
orientata a considerare l’art. 810 c.p.c. norma suppletiva (31), come tale
applicabile tutte le volte in cui le parti non abbiano espressamente
disciplinato nella convezione arbitrale l’ipotesi della propria inerzia. La
nomina giudiziale sostitutiva (32) è espressamente estesa all’omissione
della nomina da parte di un terzo a ciò esplicitamente demandato (art.
810, comma 4, c.p.c.).
La disposizione richiamata prevede che la parte che ha notificato
(30) Nel vigore della disciplina dell’arbitrato antecedente alla l. n. 25/1994, e, in particolare, ai sensi dell’art. 809 c.p.c., la convenzione di arbitrato doveva contenere a pena di nullità
la nomina degli arbitri oppure l’indicazione del loro numero e delle modalità di nomina. In
presenza di tale dettato normativo, autorevole Dottrina faceva discendere dal mancato accordo
delle parti l’inefficacia della convenzione arbitrale e riteneva necessaria un’interpretazione
restrittiva dell’art. 810 c.p.c. In particolare, si tendeva ad escludere che Presidente del tribunale
potesse nominare l’arbitro unico ove la convenzione di arbitrato prevedesse la designazione su
accordo delle parti, perché « l’accordo delle parti sulla nomina dell’unico arbitro è un elemento
essenziale del patto compromissorio ed il raggiungimento dell’accordo è condizione della sua
efficacia ». In tal senso, VECCHIONE, Clausola compromissoria apparente e nomina dell’arbitro
unico nel dissenso fra le parti, in Giur. it., 1954, I, 1, 478.
(31) L’art. 810 c.p.c. è da ritenersi una disposizione suppletiva. Le norme suppletive
fanno parte del genus delle norme relative e devono intendersi come le norme « che provvedono
a colmare le lacune lasciate dalle parti nella disciplina da loro stesse dettata », mentre quelle
dispositive, anche esse parte del genus norme relative, « entrano in applicazione soltanto
nell’ipotesi in cui manchi una disciplina delle parti ». IRTI, Introduzione allo studio del diritto
privato, Padova, 1990, 88 ss.
(32) La Corte di Cassazione ha, inoltre, considerato applicabile l’art. 810 c.p.c. anche alle
ipotesi arbitrato irrituale, nella sentenza a sezioni unite n. 3189, del 3 luglio 1989 (in Giust. Civ.,
1990, 1, 178, con nota di CICCOTTI, Esigenza di effettiva tutela dei diritti ed estensione dello
strumento analogico: note minime a margine di una importante sentenza delle sezioni unite in
materia di arbitrato), ove si chiarisce che l’art. 810 c.p.c. (ai sensi del quale, ove una parte non
provveda alla nomina dell’arbitro, consente all’altra di rivolgersi al Presidente del tribunale,
onde ottenere in via surrogatoria tale nomina, ancorché dettato con riferimento all’arbitrato
rituale) deve ritenersi applicabile in via analogica all’arbitrato libero od irrituale. Ciò in
considerazione sia della somiglianza strutturale e funzionale dei due istituti; sia dell’ammissibilità di un intervento di volontaria giurisdizione anche per supplire a un’inerzia di tipo
negoziale; sia soprattutto dell’esigenza di assicurare l’attuazione del compromesso e quindi di
conservare gli effetti del contratto. Ciò si giustifica anche in quanto il rispetto del vinculum iuris,
nei limiti in cui esso può realizzarsi alla stregua della disciplina positiva e dei principi
fondamentali dell’ordinamento, è valore giuridico la cui diretta attuazione va senz’altro perseguita e sarebbe aberrante premiare il contraente che, pur essendosi impegnato con il compromesso all’arbitrato irrituale divenga inadempiente, o a maggior ragione punire entrambi i
contraenti per un fatto estraneo alla loro volontà.
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l’invito all’altra parte e, se la nomina spetta ad un terzo, qualsiasi delle
parti, trascorso invano il termine di venti giorni previsto dal secondo
comma dell’art. 810 c.p.c., può proporre ricorso al Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato o, se le parti non hanno
determinato la sede dell’arbitrato, al Presidente del Tribunale del luogo
ove è stata stipulata la convenzione arbitrale o, infine, se tale luogo è
all’estero al Presidente del Tribunale di Roma (33).
L’iniziativa, nella nomina giudiziale sostitutiva, è ovviamente della
parte non inadempiente e non può essere promossa d’ufficio (34).
La ratio sottesa all’art. 810 c.p.c. consiste nell’impedire la « paralisi »
del giudizio arbitrale per mancata nomina degli arbitri (35). Si tratta quindi
di un intervento sostitutivo del Presidente del Tribunale previsto a garanzia dell’attuazione del principio di conservazione del patto compromisso-
(33) Il Presidente adito è tenuto a provvedere alla nomina giudiziale sostituiva dell’arbitro, salvo che la convenzione arbitrale non sia inesistente o non preveda espressamente un
arbitrato estero. Il provvedimento assume la forma del decreto, salvo che non sia instaurato il
contraddittorio tra le parti, ipotesi nella quale il provvedimento assume la forma dell’ordinanza.
Il Presidente del Tribunale incaricato della nomina sostitutiva dell’arbitro, secondo la lettera
originaria, con il contraddittorio solo eventuale delle parti decideva con ordinanza non impugnabile.
La legittimità costituzionale della soluzione (in virtù degli artt. 24 e 111 Cost.) dipendeva
dalla natura del procedimento, se contenzioso o meno. L’incertezza sull’impugnabilità dell’ordinanza si è palesata in giurisprudenza che in alcuni casi ha negato in assoluto l’impugnabilità
(Cass. 27 luglio 1957, in Giust. civ., 1957, I, 2098 e Foro it., 1957, I, c. 1618); in altri ha ammesso
un reclamo camerale innanzi alla corte di appello (App. Torino 15 gennaio 1951, in Giur. it.,
1952, I, 2, c. 40; App. Milano 7 novembre 1955, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 259), in altri ancora una
revocabilità da parte dello stesso giudice che ha pronunciato (App. Milano 16 gennaio 1956, in
Giur. it., 1957, I, 2, c. 259; Trib. S. Maria Capua V. 15 dicembre 1953, in Riv. avv. Stato, 1954,
154), sino alla impugnabilità in Cassazione (Cass. 2 giugno 1983, n. 495. In senso contrario, Cass.
11 febbraio 1998, n. 1413, in Foro it., 1998, I, c. 740; Cass. 14 aprile 1994, n. 3513, in questa
Rivista, 1994, 703). Stessa incertezza si riscontra in dottrina. Secondo un orientamento dottrinale (GHIRGA, in Tarzia, Luzzatto e E.F. Ricci, La legge 25 gennaio 1994, n. 25, Padova, 1995,
48 ss.) infatti, la sostituzione giudiziale della nomina integra un provvedimento costitutivo della
volontà mancante della parte, fondato su di un inadempimento contrattuale e necessita quindi
di un accertamento della esistenza del contratto d’arbitrato e dell’inadempimento ad esso
(quanto all’obbligo di nominare l’arbitro) di una parte. La discrezionalità del giudice nel
disporre la convocazione dell’altra parte e la non impugnabilità, che certamente era indice di
inappellabilità e di non reclamabilità in sede camerale, ma non di inimpugnabilità in sede di
legittimità, mediante ricorso straordinario era considerata assolutamente discutibile.
L’orientamento maggioritario in dottrina è di contrario tenore, ritenendo che della
validità del contratto d’arbitrato dovranno e potranno trattare solo gli arbitri, e concludendo nel
senso della natura non decisoria del provvedimento emesso dal Presidente del tribunale ai sensi
dell’art. 810 c.p.c. Cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 392; VERDE, Il diritto
dell’arbitrato, Torino, 2005, 76; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2, Milano,
1971, 254.
(34) In tal senso Cass. 6 maggio 1953, n. 1242, in Giust. civ., 1953, I, 1516. Né può essere
promossa dagli arbitri nominati, Cass. 19 luglio 1957, n. 3028, in Mass. Foro it., 1957, 592, v.
Arbitrato.
(35) Cfr. BRIGUGLIO, sub art. 810, in Briguglio, Fazzalari, Marengo, La nuova disciplina
dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994, 39; CECCHELLA , L’arbitrato, Torino 1991, 122; LA
CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., 81 ss.
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rio e ispirato al favor arbitrati, volto a supplire a carenze delle parti (36).
Tale ratio ha influenzato il dibattito relativo alla natura del termine di
venti giorni previsto dall’art. 810 c.p.c.
La giurisprudenza di legittimità è orientata a considerare il termine di
venti giorni, previsto dall’art. 810, primo comma, c.p.c., per la nomina
dell’arbitro ad opera della parte che ha ricevuto il relativo invito, come un
termine non perentorio. L’art. 152, comma 2, c.p.c. prevede, infatti, che “i
termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li
dichiari espressamente perentori”. In assenza, dunque, di un’espressa previsione legislativa, il termine di venti giorni, di cui all’art. 810 c.p.c., deve
considerarsi meramente ordinatorio e non perentorio.
Ne consegue che la parte inadempiente può provvedere alla nomina
anche successivamente alla scadenza di tale termine, e sino a quando non
sia intervenuta la nomina ad opera del Presidente del Tribunale su
richiesta della controparte, ai sensi del secondo comma del richiamato art.
810 c.p.c. Il collegio composto dall’arbitro nominato in via sostitutiva dal
Presidente del Tribunale in presenza di precedente — ancorché tardiva —
nomina notificata dalla parte interessata alla controparte, la quale ha
l’onere di informare della nomina sopraggiunta il Presidente del Tribunale
da essa adito, deve considerarsi costituito in modo irregolare (e, conseguentemente, il lodo pronunciato deve ritenersi nullo) (37).
5. La sentenza in epigrafe suggerisce un approfondimento sulla
questione (38) relativa alla necessità che l’arbitro nominato dal Presidente
(36) Cfr. VERDE, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 1997, 81; PUNZI, Disegno sistematico
dell’arbitrato, cit., 359.
(37) Cass., 2 dicembre 2005, n. 26257, in Giur. It., 2006, 7, 1463, con nota di SANGIOVANNI,
Sulla natura del termine per la notificazione da parte del convenuto delle generalità dell’arbitro ex
art. 810 c.p.c. (e sull’obbligo della Corte di cassazione di motivare le proprie sentenze). Nella
citata sentenza, la Cassazione afferma che « la disciplina dettata dall’art. 810 c.p.c. non impone
la notificazione né la comunicazione all’altra parte, che non ha provveduto alla nomina nel
termine di venti giorni, del ricorso al presidente del tribunale per la nomina dell’arbitro in
sostituzione. Tale parte, quindi, non è posta in grado di sapere se, a seguito della propria
inadempienza, l’altra parte abbia proposto ricorso (...) non vi è ostacolo a ritenere (...) che
permanga in capo alla parte il potere, integrativo del compromesso (della clausola compromissoria), di nominare il proprio arbitro pur dopo la scadenza del termine di venti giorni previsto
dall’art. 810, comma primo, c.p.c. ».
(38) Il problema dei limiti del potere di intervento del Presidente del tribunale in
relazione alla nomina degli arbitri e alla costituzione del tribunale arbitrale era stato in origine
sollevato in merito alla nomina dei componenti mancanti dei collegi arbitrali in materie di opere
pubbliche. Si veda ALIBRANDI, L’art. 810 c.p.c. e la composizione del collegio arbitrale negli
appalti di opere pubbliche, in Riv. Giur. Edil., 1968, I, 742 ss. La questione si riferiva all’allora
vigente art. 45 del Capitolato generale di appalto per le opere di competenza del Ministero dei
lavori pubblici approvato con d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 che attribuiva alle parti il potere di
nomina di due arbitri. La composizione del collegio era disciplinata in modo dettagliato con
l’indicazione delle professionalità e competenze richieste alle persone per assumere il ruolo di
arbitro e si consentiva il rinvio all’art. 810 c.p.c. per le ipotesi di inerzia delle parti. Sollevata la
questione del potere del Presidente del tribunale in sede di nomina sostituiva degli arbitri si
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del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., possegga le qualifiche espressamente convenute dalle parti nella convenzione e alla possibilità in caso di
mancanza delle qualifiche, che lo stesso arbitro venga ricusato (39), ai sensi
dell’art. 815, comma 1, c.p.c. o il lodo pronunciato sia impugnato per
nullità.
La Corte di Cassazione considera pienamente legittimo il provvedimento del Presidente del Tribunale che, ai sensi degli artt. 810 e 811 c.p.c.,
proceda alla designazione dell’arbitro, non nominato tempestivamente da
una delle parti, al di fuori delle categorie professionali previste nel
contratto d’arbitrato.
La convenzione arbitrale produce effetti vincolanti esclusivamente tra
le parti e non può estendere i suoi effetti sui poteri di nomina di cui la
legge investe, nell’inerzia delle parti, l’autorità giudiziaria.
L’intervento sostitutivo del Presidente del Tribunale non è soggetto ai
limiti fissati dall’autonomia privata, vincolante solo per gli autori degli atti
che ne costituiscono esercizio a norma dell’art. 1372 c.c., ma si attua con
la discrezionalità tipica del magistrato, che opera secondo legge nell’esercizio dei suoi poteri e senza vincoli di mandato.
sono distinte due opinioni. Alcune voci hanno escluso limitazioni al potere discrezionale
dell’autorità giudiziaria, in quanto il potere trova la sua fonte direttamente nella legge e non
soffre limitazioni che non siano imposte dalla legge stessa (Lodo 10 luglio 1967, Riv. Giur. Edil.,
1968, I, 742-743). Altre invece hanno ritenuto che la concreta determinazione del Presidente del
tribunale debba ritenersi vincolata alla volontà delle parti. L’ordinanza del Presidente ha
carattere sostitutivo di un’attività manchevole delle parti, e anche se in modo mediato deve
essere a tale volontà collegata, nel senso che al giudice viene attribuito il potere di porre in
essere l’atto occorrente per perfezionare la fattispecie; ma l’atto in quanto destinato a prendere
il posto di una manifestazione di volontà privata non potrà avere altro contenuto imperativo che
quello risultante dalla determinazione autonoma delle parti. Dunque, quando l’indicazione
dell’arbitro fosse predeterminato in qualche modo il contenuto dell’ordinanza non potrebbe
discostarsi da quello del precetto dell’autonomia privata.
(39) La sentenza della Corte di Cassazione in epigrafe deriva dall’impugnazione per
nullità del lodo emesso dal collegio arbitrale ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 2 c.p.c. Dalla
sentenza non si evince in modo nitido se effettivamente la parte ricorrente aveva dedotto il vizio
nella formazione del tribunale arbitrale nel corso del procedimento, come prescritto dall’art.
829 c.p.c. Infatti anche a voler considerare l’ordinanza del Presidente del tribunale viziata e,
conseguentemente, il lodo censurabile ex art. 829, comma 1, n. 2 c.p.c., l’impugnazione potrebbe
ugualmente essere rigettata in applicazione del novellato art. 829, comma 2, c.p.c., ai sensi del
quale la parte che ha rinunciato a un motivo di impugnazione « non può per questo motivo
impugnare il lodo ». In effetti, la parte la quale davvero non voglia rinunciare a nominare
l’arbitro può, anche dopo la presentazione del ricorso al Presidente del tribunale, accordarsi per
la designazione prima che a ciò provveda il Presidente del tribunale (la Cassazione ha deciso nel
senso della validità della nomina effettuata in pendenza del giudizio instaurato con il ricorso al
Presidente del tribunale ex art. 810 c.p.c. Cfr. sul punto Cass. 2 dicembre 2005, n. 26257, in Giur.
it., 2006, 1463). Si potrebbe, pertanto, argomentare che la parte che, anche in seguito alla
presentazione del ricorso al tribunale, non si attivi per la nomina dell’arbitro abbia rinunciato
all’impugnazione del lodo per violazione delle norme relative alla nomina degli arbitri. Sul
punto MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma. Motivi ed esito, Milano,
2009, 238 ss.; ID., Sulla nomina giudiziale del terzo arbitro in caso di mancato accordo tra le parti,
in Riv. dir. proc., 2010, 703 ss.; BERGAMINI, sub art. 810, in Briguglio - Capponi (a cura di),
Commentario alle riforme del processo civile, volume III, tomo II, Padova, 2007, 590.
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Il Presidente del Tribunale non attua il compromesso e non dà
esecuzione a quanto ivi previsto, ma nomina l’arbitro nell’esercizio dei
propri poteri giudiziari con un provvedimento di volontaria giurisdizione
non decisorio e neppure impugnabile (40). Il potere sostitutivo dell’autorità giudiziaria supera la volontà delle parti espressa nella convenzione
arbitrale.
L’orientamento seguito dalla Cassazione nella sentenza in epigrafe
non è affatto isolato (41).
In una nota sentenza le sezioni unite della Corte di Cassazione (42)
hanno chiarito che le parti nella convenzione arbitrale possono stabilire
liberamente le qualifiche, le professionalità o le competenze che devono
avere gli arbitri per poter ricoprire tale carica. Tuttavia la determinazione
delle qualifiche operata dalle parti non vincola l’autorità giudiziaria eventualmente chiamata a nominare un arbitro quando risulti essere contra
legem.
All’autorità giudiziaria spetta il potere-dovere di verificare se, rispetto
alla categoria indicata, sussistano cause d’incompatibilità e, nell’ipotesi in
cui le parti non abbiano previsto modalità sostitutive ai sensi dell’art. 811
c.p.c., il rinvio operato da tale norma all’art. 810 implica che l’autorità
giudiziaria provveda comunque alla nomina dell’arbitro al di fuori della
categoria indicata.
Non è esigibile che il giudice faccia luogo alla nomina dell’arbitro in
modo non conforme alla legge o comunque secondo modalità che possano
viziare l’atto di nomina stesso. Ne consegue che nell’attribuzione normativa del potere di nomina in sostituzione delle parti deve ritenersi compreso il potere di provvedere anche in via diretta alla nomina di soggetto
non appartenente alla categoria indicata (in assenza di diverse disposizioni
del compromesso o della clausola compromissoria), quando l’indicazione
delle parti circa la categoria nel cui ambito operare la scelta non possa
aver seguito a causa di ragioni ostative.
Difatti per poter affermare che il Presidente del Tribunale sia tenuto
al rispetto delle clausole e delle condizioni preventivamente predisposte
dalle parti nella convenzione arbitrale si dovrebbe considerare l’attività
del Presidente ai sensi dell’art. 810, comma 2, c.p.c. come un’attività
meramente sostitutiva di un’attività negoziale predeterminata nel suo
(40) In questo senso Cass. 18 maggio 2007, n. 11665, in Rep. Foro it., 2007, voce Arbitrato,
n. 136.
(41) In senso conforme Cass. 21 luglio 2010, n. 17114, in Mass. Foro it., 2010, 783, v.
Arbitrato.
(42) Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, in Rep. Foro it., 2001, voce Arbitrato, n. 175 ove, la
clausola compromissoria prevedeva la nomina di un magistrato, il Presidente aveva valutato di
non poter scegliere un magistrato in servizio essendo tale scelta in contrasto con le disposizioni
del C.S.M. ed aveva proceduto alla nomina dell’arbitro al di fuori di tale categoria; la S.C. ha
confermato la decisione di merito che aveva ritenuto validamente costituito il collegio arbitrale.
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contenuto (43). Al contrario la disposizione sopra citata attribuisce al
Presidente un potere di nomina dell’arbitro con carattere sostitutivo
dell’inerzia delle parti (o meglio di un’attività negoziale manchevole delle
parti) ma non predetermina il contenuto dell’attività negoziale manchevole né direttamente, né indirettamente. Solo ove un precetto normativo
imponesse al Presidente di determinare la scelta dell’arbitro tra appartenenti a determinate categorie si potrebbe dire il Presidente vincolato a tale
dictum. L’attività sostitutiva del Presidente non sarà però vincolata alle
previsioni limitative relative alle qualità degli arbitri contenute nel contratto di arbitrato.
Secondo un orientamento dottrinale, la ricusabilità dell’arbitro nominato dall’autorità giudiziaria competente sarebbe anche ostacolata dalla
circostanza che la ricusazione sarebbe disposta dalla stessa autorità che ha
provveduto alla nomina dell’arbitro ricusando (44). In tal senso si domanderebbe allo stesso organo che ha provveduto alla nomina dell’arbitro di
verificare la correttezza della nomina, la presenza dei requisiti e delle
necessarie competenze dell’arbitro: in altre parole si domanderebbe al
giudice di verificare l’atto che egli stesso ha pronunciato.
6. Alle argomentazioni addotte dalla Corte di Cassazione a sostegno
della validità della nomina giudiziale dell’arbitro sprovvisto delle qualifiche richieste dalle parti si potrebbe obiettare che la nomina dell’arbitro ad
opera del Presidente del Tribunale ha una natura sostitutiva: sopperisce
cioè ad un’attività mancante di rigore rimessa alla volontà delle parti.
Così considerato il potere giudiziale di nomina dell’arbitro, si potrebbe affermare che il Presidente chiamato a sostituirsi alla volontà delle
parti è tenuto a rispettare i requisiti validamente concordati dalle parti e
che alle parti è riconosciuto il potere di ricusare l’arbitro di matrice
giudiziale privo delle richieste qualifiche.
(43) In tal senso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 596 ss.; ALIBRANDI, L’art.
810 c.p.c. e la composizione del collegio arbitrale negli appalti delle opere pubbliche, in Riv. Giur.
Edil., 1968, I, 742 ss.
(44) In questo senso RUFFINI - POLINARI, Sub articolo 815, in Codice di procedura civile
Commentato, a cura di Consolo - Luiso, Milano, 2007, 5832. Questa difficoltà potrebbe essere
superata se della ricusazione venisse incaricato un sostituto diverso da quello che ha provveduto
alla nomina dell’arbitro ricusando (così GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815 Ricusazione degli
arbitri, in Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, 293). In realtà la problematica richiama la
necessità che la decisione sulla ricusazione arbitrale venga rimessa ad un organo giudicante
assolutamente imparziale, anche apparentemente, ma è superata in altri ordinamenti europei
meno timorosi come la Spagna che considera competenti a decidere sulla ricusazione gli stessi
arbitri. La Ley de Arbitraye 60/2003 attribuisce la competenza a decidere sull’istanza di
ricusazione agli stessi arbitri, ove la controparte non accetti la ricusazione e l’arbitro non rinunci
all’incarico. Nella Exposición de Motivos de la Ley de Arbitraye 60/2003 si riconosce che oltre
al criterio legale predisposto consistente nell’attribuire la competenza dell’istanza di ricusazione
agli stessi arbitri, potevano essere astrattamente previste altre alternative che avrebbero
maggiormente garantito l’imparzialità, ma che allo stesso tempo potevano incentivare tattiche
dilatorie ad opera delle parti.
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Unico limite all’autonomia privata si dovrebbe riconoscere nell’ipotesi in cui i requisiti pattiziamente convenuti possano determinare un vizio
della nomina. In tal caso, infatti, non si potrebbe consentire di piegare lo
strumento giudiziario ad un risultato contra legem (45).
Ammettendo per ipotesi che il Presidente del Tribunale nell’esercizio
della funzione prevista dall’art. 810 c.p.c. sia tenuto a rispettare la volontà
espressa dalle parti nella convenzione arbitrale resterebbe da interrogarsi
sui rimedi esperibili avverso la nomina giudiziale che violi il patto arbitrale
e l’autonomia dei privati.
La questione giuridica della impugnabilità del provvedimento giudiziale di nomina dell’arbitrato è stata oggetto di dubbi, in dottrina come in
giurisprudenza (46).
Prima della recente riforma arbitrale il provvedimento assumeva la
forma dell’ordinanza non impugnabile e non avendo contenuto decisorio
se ne escludeva sia la reclamabilità ai sensi dell’art. 739 c.p.c. sia la
impugnabilità per Cassazione con ricorso straordinario ai sensi dell’art.
111 Cost.
A seguito della eliminazione del riferimento alla non impugnabilità
dell’ordinanza non dovrebbero residuare dubbi sull’assoggettabilità a
reclamo dell’ordinanza presidenziale (47).
Ciò considerato, la dottrina non è concorde sugli strumenti utilizzabili
per impugnare il provvedimento presidenziale che violi la volontà delle
parti espressa nel patto compromissorio.
Secondo autorevoli autori (48) il provvedimento di nomina giudiziale
non potrebbe essere impugnato con lo strumento della ricusazione, bensì
sarebbe soggetto esclusivamente a reclamo ai sensi dell’art. 739 c.p.c.
Con tale rimedio le parti potrebbero lamentare la mancanza nell’arbitro nominato dall’autorità giudiziaria delle qualifiche convenute espressamente da loro stesse.
Altri Autori (49) ritengono invece che ove il Presidente del Tribunale
nomini arbitro un soggetto che manchi delle caratteristiche volute dalle
parti queste avrebbero a disposizione tre rimedi: proporre reclamo avverso l’ordinanza di nomina ex art. 739 c.p.c.; contestare all’arbitro interessato il difetto dei requisiti richiesti al fine di provocarne le dimissioni ed
(45) In tal senso Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, in Giur. It., 2002, 1275.
(46) Sul tema si v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 589 ss.; VALENTI, Sulle
modalità di sostituzione degli arbitri e sui rimedi avverso i provvedimenti presidenziali di
sostituzione, in questa Rivista, 2003, 841 ss.
(47) Il provvedimento qualunque ne sia la forma, decreto o ordinanza, finisce col
rientrare tra quelli di volontaria giurisdizione ed è quindi reclamabile. Cfr. VERDE, Lineamenti
di diritto dell’arbitrato, cit., 78.
(48) Così RUFFINI - POLINARI, sub art. 815, in Codice di procedura civile commentato,
diretto da Consolo, Milano, 2010, 1775.
(49) In tal senso GIOVANNUCCI ORLANDI, in A.A.V.V. Arbitrato a cura di Carpi, Bologna,
2007, 293.
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evitare un lodo impugnabile ai sensi dell’art. 829, comma 2, n. 2, c.p.c.;
presentare un’istanza di ricusazione dell’arbitro nominato dal Presidente
del Tribunale.
7. Sembra, quindi, che dall’interpretazione dell’art. 810 c.p.c. possa
pervenirsi a tre risultati ermeneutici.
Secondo una prima lettura, ispirata al principio dell’autonomia (che
potremmo indicare come tesi dell’autonomia), i criteri e le qualifiche
stabilite nella convenzione arbitrale dalle parti vincolano anche il terzo
(privato o giudice) chiamato a nominare l’arbitro. In mancanza delle
qualifiche espressamente convenute dalle parti, il provvedimento di nomina dovrebbe dirsi viziato e reclamabile e l’arbitro nominato potrebbe
essere ricusato.
Una diversa lettura, che per brevità diremo dell’eteronomia, si fonda
sul principio della relatività degli effetti del contratto, di cui all’art. 1372
c.c. Secondo tale tesi dell’eteronomia, il giudice non è tenuto a rispettare
la volontà negoziale delle parti, che produce i suoi effetti solo inter partes,
ma non vincola i terzi e tanto meno il giudice. La nomina giudiziale
dell’arbitro carente delle qualifiche stabilite dalle parti nella convenzione
arbitrale sarebbe valida e l’arbitro, così nominato, non ricusabile.
Alle letture citate e descritte nei paragrafi precedenti sembra potersi
aggiungere una tesi intermedia.
La tesi muove dalla distinzione tra: modalità di nomina e selezione
degli arbitri, da un lato, e status soggettivo dell’arbitro, dall’altro.
La modalità di nomina dell’arbitro si esaurisce nel procedimento
scelto dalle parti o imposto dalla legge per la selezione del giudice della
lite. Il procedimento di nomina giudiziale è affidato dall’art. 810 c.p.c. in
via esclusiva al Presidente del Tribunale, il quale vi provvederà in modo
autonomo, attenendosi alle regole imposte per i procedimenti in camera di
consiglio.
Lo status soggettivo dell’arbitro comprende le qualifiche, qualità e
competenze individuate dalle parti. La determinazione di tale elemento è
e resta nella piena disponibilità delle parti della convenzione di arbitrato.
Si dovrebbero, dunque, distinguere due ambiti. La modalità di nomina resterebbe esclusiva competenza del giudice, sulla quale le scelte
delle parti non potrebbe incidere.
Lo status, al contrario, potrebbe essere deciso dalle parti, ma non
potrebbe essere modificato dal Presidente del Tribunale.
Seguendo tale tesi, il Presidente del Tribunale che nomini l’arbitro,
rispettando le norme di cui agli artt. 737 c.p.c., ma discostandosi dallo
status prescelto dalle parti, emanerebbe un provvedimento valido e non
reclamabile, almeno per violazione della volontà della parti.
Alle parti spetterebbe, però, il potere di ricusare l’arbitro validamente
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nominato dal giudice ma non dotato delle qualifiche convenzionalmente
stabilite, ai sensi dell’art. 815, n. 1, c.p.c.
La ricostruzione avrebbe il pregio di garantire il rispetto dell’autonomia privata e al contempo la discrezionalità del giudice, ma si sostanzia
comunque in una limitazione alla discrezionalità del magistrato e sembra
essere espressione della tesi dell’autonomia.
La giurisprudenza di legittimità (50) ha, infatti, chiarito che l’intervento del Presidente non può dar vita ad una nomina viziata. Il Presidente
è cioè tenuto ad emettere un provvedimento di nomina dell’arbitro non
solo valido ma anche efficace, che sia cioè in grado di produrre gli effetti
per cui è pronunciato, ossia costituire un organo giudicante che decida una
lite.
In questo modo, invece, il Presidente del Tribunale finirebbe con il
nominare un arbitro, consapevolmente, ricusabile in quanto privo delle
qualifiche previste dalle parti.
Le letture dell’art. 810 c.p.c. sembrano necessariamente ridursi a due.
L’autonomia dei privati vincola l’operato del giudice o è dallo stesso
superata.
Non sembra possibile distinguere tra modalità di nomina e status
essendo entrambi oggetto della libera determinazione delle parti. La
scelta è un concetto di secondo grado presupponendo necessariamente un
oggetto sul quale la stessa si deve esercitare. Nel caso in esame, l’oggetto
della scelta è la categoria delle persone nominabili come arbitri. Le parti
possono decidere di autolimitare la categoria prescrivendo delle qualifiche, ma la limitazione non potrà vincolare l’autorità giudiziaria adita. Per
il Presidente la categoria delle persone nominabili non è ristretta al campo
individuato dalle parti, ma coincide con il « chiunque » ed è, quindi,
comprensiva di tutte le persone fisiche dotate della capacità legale di agire.
Tale limitazione, intanto, vincola il Presidente, in quanto espressamente
imposta dalla legge e, precisamente, dall’art. 812 c.p.c.
8. Sebbene in un istituto di matrice privatistica come l’arbitrato, la
limitazione dell’autonomia privata teorizzata dalla Corte di Cassazione
nella sentenza in epigrafe appaia significativa, la tesi può essere variamente argomentata.
L’intervento del giudice in sede di volontaria giurisdizione (51), pre(50) Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, cit. nt. 42.
(51) In questa sede non si può dare conto delle perplessità dottrinali sulla nozione stessa
di volontaria giurisdizione e sui procedimenti che ivi vanno ricompresi. Si tratta, come noto, dei
procedimenti disciplinati dagli artt. 737 ss. c.p.c. che si concludono con decreto o talvolta con
ordinanza. La funzione di tali procedimenti consiste nell’esercizio di un controllo preventivo
delle determinazioni dei privati affinché risultino conformi alla legge. La volontaria giurisdizione rappresenterebbe il dominio della discrezionalità giudiziaria. Cfr. FAZZALARI, Istituzioni di
diritto processuale, VII ed., Padova, 1994, 523 ss.
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visto dall’art. 810, comma secondo, c.p.c., non rappresenta certamente un
unicum nell’ordinamento, basti pensare in modo non esaustivo alla scelta
del beneficiario di un legato fra le persone o gli enti indicati dal testatore
(art. 631, u.c., c.c.), o alla scelta nelle obbligazioni alternative (art. 1287,
u.c., c.c.), o alla determinazione del prezzo nell’ipotesi prevista dall’art.
1473 c.c.
Il riferimento a un’attività sostitutiva e integrativa del giudice, in caso
di inerzia o di volontà contraria di una parte alla nomina di un arbitro
secondo il meccanismo previsto dalla clausola compromissoria, non è
quindi una fattispecie isolata nell’ordinamento giuridico.
Dal punto di vista sostanziale, il potere di intervento del Presidente
del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., come interpretato dalla sentenza
in epigrafe, sembrerebbe doversi inquadrare tra le fonti di eterodeterminazione (52) del contratto (53).
(52) « In definitiva, con l’eterointegrazione (o, come più semplicemente si dirà da ora in
poi, con l’integrazione) si allude a forme di intervento sul contratto che vanno al di là del pur
ampio svolgimento della logica della dichiarazione e che, quindi, si aggiungono all’attività delle
parti nella costruzione del definitivo regolamento contrattuale. » RODOTÀ, Le fonti di integrazione
del contratto, Milano, 2004, 9.
(53) Come noto la convenzione d’arbitrato è un contratto che ha ad oggetto il diritto dei
singoli di far decidere le proprie controversie da privati. Talvolta si è avvicinato il patto
compromissorio al pactum de foro prorogando, ma quest’ultimo ha un oggetto esclusivamente
processuale, il patto compromissorio « riguarda lo stesso modo di essere della tutela e, talvolta,
i criteri di giudizio adoperabili, così che deve escludersi che abbia rilievo solo processuale ». Si
ritiene preferibile considerare la convenzione alla stregua di un contratto nominato (artt. 806
ss. c.p.c.) il cui oggetto consiste nella controversia da decidere e la causa è il farla decidere da
terzi. VERDE, La convenzione di arbitrato, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino,
2005, 71 ss.
Dalla convenzione di arbitrato nasce il « potere-onere di nominare o far nominare
l’arbitro o gli arbitri ». La nomina dell’arbitro è dunque un atto diverso dal contratto di arbitro
che si pone come una proposta che deve, o può, essere accettata dal destinatario per iscritto (ai
sensi dell’art. 813, comma 1, c.p.c.). Dopo l’accettazione degli arbitri nasce con le parti un
rapporto contrattuale in forza del quale i primi assumono l’impegno di decidere la controversia
e i secondi di corrispondere loro il corrispettivo. Tale rapporto contrattuale è stato qualificato
come mandato, come contratto d’opera (ai sensi dell’art. 2222 c.c.), come un negozio misto, che
risulterebbe dalla combinazione tra mandato e contratto d’opera. Sembra preferibile considerare il contratto fra le parti e gli arbitri alla stregua di un contratto nominato disciplinato nei suoi
caratteri essenziali dagli artt. 806 ss. c.p.c. Cfr. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 67
ss. Rilevante è anche il rapporto che si instaura tra l’accordo compromissorio e il contratto di
arbitrato, tra parti ed arbitri. Si distingue così tra collegamento genetico e funzionale e tra
collegamento volontario e necessario (NARDI, Frode alla legge e collegamento negoziale, Milano,
2006, 48; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000). Il collegamento genetico
ricorre quando un negozio esercita un’azione vincolativa o meno sulla formazione di altro o di
altri negozi; pertanto, in tal caso, l’influenza che un negozio spiega sull’altro si esaurisce nel
processo di formazione dei negozi stessi. Il collegamento, invece, si definisce funzionale quando
l’influenza che un negozio esercita sull’altro opera sullo svolgimento e sul funzionamento del
rapporto, che da tale negozio nasce (GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, in Riv.
dir. comm., 1955, I, 357). In dottrina, poi, emerge la necessità di distinguere le ipotesi in cui il
collegamento deriva direttamente ed indispensabilmente dalla legge (collegamento necessario),
da quelle in cui la fonte del collegamento risiede nella volontà dei contraenti (collegamento
volontario) (RAPPAZZO, Il collegamento negoziale nella società per azioni, Milano, 2008, 20). La
dottrina distingue inoltre tra collegamento unilaterale e collegamento bilaterale (C.M. BIANCA,
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Il problema di fondo che pone l’art. 810 c.p.c. sembra riguardare,
quindi, l’ambito di estensione dell’autonomia privata e, più in particolare,
se questa si estenda fino alla determinazione dei concreti effetti giuridici
derivanti da un determinato atto o, al contrario, se la produzione di effetti
giuridici costituisca una prerogativa dell’ordinamento giuridico (54).
Sul punto la Relazione al Codice civile, a commento dell’art. 1372 c.c.,
afferma il principio « secondo cui la volontà privata non può creare in
modo indipendente effetti giuridici » (55).
Diritto civile, III, Il contratto, cit., 483). Nella prima ipotesi, la sorte di un rapporto si ripercuote
sull’altro ma non viceversa; nella seconda, la sorte di ciascun rapporto è legata alla sorte
dell’altro (ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e efficacia della clausola compromissoria: il leasing e le altre storie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 1094).
Il rapporto esistente tra contratto di arbitrato e accordo compromissorio potrebbe essere
interpretato quale nesso di interdipendenza funzionale e necessaria. Il primo profilo si giustificherebbe in funzione del risultato pratico a cui tende il coordinamento e la combinazione di
entrambi i negozi: infatti, accordo compromissorio e contratto di arbitrato sono diretti al
medesimo risultato finale, costituito dalla conclusione del procedimento arbitrale (MARULLO DI
CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008, 16). Il contratto di arbitrato sarebbe
accessorio rispetto all’accordo compromissorio. In particolare, si tratterebbe di accessorietà
bilaterale; quindi, non solo le vicende del negozio principale si ripercuotono su quello accessorio, ma, in senso contrario, anche il primo subisce l’influenza del secondo.
Tuttavia come osservato da autorevole dottrina (IRTI, Introduzione allo studio del diritto
privato, IV edizione, cit., 19-21), il legislatore talvolta costruisce fattispecie di contratto che
contengono, tra i propri elementi di fatto, gli effetti prodotti da altri negozi; in questi casi, non
si pone un problema di collegamento, ma viene in rilievo la necessità che la situazione iniziale,
su cui si innestano gli effetti del negozio, sia interamente venuta ad esistenza. Seguendo, quindi,
tale impostazione il rapporto tra i due negozi si esaurisce nel fatto che il contratto di arbitrato
reca tra i suoi presupposti un valido ed efficace accordo compromissorio; quest’ultimo si pone
quindi come un elemento fattuale della più ampia fattispecie « contratto di arbitrato ». Il
rapporto parti-arbitri sarebbe del tutto autonomo dalla convenzione arbitrale (in tal senso v.
MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., 20).
(54) Su questa problematica si possono riscontrare diverse teorie. La pandettistica
tedesca, nell’ottica del Willensdogma, parte dall’idea che la volontà dell’uomo, manifestatasi
all’esterno, possa realizzare effetti giuridici conformi al suo contenuto; in questo senso, VON
SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. da Scialoja, Torino, 1888-1891, III, 123 ss.;
WINDSCHEID, Diritto delle pandette, trad. a cura di Fadda e Bensa, Torino, 1930, 202. Un’idea
conforme a quest’ultima è sostenuta anche da STOLFI, Teoria del negozio giuridico, Padova,
1947, secondo il quale sarebbe la volontà dei privati a dar vita agli effetti giuridici. Si veda, a
questo proposito, anche GIORGIANNI, Volontà (dir. priv.), in Enc. Dir., XLVI, Milano, 1993, 7.
Un’impostazione diversa e ampiamente sostenuta in dottrina, nega ai privati la competenza a produrre l’effetto giuridico in quanto la creazione degli effetti giuridici sarebbe riservata
esclusivamente alla legge. Come riferisce CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano,
1988, 47, « gli effetti giuridici sono la risposta dell’ordinamento all’atto di autonomia privata,
conseguente alla sua valutazione »; mentre le parti possono liberamente determinare il contenuto contrattuale, l’identificazione e la produzione degli effetti giuridici sarebbe riservata
all’esclusiva competenza della legge. In questo senso, anche BETTI, Teoria generale del negozio
giuridico, Torino, 1943, 82. Cfr. sul tema IRTI, Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano,
1991, 27 ss.; ID., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., 93 ss.; MARANI, La simulazione
negli atti unilaterali, Padova, 1971, 117 ss. Di particolare interesse è anche la prospettiva
esaminata da SCIALOJA, Negozi giuridici, Roma, 1933, 36.
(55) Relazione del Guardasigilli al Codice civile, n. 627, la quale continua « Questo
principio afferma l’immanente e perenne soggezione della volontà individuale al comando della
legge. E se ne intende la necessità, in base alla considerazione che il riconoscimento della
giuridicità si fonda sulla valutazione dell’utilità generale degli effetti che ne derivano; il compito
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L’art. 1374 c.c. (56) indica, in modo espresso, il generale principio di
corrispondenza tra contenuto dell’atto e contenuto degli effetti giuridici (57), cioè, ferma restando la distinzione tra contenuto dell’atto ed
effetti giuridici prodotti dall’atto stesso (58), le modificazioni delle situazioni di diritto, conseguenti ad un atto di autonomia privata, sono conformi a quelle espresse dalle parti con l’atto di autonomia privata stesso.
Partendo dal dato normativo e in base alle premesse indicate si
possono effettuare alcune considerazioni.
In base all’art. 1374 c.c. e all’art. 1322 c.c., le parti possono determinare il contenuto contrattuale di un determinato atto e il « contratto
obbliga le parti », in primis, « a quanto è nel medesimo espresso » (59). I
privati sono liberi di stabilire un determinato regolamento contrattuale e,
quindi, di scegliere uno schema e di determinarne e specificarne il contenuto nei limiti indicati dalla norma, ma « lo schema prescelto e gli effetti
specificati sono offerti dal legislatore » (60). È, quindi, il legislatore a
indicare e a predisporre gli effetti giuridici, « la norma è...il “motore” degli
effetti » (61).
di fare questa valutazione non può attribuirsi al singolo senza porre l’uniformità a cui deve
ispirarsi, senza cioè far luogo ad una relatività di giudizi che scompone disordinatamente gli
scopi della pluralità organizzata ».
(56) Attribuisce a tale norma una funzione sostanzialmente interpretativa, FERRI, Causa
e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 286 ss.; ID., La « cultura » del contratto e
le strutture del mercato, in Riv. dir. comm., 1997, I, 867 s.
(57) IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Torino, 1974, 93, secondo il quale
tale norma « enuncia, nella sua elementare semplicità, il principio dell’autonomia privata, che,
sul piano tecnico, non è altro dalla corrispondenza tra contenuto dell’atto e contenuto degli
effetti giuridici », richiamando l’art. 1322, comma primo, c.c.
(58) Il concetto di contenuto del contratto e il suo rapporto con gli effetti giuridici è
piuttosto complesso. Alcune dottrine utilizzano l’art. 1322 c.c. come punto di partenza per
definire il contenuto come « precetto dell’autonomia privata » comprensivo quindi di tutte e
solo le determinazioni dettate dagli autori stessi per regolare i propri interessi; in questo modo,
si esclude dalla nozione di contenuto tutto ciò che non costituisce esplicazione dell’autonomia
privata delle parti. In questo senso BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 156. Altri
autori utilizzano una nozione di contenuto molto più estesa intesa come il complesso di elementi
che concorrono a formare la fattispecie contrattuale, anche se estranei all’autonomia contrattuale: CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, Padova, 1984, 216;
ALLARA, La teoria generale del contratto, Torino, 1955, 82. In una prospettiva autonoma e
diversa si pone RODOTÀ, Le fonti d’integrazione del contratto, Milano, 1969, 78, il quale,
indicando la nozione di regolamento contrattuale, pone l’accento sul confluire di varie fonti
nella determinazione delle regole che disciplinano l’assetto di interessi tra le parti del contratto:
l’attività delle parti, la determinazione legale, la determinazione ad opera del giudice. Così
Cass., 22 aprile 2000, n. 5286, in Foro it., 2000, I, 2180.
(59) Le parti, stipulando il contratto, mirano alla costituzione, modificazione o estinzione
di un rapporto (ex art. 1321 c.c.); esse esternano una volontà ed un atto di autodeterminazione
contrattuale con lo specifico intento di produrre un risultato, un effetto, e, in questo senso, le
parti e l’autonomia privata sono spesso indicate in dottrina come fonti di produzione di effetti
giuridici. C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto, Milano, 2000, 318.
(60) IRTI, La scuola di Messina in un libro sui fatti giuridici, Prefazione a Pugliatti (1945),
rev. e agg. a cura di Falzea, Milano, 1996, VI.
(61) AA. VV., Dieci lezioni introduttive a un corso di diritto privato, Torino, 2006, 125 s.,
dove si osserva che l’effetto giuridico è una « creazione esclusiva della norma, mentre il fatto,
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Gli effetti giuridici possono non coincidere in concreto con il contenuto dell’atto di autonomia privata. La produzione degli effetti giuridici è
subordinata ai limiti e ai requisiti di legge e, in questo senso, diverse sono
le modalità con cui il legislatore o, più in generale, l’ordinamento giuridico
limita e vincola l’autonomia privata, non solo in negativo, cioè con la mera
imposizione di divieti, ma anche in positivo, sostituendo la propria valutazione a quella posta in essere dalle parti (62). Questo è il fenomeno
dell’eteronomia (63) o dell’eterodeterminazione, da intendersi come il
potere di determinare dall’esterno i rapporti tra i privati (64). Emblematica
è, a questo proposito, la disciplina dell’art. 1339 c.c. (65), che introduce un
meccanismo sostitutivo di clausole contrattuali con delle clausole imposte
dal legislatore, nonché la previsione dell’art. 1374 c.c. che, dopo avere
individuato il generale principio di corrispondenza tra contenuto del
contratto e contenuto degli effetti, aggiunge che il contratto obbliga le
parti « ...anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o,
in mancanza, secondo gli usi e l’equità ».
L’intervento del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c.,
seppur con delle differenze, sembra, quindi, avvicinarsi alle ipotesi previste dagli artt. 1339 e 1374 c.c. (66) e volto all’integrazione di un elemento
del contenuto negoziale nell’interesse di tutte le parti della convenzione
arbitrale: al giudice viene infatti richiesto di intervenire con un provvedimento che sostituisca un’attività negoziale manchevole delle parti.
Vero è che la legge (ossia l’art. 815 c.p.c.) attribuisce alle parti la
facoltà di scegliere le qualifiche dell’arbitro e la stessa legge riconosce due
strumenti di tutela a presidio della loro volontà (ricusazione e impugnaanche quando consiste in manifestazioni di volontà, si risolve tutto in se stesso e non in una
supposta attitudine, attuale o potenziale, a determinare l’effetto. Il fatto, pertanto, nasce
neutro: la sua giuridicità, che, in sostanza, coincide con la sua effettività è un portato della
norma ».
(62) Il legislatore, nel momento in cui interviene in un dato settore della realtà sociale,
pone in essere una valutazione di opportunità politica sulla meritevolezza di tutela di un dato
interesse in rapporto ad un altro. Un’analisi delle varie modalità in cui può concretizzarsi tale
intervento è realizzata da CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, cit.,
134 ss.
(63) Come espressamente rilevato da ORLANDI, Autonomia privata e autorità indipendenti, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti: la metamorfosi del contratto, a cura di
Gitti, Bologna, 2006, 275 ss, l’eteronomia costituisce un fenomeno « correlato e complementare » a quello di autonomia, nel senso che i due concetti si « delimitano a vicenda, dove finisce
la sfera di autonomia inizia quella dell’eteronomia, e viceversa ».
(64) Si parla a questo proposito di fonti o regole eteronome, in grado di negare, quindi,
la simmetria fra volontà e risultato giuridico. M. CONFORTINI, Problemi generali del contratto
attraverso la locazione, cit., 134 ss.; SACCO, La parte generale del diritto civile. 1. Il fatto, l’atto il
negozio, in Tratt. dir. civ., diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 2005, 128; GIORGIANNI, La crisi del
contratto nella società contemporanea, in Riv. dir. agr., 1972, I, 385 ss.; ORLANDI, Autonomia
privata e autorità indipendenti, cit., 273 ss.
(65) Da questa norma sorge una serie alquanto complessa ed articolata di problematiche
che non possono essere affrontate in questa breve nota.
(66) In tal senso STESURI, Gli arbitri. Mandato, responsabilità e funzioni, Milano, 2001, 16.
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zione per nullità), introducendo quindi un vincolo al rispetto dell’autonomia delle parti — quanto meno indirettamente tutelato dallo stesso art.
815 c.p.c. —, tuttavia, il potere-dovere di intervento dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., è, e resta, discrezionale.
La discrezionalità del giudice civile non è del tutto libera, presenta
senz’altro dei limiti. Il giudice, infatti: deve operare in conformità alla
legge (67), ai sensi dell’art. 101 Cost.; è vincolato al dovere di imparzialità,
nei riguardi delle parti e degli interessi dedotti in giudizio (68); è tenuto
all’obbligo di motivare il provvedimento pronunciato (69), ai sensi dell’art.
111 Cost.
Nessuna norma sembra vincolare però il Presidente del Tribunale al
rispetto delle clausole concordate tra le parti.
D’altra parte, esaminando alcune delle ipotesi in cui il legislatore
attribuisce all’autorità giudiziaria il dovere di intervento e di integrazione
del contenuto negoziale di un atto privato, si evince che i limiti alla
discrezionalità giudiziaria (70) devono essere normativamente imposti: è la
legge a vincolare il giudice, e non le parti.
Basti pensare all’ipotesi della nomina dell’amministratore di sostegno
(67) Il dovere di operare in conformità alla legge oltre ad essere espressamente imposto
al giudice dall’art. 101 della Costituzione, deriva dal collegamento tra il giudice e la sovranità
popolare. Cosicché il vincolo che promana dalla legge si impone al giudice anche quale presidio
al rispetto che deve alla comunità sovrana. Cfr. MARENGO , La discrezionalità del giudice civile,
op. cit., 63 ss.
(68) L’imparzialità del giudice deve essere intesa non solo come estraneità riguardo agli
interessi dedotti in giudizio, ma anche come rispetto della parità dei litiganti. Il giudice deve
garantire la piena equidistanza dagli interessi cui le situazioni sostanziali dedotte in giudizio in
concreto possono ricondursi. Sul tema v. FAZZALARI, La imparzialità del giudice, in Studi in
memoria di Furno, Milano, 1973, 336 ss.
(69) La ratio dell’art. 111 Cost. consiste nel facilitare il controllo, in fatto e in diritto, del
provvedimento, coincidente con l’obbligo, in concreto, di dar conto delle ragioni che hanno
condotto all’adozione del provvedimento. L’obbligo di motivazione sussiste anche quando
l’attività imposta dalla norma sia discrezionale, in quanto il giudice con la motivazione deve dar
conto anche del corretto uso dei criteri oggettivi di riferimento all’osservanza dei quali è tenuto.
Cfr. TARUFFO, La motivazione della sentenza, Padova, 1975, 407; CECCHERINI, Il principio
generale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e l’informatica giuridica, in Giust.
Civ., 1989, II, 54 ss.
(70) Il dibattito relativo alla nozione di discrezionalità è sorto principalmente nel campo
del diritto amministrativo, ove è approdato alla considerazione che l’attività dell’organo
pubblico è caratterizzata dal limite interno costituito dagli interessi pubblici, dalla comparazione
degli interessi pubblici e privati rilevanti nel caso concreto e dalla sindacabilità dei relativi
provvedimenti. Il vincolo dell’interesse pubblico rappresenterebbe quindi il discrimen tra
discrezionalità e autonomia privata (BARONE, Discrezionalità (diritto amministrativo), in Enc.
Giur., vol. XI, Roma, 1989; ZANOBINI, Autonomia pubblica e privata, in Scritti giuridici in onore
di Carnelutti, vol. VI, Padova, 1950, 185 ss.). Con riguardo alla discrezionalità del giudice civile
occorre considerare che l’attività del giudice è composta da doveri: tutti gli atti del giudice sono
disciplinati dalle relative norme come doverosi, in quanto l’organo pubblico deve sempre
assolvere al compito per cui è preposto. Si parla quindi di « dovere discrezionale » (MARENGO,
La discrezionalità del giudice civile, Torino, 1996, 59 ss.) intendendosi che l’organo pubblico ha
margini di scelta quanto al contenuto della condotta da tenere, ma pur sempre nell’ambito
dell’esercizio di uno specifico dovere.
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di cui all’art. 404 c.c. (71). Il potere di nomina riconosciuto all’autorità
giudiziaria non è libero, ma vincolato anche alla volontà della parte
incapace (che può disporre in prospettiva della propria incapacità). In tale
ipotesi, il limite al potere giudiziario trova sempre la sua fonte nella legge:
è la legge a stabilire i criteri per la nomina dell’amministratore di sostegno,
ed è sempre la legge a stabilire, come criterio di scelta dell’amministratore,
la volontà delle parti (art. 408 c.c.).
Non sembra potersi pervenire a diversa conclusione dall’esame dell’art. 1349 c.c. (72).
Il primo comma della disposizione attribuisce al giudice il potere di
determinare la prestazione dedotta nel contratto indicandone tuttavia i
presupposti e i limiti. Infatti, ai sensi della norma citata, l’autorità giudiziaria può intervenire solo nel caso in cui la determinazione del terzo
arbitratore sia stata manifestamente iniqua o erronea o sia del tutto
(71) Nella fattispecie l’intervento giudiziario non sopperisce a un’inerzia delle parti.
(72) L’art. 1349 c.c. non potrebbe neppure essere applicato in via analogica all’ipotesi di
nomina sostitutiva dell’arbitro ad opera del Presidente del tribunale. L’art. 810 c.p.c. disciplina
in modo esaustivo il potere di intervento dell’autorità giudiziaria, stabilendo che al verificarsi
dell’inerzia di una delle parti il Presidente sarà tenuto a nominare un arbitro attraverso un
procedimento camerale. Nel caso in esame mancherebbe il presupposto per il ricorso allo
strumento dell’analogia ossia la lacuna. Ciò che « si indica come lacuna tecnica è, o una lacuna
nel senso originario della parola, cioè una differenza fra diritto positivo e diritto desiderato,
oppure è quell’indeterminatezza che risulta dal carattere schematico della norma » (KELSEN,
Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 2000, 127, con trad. di Treves). La distinzione tra
alcuna ideologica e reale corrisponde alla distinzione tra « lacune proprie e improprie ». Ove « la
lacuna propria è una lacuna del sistema o dentro il sistema; la lacuna impropria deriva dal
confronto del sistema reale con un sistema ideale ». In un sistema caratterizzato dalla presenza
di norme particolari inclusive, ossia di norme che regolano determinati casi e norma generale
esclusiva, « cioè dalla regola che esclude (per questo esclusiva) tutti i comportamenti (per questo
generale) che non rientrano in quello previsto dalla norma particolare », non vi posso essere
lacune improprie. Il caso non regolato rientra nella norma generale esclusiva (così BOBBIO,
Teoria generale del diritto, Torino, 1993, 238 - 273). Così definita la lacuna, l’art. 810 c.p.c. non
sembra una disposizione lacunosa. Con quest’ultima il legislatore ha affidato all’autorità
giudiziaria il compito di scegliere l’arbitro, non nominato dalla parte, secondo modalità tipiche
dei procedimenti camerali. La scelta del giudice, e di qualsiasi terzo, è una scelta libera che non
può essere vincolata alla determinazione contrattuale di altre parti (secondo il generale
principio sancito dall’art. 1372 c.c.) e comprende ovviamente non solo l’individuazione della
persona dell’arbitro ma anche il suo status (quindi le qualifiche e competenze). Mancherebbe
inoltre l’identità di ratio tra l’ipotesi disciplinata, ossia l’art. 1349 c.c., e l’ipotesi, asseritamente
non disciplinata, ossia l’art. 810 c.p.c. Infatti, il cosidetto arbitraggio presuppone il conferimento
di un mandato, avente ad oggetto una prestazione professionale, al terzo che, accettato
l’incarico, si atterrà alle istruzioni impartite, vincolato dal contratto di mandato e dalle legge che
prescrive il ricorso al criterio dell’equo apprezzamento nello svolgimento dell’incarico. Anche
quando il giudice interviene, perché l’arbitratore non ha provveduto o ha malamente provveduto, il suo incarico è vincolto ex lege al rispetto dell’« equo apprezzamento » (da intendersi, mi
pare, in senso soggettivo). L’attività svolta dall’arbitratore, terzo o giudice, consiste, inoltre,
nella determinazione della prestazione dedotta in contratto. Al contrario il potere di nomina
attribuito al Presidente del Tribunale deriva direttamente dalla legge e dalla legge è disciplinato.
Le parti non possono vincolarne l’operato, in quanto la legge conferisce al Presidente un potere
libero, salvo non sia diversamente previsto. L’incarico inoltre che il Presidente è chiamato a
svolgere consiste nella scelta del giudice di una lite.
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mancata e solo quando risulti che le parti non vollero rimettersi al suo
mero arbitrio.
In queste ipotesi è il legislatore a predeterminare il criterio di giudizio
al quale l’autorità giudiziaria dovrà attenersi nella determinazione dell’oggetto del contratto: ossia l’equo apprezzamento.
Il limite alla discrezionalità giudiziaria è normativamente previsto ed
è rappresentato dal criterio da seguire nella determinazione della prestazione. Infatti nell’ipotesi in cui le parti rimettano la determinazione
dell’oggetto del contratto al « mero arbitrio » del terzo, l’intervento del
giudice non è consentito e il contratto è nullo (73).
Sembra quindi che, quando il legislatore ritenga opportuno vincolare
la discrezionalità giudiziaria all’autonomia privata, lo disponga espressamente: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
Condividendo l’interpretazione della Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe, risulta necessario considerare il potere sostitutivo del
Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., come un potere
discrezionale, autonomo e non vincolato alla volontà delle parti.
L’autonomia delle parti, manifestata nella scelta delle qualifiche e
delle competenze dell’arbitro nominando, incontra il suo limite nel potere
sostitutivo dell’autorità giudiziaria, che supera la volontà delle parti e ne
è del tutto libero.
Un vincolo alla discrezionalità giudiziaria nell’esercizio del potere
riconosciuto dall’art. 810 c.p.c. si potrebbe realizzare solo con un’espressa
previsione normativa che sottoponga il potere del giudice alla volontà
delle parti della convenzione arbitrale.
Ne consegue che, ove il precetto dell’art. 810 c.p.c. non venga integrato o modificato da altro precetto normativo che imponga al Presidente
di effettuare la scelta dell’arbitro tra appartenenti a una data categoria o
lo vincoli alla scelta effettuata dalle parti nella convenzione arbitrale,
l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria non sarà limitato dalle
previsioni contrattuali aventi ad oggetto le qualifiche dell’arbitro.
9. A tenore della sentenza della Corte di Cassazione, quindi, l’autonomia delle parti (74) incontra un limite nel decisum giudiziale, le parti
(73) Il secondo comma dell’art. 1349 c.c. stabilisce, infatti, che se manca la determinazione del terzo e le parti non si accordano per sostituirlo il contratto è nullo e il giudice non può
intervenire. Questa conclusione si giustifica tenendo conto che le parti hanno voluto affidarsi al
mero arbitrio di una terza persona evidentemente riponendo particolare fiducia nella risposta di
questa e per la volontà di regolare il loro rapporto prescindendo da quella che potrebbe essere
la normale equità. Cfr. NATOLI, Significato e limiti dell’intervento del giudice nella determinazione
della cosa e del prezzo (1947), in Diritti fondamentali e categorie generali. Scritti di Ugo Natoli,
Milano, 1993, 836-837.
(74) Sulla evoluzione del concetto di autonomia negoziale cfr. ALPA, Autonomia delle
parti e libertà contrattuale, oggi, in Riv. critica dir. priv., 2008, vol. 26, 571 ss., secondo l’A.: « Al
principio di libertà contrattuale si affidano così due ruoli tra loro in conflitto: da un lato, si
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non sarebbero più libere nemmeno di accordarsi sulle qualifiche degli
arbitri in caso di inerzia. L’inerzia delle parti determinerebbe una sostituzione ad nutum della volontà delle stesse con quella dell’autorità giudiziaria; volontà, quest’ultima, libera, non costretta a sottostare ai limiti
della convenzione arbitrale e vincolata solo dalla discrezionalità giudiziale.
Questa rigorosa interpretazione della « libera » discrezionalità giudiziaria, condivisa nella sentenza in epigrafe, dovrebbe però tenere conto
che la funzione che il Presidente del Tribunale è chiamato a svolgere, ai
sensi dell’art. 810 c.p.c., consiste nell’« indirizzo e nell’integrazione dell’attività dei privati » (75).
Allo svolgimento della funzione in oggetto, l’autorità giudiziaria
dovrebbe procedere mediante la comparazione, in concreto, dell’interesse
fissato dalla norma (ossia la garanzia dell’effettività della convenzione
arbitrale) con gli altri interessi sui quali l’atto è destinato a incidere (e tra
i quali l’interesse delle parti, entrambe, a vedere decisa la controversia da
un giudice privato munito delle qualifiche pattuite).
La scelta dei requisiti del giudice della controversia è un interesse
delle parti dal quale il provvedimento del Presidente del Tribunale non
sembra dover o poter prescindere, se non quantomeno in presenza di
un’adeguata motivazione (76) che rappresenti le ragioni della scelta delvorrebbe costruire sul contratto l’unico sistema (libero e sovranazionale) di regolazione dei
rapporti tra i privati, tendendosi a considerare il contratto come un semplice « affare tra privati »,
preclusivo di ogni integrazione, valutazione, controllo proveniente dall’esterno; in questo senso
libertà contrattuale, cioè libertà per i contraenti di effettuare qualsiasi scelta essi desiderino, purché
sia condivisa, coincide perfettamente con l’autonomia, cioè con la legge privata, delle parti;
dall’altro si vorrebbe affidare al contratto compiti di giustizia correttiva e distributiva, di
protezione della persona, di efficiente allocazione delle risorse che un tempo spettavano esclusivamente al legislatore, e quindi la libertà contrattuale, in questo senso intesa come libertà « dal
contratto come strumento vincolante della parte più debole, si allontana dalla autonomia, in
quanto il contratto è integrato, valutato, controllato ab externo ». (...) Insomma, le espressioni
« libertà contrattuale » e « autonomia delle parti » debbono essere contestualizzate, per poterne
comprendere adeguatamente il significato; che è — inevitabilmente — un significato relativo. E’
un significato che deve essere ricostruito anche alla luce delle tradizioni che hanno solcato la
cultura giuridica nel corso dei tempi, sicché, nella prospettiva di una armonizzazione del diritto
privato europeo, appare molto difficile il compito di quanti si sono proposti di redigere testi che
raccolgono una terminologia univoca, una armatura concettuale adattabile a tutte le vicende,
principi generali e astratti formulati a mo’ di regole di un « codice » ».
(75) MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, op. cit., 292.
(76) Il provvedimento pronunciato dal Presidente dovrebbe rientrare nell’alveo della
volontaria giurisdizione. Ivi, come noto, l’atto conclusivo del procedimento camerale ha forma
di decreto motivato, salvo che la legge disponga diversamente (ex art. 737 c.p.c.): ed è questa
clausola legale di riserva uno dei poli normativi da cui si diramano, a scioglimento di essa, le
serie di norme in deroga che danno vita ai modelli camerali atipici. Cfr. MALTESE, I procedimenti
in camera di consiglio: profili generali, in Riv. dir. civ., 1997, n. 4, 565 ss. In ogni caso il
provvedimento con cui si pronuncia l’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 810 c.p.c. dovrebbe
essere almeno succintamente motivato in ossequio all’art. 111 Costituzione: Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Il generico contenuto della citata disposizione ne
determina l’applicazione anche ai provvedimenti di volontaria giurisdizione.
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l’arbitro e dell’interesse prevalente che si è ritenuto di perseguire con il
provvedimento di nomina (77).
RITA TUCCILLO
(77) Sembra quindi che il provvedimento dell’autorità giudiziaria che nomini l’arbitro
discostandosi dalla volontà delle parti espressa nella convenzione arbitrale e non motivi tale
scelta potrebbe essere reclamato dalla parte interessata per carenza di motivazione.
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CORTE D’APPELLO DI MILANO, Sez. I civile, ordinanza 12 marzo 2013; SODANO
Pres., FIECCONI Est.; Ruggero (avv. Favalli, Tona) c. Advisorfin S.r.l. ora Deloitte
Financial Advisory S.r.l. (avv. Rescigno).
Lodo rituale - Impugnazione per nullità - Applicabilità dell’art. 348-bis c.p.c. Plurime ragioni d’inammissibilità - Esclusione.
Qualora il convenuto con l’impugnazione per nullità del lodo abbia dedotto
fondatamente plurime ragioni di inammissibilità, è impedita, formalmente e letteralmente, la definizione attraverso l’ordinanza prevista dall’art. 348-bis c.p.c.
CENNI DI FATTO. — Con atto di citazione notificato alla parte appellata in data
9 novembre 2012, l’odierno appellante chiede la dichiarazione di nullità del lodo
arbitrale rituale sottoscritto il 16 settembre 2011, come da richieste di cui in atti.
All’appello è seguita la costituzione della parte appellata nei termini rituali
mediante separata comparsa con la quale sono state rassegnate le conclusioni di
cui in atti. Nella comparsa di risposta la parte appellata chiede preliminarmente
che la Corte valuti l’ammissibilità dell’appello ai sensi della nuova disciplina
introdotta con l’art. 348-bis c.p.c. La parte impugnante si oppone deducendo
l’inammissibilità di detta procedura all’impugnazione di lodo arbitrale rituale.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1) La norma di cui all’art. 348-bis c.p.c. dispone
che “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o
l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”,
aggiungendo che “il primo comma non si applica quando: a) l’appello è proposto
relativamente a una delle cause di cui all’articolo 70, primo comma; b) l’appello è
proposto a norma dell’articolo 702-quater”.
2) L’articolo 828 c.p.c. dispone che l’impugnazione per nullità del lodo si
propone davanti alla corte d’appello nel cui distretto ha avuto sede l’arbitrato. La
norma dunque disciplina il principale mezzo di impugnazione esperibile contro il
lodo rituale, ossia l’impugnazione per nullità.
3) Occorre dunque valutare se la richiamata disciplina del filtro dell’appello
sia applicabile al procedimento d’impugnazione di lodo rituale pur in assenza di
una formale esclusione di detta possibilità.
4) La Corte ritiene che, nel caso di specie, prevale la considerazione che
dall’appellato sono state dedotte plurime ragioni d’inammissibilità dell’impugnazione per nullità del lodo che, formalmente e letteralmente, paiono impedire che
la questione sia definita nel merito con ordinanza d’inammissibilità di cui all’art.
348-bis c.p.c., non prevista nel caso di pronuncia d’inammissibilità dell’impugnazione.
P.Q.M. — la Corte d’appello di Milano, sezione prima civile, a scioglimento
della riserva assunta all’udienza del 12 marzo 2013: rigetta l’istanza di pronuncia
d’ordinanza d’inammissibilità dell’impugnazione ex art. 348 bis c.p.c.; ritenendo la
controversia matura per la decisione, rinvia all’udienza del 31.3.2015.
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Sulla applicabilità del filtro all’impugnazione del lodo arbitrale rituale
1. Premessa. — 2. La nuova veste della « inammissibilità ». — 3. Segue: la natura
dell’impugnazione per nullità quale fattore ostativo? — 4. Segue: anche l’impugnazione del lodo arbitrale rituale in Cassazione? — 5. Il precedente storico. — 6.
La prima pronunzia sul tema. — 7. Epilogo.
1. Forse a causa di un difetto di coordinamento, gli artt. 348-bis ed
828 c.p.c. nulla dispongono quanto all’applicazione del nuovo sistema del
filtro (1) al giudizio d’impugnazione per nullità del lodo arbitrale. La
relazione di accompagnamento al d.l. 22 giugno 2012 n. 83, con il quale è
stato introdotto questo nuovo modulo decisorio, si riferisce infatti unicamente all’appello avverso i provvedimenti resi dal giudice di primo grado.
Tutto lascerebbe intendere, quindi, dal giudice statale, escludendo così in
apicibus l’operare del filtro in caso di impugnazione del lodo rituale (2).
Sennonché, il problema sembra annidarsi nel fatto che se è vero che
l’impugnazione per nullità rappresenta un rimedio ordinario sui generis
per censurare i vizi propri di un singolare tipo di provvedimento (3), è
altrettanto vero che si tratta comunque di un giudizio che si celebra
dinanzi alla corte d’appello e al quale si ritengono perciò applicabili,
quanto meno in linea di massima, le regole che debbono osservarsi nel
giudizio di secondo grado. Di qui il (ragionevole) dubbio che l’impugnazione ex artt. 828 ss. c.p.c. non possa essere sottratta a priori alle nuove
regole che disciplinano il giudizio d’appello, ma che, piuttosto, la sua
eventuale incompatibilità con il meccanismo operativo del filtro debba
essere prima vagliata sulla scorta di indici di sistema.
2. Conviene innanzitutto ricordare che la struttura del filtro in
appello prevede, come è a tutti noto, che, fuori dei casi in cui deve essere
dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità, l’appello è
dichiarato inammissibile (con ordinanza succintamente motivata ex art.
348-ter c.p.c.) dal giudice competente quando non ha una ragionevole
probabilità di accoglimento, secondo quanto dispone l’art. 348-bis, comma
1, c.p.c. (4).
(1) Introdotto, attraverso i nuovi artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., dall’art. 54 d.l. 22 giugno
2012, n. 83, recante « Misure urgenti per la crescita del Paese » e convertito (con modificazioni)
nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
(2) Lo nota anche PANZAROLA, Commento all’art. 348-bis c.p.c., in Commentario alle
riforme del processo civile: dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di MARTINO
e PANZAROLA, Torino, 2013, 626, nota 7.
(3) V. per tutti VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato2, Torino, 2006, 163, ove si legge
che quella contemplata dall’art. 829 c.p.c. rappresenta « un’impugnazione processuale sui
generis da modellare secondo la disciplina dell’appello, là dove la stessa sia compatibile con le
peculiarità del rimedio o non sia espressamente derogata ». V. anche infra, testo e note 18 e 22.
(4) Nel giudizio ordinario, peraltro, la disciplina del filtro non trova applicazione, per
espressa previsione, in due ipotesi: 1) quando l’appello è proposto relativamente ad una delle
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Ed è altrettanto noto come il metodo prescelto per selezionare ex ante
— ossia in via preliminare rispetto alla trattazione dell’appello — le
impugnazioni meritevoli di essere trattate e decise celi, in realtà, sotto la
forma di una valutazione di rito un giudizio (prognostico) che attiene
invece al merito dell’impugnazione proposta (5). Quindi, come è stato
prontamente fatto notare dalla dottrina, quel che il nuovo meccanismo
mette in mostra è null’altro che una sovrapposizione del piano dei vizi
formali con quello del merito dell’impugnazione (6), giacché l’oggetto
della discussione non riguarda certamente l’esistenza di un vizio formale
che correda il gravame dalla sua fase genetica o, se si preferisce, la carenza
di un presupposto processuale apprezzabile ai fini del valido esercizio del
potere d’impugnazione (7); viceversa, quel che, dopo i controlli di rito ex
art. 342 c.p.c., assume rilevanza ai fini del superamento del vaglio preventivo ex art. 348-bis c.p.c. concerne esclusivamente la fondatezza, più o
meno manifesta, dell’impugnazione nel merito (8), tale cioè da rendere
necessaria o no la sua decisione (con sentenza) (9).
Ciò premesso — e pare questo un dato da tenere ben presente in
riferimento all’impugnazione per nullità del lodo rituale — per effetto del
cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, a norma dell’art. 70, comma
1, c.p.c.; 2) quando l’appello riguarda cause svolte secondo il rito sommario di cognizione, a
norma degli artt. 702-bis ss. c.p.c. (art. 348-bis, comma 2, c.p.c.). Viceversa, il nuovo meccanismo
ha il suo spazio applicativo nel rito laburistico, come chiaramente dispone l’art. 436-bis c.p.c., e
in quello locatizio, stante l’espresso richiamo che l’art. 447-bis c.p.c. opera all’art. 436-bis,
nonché in caso di appello proposto avverso le sentenze del giudice di pace e di impugnazione
delle sentenze non definitive: v. BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, in
Giusto proc. civ., 2013, 341.
(5) V. per tutti BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 338; BRIGUGLIO, Un approccio
minimalista alle nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in Riv. dir. proc., 2013, 578.
(6) Senza considerare che un giudizio prognostico basato sulla « ragionevole » probabilità di accoglimento del gravame rischia di tradursi, nei fatti, in una « impressione » del
giudicante (così SASSANI, Alla difficile ricerca di un « diritto » per il processo civile, in www.judicium.it), o di sfociare comunque in una pronunzia di inammissibilità allorquando una
probabilità di accoglimento esista, ma al giudice appaia non « ragionevole » (così CAPONI,
Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it, § 6; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 342).
(7) Analogamente a quanto era accaduto, relativamente al filtro nel giudizio di cassazione, con l’introduzione dell’art. 360-bis c.p.c. ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69. Sul
problema v. per tutti GRAZIOSI, Riflessioni in ordine sparso sulla riforma del giudizio in
Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 40 s.
(8) Su questo aspetto la dottrina è compatta: v. MONTELEONE, Appendice di aggiornamento
al manuale di diritto processuale civile, VI ed., Padova, 2012, 3; COSTANTINO, La riforma dell’appello,
in Giusto proc. civ., 2013, 29; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 338; CONSOLO, Nuovi ed
indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di « svaporamento »,
in Corr. giur., 2012, 1135; SCARSELLI, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it., 2012, V, 287
s.; CAVALLINI, Verso una giustizia « processuale »: il tradimento della tradizione, in Riv. dir. proc.,
2013, 325; R. POLI, Il nuovo giudizio di appello, ibid., 132; IMPAGNATIELLO, Pessime nuove in tema
di appello e ricorso in Cassazione, in Giusto proc. civ., 2012, 749; COMASTRI, Note sulla recente
riforma della cassazione e dell’appello, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 702.
(9) Sulle prime applicazioni del filtro in appello, v. le osservazioni di COSTANTINO, in Foro
it., 2013, I, 969; PANZAROLA, Le prime applicazioni del c.d. filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2013,
715 ss.
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nuovo modulo decisorio le inammissibilità che possono colpire l’appello
sono plurime, ancorché endemicamente difformi tra loro. Vi è, infatti,
una (prima) inammissibilità che riguarda il rito e che si sostanzia, a norma
dell’art. 342 c.p.c., nel mancato rispetto dell’assolvimento degli oneri
imposti all’appellante nella redazione dell’atto introduttivo (10) e che, in
ragione di ciò si riallaccia alla carenza, nella fase genetica dell’impugnazione, di caratteri squisitamente formali. Vi è, poi, un altro genere
d’inammissibilità, che è quella che attiene, per l’appunto, ad una previsione di (in)fondatezza nel merito del gravame e che viene dichiarata ai
sensi del nuovo art. 348-bis c.p.c. solo quando non sussistono altre cause
d’inammissibilità, per così dire, più classiche (11). In ragione di questa
profonda divergenza esistente tra le cause che possono oggi condurre alla
chiusura in rito del giudizio d’appello, il legislatore ha diversificato la
forma del provvedimento, disponendo che l’inammissibilità vada dichiarata con sentenza quando l’appello è inficiato da un vizio di formacontenuto e con ordinanza succintamente motivata (e quindi in modo
teoricamente più semplificato) quando non ha una ragionevole probabilità di accoglimento.
È da credere, peraltro, che il diverso statuto normativo trovi la sua
precipua ragion d’essere nella deroga all’effetto sostitutivo tipico della
pronunzia d’appello, con annessa reviviscenza di quella sentenza di primo
grado, che diviene così direttamente ricorribile per cassazione ex art. 360
c.p.c. Ma all’interprete non può sfuggire che, per come la si è congegnata,
la novità è così spuria che neppure è facile trovarle un qualche precedente
cui apparentarla (12).
E se il sistema de quo già si palesa come una tecnica che sporge
rispetto alla normale dinamica del giudizio d’appello (13), farne un mo(10) Sulle modifiche che hanno interessato l’art. 342 c.p.c. e sulla sua « somiglianza » con
l’esperienza del Berufungsbegründung di cui al § 520, Abs. 3º , nn. 1) e 2), ZPO, v. VERDE, Diritto
di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it, § 1; COSTANTINO, Le riforme
dell’appello civile e l’introduzione del « filtro », in www.treccani.it/magazine/diritto, par. 3;
CAPONI, L’appello nel sistema delle impugnazioni civili (note di comparazione anglo-tedesca), in
Riv. dir. proc., 2009, 631 ss.; TEDOLDI, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella
« iconoclastica » del 2012, id., 2013, 149 ss.
(11) In sostanza, per poter essere trattato e deciso, il gravame deve oggi superare un
doppio esame, il cui scopo è, però, profondamente diverso, riguardando l’uno il rito, l’altro il
merito. Sul punto v. diffusamente CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle
commissioni parlamentari, in www.judicium.it, § 4, il quale ben pone in risalto la differenza
strutturale tra i due filtri: mentre per applicare l’art. 348-bis, comma 1, il giudice deve compiere
una attività, seppur minima, di apprezzamento sulla fondatezza dei motivi, nel caso dell’art. 342
è tenuto semplicemente a riscontrare la rispondenza, in concreto, dell’appello rispetto alla
fattispecie legale richiesta dalla disposizione.
(12) V. per tutti CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello, cit.
(13) Giacché, oltretutto, il sistema del filtro presuppone (recte impone) un doppio studio
del fascicolo, tenuto conto che ex art. 348-bis c.p.c. il giudice dell’impugnazione deve dichiarare
l’inammissibilità del gravame privo di ragionevole probabilità di accoglimento prima di intraprenderne la trattazione ex art. 350 c.p.c.: v. MONTELEONE, Il processo civile in mano al governo
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dello che tagli orizzontalmente l’impugnazione per nullità e, per tutta
coerenza, la revocazione del lodo arbitrale rituale finisce per sottendere
una sua qualificazione come regola. Il che, vista la pluralità di ragioni che
militano a favore di una sua lettura in termini di eccezione, è tutto da
verificare, come subito si avrà modo di evidenziare.
3. Un primo fattore che fa stonare l’ipotesi di una operatività del
filtro in relazione all’impugnazione per nullità potrebbe essere ravvisato
nella natura di siffatto giudizio.
Difatti, pur trattandosi di un rimedio (ordinario), l’impugnazione per
nullità del lodo rituale viene solitamente ricostruita dalla dottrina alla
stregua di un’impugnazione di secondo grado a natura mista, per mutuare
i suoi tratti essenziali in parte dal ricorso per cassazione ed in parte
dall’appello (14). Peraltro, la novella del 2006, pur avendo chiarito che al
lodo arbitrale rituale compete, indipendentemente dall’exequatur, la medesima efficacia imperativa che pertiene alla sentenza del giudice statale,
non è stata comunque decisiva per sopire il dibattito relativo alla natura
del rimedio de quo (15).
Tuttavia — ed è questa una notazione condivisa in dottrina —
l’attribuzione all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale di una funzione affine all’appello civile (16), se per un verso finisce col trascurare le
dei tecnici, in www.judicium.it, 2; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 374. Sul grado di
approfondimento che il giudice deve riservare al materiale di causa per valutare la ragionevole
probabilità di accoglimento del gravame, v. MAFFEIS, L’esame, molto approfondito dell’appello,
ai fini del filtro, in Il filtro dell’appello, a cura di MAFFEIS, RAINERI, MANIACI e TEDOLDI, Torino,
2013, spec. 3 ss. Peraltro, come si è prontamente fatto notare, il nuovo congegno processuale fa
sì che la decisione dei gravami meritevoli di accoglimento venga posticipata rispetto a quelli
egualmente ineccepibili in punto di rito, ma che non presentano identiche prospettive di
accoglimento: v. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima « riforma
urgente »: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012),
in www.judicium.it, § 3; PANZAROLA, Commento all’art. 348-bis c.p.c., in Commentario alle
riforme del processo civile, cit., 631; R. POLI, Il nuovo giudizio di appello, cit., 133.
(14) Essendo un’impugnazione sì a motivi limitati, ma che assomma in sé fase rescindente
e fase rescissoria: v. per tutti PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile5, Napoli, rist.
2010, 773 s. V. inoltre CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi3, Padova, 2012, 528,
per il quale l’analogia prevalente è con il ricorso per cassazione. In questo senso, in giurisprudenza, v. Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, in Foro it., Rep. 2007, voce Arbitrato n. 186; Cass. 3
febbraio 2006, n. 2444, id., Rep., 2006, voce cit., n. 183.
(15) Benché, a seguito dell’introduzione dell’art. 824-bis c.p.c., avvenuta per l’appunto ad
opera del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, non dovrebbero più residuare dubbi circa l’inquadramento di tale rimedio tra le impugnazioni processuali. Cfr. CONSOLO, Le impugnazioni delle
sentenze, cit., 528; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005, I, 79 ss.; ID.,
Commento all’art. 828 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Padova,
2010, 454 s., testo e nota 1; MARINUCCI, L’impugnazione del lodo dopo la riforma, Milano, 2009,
4 ss., ove ulteriori indicazioni.
(16) In realtà, su questo punto, la giurisprudenza non è costante. Vi sono, infatti, alcune
pronunzie nelle quali la suprema Corte dà per scontato che debbano applicarsi le regole che
governano il giudizio di secondo grado (cfr., ad es., fra le più recenti, Cass. 4 giugno 2012, n.
8919, in Foro it., Rep., 2012, voce Arbitrato n. 199; Cass. 1º marzo 2012, n. 3229, ibid., voce cit.,
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differenze concretamente sussistenti tra i due rimedi (17), d’altro canto
induce però a ritenere che a siffatto rimedio debbano egualmente applicarsi, ovviamente nei limiti della compatibilità, le regole proprie che
governano il giudizio d’appello (18).
Perciò, nell’attuale cornice normativa di riferimento, l’impugnazione
per nullità del lodo rituale si configura come un rimedio processuale (19);
e, in quanto tale, utilizzabile per censurare tanto gli errores in procedendo
quanto gli errores in iudicando in iure laddove le parti lo abbiano previsto
ex art. 829, comma 3, c.p.c. (20). Di talché, questo rimedio, pur non
costituendo un comune appello avverso la pronunzia degli arbitri, essendo
limitato all’accertamento dei vizi previsti dall’art. 829 c.p.c. dedotti con il
mezzo di gravame (senza cioè rivalutare il merito della decisione), finisce
per essere in qualche misura assimilabile ad un procedimento giurisdizionale nel quale, in difetto di indicazioni contrarie, non possono che valere
le norme processuali ordinarie, ossia le norme dettate per le impugnazioni
delle sentenze (21). Il tutto, però, come più su accennato, rigorosamente
nei limiti della compatibilità con la disciplina specifica delle impugnazioni (22); formula, questa, che il legislatore non a caso utilizza quando due
situazioni, pur avendo la medesima natura, mostrano delle differenze che
orientano selettivamente il novero delle disposizioni in concreto applicabili (23).
L’impugnazione per nullità del lodo, infatti, mima ma non è un
n. 200; Cass. 23 aprile 2008, n. 10576, id., Rep., 2008, voce cit., n. 117; Cass. 10 agosto 2007, n.
17631, id., Rep., 2007, voce cit., n. 190), cui se ne affiancano altre che mettono invece in evidenza
le differenze esistenti fra i due rimedi (v., ad es., Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, cit.; Cass. 3
febbraio 2006, n. 2444, cit.; Cass. 13 aprile 2005, n. 7702, in questa Rivista, 2006, 309, con nota
di G. SANTAGADA, Sulla legittimazione degli arbitri a proporre opposizione di terzo avverso la
sentenza di annullamento del lodo tardivo; Cass. 1º luglio 2004, n. 12031, in Giust. civ., 2005, I,
3098; Cass. 22 febbraio 2002, n. 2566, in questa Rivista, 2002, con nota di BOCCIOLETTI, Note sul
divieto d’impugnazione immediata del lodo parziale).
(17) Differenze che, al contrario, paiono tutt’altro che trascurabili: basti pensare al fatto
che l’impugnazione per nullità è a critica vincolata; che non ammette la censurabilità dei giudizi
di fatto; e che esclude una pronunzia sostitutiva allorquando l’annullamento del lodo sia
avvenuto per le ipotesi di cui ai nn. 1), 2), 3), 4) e 10) dell’art. 829, comma 1, c.p.c. Sul punto
v. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile2, Bari, 2012, III, 344.
(18) V. per tutti PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, II, 180, per il
quale l’impugnazione per nullità, pur non essendo un giudizio di secondo grado, è comunque
soggetta alle norme che regolano lo svolgimento del giudizio dinanzi al giudice adito e, quindi,
indirettamente almeno ad alcune delle regole che disciplinano l’appello.
(19) Sulla correlazione tra la natura dell’impugnazione per nullità e gli effetti che codesto
rimedio tende a rimuovere, v. diffusamente BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, spec.
212 ss.
(20) Cfr. BALENA, Istituzioni, cit., III, 343 s.
(21) V., tra le più recenti, Cass. 1º marzo 2012, n. 3229, in Foro it., Rep. 2012, voce
Arbitrato n. 200.
(22) Oppure con « le residue peculiarità del lodo »: così BALENA, Istituzioni, cit., III, 342.
Nello stesso senso v. BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 580;
BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 197 s.
(23) V. per tutti IRTI, Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, I, 559 ss.
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appello (24): ed il fatto che nel corso del tempo sia stata progressivamente
assimilata ad un vero e proprio gravame, funge da fattore che spiega
l’estensione alla stessa di alcune disposizioni codicistiche previste in
materia di impugnazioni (ad es. artt. 329, comma 2 (25); 331-335 (26); 336,
comma 1 (27); 344 (28)), senza che questo possa però esimere l’interprete
dallo scandagliare le ragioni che fondano la sua esclusione dalla nuova
modalità decisoria del giudizio di secondo grado. Ragioni nelle quali si
radica per l’appunto quel distinguo che giustifica l’esclusione del blocco
delle nuove norme previste per l’appello.
4. Difatti, l’elemento che mostra come proprio non regga l’idea di
ritenere il sistema del filtro applicabile all’impugnazione per nullità è dato,
come si è più su accennato, dalla deroga che quel sistema ha apportato
all’effetto sostitutivo tipico del giudizio di secondo grado. Si è altresì
ricordato che tale deroga si giustifica con la volontà di consentire la
reviviscenza della pronunzia di primo grado, che a seguito del nuovo
modulo decisorio diviene perciò (direttamente) censurabile in sede di
legittimità.
Stando così le cose, ove si ammettesse l’operare del filtro all’impugnazione per nullità, si dovrebbe pure riconoscere che in caso di inammissibilità dichiarata ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. la conseguenza diretta
ed immediata sarebbe quella di dovere considerare il lodo ricorribile per
cassazione. Il che appare però, almeno allo stato attuale delle cose, un
assurdo sistematico per almeno due ordini di motivi.
Il primo.
Di là da ogni querelle relativa alla natura del lodo, quel che in questa
sede preme rilevare è che l’impugnazione per nullità si configura comun(24)
(25)
V., ad es., Cass. 8 giugno 2007, n. 13511, in Foro it., Rep., 2008, voce Arbitrato n. 116.
V. BALENA, Istituzioni, cit., III, 342; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I,
136 s.
(26) Così già ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile2, Napoli, 1947, III, 574,
per il quale in sede di impugnazione per nullità devono applicarsi anche altre disposizioni del
c.p.c., come l’art. 328, sulla decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defunta, e l’art.
338, sugli effetti dell’estinzione del giudizio d’impugnazione.
(27) V. LUISO, Le impugnazioni dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 29; CONSOLO, Le
impugnazioni delle sentenze, cit., 540; RUFFINI, La divisibilità del lodo arbitrale, Padova, 1993,
283 ss.; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, 132 ss. Viceversa, per ZUCCONI GALLI
FONSECA, in Arbitrato2, a cura di CARPI, Bologna, 2007, 792, non v’è la necessità di ricorrere ad
una applicazione analogica dell’art. 336, comma 1, c.p.c., in quanto l’art. 830, comma 1, contiene
già « una regolamentazione specifica dell’effetto espansivo interno della sentenza emessa a
seguito dell’impugnativa per nullità, salva[ndo] dalla scure della nullità le parti « scindibili » da
quella annullata ».
(28) V. FAZZALARI, in BRIGUGLIO - FAZZALARI - MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994, 200 s.; PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 179; RUFFINI,
L’intervento nel giudizio arbitrale, in questa Rivista, 1995, 647 ss.; ID., Intervento principale
del terzo nel giudizio di impugnazione per nullità della sentenza arbitrale, in Giur. merito, 1992,
317 ss.
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que alla stregua di una impugnazione a critica vincolata, atteso che può
essere esperita solo se il vizio da cui risulta inficiato il lodo rientra nella
griglia dei vizi predisposta dall’art. 829 c.p.c. In altre e più semplici parole,
l’art. 829 c.p.c. formalizza una verifica di legittimità del lodo: l’estensione
a questo rimedio del meccanismo del filtro potrebbe perciò avere un senso
se e nella misura in cui la nuova disciplina coniasse un diverso modulo
decisorio, specificamente vocato a sindacare la giustezza in sé del lodo
arbitrale rituale, al pari di come è per l’appello.
Se non fosse che il disposto dell’art. 829 c.p.c. obbedisce ad una ratio
che impinge su motivi di legittimità, rendendo, rebus sic stantibus, del tutto
incoerente una siffatta opzione interpretativa. Per conseguenza, nell’attuale contesto, il filtro avrebbe tutto il sapore di un doppione, carente di
una qualsiasi giustificazione razionale, giacché la nuova veste impugnatoria postula uno schema ancipite avente ad oggetto, paradossalmente, dei
vizi che, almeno in larga parte, risulterebbero sovrapponibili gli uni agli
altri. Naturalmente, si può argomentare anche in senso contrario: ma, per
farlo, come si è puntualmente osservato, occorre muovere dalla premessa
di un art. 348-bis c.p.c. che rende l’impugnazione per nullità del lodo per
certi versi « più agevolmente “filtrabile” » rispetto ad altri gravami (29). Il
che, come si è subito fatto notare, implica, però, il conio di una singolare
impugnazione del lodo dinanzi alla Cassazione; soluzione, questa, come
subito si avrà modo di vedere, che non è certo fuor di luogo bollare come
« extravagante » (30).
A ciò si aggiunga, quale elemento a fortiori, che mentre l’appello è un
gravame avente natura sostitutiva, l’impugnazione per nullità del lodo è,
viceversa, un rimedio di tipo prevalentemente rescindente (31). Di talché,
si ha un’alterità tale tra i due rimedi da non consentire estensioni di sorta
della nuova disciplina all’impugnazione per nullità.
Il secondo.
A questo punto, siccome tout se tient, logica allora vuole — come
appena anticipato — che si ammetta pure una impugnazione del lodo
dinanzi alla suprema Corte per motivi di legittimità; motivi, come si è
appena visto, che risulterebbero peraltro solo in parte sovrapponibili a
quelli contemplati dall’art. 829 c.p.c. Come si è scritto, è questa infatti una
via di fuga obbligata, in quanto prevista dall’art. 348-ter c.p.c. ogniqualvolta il gravame venga dichiarato inammissibile a norma dell’art. 348-bis
c.p.c. (32).
(29) Così BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581.
(30) BRIGUGLIO, op. loc. cit.
(31) Per una completa disamina delle ipotesi nelle quali al giudizio rescindente non segue
quello rescissorio, v. LUISO, Diritto processuale civile6, V, Milano, 2011, 203 s.
(32) V. ancora BRIGUGLIO, op. cit., 581.
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Se, però, come la dottrina non ha mancato di avvertire in relazione
all’appello, la soluzione di una revivivescenza del provvedimento impugnato al fine di consentirne la sua ricorribilità è del tutto inedita nel
panorama processuale italiano (33), a fortiori l’idea di un controllo di
legittimità del lodo in Cassazione appare, almeno nella realtà odierna, una
tecnica difficilmente praticabile. Oltretutto, l’effetto collaterale (ma non
per questo certamente secondario) che discenderebbe da siffatta scelta
sarebbe quello di un aggravio del carico di lavoro della suprema
Corte (34): incremento che quest’ultima, con ogni probabilità, sarebbe ben
poco propensa ad assecondare.
Peraltro, in questo ideale catalogo di perplessità al decampare applicativo dei nuovi artt. 348-bis ss. c.p.c., segue l’ulteriore rilievo che l’estensione della suddetta disciplina non potrebbe fermarsi all’impugnazione
per nullità del lodo arbitrale rituale, ma dovrebbe estendersi anche al caso
della revocazione (straordinaria (35)) del lodo di cui all’art. 831 c.p.c.
Questa infatti, si celebra pur sempre dinanzi alla corte d’appello (competente per l’impugnazione per nullità) (36) e, non foss’altro per una esigenza
di coerenza logica, avrebbe ben poco senso sostenere che il giudizio di
revocazione vada esente dal nuovo modulo decisorio.
Sennonché, proprio per l’alto tasso di vischiosità già insito nel sistema
del filtro, sarebbe consigliabile un self-restraint dell’interprete, onde evitare il moltiplicarsi di inutili concettualismi.
5. Residua l’argomento storico, considerando che nel vigore del c.p.c.
del 1865 il ricorso per cassazione contro le sentenze degli arbitri affette da
errori di diritto era espressamente riconosciuto (art. 31 c.p.c. 1865) (37).
Orbene, il fatto è che la previsione generale dell’art. 31 conosceva tre
eccezioni: due di queste — la rinunzia espressa delle parti ad avvalersi del
ricorso e l’autorizzazione conferita agli arbitri a pronunziare in qualità di
amichevoli compositori — non possono attualmente avere un peso specifico dirimente, mentre la terza — nel caso la sentenza degli arbitri fosse
impugnata con l’azione di nullità, ossia con il rimedio speciale stabilito
(33) V. per tutti MONTELEONE, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit., 2.
(34) Così, a proposito dell’appello civile, v. PROTO PISANI, I processi a cognizione piena in
Italia dal 1940 al 2012, in Foro it., 2012, V, 338; CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la
svolta nelle commissioni parlamentari, cit., § 3; DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova
dell’ennesima « riforma urgente », cit., § 2.1.; IMPAGNATIELLO, Pessime nuove in tema di appello,
cit., 753. Con specifico riferimento all’impugnazione per nullità del lodo rituale v. BRIGUGLIO, Un
approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581.
(35) Sui dubbi di costituzionalità derivanti dall’esclusione della revocazione ordinaria
dall’impugnazione per nullità del lodo rituale v., da ultimo, BOCCAGNA, Commento all’art. 831
c.p.c., in La nuova disciplina, cit., 476.
(36) V. per tutti LUISO, Diritto processuale, cit., 205.
(37) V. per tutti MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano5, rist., I, Torino,
1931, 728 ss.
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dall’art. 32 c.p.c. 1865 (38) — questo peso, viceversa, lo ha e non sembra
neppure trascurabile.
Per effetto dell’attuale art. 829 c.p.c. si è infatti assistito ad una sorta
di « generalizzazione » del rimedio dell’impugnazione per nullità (39), che
senz’altro costituisce oggi lo strumento « specificamente previsto per il
lodo » (40). Perciò, riesumare la ricorribilità in Cassazione del lodo per il
tramite del sistema del filtro avrebbe il significato di contravvenire ad una
regola logica prima ancora che giuridica, in quanto oggetto del giudizio di
legittimità diverrebbe per l’appunto il lodo e non già la sentenza della
corte d’appello senza, peraltro, quell’omisso medio che il codice previgente contemplava (41).
6. Per il vero, neanche sembra tanto probante il riferimento all’ordinanza ambrosiana in epigrafe, a quanto consta l’unica al momento ad
essersi espressa circa l’applicabilità degli artt. 348-bis ss. c.p.c. all’impugnazione del lodo arbitrale rituale. Per quanto, infatti, la genericità
dell’enunciato della corte meneghina, secondo cui i plurimi profili d’inammissibilità dell’impugnazione dedotti dall’appellato « paiono impedire che
la questione sia definita nel merito con ordinanza » (42), si presti a dire che,
almeno in linea generale, non è stata esclusa in radice una possibile
applicazione del filtro anche in materia arbitrale (43), l’impressione è che
l’ordinanza nel suo tenore generale non debba venire enfatizzata. Non
viene infatti affermata una generale applicabilità o, al contrario, un
generico esonero del sistema del filtro all’impugnazione per nullità,
(38) A tenore dell’art. 32 c.p.c. 1865, la sentenza arbitrale, nonostante qualunque
rinunzia, poteva essere impugnata per nullità nelle seguenti ipotesi: 1) qualora fosse stata
pronunziata su un compromesso nullo o scaduto, oppure fuori dei limiti del compromesso; 2)
laddove non avesse pronunziato sopra tutti gli oggetti del compromesso o contenesse disposizioni contraddittorie; 3) quando fosse stata pronunziata da chi non poteva essere nominato
arbitro, oppure da arbitri non autorizzati a decidere in assenza di altri; 4) per inosservanza delle
prescrizioni imposte dagli artt. 21 e 22, relativi ai requisiti di forma-contenuto della sentenza
arbitrale; 5) per inosservanza nel procedimento delle forme richieste nei giudizi a pena di
nullità, ogniqualvolta queste forme fossero state specificamente indicate nell’atto di compromesso.
(39) Per una puntuale disamina storica, anche diacronica, dell’azione di nullità contemplata dal c.p.c. 1865, v. amplius BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, 7 ss.
(40) Così LUISO, Diritto processuale, cit., 205.
(41) Attualmente, infatti, la giurisprudenza di legittimità esclude un diretto apprezzamento della pronuncia arbitrale in Cassazione, potendo esaminare (soltanto) la decisione
emessa nel giudizio di impugnazione: v., ad es., Cass. 12 agosto 2010, n. 18644, in Giust. civ.,
2010, I, 2762; Cass. 8 giugno 2007, n. 13511, in Foro it., Rep. 2007, voce Arbitrato n. 119; Cass.
3 maggio 2007, n. 10209, ibid., voce cit., n. 202; Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, ibid., voce cit., n.
36; Cass. 6 novembre 2006, n. 23670, ibid., voce Contratti pubblici n. 1496.
(42) Così App. Milano, 12 marzo 2013 (ord.).
(43) V. AUTELITANO - UCCELLA, Impugnazione di lodo arbitrale e filtro in appello, in Il
filtro dell’appello, cit., 88.
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quanto piuttosto una soluzione che, in assenza di una formale esclusione
di questa possibilità, senz’altro privilegia il profilo pragmatico (44).
Quel che infatti l’ordinanza in oggetto statuisce è che le varie ragioni
di (tradizionale) inammissibilità dell’impugnazione per nullità del lodo
agiscono, vuoi da un punto di vista formale vuoi da un punto di vista
letterale, da fattore ostativo a che l’impugnazione venga definita nel
merito con ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. Ma è questa una considerazione
che ben si attaglia alla disciplina del filtro in generale, cioè quella inerente
all’appello, e a fortiori non può non valere per l’impugnazione per nullità:
le eventuali cause d’inammissibilità che inficiano il gravame valgono
senz’altro ad escludere l’operare del nuovo art. 348-bis. Peraltro, il tenore
letterale della disposizione è univoco al riguardo, laddove statuisce che il
nuovo modulo decisorio si applica solo allorquando il giudicante non
debba procedere (con sentenza) ad una declaratoria delle ipotesi ordinarie
di inammissibilità e dunque quando il gravame abbia superato, in concreto, tutti i consueti controlli di rito (45). Nulla di più.
Da qui, però, a dedurne che la disciplina del filtro possa estendersi de
plano all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale rituale il passo è
lungo e, probabilmente, neanche auspicabile (46).
7. Come si può notare, la sequenza delle obiezioni all’estensione del
regime del filtro all’impugnazione per nullità del lodo rituale è fitta e
ciascuna sembra avere una valenza sistematica spiccata e, perciò, difficilmente superabile.
A questo punto, il nodo sul quale interrogarsi diviene però un altro.
Per quale ragione, pur in difetto di una espressa previsione in tal
senso, si dovrebbe estendere in via interpretativa il nuovo modulo decisorio all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale rituale? Detto in altro
modo, di là da quelle che potrebbero essere le utilità (poche) e le disutilità
(tante) sottese ad una siffatta estensione, c’è un qualche dato testuale che
potrebbe fungere da addentellato formale?
Ebbene, per quanto prima facie possa sembrare una disposizione
spuria, il pensiero corre senz’altro a quella contenuta nell’art. 48, comma
1, d.l. 83/2012, ove è statuito che, nei giudizi arbitrali per la risoluzione di
controversie relative a lavori pubblici, forniture o servizi, « il lodo è
impugnabile davanti alla Corte d’appello, oltre che per motivi di nullità,
anche per la violazione delle regole di diritto relative al merito della
(44) Così anche AUTELITANO - UCCELLA, op. loc. cit.
(45) V. supra, § 2.
(46) Secondo BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581, ove
si propenda per la soluzione opposta, una trasposizione del controllo di legittimità del lodo in
Cassazione, con le dovute limitazioni, potrebbe giovare all’arbitrato, senza comportare un
sensibile aggravio del carico di lavoro di quest’ultima.
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controversia ». Ovviamente il senso della norma, con la quale si è voluto
generalizzare un regime processuale che già era previsto per le controversie derivanti dalla sola esecuzione dei su citati contratti (art. 5 d. lgs. 20
marzo 2010, n. 53), non andrebbe enfatizzato. Pur tuttavia, è innegabile
che l’art. 48 d.l. 83/2012 ha finito con l’ampliare il raggio delle ipotesi per
le quali è consentito rivolgersi alla corte d’appello, coniando, accanto al
catalogo dei motivi di nullità, una seconda classe di casi — le regole di
diritto relative al merito della controversia — per così dire a compasso
allargato (47). E, in quest’ottica, la disposizione, nella misura in cui attribuisce al giudice ad quem la possibilità di un riesame a maglie più larghe
rispetto a quella tipica dei lodi rituali, potrebbe indurre a pensare che non
sia del tutto peregrino estendere il modulo decisorio di cui all’art. 348-bis
c.p.c. all’impugnazione di questa categoria di lodi.
Quale sia l’effetto, però, è evidente: in un ventaglio di situazioni si
finirebbe per assistere ad una sostanziale equivalenza tra sentenza di
primo grado e lodo, che poi non potrebbe non determinare a sua volta una
parità di trattamento anche sul regime processuale della relativa impugnazione.
Dopo di che, viene facile domandarsi: per quale ragione, trattandosi
di provvedimenti pressoché isoformi, il filtro dovrebbe valere per la prima
ma non anche per il secondo? Indubbiamente, pensare che il sistema del
filtro possa operare per l’impugnazione del lodo sui contratti aventi ad
oggetto lavori pubblici, non invece ad es. per quella avverso un lodo reso
dall’arbitro unico in tema di validità delle delibere assembleari di società
di capitali (48) è — a dir poco — sorprendente. Certo, la possibilità di
estendere il sindacato sugli errori di giudizio commessi dagli arbitri non è
di per sé sinonimo di una perfetta assimilazione dell’impugnazione per
(47) Difatti, ai sensi dell’art. 48, comma 2, d.l. 83/2012, « la disposizione di cui al comma
1 si applica anche ai giudizi arbitrali per i quali non sia scaduto il termine per l’impugnazione
davanti alla Corte d’appello alla data di entrata in vigore del presente decreto ». Quindi, una
applicazione immediata della disposizione, che finisce con il rendere l’interrogativo sollevato nel
testo ancora più stringente.
(48) Proprio come nel caso sottoposto all’attenzione della corte d’appello di Milano.
Peraltro, in materia di arbitrato societario, l’art. 36 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 — da
considerarsi tutt’ora vigente in quanto lex specialis, destinata perciò a sopravvivere pur a seguito
dell’abrogazione del rito societario ad opera della l. 69/2009 (v. CONSOLO, Spiegazioni di diritto
processuale civile2, Torino, 2012, II, 183) — dispone che l’impugnativa delle delibere assembleari può essere sempre devoluta alla cognizione degli arbitri, i quali, indipendentemente da ogni
contraria pattuizione delle parti, devono decidere secondo diritto e con lodo impugnabile anche
per violazione di legge. In argomento v. BOCCAGNA, Commento all’art. 36, in Commentario breve
al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO E RADICATI
DI BROZOLO, Padova, 2010, 418 ss.; MAJORANO, Commento all’art. 36, in I procedimenti in materia
commerciale, a cura di COSTANTINO, Padova, 2005, 803 s.; AUTELITANO - UCCELLA, Impugnazione
di lodo arbitrale, cit., 90, per i quali disposizioni come quella dell’art. 36 d. lgs. 5/2003, volte a
garantire un’ampia e completa possibilità di riesame da parte del giudice dell’impugnazione,
risulterebbero oggi incompatibili con una decisione di merito sommaria.
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nullità all’appello (49). Però, il dubbio che l’art. 48, comma 1, si presti, in
qualche maniera, ad intorbidire la questione, persiste.
E tuttavia, a quale funzione può mai rispondere una estensione
all’impugnazione per nullità del lodo quel che già per l’appello ordinario
sembra scaturito dalla Zauberkiste del legislatore? L’impressione, allora, è
che, allo stato, il quesito rimanga insolubile. Sarà probabilmente la prassi
ad orientare per il futuro il ragionamento dell’interprete.
SIMONA CAPORUSSO
(49) Soprattutto se tiene conto del fatto che l’impugnazione per nullità per violazione
delle regole di diritto relative al merito è sempre ammessa nelle controversie di lavoro ex art.
409 c.p.c. (art. 829, comma 4, n. 1) c.p.c.).
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Aponte Pres., Di Nanni, Rascio), nella controversia tra
Società X s.n.c. e Comune Y; lodo reso in Napoli il 20 giugno 2013.
Arbitrato - Parziale versamento anticipato spese prevedibili - Versamento anticipato del compenso del segretario del Collegio oltre il termine fissato dagli
arbitri - Conseguenze.
Il versamento anticipato ad opera delle parti entro il termine fissato dagli arbitri
dei soli esborsi a carico del segretario del Collegio arbitrale per far fronte - in
esecuzione del suo incarico - a pagamenti per bolli, notifiche etc. deve considerarsi
parzialmente satisfattivo delle spese « di segreteria » e non può, quindi, ritenersi
idoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori prescritti dall’art. 816-septies c.p.c.
Costituisce un dato pacifico nella giurisprudenza di legittimità, che nell’ambito
delle cosiddette « spese prevedibili » rientra anche la remunerazione al segretario per
la prestazione della sua attività, ritenuta necessaria dagli arbitri per la realizzazione
del processo arbitrale.
Nessun effetto sanante può essere conferito al tardivo pagamento effettuato
dalle parti a titolo di acconto sul compenso del segretario del collegio arbitrale, non
essendo i contraddittori più vincolati alla convenzione di arbitrato dal dì della
scadenza del termine fissato dagli arbitri per il versamento anticipato delle spese
prevedibili.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 14. Il presente procedimento è
stato introdotto (...) dalla s.n.c. X con rito arbitrale, in applicazione della clausola
compromissoria contenuta nell’art. 8 del contratto stipulato in data 03/07/2006
(rep. 963/1) — ai sensi dell’art. 45-bis del codice della navigazione — tra il Comune
Y e la Società X s.n.c. Clausola il cui testo così di seguito recita: « ogni controversia
che potesse insorgere tra le parti in ordine alla esecuzione, interpretazione, validità
ed efficacia del presente contratto, dovrà essere risolta mediante giudizio arbitrale,
affidato a tre arbitri di cui i primi due nominati da ciascuna delle parti ed il terzo con
funzioni di Presidente, scelto di comune consenso entro il termine di 15 giorni dalla
notifica dell’atto di ingresso arbitrale che una parte farà all’altra; in mancanza o in
caso di disaccordo, il terzo arbitro verrà designato dal Presidente del Tribunale di
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Ischia. Gli Arbitri decideranno la controversia in maniera irrituale e secondo equità,
con pronuncia inappellabile ».
15. L’ufficio Arbitrale si è ritualmente costituito secondo le regole previste
nella citata clausola compromissoria, ponendo in essere attività procedimentali in
formale osservanza delle disposizioni di cui agli art. 813, 816, 816-bis 1º e 3º comma
c.p.c. come dianzi riferito.
Gli Arbitri — nominati rispettivamente dalla Società attrice e dal convenuto
Comune nelle persone del Prof. Avv. Carlo Di Nanni e del Prof. Avv. Nicola
Rascio, nonché dal Presidente del Tribunale di Napoli nella persona dell’Avv.
Aldo Aponte — accettate le rispettive nomine in data 26/02/2013, si sono contestualmente costituiti in Collegio procedendo quindi: alla designazione della sede
arbitrale; all’impianto dell’ufficio di segreteria; all’assegnazione dei termini per lo
svolgimento del contraddittorio; alla fissazione dell’udienza di comparizione delle
parti ai fini del tentativo di bonario componimento della lite e, in caso di esito
negativo di tale esperimento, per la trattazione e per l’eventuale discussione orale.
16. Il procedimento si è svolto nel rispetto delle regole sancite dalla legge
processuale.
Va ricordato che l’art. 816-bis attribuisce agli arbitri il potere di regolare lo
svolgimento della procedura nella quale sono chiamati a decidere, laddove —
come nella fattispecie di che trattasi — le parti non abbiano stabilito nella
convenzione arbitrale o anteriormente all’inizio del giudizio, con atto scritto, le
regole del procedimento. L’unico limite a tale potestà consiste — come categoricamente sancito nell’ultima parte del comma 1 di detto articolo — che, in ogni
caso, deve essere garantito l’esercizio del contraddittorio, con concessione alle
parti di ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa.
Nel caso concreto, tali criteri sono stati puntualmente osservati dal Collegio
che, subito dopo essersi costituito, con le modalità innanzi indicate, con suoi
provvedimenti dispose — ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio tra
le parti — regole da seguire nel corso della procedura con cadenze temporali, tali
da consentire alle parti stesse: di esporre i rispettivi assunti; di conoscere le prove
documentali prodotte da ciascuna di esse; di presentare memorie, repliche e di
venire a cognizione, in tempo utile, di istanze e richieste avverse.
17. Pregiudizialmente richiamando quanto evidenziato nel verbale di causa
del 30 aprile 2013, in merito agli adempimenti richiesti alle parti per acconti sui
compensi agli Arbitri e sulle spese da affrontare nel corso del giudizio — così come
contemplato nelle citate ordinanze nn. 1 e 2, non compiutamente eseguite dai
contraddittori entro i termini ivi fissati — il Collegio deve farsi carico di decidere
sulla proseguibilità o meno del presente processo, rispondendo su tale punto,
anche alle eccezioni formulate in proposito dal convenuto.
17.1. Occorre premettere che non può trovare accoglimento la richiesta
della Società attrice (avanzata, per la prima volta, nel corso della udienza del
30/04/2013), e finalizzata ad ottenere proroga di ulteriori giorni quindici del
termine — già scaduto il precedente 22 aprile — per consentirle di provvedere al
pagamento dell’acconto per la remunerazione dell’opera professionale affidata
dagli Arbitri all’Avv. Farina, in qualità di Segretario.
Resta preclusa, ben vero, ai sensi dell’art. 154 c.p.c., la invocata prorogabilità,
subordinata al mancato decorso del termine ordinatorio, già precedentemente
fissato.
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Presupposto di prorogabilità carente nella specie, poiché l’istanza in parola
seguì di otto giorni la intervenuta scadenza della data già precedentemente fissata
dal Collegio con l’ordinanza n. 2 del 27/03/2013.
Né vale comunque opporre (come esplicitato dalla difesa della Società nella
stessa udienza del 30/04) che quella data del 22 aprile non integrava « un termine
decadenziale per ottemperare al pagamento dei compensi e delle spese di segreteria ».
Costituisce regola del nostro sistema giuridico il principio secondo cui alla
decadenza legale resti affiancata (oltre quella negoziale) la decadenza giudiziale
che, in casi determinati, la legge consente al giudice di stabilire. Evenienza
quest’ultima sussistente nella fattispecie in esame, caratterizzata da fissazione di un
previsto termine da parte degli Arbitri con l’ordinanza n. 2, ove venne fatto
specifico richiamo agli effetti che, in caso di inottemperanza ai prescritti adempimenti ivi indicati, si sarebbero verificati ai sensi dell’art. 816-septies c.p.c. (in linea
con il disposto del 1º comma dell’art. 152 c.p.c.).
18. Tanto premesso, passando ad esaminare le articolate difese dei partecipi
al giudizio sulla prospettata questione di proseguibilità del processo, devesi
rilevare che nel dibattito, seguito alla concessione di termini per la redazione di
memorie difensive e di replica sull’argomento — ai fini dell’osservanza delle regole
sul contraddittorio — le parti sono pervenute a discordanti conclusioni.
18.1. Nella memoria depositata il 13/05/2013, i legali del Comune (...)
sostengono: che, non essendo stato adempiuto — entro i tempi fissati nelle
ordinanze collegiali — all’integrale pagamento degli acconti per spese, si sarebbe
verificata — al di là di ogni ragionevole dubbio — l’estinzione dell’accordo
compromissorio che aveva dato origine al procedimento arbitrale di che trattasi. A
tal riguardo non dovendo trascurarsi di considerare che, in base a precise regole di
diritto, la remunerazione per il lavoro commissionato al Segretario (« per la
redazione degli atti e dei verbali del giudizio, per la custodia degli stessi, per le
comunicazioni e notificazioni alle parti ed ai loro procuratori, per le attestazioni
relative al deposito ed allo scambio delle produzioni etc. ») integra a tutti gli effetti
« spesa », non identificabile né rientrante nei « compensi e negli onorari spettanti
agli arbitri ».
19. La difesa della Società (...), di contro, nella memoria depositata il
successivo 15/05/2013, oppone:
— che il convenuto Comune — sollecitato con l’ordinanza n. 2, al pagamento
degli acconti per compensi e spese, come specificato nell’ordinanza n. 1 — era
rimasto del tutto inadempiente, onde la propria cliente aveva provveduto a pagare,
entro il termine assegnato dagli Arbitri, le spese vive di segreteria nella misura di
euro 500,00, così come testualmente indicato nei provvedimenti collegiali;
— che tale cifra per « spese » di segreteria trovava riscontro nell’enunciato
degli Arbitri, riferibile — secondo il suo testuale tenore — ai soli esborsi incombenti sul Segretario per « notifiche, bolli sull’emanando lodo in duplice copia etc. »;
— che sulla base di una tale interpretazione letterale del provvedimento,
doveva considerarsi superato ogni problema in discussione sulla proseguibilità del
procedimento, non potendo annoverarsi tra le « spese », indicate nel dettato della
richiamata norma processuale sulla disciplina del procedimento arbitrale, anche i
« compensi » spettanti ai componenti dell’ufficio Arbitrale, compreso il Segretario
nominato dagli Arbitri;
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— che, ad ogni buon fine, nel medesimo giorno del deposito di quella
memoria (15/05/2013), la Società (...) aveva accreditato sul conto corrente del
Segretario Avv. Farina altro bonifico per un ammontare di euro 2.116,80 a titolo
di anticipo « compenso » (in conformità delle menzionate ordinanze arbitrali) con
i correlativi oneri fiscali;
— che essa Società si riservava di corrispondere ulteriori versamenti per
anticipazioni sui compensi agli Arbitri (così come, poi, eseguito in data 30/05/2013
a mezzo assegni circolari).
20. Prendendo atto di quanto precede, il Collegio, come sopra costituito, a
maggioranza dei suoi componenti — stante il dissenso dell’Arbitro Prof. Avv.
Carlo Di Nanni, come di seguito motivato con nota aggiunta al presente Lodo —
ritiene di non poter condividere il ragionamento dianzi sviluppato dalla società
attrice.
Nella trattazione che segue sull’argomento in esame deve intendersi perciò
sottintesa la citata locuzione « maggioritaria » in aggiunta alla voce « Collegio »,
correlata alla composizione numerica di quest’Organo decidente.
Ciò posto, mette conto rilevare, sulla scorta delle precedenti esposizioni, che
entro il citato termine stabilito da questi Arbitri nella ordinanza n. 1, la parte
istante — per difficoltà economiche rappresentate dal suo difensore con lettera
raccomandata (a mano) del 27/03/2013 — non potette ottemperare (neppure
parzialmente) alla corresponsione degli acconti sui compensi e sulle spese di
segreteria (comprensive queste ultime — come di seguito sarà precisato — della
remunerazione al Segretario). Cosicché questi Arbitri, in pari data 27 marzo, con
ordinanza n. 2, stante la regola della solidarietà delle parti sull’obbligo al pagamento delle spese e degli onorari ex art. 814 c.p.c., posero a carico del convenuto
Comune di far fronte all’adempimento in discorso, in sostituzione della controparte. All’uopo provvedendo con l’ordinanza n. 2: con fissazione di un nuovo
termine al 22/04/2013 per assolvere a tale incombente; subordinando la prosecuzione del processo alla puntuale osservanza di tale prescrizione, « fermo restando
l’effetto automatico previsto dall’ultimo comma dell’art. 816-septies c.p.c. » qualora
(...) non si fosse « ottemperato a detta anticipazione da alcuna di dette parti ».
Alla scadenza fissata, con quest’ultimo provvedimento, il Comune Y è
rimasto inadempiente, mentre la Società X si è limitata a corrispondere all’Avv.
Farina la somma di euro 500,00, prevista sia pur esplicitamente nell’ordinanza n.
1 per « spese », palesemente però riferibili — ad avviso di questo Collegio — ai soli
esborsi a carico di esso Segretario per far fronte — in esecuzione del suo incarico
— a pagamenti per bolli, notifiche etc. (come riconosciuto dalla stessa parte istante
nella citata memoria difensiva del 15 maggio).
Tale adempimento della società attrice deve considerarsi parzialmente satisfattivo delle spese « di segreteria » e non può, quindi, ritenersi idoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori prescritti dalla ripetuta norma processuale in tema di
arbitrato.
Costituisce un dato pacifico nella giurisprudenza di legittimità, che nell’ambito delle cosiddette « spese prevedibili » rientra anche la remunerazione al Segretario per la prestazione della sua attività, ritenuta necessaria dagli Arbitri per la
realizzazione del processo arbitrale.
È questo un principio ripetutamente affermato dalla Suprema Corte (Cass.
nn. 14182/2004; 10141/2004), secondo cui nell’arbitrato convenzionale il Segretario
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del Collegio Arbitrale è direttamente nominato dai componenti del Collegio
medesimo, in ragione di una loro soggettiva valutazione sulla necessità di avvalersi
di un ausiliario per l’espletamento delle attività certificativa, esecutiva ed organizzativa, funzionalmente collegate con quelle del Collegio; sicché è con costoro che
si instaura un rapporto di prestazione d’opera intellettuale del tutto estraneo alle
parti litiganti. In quest’ottica, il compenso dovuto al Segretario deve essere
inquadrato quale passività correlata allo svolgimento dell’attività degli arbitri e va
riconosciuto quale esborso di « spesa » affrontato o da affrontare dai componenti
del Collegio per il funzionamento dell’Ufficio Arbitrale e, quindi, per lo svolgimento del processo.
Una spesa, quindi, inquadrabile tra quelle « prevedibili », discendenti dal
lavoro di segreteria svolto in forza di un rapporto di prestazione d’opera estraneo
alle parti litiganti. Talché gli unici soggetti contrattualmente obbligati alla remunerazione nei confronti del Segretario sono gli Arbitri, con esposizione di « spesa »
a loro carico, che va anticipata o rimborsata dalle parti in causa e che va, quindi,
riconosciuta tra quelle di cui all’enunciato dettato dell’art. 816-septies c.p.c.
Principi questi di diritto e di giurisprudenza di legittimità, che non potevano
essere ignorati dalle parti in causa, assistite da legali di indiscussa competenza
professionale e di cospicua esperienza giudiziaria.
Nella fattispecie in esame, pertanto, non avendo esse parti adempiuto —
entro il termine del 22/04/2013, fissato con l’ordinanza n. 2 — al pagamento della
prevista spesa per la remunerazione dell’opera commessa al Segretario Avv.
Farina, è da quella data che deve intendersi divenuto improseguibile (ai sensi del
citato art. 816-septies) il procedimento arbitrale, non essendo più vincolate le
medesime alla convenzione trasfusa nella clausola compromissoria richiamata
nell’atto di accesso alla controversia, oggetto del presente procedimento.
Né alcun effetto sanante può essere conferito al tardivo pagamento effettuato
il 13/05/2013 dalla Società X all’Avv. Farina a titolo di acconto sul suo compenso,
non essendo più vincolati essi contraddittori alla convenzione di arbitrato dal dì
della scadenza del detto termine al 22/04/2013. (Omissis).
Alcune riflessioni in merito all’art. 816-septies c.p.c.
1. La decisione in esame è particolarmente importante perché rappresenta una delle prime pronunce in ordine alla portata, operatività ed
effetti dell’art. 816-septies c.p.c.
Sebbene rimasto in ombra nella decisione che si annota, attenta a
dichiarare l’improcedibilità del giudizio per il venire meno del vincolo
compromissorio delle parti, si ritiene di dover fin da subito evidenziare
come la norma, inserita nel codice di rito dalla novella del 2006, si ponga
l’obiettivo di risolvere due differenti questioni di ordine pratico: quella
della legittimità della rinuncia degli arbitri all’incarico, nonché quella
dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, perseguita attraverso
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la previsione di una nuova ipotesi di cessazione dell’efficacia dell’accordo
arbitrale (1).
Segnatamente, l’art. 816-septies c.p.c. è strutturato in modo tale da
consentire l’effetto finale ovvero la liberazione delle parti dal vincolo
compromissorio al verificarsi di determinati presupposti quali, in particolare, la subordinazione ad opera degli arbitri della prosecuzione del
procedimento al versamento anticipato delle « spese prevedibili », la loro
determinazione « salvo diverso accordo » del « la misura dell’anticipazione
a carico di ciascuna parte », nonché l’assenza, nel caso in cui la parte
onerata non presti « l’anticipazione richiestale », dell’operare della solidarietà dell’altra parte diretta ad « anticipare la totalità delle spese ».
Vediamo dunque innanzitutto se, nel caso presentatosi all’attenzione
della decisione del Collegio arbitrale che si annota, si siano verificati gli
indicati presupposti di applicazione della disposizione in oggetto (2).
2. In estrema sintesi, la questione di fatto si articola nei seguenti
termini. In applicazione della clausola compromissoria contenuta nel
contratto intercorso tra un Comune ed una Società in nome collettivo si
costituiva, in seguito all’accettazione della nomina, Collegio arbitrale che,
dopo aver nominato il segretario, provvedeva a pronunciare un’ordinanza
per ottenere l’anticipazione delle spese nonché dei compensi di arbitri e
segretario. Il mancato totale versamento nel termine stabilito dagli arbitri
dei compensi e delle spese di procedura induceva il Collegio ad affrontare
la questione relativa alla prosecuzione del giudizio.
Più in particolare, il Tribunale arbitrale, dopo aver pronunciato una
prima ordinanza con cui disponeva la totalità delle anticipazioni a carico
della Società, stante il suo inadempimento, ne pronunciava una seconda
con cui, fissando il termine di adempimento, segnalava alle parti le
conseguenze previste dall’art. 816-septies c.p.c. discendenti dalla mancata
erogazione anticipata delle spese prevedibili.
Allo scadere del termine previsto dagli arbitri nella seconda ordinanza, la Società versava la somma corrispondente ai soli esborsi a carico
del segretario, ma non al suo compenso, per il cui pagamento chiedeva,
alla successiva udienza, ulteriore termine, provvedendo al saldo in un
momento successivo ancorché anteriore alla pronuncia del lodo.
Da quanto esposto appare chiaramente la presenza nel caso in esame
dei presupposti di applicazione dell’art. 816-septies c.p.c. Ed infatti, men(1) Invero, l’inefficacia della convenzione di arbitrato, ex art. 816-septies, ultimo comma,
c.p.c., come espressamente statuito, riguarda non già le ulteriori eventuali liti future, quanto
piuttosto solamente la singola controversia che ha dato origine al procedimento in cui il
versamento delle anticipazioni non è stato regolarmente eseguito.
(2) Tale evento è stato messo in dubbio dalla nota di dissenso aggiunta al lodo che si
commenta, pronunciato non già all’unanimità, ma a maggioranza dei membri del Collegio.
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tre il richiamo nella seconda ordinanza alla disposizione di cui all’art.
816-septies c.p.c. è indubbiamente idoneo a manifestare la volontà degli
arbitri di subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento
anticipato delle spese prevedibili, la loro ripartizione tra le parti è correttamente prevista nella prima ordinanza del Collegio.
Se dalla previsione normativa della possibilità di diverso accordo dei
compromittenti, della determinazione, ad opera degli arbitri, della misura
dell’anticipazione, gravante su ciascuna parte, nonché della facoltà concessa alla controparte di chi non ha prestato l’anticipazione richiesta di
pagare la totalità delle spese prevedibili, si può, infatti, chiaramente
evincere come questa, a differenza dell’adempimento dell’obbligazione di
pagamento del compenso degli arbitri, non sostanzi un’obbligazione solidale, quanto piuttosto un’obbligazione parziaria, ciò non significa, però,
anche che la distribuzione pro-quota debba avvenire in parti uguali,
potendo gli arbitri — come nel caso in esame — anche disporre a carico
di uno solo dei contendenti l’intero versamento delle anticipazioni. Ciò,
purché ovviamente sia rispettato il criterio di ragionevolezza (3), non
necessariamente assente — come invece, pur in assenza di specifici rilievi
evidenziato nella nota di dissenso aggiunta al lodo — nel provvisorio
accollo in capo ad uno solo dei contendenti della totalità delle anticipazioni.
Inoltre, il versamento ad opera delle parti, nel termine indicato dagli
arbitri, dei soli esborsi a carico del segretario veniva considerato dal
Collegio parzialmente satisfattivo delle spese processuali e conseguentemente inidoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori dell’art. 816-septies
c.p.c., in quanto l’attuazione dell’arbitrato era di fatto resa impossibile dal
mancato funzionamento della solidarietà tra le parti in relazione al versamento anticipato dei costi della giustizia privata.
3. Il Collegio ha, dunque, nel caso in esame affrontato la questione,
centrale nell’interpretazione dell’art. 816-septies c.p.c., relativa all’individuazione dell’oggetto dell’anticipazione, posto che la norma espressamente si riferisce alle « spese prevedibili ».
Nel vigore della previgente disciplina, pur in assenza di una disposizione analoga all’art. 816-septies c.p.c., se solida era la prassi (4) secondo
(3) Sulla ragionevolezza della distribuzione tra le parti del peso delle anticipazioni v.
MALAVASI, Il procedimento arbitrale, a cura di BONELLI EREDE PAPPALARDO, Milano, 2012, 100.
(4) V.: BRIGUGLIO-FAZZALARI-MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario,
Milano, 1994, 80; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 403; VERDE, Diritto dell’arbitrato
rituale, in AA.VV. a cura di VERDE, Torino, 1997, 90. Da ultimo ricordano questa prassi
COMASTRI-MOTTO, Sub art. 816-septies c.p.c., in AA. VV. La nuova disciplina dell’arbitrato, a
cura MENCHINI, Padova, 2010, 273.
Contra LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano, 1995, 62, secondo cui gli
arbitri avrebbero diritto al rimborso delle spese, così come al compenso, solo al momento della
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cui — salvo diversa volontà o usi contrari — agli arbitri spettasse il diritto
di ottenere l’anticipazione delle spese il cui mancato versamento si riteneva rappresentare, ex art. 813, comma 2, c.p.c., un giustificato motivo di
rinuncia all’incarico, diverse erano le opinioni espresse in ordine alla
legittimità della loro rinuncia nel caso di mancato versamento anticipato
degli onorari (5).
Sebbene l’art. 816-septies c.p.c., riprendendo l’orientamento maggioritario della dottrina ed invalso nella prassi, abbia fugato ogni dubbio in
ordine alla legittimità della rinuncia degli arbitri che non abbiano, nel
termine indicato, ottenuto il versamento anticipato delle spese da sostenere per l’esecuzione dell’incarico conferitogli (6), nulla ha invece espressamente statuito in merito alla legittimità della loro rinuncia nel caso in cui
le parti si siano astenute dal pagargli anticipatamente gli onorari (7).
In proposito si sono, pertanto, consolidati diversi orientamenti (8). Ed
infatti, accanto a quanti (9) ritengono che gli arbitri possano subordinare
conclusione dell’attività. Per la legittimità della rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di
mancata corresponsione degli acconti v. in giurisprudenza: Cass., 21 marzo 1969, n. 899, in Foro
it. Rep., 1969, voce Arbitrato, 93.
(5) Invero alla base dei diversi orientamenti della dottrina in ordine alla legittima
rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di mancato versamento anticipato degli onorari si
poneva il diverso inquadramento del contratto parti-arbitri in termini di contratto di mandato
o locatio operis. Più in particolare, se una parte della dottrina (RIVA SANSEVERINO, Sub art. 2234
c.c., in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1963, 238;
CAMPAGNOLA, Il compenso degli arbitri nella più recente giurisprudenza: qualificazione giuridica
e quantificazione, in questa Rivista, 1993, 550 ss., spec. 555; ORLANDI, Diritti degli arbitri, in
Commentario Arbitrato, a cura di F. CARPI, Bologna, 2000, 193), inquadrando il contratto
parti-arbitri nel contratto di mandato, mentre, ex art. 1719 c.c., non aveva nessun problema a
riconoscere legittima la rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di mancata anticipazione delle
spese vive, ponendosi, invece, qualche dubbio solo in relazione all’omesso versamento anticipato dell’onorario, una diversa opinione riteneva di contro legittima la rinuncia anche in tale
ultima ipotesi. Così BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Bari, 1998, 65, nonché in giurisprudenza
Cass., 21 marzo 1969, n. 899, che, inquadrando il contratto parti-arbitri nella locatio operis,
riconoscevano, stante l’applicazione dell’art. 2234 c.c., al prestatore d’opera il diritto di ottenere
l’anticipazione non solo delle spese occorrenti al compimento dell’opera, ma anche della
corresponsione, secondo gli usi, degli acconti sul compenso, ammettendone, in caso d’inadempimento del cliente, la legittima rinuncia all’incarico.
(6) Occorre peraltro sottolineare come il problema in ordine alla legittimità della
rinuncia degli arbitri per mancata anticipazione del compenso si presentasse solo in riferimento
all’arbitrato ad hoc, dal momento che la quasi totalità dei regolamenti delle Camere arbitrali,
già prima della novella del 2006, prevedeva, a maggior garanzia del diritto di credito dell’Istituzione e degli arbitri, che il mancato deposito, ad opera delle parti, delle somme richieste come
anticipo rappresentasse un giusto motivo di sospensione del termine per la pronuncia del lodo
ovvero d’interruzione della stessa procedura arbitrale.
(7) In verità nella relazione illustrativa alla riforma del codice di rito in materia di
arbitrato si è espressamente previsto come la disposizione di cui all’art. 816-septies c.p.c. si
riferisca solo all’anticipazione delle spese e non anche degli onorari spettanti agli arbitri.
(8) L’incertezza circa il contenuto delle anticipazioni costituisce, invero, una problematica di notevole rilievo, posto che l’assenza di un giustificato motivo di rinuncia all’incarico
espone gli arbitri all’azione di responsabilità di cui all’art. 813-ter c.p.c.
(9) In tal senso v.: VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, II ed., Torino, 2006, 83;
RAMPAZZI, Commento breve al codice di procedura civile, a cura di CARPI-TARUFFO, Padova, 2006,
2204; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2013, 94.
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la prosecuzione del procedimento non solo al versamento delle spese, ma
anche dell’acconto sugli onorari, si è posta l’opinione di chi (10), non
avendo gli arbitri, per la determinazione degli onorari, alcun potere di
vincolare i contendenti (11), posto che, ex art. 814, comma 2, c.p.c., la loro
liquidazione « non è vincolante per le parti se esse non l’accettano », allo
stesso modo ritiene che questi non avrebbero il potere di rinunciare
all’incarico in seguito all’omesso versamento delle anticipazioni sui compensi unilateralmente predisposti (12).
In altri e più precisi termini, secondo l’interpretazione da ultimo
proposta la distinzione tra spese e compensi sarebbe rinvenibile nello
stesso art. 814 c.p.c. che, riconoscendo agli arbitri il diritto al rimborso
delle spese ed al pagamento dell’onorario per l’opera prestata, implicitamente contrapporrebbe la remunerazione della prestazione intellettuale,
vincolante per le parti solo ove accettata, al rimborso delle spese materialmente sostenute, a cui queste sarebbero sempre, a prescindere da
esplicita accettazione, obbligate.
Di tale ultimo avviso sembra essere anche la decisione in commento
che, sebbene nulla esprima in ordine al rapporto parti-arbitri, ricollega,
invece, le conseguenze sanzionatorie dell’art. 816-septies, ultimo comma,
c.p.c. alla mancata corresponsione delle sole spese prevedibili necessarie
al funzionamento dell’arbitrato, ricomprendendo tra queste però anche il
compenso spettante al segretario del Collegio (13).
4. Più in particolare nella decisione che si annota si specifica che
nell’arbitrato ad hoc il segretario, lungi dall’essere normativamente previsto (14), origina da una prassi applicativa che ne ammette la nomina
(10) Cfr. LUISO, in LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006, 295; G.F.
RICCI, Anticipazione delle spese, in Arbitrato Commentario, diretto da CARPI, Bologna, 2007, 464.
(11) In tal senso v. per tutti Cass., 23 giugno 2008, n. 17034, in Giust. civ. Mass., 2008, 6,
1011, secondo cui « l’art. 814 c.p.c. configura un meccanismo contrattuale di determinazione del
compenso spettante agli arbitri, scandito dall’autoliquidazione, effettuata dagli stessi arbitri,
avente valore di proposta contrattuale che, per vincolare le parti del giudizio, deve da queste essere
accettata e che non è revocabile liberamente dai proponenti, ma rimane ferma sinché, in difetto di
accettazione, ad essa succeda la determinazione giudiziale su richiesta degli stessi arbitri, onde
acquisire un titolo (non contrattuale ma) giurisdizionale e quindi imperativo ed esecutivo ».
(12) Invero, ci si chiede se la presenza di un accordo sui compensi tra arbitri e parti
potrebbe comportare un superamento dell’indicata ricostruzione, posto che, in tal caso, le parti
sarebbero contrattualmente vincolate al pagamento del compenso che, liquidato in via pattizia,
non dovrebbe essere oggetto di successiva liquidazione da parte del Presidente del Tribunale.
(13) Nel ricomprendere tra le spese del procedimento arbitrale anche le spettanze del
segretario si esprimono anche i regolamenti arbitrali. V., per tutti, l’art. 31, comma 2, Regolamento di arbitrato A.I.A. 2012, secondo cui « la Corte, tenendo conto della Tariffa dei servizi
arbitrali e di ogni altro elemento utile, determina gli onorari e le spese degli arbitri (incluse le
spettanze dell’eventuale segretario), nonché i diritti amministrativi dell’A.I.A., come pure l’onorario e le spese del consulente nominato dal tribunale arbitrale e infine, ove del caso, le spese legali
ragionevolmente sostenute dalle parti per la loro difesa ».
(14) La figura del segretario del Collegio è espressamente regolata solo agli artt. 241 e ss.
D. lgs. n. 163/2006 e successive modifiche, nonché negli arbitrati amministrati sia interni che
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direttamente ad opera degli arbitri in ragione della loro soggettiva valutazione circa la necessità di avvalersi di un ausiliario per l’espletamento di
attività funzionali al procedimento quali, in particolare, la tenuta del
fascicolo d’ufficio, la verbalizzazione delle udienze, la trasmissione delle
ordinanze rese fuori udienza, la raccolta e l’archiviazione dei documenti,
l’estrazione di copie etc.
Da ciò, a detta del Collegio, discenderebbe che il rapporto, instaurato
tra arbitri e segretario, del tutto estraneo ai litiganti, integra un onere su
di loro gravante solo indirettamente, dal momento che gli unici soggetti
contrattualmente obbligati alla sua remunerazione sono gli arbitri (15).
In quest’ottica il compenso dovuto al segretario non può che essere
inquadrato tra le passività correlate allo svolgimento dell’arbitrato, ovvero
tra gli esborsi di spesa che i componenti il Collegio devono affrontare per
il regolare funzionamento dell’ufficio arbitrale.
La ricostruzione proposta nel lodo in commento è, peraltro, avvalorata anche dalla giurisprudenza che, nel respingere la domanda di liquidazione dell’onorario ex art. 814 c.p.c., proposta dal segretario (16), statuisce la necessità che a liquidarne il compenso siano gli arbitri (17), con
l’avvertimento che, ove tale liquidazione non sia accettata dalle parti,
occorra, alla stregua di ogni altra spesa relativa al procedimento, su
domanda degli arbitri, chiederne la congruità al Presidente del Tribunale (18).
In altri e più precisi termini, è sempre a causa dell’assenza di un
rapporto giuridico contrattuale tra segretario e parti che la giurisprudenza
nega al segretario la legittimazione attiva alla liquidazione del compenso
di cui all’art. 814 c.p.c., consentendo tale richiesta, congiuntamente a
quella di liquidazione del loro onorario, solo agli arbitri (19). Con ciò,
internazionali. V. in tale ultimo senso: ALLOTTI, Spese di arbitrato, in BRIGUGLIO-SALVANESCHI,
Regolamento di arbitrato della Camera di Commercio internazionale, Milano, 2005, 524.
(15) Cass., 28 luglio 2004, n. 14182, in Mass. Giur. it., 2004.
(16) Sul punto v. Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, in Corr. Giur., 2004, 874 e in Foro it.,
2005, I, 782, con nt. CAPONI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di procedimento di liquidazione delle spese e dell’onorario arbitrali (art. 814 c.p.c.), secondo cui « l’importo della spesa del
segretario, costituente esborso affrontato per il funzionamento del Collegio (e riconoscibile nei
limiti in cui esso sia ritenuto necessario), può essere liquidato soltanto agli arbitri, e non
direttamente al segretario ». Conforme Trib. Roma, 12 settembre 1995, in Giur. Merito, 1996,
682.
(17) Cass., 22 aprile 1994, n. 3839, in questa Rivista, 1995, 75, con nt. BRIGUGLIO, Questioni
varie in tema di liquidazione delle spettanza arbitrali.; Cass., 8 settembre 2004, n. 18058, in questa
Rivista, 2005, 83 con nt. AULETTA, La tutela giurisdizionale dei diritti del segretario dell’arbitrato.
(18) Cfr. Cass., 27 maggio 1984, n. 4722, in Arch. Giur. oo. pp., 1987, 1325; Cass., 22
aprile 1994, n. 3839, cit., 75.
(19) Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, cit. e in dottrina BIANCHI, L’arbitrato nelle controversie societarie, Padova, 2001, 233.
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annoverando chiaramente il compenso spettante al segretario tra le spese
di funzionamento dell’arbitrato (20).
Nessun legittimo dubbio può, invece, sollevare quell’orientamento
giurisprudenziale che, in considerazione del fatto che sono gli arbitri a
scegliere di nominare il segretario, condiziona l’accoglimento della domanda, nonché la determinazione dell’entità del compenso, alla valutazione discrezionale del Presidente del Tribunale circa l’effettiva utilità
dell’opera prestata dallo stesso ausiliario per il funzionamento dell’arbitrato (21). Ed infatti, la congruità delle spese di segreteria, alla stregua di
ogni altra spesa sostenuta per il funzionamento del giudizio privato,
quando non accettata dalle parti, deve essere avallata dal Presidente del
Tribunale.
Concludendo, se unitamente all’onorario vengono liquidate anche le
spese necessarie al funzionamento dell’arbitrato ovvero le spese debitamente documentate, sostenute dagli arbitri per l’adempimento della loro
prestazione, nel cui ambito deve essere ricompreso anche l’eventuale
compenso dovuto al segretario (22), la mancata anticipazione di quest’ultimo, entro il termine indicato, non potrà che sostanziare la presenza di
uno dei presupposti di applicazione dell’art. 816-septies c.p.c. (23), ovvero
del mancato versamento delle parti delle « spese prevedibili ».
(20) Cass. 8 settembre 2004 n. 18061, in Giust. civ. Mass., 2004, 9, afferma infatti che: « la
quantificazione del compenso spettante al segretario del Collegio arbitrale è riservata all’apprezzamento del giudice del merito che provvede alla liquidazione del compenso degli arbitri ai sensi
dell’art. 814, c.p.c., in quanto è riferibile alle spese che le parti sono tenute a rimborsare agli
arbitri ».
(21) Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, cit.; Cass., 27 maggio 1987, n. 4722, in Giust. civ.
Mass., 1987, fasc. 5; Cass., 22 aprile 1994, n. 3839, cit.
(22) Analogo discorso si ritiene debba essere fatto nel caso in cui gli arbitri si avvalgano
dell’opera di un consulente tecnico d’ufficio, anche se sul punto la giurisprudenza non è univoca.
Se, infatti, a volte si afferma (Trib. Roma, 2 maggio 1995, in Gius, 1995, 1415) che la richiesta
di pagamento delle spese e dell’onorario, inviata dal CTU alle parti dell’arbitrato, implica
l’accettazione per facta concludentia della liquidazione dell’onorario operata dagli arbitri,
facendo in tal modo intendere che la spesa per il consulente tecnico è trattata alla stregua di ogni
altra spesa del procedimento arbitrale e che, quindi, tra parti e consulente non si instauri alcun
diretto rapporto contrattuale, altre volte, rilevando che il « professionista ha diritto al pagamento
delle spese e dell’onorario verso le parti del giudizio » (Trib. Roma, 2 maggio 1995, cit.), si fa, di
contro, intendere che tra parti e consulente si instauri un rapporto contrattuale diretto.
Partendo da tale ultima considerazione la dottrina (ORLANDI, Diritti degli arbitri, in Arbitrato
Commentario, a cura di CARPI, cit., 197) ha, poi, avanzato l’idea che il professionista possa agire
direttamente nei confronti delle parti, sia utilizzando il procedimento per ingiunzione sia
instaurando un processo ordinario di cognizione. Invero, VIGORITI, L’onorario degli arbitri, in
questa Rivista, 2005, 189 ss., spec. 192, nega al CTU la possibilità di utilizzare lo speciale
procedimento di cui all’art. 814 c.p.c., anche se la sua nomina sia avvenuta con il consenso delle
parti o addirittura su loro esplicita richiesta. La prassi, sia nell’arbitrato amministrato che in
quello ad hoc, imponendo alle parti la liquidazione anticipata delle spese di consulenza
(ORLANDI, Diritti degli arbitri, in Arbitrato Commentario, a cura di CARPI, cit.,196-197), ha
semplificato e superato ogni dubbio in ordine all’inquadramento di tali spese tra le passività
correlate allo svolgimento dell’arbitrato.
(23) Di diverso avviso appare l’arbitro dissenziente secondo cui il Collegio arbitrale
indicando, nell’ordinanza anticipi, come spese solo gli esborsi di segreteria, avrebbe configurato
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Definito, dunque, il contenuto dell’anticipazione, non resta a tal
punto che capire se il suo adempimento tardivo, avvenuto nel caso specie
in un momento successivo alla scadenza del termine indicato dagli arbitri
ancorché anteriore alla pronuncia del lodo, possa in qualche modo produrre effetti sananti.
Per fare ciò, occorre però partire da una spiegazione teorica del
particolare rapporto tra accordo compromissorio e contratto parti-arbitri
introdotto dalla disposizione in oggetto, capace di fugare ogni dubbio in
ordine alla qualificazione del versamento anticipato delle spese prevedibili
in termini di presupposto processuale necessario al proseguimento del
giudizio ovvero di giusto motivo di rinuncia all’incarico arbitrale cui
consegue l’effetto estintivo, ex lege, del patto compromissorio.
5. Come a tutti noto alla base del fenomeno arbitrale si pongono
due fattispecie contrattuali: la convenzione di arbitrato stipulata dalle
parti per la risoluzione del conflitto e il contratto che le parti stipulano con
gli arbitri incaricandoli, dietro pagamento di un corrispettivo, della pronuncia del lodo (24).
Tali contratti, sebbene distinti ed autonomi, sono invero tendenzialmente tra loro collegati nel senso che solo le vicende del contratto
principale (convenzione di arbitrato) sono idonee ad incidere il contratto
accessorio (contratto parti-arbitri), mentre non è possibile il contrario. Il
collegamento contrattuale esistente tra convenzione di arbitrato e contratto parti-arbitri è, in altre parole, normalmente un collegamento unilaterale (25), dal momento che solo le vicende relative al mancato perfezionamento della convenzione di arbitrato o il suo successivo venire meno
sono idonee a travolgere il contratto parti-arbitri, ma non viceversa.
Ed infatti, anche nel particolare caso in cui l’attribuzione del giudizio
ad un certo arbitro, direttamente nominato nella convenzione di arbitrato,
sia elemento essenziale della deroga alla giurisdizione statale, per cui,
l’impossibilità di attribuire a quella data persona la decisione della controversia, comporti la caducazione, non solo del contratto parti-arbitri, ma
anche dello stesso accordo sulla scelta della via arbitrale (26), non si è di
fronte ad un collegamento negoziale bilaterale tale per cui le vicende
il compenso del segretario alla stregua di quello degli arbitri quale pagamento a carico delle
parti.
(24) La netta separazione, cronologica oltre che sostanziale, tra i due contratti, è stata
messa in luce, tra i primi, da CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo italiano, Roma, 1951, 70.
(25) Due negozi si dicono collegati quando mantengono la propria individualità e il fatto
dell’unione in un unico atto, diretta alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, non tocca
la disciplina dei singoli negozi. Sul collegamento negoziale v. in dottrina: SCHIZZEROTTO, Il
collegamento negoziale, Napoli, 1983; DEL PRATO, I regolamenti privati, Milano, 1988.
(26) V. BOVE, L’estinzione del patto compromissorio, in questa Rivista, 1998, 681, spec.
697.
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estintive del negozio accessorio influiscano su quelle del negozio principale (27). In tale ultima situazione si è, invero, semplicemente di fronte alla
mancata realizzazione di un fatto determinante la validità e l’efficacia
tanto dell’accordo arbitrale che del contratto parti-arbitri.
Coerentemente a quanto sinora indicato, ovvero, all’inidoneità delle
vicende relative al contratto parti-arbitri d’incidere sulla scelta della via
arbitrale si è espressa quell’idea della dottrina (28) secondo cui, nel caso in
esame, l’estinzione dell’accordo compromissorio non conseguirebbe al
puro e semplice fatto-inadempimento delle parti del versamento degli
anticipi nel termine fissato dagli arbitri, quanto piuttosto al verificarsi di
altra fattispecie estintiva dello stesso accordo compromissorio (29). Ciò
chiaramente avverrebbe, non già in presenza di ogni mancato versamento
delle anticipazioni, ma solo quando da tale fatto possa desumersi « o che
le parti abbiano voluto concordemente liberarsi da quella scelta oppure che
ci si trovi in una situazione che rende ormai impossibile il raggiungimento
dello scopo del patto compromissorio » (30). Situazione quest’ultima —
secondo l’opinione in parola — legata alla sopravvenuta impossibilità di
uno dei contendenti, a causa di un peggioramento della propria situazione
economica, di sostenere i costi del giudizio arbitrale. Il mancato accollo ad
opera della controparte della totalità delle anticipazioni comporterebbe,
dunque, nella situazione da ultimo descritta, la riviviscenza della giustizia
statale per l’impossibilità di raggiungere lo scopo dell’accordo arbitrale.
Se tale ricostruzione è perfettamente rispettosa del principio, proprio
delle codificazioni moderne, dell’autonomia ed indipendenza della scelta
della via arbitrale dalle vicende relative il rapporto parti-arbitri, secondo
chi scrive, questa non rappresenterebbe, però, in considerazione soprattutto del suo scopo, la volontà del legislatore del 2006 (31).
Quest’ultimo, con il prevedere come conseguenza del mancato ver(27) Il reciproco collegamento tra due negozi crea in tutti i casi una specie di dipendenza
tale che le vicende del rapporto principale si riflettono necessariamente anche sul rapporto
accessorio. Accanto, però, al collegamento negoziale unilaterale, si pone il collegamento
bilaterale, per il quale il brocardo simul stabunt, simul cadent perde ogni rilievo. Per un’analisi
delle diverse forme di collegamento, sia per ciò che concerne la struttura sia per quanto riguarda
gli effetti, v. MESSINEO, Contratto collegato, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 52 ss.; ORLANDO,
CASCIO - ARGIROFFI, Contratti misti e contratti collegati, in Enc. Treccani, IX, Roma, 1988, 1 s.;
DI SABATO, Unità e pluralità di negozi (contributo al collegamento negoziale), in Riv. Dir. Civ.
1959, I, 428.
(28) BOVE, La giustizia privata, cit., 65 ss.
(29) Più in generale sull’analisi delle diverse ipotesi di estinzione della convenzione di
arbitrato v. BOVE , L’estinzione del patto compromissorio, cit., 681.
(30) Sono parole di BOVE, La giustizia privata, cit., 66.
(31) Occorre peraltro sottolineare come nel caso in esame anche l’accoglimento della tesi
da ultimo riportata non sposti i termini della questione. E difatti, è, nel lodo, espressamente
indicato come la Società abbia, con lettera raccomandata recapitata a mani al Collegio dal suo
legale, rappresentato la presenza di difficoltà economiche tali da impedirgli il versamento, anche
solo parziale, non solo degli acconti relativi ai compensi degli arbitri, ma anche delle spese della
procedura.
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samento delle anticipazioni nel termine indicato dagli arbitri l’inoperatività della convenzione di arbitrato, ne avrebbe, invece, voluto introdurre
nell’ordinamento una nuova peculiare ipotesi di cessazione dell’efficacia
che, indipendente dalla causa del ricorso alla giustizia privata, sarebbe,
invece, legata alle vicende estintive del contratto parti-arbitri. Ed infatti,
diversamente, non avrebbe ancorato lo scioglimento del vincolo compromissorio delle parti alla volontà degli arbitri di subordinare il procedimento al versamento anticipato delle spese del giudizio.
Se il legislatore, in altri e più precisi termini, in deroga a quello che
normalmente sembra essere il legame esistente tra convenzione di arbitrato e contratto parti-arbitri, ha voluto introdurre nel sistema un’ipotesi
in cui le vicende relative al rapporto tra giudici e contendenti si estendano
allo stesso accordo compromissorio, il mancato versamento degli anticipi,
lungi dal costituire una sorta di presupposto processuale necessario alla
prosecuzione dell’arbitrato, non può che sostanziare il motivo legittimante
la rinuncia degli arbitri all’incarico. Rinuncia a cui consegue, con l’obiettivo ad un tempo di sanzionare il comportamento dei contendenti e di
assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, automaticamente, ex lege, la cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato (32).
6. Scopo della disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 816septies c.p.c. è, infatti, consentire alle parti di agire di fronte al giudice
ordinario, senza che sia possibile, in detta sede, fondatamente eccepire la
presenza di una convenzione arbitrale ostativa alla pronuncia di merito. In
altri e più precisi termini, la norma de quo tende a superare l’empasse che
si potrebbe verificare nel caso in cui una parte, dopo aver bloccato lo
svolgimento del procedimento arbitrale, proposta domanda di fronte al
giudice ordinario, sollevi, in detta sede, l’exceptio compromissi, impedendo, con gravi conseguenze sull’effettività della tutela giurisdizionale,
anche il processo di fronte al giudice ordinario (33).
(32) Tale effetto della norma in parola veniva visto con sfavore dai primi commentatori
della riforma: Cfr. BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 66; RUFFINI, Patto compromissorio, in questa Rivista, 2005, 711 ss., spec. 724; BERNARDINI, Ancora una riforma dell’arbitrato
in Italia, in Dir. Comm. Int., 2006, 277.
(33) Al fine di evitare la carenza dell’effettività della tutela giurisdizionale, pur in assenza
di una disposizione normativa analoga all’art. 816-septies c.p.c., il BGH, con sentenza del 14
settembre 2000, n. 33, in NJW, 2000, 3720, ha dichiarato infondata l’eccezione di patto
compromissorio proposta dal convenuto nel procedimento di fronte al giudice statale, quando
a causa del mancato versamento degli anticipi non sia stata possibile la risoluzione della
controversia ad opera dei giudici privati, essendo, in tal caso, il patto compromissorio divenuto
inattuabile (die Schiedsvereinbarung sei undurchführbar). Più in particolare, secondo i giudici
tedeschi, ciò si verificherebbe non già in presenza del puro e semplice mancato versamento degli
anticipi, quanto piuttosto di una giusta causa ovvero dell’impossibilità oggettiva, ancorché
sopravvenuta, di una o di entrambe le parti di sostenere i costi della giustizia privata.
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Se quello indicato è lo scopo sotteso alla previsione dell’estinzione del
vincolo compromissorio, invero — come indicato — l’operatività dell’ultimo comma dell’art. 816-septies c.p.c. è, però, ancorata alla volontà degli
arbitri di subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento
anticipato dei costi del giudizio, posto che la stessa consegue alla loro
legittima rinuncia all’incarico conferitogli.
E difatti, come espresso anche in una delle prime pronunce sul
tema (34), l’art. 816-septies c.p.c. è indubbiamente posto « a tutela degli
arbitri e non delle parti », di guisa che, ove i primi non subordinino la
prosecuzione del procedimento al versamento delle anticipazioni e, dunque, non rappresentino la volontà di esercitare il potere di rinunciare
all’incarico conferito, il fatto-mancato versamento degli anticipi ad opera
delle parti di per sé non produrrebbe alcun effetto estintivo della convenzione di arbitrato (35), conseguente solo alla rinuncia, per i motivi anzidetti, degli arbitri all’incarico.
Se è, dunque, nella libera disponibilità degli arbitri subordinare la
prosecuzione del giudizio al versamento anticipato delle spese prevedibili
entro un determinato termine, il mancato verificarsi dell’evento comporta,
invece, l’automatica cessazione dell’efficacia, per rinuncia, del contratto
parti-arbitri, che, a sua volta produce l’estinzione, ex lege, della convenzione di arbitrato. Con ciò impedendo, dunque, efficacia sanante ad ogni
tardivo adempimento.
Pertanto, giustamente nel caso di specie il Collegio ha ritenuto il
tardivo versamento da parte della Società dell’acconto sui compensi del
segretario incapace di produrre effetti sananti. Ed infatti, l’estinzione del
contratto parti-arbitri e, conseguentemente, dell’accordo compromissorio
si era già verificata dal dì fissato dagli arbitri quale momento ultimo per il
versamento anticipato delle spese prevedibili (36).
7.
Quanto sin qui indicato conduce a disconoscere in capo agli
(34) Collegio Arbitrale (lodo), 3 luglio 2008, in PQM, 2008, 3, 134.
(35) Ed infatti, come affermato nella decisione citata nella nota precedente « diversamente argomentando si dovrebbe giungere all’aberrante conclusione che per una parte sarebbe
sufficiente, per liberarsi delle conseguenze negative emerse nel corso del giudizio arbitrale, non
provvedere al versamento delle somme indicate per svincolarsi dalla clausola arbitrale (...) ».
(36) Non appare invece accoglibile la motivazione addotta nel lodo, secondo cui l’incapacità sanante dell’adempimento tardivo sarebbe stata conseguenza della perentorietà del
termine di adempimento che, peraltro, come giustamente indicato nella nota di dissenso
aggiunta al lodo, era già stato oggetto di proroga. Inoltre, chi scrive ritiene di nessun pregio
anche l’idea espressa nella nota aggiunta al lodo che si annota secondo cui il mancato
versamento, nel termine fissato, delle spese prevedibili configurerebbe « soltanto un ulteriore
legittimo motivo di rinunzia ai sensi dell’art. 816-sexies co. 2 c.p.c. », tale che il suo realizzarsi non
comporterebbe l’automatica rinuncia degli arbitri all’incarico, perché non tiene conto del fatto
che al momento dell’adempimento la vincolatività sia del contratto parti-arbitri che della
convenzione di arbitrato era già venuta meno.
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arbitri — anche in presenza dell’eccezione di parte (37) — il potere di
statuire in ordine alla cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato.
Più in particolare, se l’estinzione della convenzione di arbitrato sostanzia un effetto automatico, ex lege, della legittima rinuncia all’incarico,
questa non potrà essere dichiarata dagli arbitri che dovranno limitarsi,
piuttosto, a liberarsi dal vincolo assunto nei confronti delle parti con
l’accettazione dell’incarico. Ed infatti, anche in presenza di eccezione di
parte, mancherebbe negli arbitri il potere di pronunciarsi in ordine alla
validità ed efficacia dell’accordo compromissorio a causa del venire meno,
per il realizzarsi della loro rinuncia, dello stesso contratto parti-arbitri.
Tale ricostruzione è coerente con lo scopo dell’ultimo comma dell’art.
816-septies c.p.c.: se questo si sostanzia nel garantire l’effettività della
tutela giurisdizionale, evitando ostacoli alla proposizione della domanda
in sede ordinaria, allora può realizzarsi anche ove la dichiarazione della
cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato, con riguardo alla
lite che ha dato origine al procedimento in cui le parti non hanno
provveduto al versamento anticipato delle spese, sia effettuata in altro
diverso procedimento. Segnatamente, si ritiene che questa possa essere
dichiarata nell’ambito tanto del giudizio ordinario, in cui sia eccepita la
presenza del patto compromissorio, che del nuovo procedimento arbitrale,
instaurato sulla base dello stesso accordo estinto per il verificarsi, nel
precedente giudizio arbitrale, dei presupposti di applicazione dell’art.
816-septies c.p.c. e sempre che sia stata proposta eccezione di parte
relativa alla sua validità ed efficacia.
Di diverso avviso sembra, invece, essere il Tribunale arbitrale nel caso
in esame: questo non si è limitato a rinunciare all’incarico conferitogli, ma
— in presenza dell’eccezione di parte circa il venire meno della propria
potestas iudicandi — ha scelto di pronunciare un lodo dichiarativo dell’impossibilità di proseguire il giudizio, a causa del venire meno del
vincolo delle parti « alla convenzione trasfusa nella clausola compromissoria richiamata nell’atto di accesso alla controversia, oggetto del procedimento » (38). Con ciò forse proponendo una diversa interpretazione della
norma in oggetto ovvero interpretando il fatto-mancato versamento delle
(37) È altresì chiaro come, in assenza di qualsivoglia eccezione di parte, manchi negli
arbitri il potere di pronunciarsi in ordine alla validità ed efficacia dell’accordo compromissorio.
Ciò in perfetta conformità all’espressa previsione dell’art. 817 c.p.c. che, lungi dal riconoscere ai
giudici privati poteri ufficiosi in ordine alla propria potestas iudicandi, li subordina alla
contestazione, nel corso del giudizio, ad opera delle parti della validità, del contenuto o
dell’ampiezza della convenzione di arbitrato.
(38) In ordine all’efficacia della statuizione relativa allo scioglimento del patto compromissorio per il giudice statale, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione di patto compromissorio,
ovvero per l’arbitro successivamente adito sulla base di quella stessa convenzione di arbitrato,
v., per tutti: LUISO, Rapporti tra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 773, spec. 785; BOVE,
Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 361 ss.
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anticipazioni nel termine come costituente esso stesso — indipendentemente cioè dal venire meno del rapporto parti-arbitri — causa di scioglimento del patto compromissorio. Conseguentemente, in quest’ottica, al
verificarsi del fatto-mancato versamento degli anticipi si realizzerebbe in
ogni caso, ovvero, anche in assenza della rinuncia degli arbitri all’incarico,
il venir meno dell’accordo compromissorio.
Una tale interpretazione appare, invero, a chi scrive, però, non solo
contrastare con la lettera delle legge, posto che l’ultimo comma della
disposizione in oggetto non può che essere letto alla luce del suo primo
comma, ma anche essere immotivatamente diretta ad attribuire agli arbitri
la facoltà di scegliere, al verificarsi del mancato versamento delle anticipazioni, di rinunciare o meno all’incarico assunto con l’accettazione della
nomina. Ed infatti, solo ove si riconoscesse in capo agli arbitri, al realizzarsi dell’evento, la facoltà di non rinunciare all’incarico, questi potrebbero pronunciare — chiaramente in presenza dell’eccezione di parte —
lodo dichiarativo dell’improseguibilità del giudizio per il venire meno del
patto compromissorio.
Tuttavia, l’attribuzione agli arbitri di tale facoltà non sarebbe priva di
conseguenze, posto che alla pronuncia del lodo conseguirebbe la possibilità, non solo di ottenere la liquidazione presidenziale dei compensi di cui
all’art. 814 c.p.c. (39), ma anche di rendere più difficoltosa l’eventuale
azione di responsabilità proposta nei loro confronti. Ed infatti, se nel caso
di rinuncia all’incarico questa può essere proposta senza ostacoli, ove gli
arbitri abbiano pronunciato un lodo, la sua proposizione è, invece, ai sensi
dell’art. 813-ter, comma 4, c.p.c., subordinata all’« accoglimento dell’impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l’impugnazione è stata proposta ».
FRANCESCA TIZI
(39) Presupposto per attivare lo speciale procedimento camerale, che consente agli
arbitri di ottenere in tempi assai ridotti un provvedimento immediatamente esecutivo, è, infatti,
secondo la giurisprudenza, la risoluzione della controversia con la pronuncia del lodo. Cfr.:
Cass., 6 marzo 1998, n. 2494, in questa Rivista, 1998, 707; Cass., 17 ottobre 1996, n. 9074, in Giust.
Civ., 1997, I, 964; Cass., 14 marzo 1996, n. 2124, in Riv. Trim. App., 1996, 706. Nel caso in cui
il procedimento si concluda senza la pronuncia del lodo, gli arbitri possono, invece, servirsi del
procedimento di cognizione ordinario. In altri termini, a questi non si nega il diritto al compenso
per l’opera prestata, ma solo il diritto di servirsi dello speciale strumento tutela di cui all’art. 814,
comma 2, c.p.c. Cfr.: Cass., 3 aprile 1995, n. 3907; Cass., 7 aprile 2006, n. 8222, in Giur. It. Mass.,
2006; Cass., 31 marzo 2006, n. 7623, in Giur. it. Mass., 2006. Peraltro, secondo Cass., 26 agosto
2002, n. 12536, in Giust. Civ., 2003, 1039, con nt. RUFFINI, Equivoci sulla determinazione
giudiziale delle spese e degli onorari degli arbitri che si siano limitati a risolvere questioni di
competenza o di ammissibilità del procedimento arbitrale, anche nel caso di pronuncia di un lodo
non definitivo su questione pregiudiziale, gli arbitri non potrebbero chiedere la liquidazione
giudiziale dei compenso ex art. 814, comma 2, c.p.c. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che, là dove non sia pronunciato lodo definitivo, manchino al Presidente del Tribunale
gli elementi necessari di valutazione per la determinazione del compenso spettante agli arbitri.
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RASSEGNE E COMMENTI
Arbitrato e accordi di ristrutturazione dei debiti: una convivenza possibile? (*)
TOMASO GALLETTO
1.
Premessa.
L’oggetto della presente indagine riguarda la possibilità (e, in subordine,
l’opportunità) del ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione delle
controversie nell’ambito degli accordi finalizzati alla risoluzione negoziata
delle crisi di impresa.
Lo spunto per una riflessione sul tema nasce dalla constatazione che nella
prassi gli accordi di ristrutturazione dei debiti che hanno interessato importanti imprese, anche quotate, non contengono convenzioni arbitrali per la
risoluzione delle controversie che possano insorgere successivamente alla
omologazione di tali accordi da parte della autorità giudiziaria.
A fronte di tale constatazione è ragionevole interrogarsi sulle ragioni del
mancato ricorso allo strumento arbitrale.
Più precisamente il quesito riguarda l’individuazione di possibili ragioni
di ontologica incompatibilità dello strumento arbitrale rispetto alla risoluzione
negoziale della crisi di impresa e, nell’ipotesi in cui si possa ritenere insussistente tale incompatibilità, i motivi che inducono le parti a non derogare, in
ipotesi di controversie, alla competenza dell’autorità giudiziaria.
È invero opinione diffusa che lo strumento arbitrale, connotato da
flessibilità e libertà di forme, rappresenta una alternativa maggiormente
competitiva rispetto al processo proprio con riferimento alla risoluzione di
controversie che riguardino l’attività della impresa.
Il disfavore per l’opzione arbitrale nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti dell’impresa, desumibile dalla prassi che non prevede
inserimento di convenzioni d’arbitrato in tali accordi, rappresenta quindi una
anomalia le cui ragioni meritano di essere approfondite.
(*) Testo della relazione, con l’aggiunta di un corredo essenziale di note, presentata
al Seminario organizzato dalla Camera Arbitrale di Milano il 3 luglio 2013 sul tema
« L’Arbitrato ai tempi della crisi. Giustizia arbitrale, crisi d’impresa, riduzione di costi e
tempi delle controversie ».
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In questa prospettiva risulta necessario, sia pure nei limiti imposti dal
presente lavoro, un inquadramento della natura e degli effetti degli accordi
finalizzati alla risoluzione negoziata delle crisi d’impresa.
2.
Autonomia privata e regolazione della insolvenza.
In Italia, la disciplina dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale (e
solo di questi) attraverso l’apertura di procedure concorsuali aventi natura
conservativa (amministrazione controllata e concordato preventivo) o liquidatoria (fallimento e liquidazione coatta amministrativa, quest’ultima applicabile alle sole imprese indicate dalla legge in ragione degli interessi pubblicistici coinvolti) è rimasta saldamente ancorata, per oltre 60 anni, alle
disposizioni del R.D. 267/1942 (la « legge fallimentare »).
Nel corso dei decenni diverse autorevoli ipotesi di riforma della legge
fallimentare si sono susseguite nel tentativo di adeguare la disciplina concorsuale alla mutata realtà economica e sociale, ma nessuna di esse è stata
trasformata in un testo legislativo.
Soltanto con riferimento alle grandi imprese è stata introdotta, nel 1979,
una specifica procedura concorsuale (l’amministrazione straordinaria) che ha
trovato peraltro una disciplina sistematica soltanto nel 1999 (con il D.lg.vo n.
270/99) con integrazioni con riferimento alle « grandissime imprese » nel 2004
(c.d. « Decreto Marzano ») e, in epoca più prossima, con la speciale disciplina
della insolvenza del vettore aereo ALITALIA (Legge 27 ottobre 2008, n. 166).
Per il resto si è mantenuto l’impianto della legge fallimentare del 1942,
interpolato con le modificazioni conseguenti ai ripetuti pronunciamenti della
Corte Costituzionale che hanno inciso in senso garantista, coerente con la
Costituzione del 1948, sull’assetto autoritario dell’originario dettato normativo.
Sulla spinta degli enti esponenziali dell’economia reale (banche, associazioni di imprese) il legislatore è stato costretto ad intervenire nella materia
dell’insolvenza confrontandosi con il profondamente mutato contesto socioeconomico attuale, che non trovava più risposte efficienti nella legge fallimentare del 1942.
Si è così giunti ad una prima riforma nel 2006 (con il D.lg.vo 5/2006) alla
quale hanno fatto seguito una (limitata) correzione nel 2007, nonché successivi
interventi — specialmente con riferimento alle questioni qui esaminate — nel
2010, nel 2012 e da ultimo con il recentissimo decreto legge n. 69 del 21 giugno
2013.
Nell’ambito della riforma è scomparsa una procedura concorsuale c.d.
minore (l’amministrazione controllata), è stato profondamente modificato il
concordato preventivo (reso più flessibile) e sono stati introdotti strumenti
alternativi di risoluzione delle crisi aziendali (accordi di ristrutturazione, piani
attestati di risanamento) ritenuti più confacenti alle esigenze del mercato,
anche alla luce delle esperienze di altri ordinamenti.
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Non è possibile in questa sede approfondire il contenuto della riforma al
di là dei limiti segnati dagli argomenti specificamente esaminati.
Un dato, peraltro, prevale su tutti e connota l’intervento riformatore:
adeguandosi alla visione fatta propria dagli ordinamenti ad economia avanzata la gestione dell’insolvenza non è più considerata strumento di controllo
dell’estinzione dell’impresa e di distribuzione del residuo attivo ai creditori,
ma una fase (patologica) della vita dell’impresa, alla quale, nei limiti del
possibile, deve essere concessa la possibilità di una « nuova partenza » (« new
start » secondo l’impostazione tipica degli U.S.A.) nell’interesse dei creditori
e del mercato.
La gestione negoziata delle situazioni di « crisi » aziendale, siano esse
potenzialmente destinate a sfociare nell’insolvenza o già ascrivibili alla fattispecie « insolvenza » di cui all’art. 5 legge fall., costituisce — non solo in Italia
— la nuova frontiera del diritto concorsuale.
Sulla base della diffusa constatazione che la procedura fallimentare,
pervasa dall’intervento della giurisdizione, mortifica le (residue) opportunità
di ripresa dell’attività imprenditoriale e costituisce al contempo — in ragione
della sua eccessiva durata — un ostacolo alla competitività, il legislatore della
riforma del 2006 ha ridisegnato la procedura di concordato preventivo ed ha
altresì individuato nuovi strumenti idonei a gestire la crisi dell’impresa ed
alternativi alla procedura fallimentare.
L’obiettivo dichiarato della riforma è stato quello di ricondurre — per
quanto possibile — la gestione della crisi d’impresa nell’ambito dell’autonomia privata, riducendo correlativamente gli spazi di intervento pubblicistico,
attraverso la giurisdizione (1).
Si è trattato di un lungo percorso che ha preso le mosse dalla constatazione di una diffusa prassi che a partire dagli anni ’80 del secolo scorso aveva
individuato negli accordi con il sistema bancario lo strumento privilegiato per
la soluzione negoziata della crisi di imprese di notevoli dimensioni, e nel
contempo aveva evidenziato diffuse criticità principalmente addebitabili alla
mancanza di un quadro di riferimento normativo idoneo a scongiurare il
rischio, in caso di insuccesso del piano di risanamento, di rilevanti conseguenze penali (ricorso abusivo al credito, distrazione) e civili (revocatoria di
atti disposizione patrimoniale).
Ma il più grande ostacolo che si contrapponeva alla percorribilità di
accordi finalizzati a rimuovere lo stato di insolvenza di una impresa era
costituito dalla diffusa opinione che predicava l’indisponibilità dell’insolvenza.
Per la verità a partire dagli anni ’90 del secolo scorso il fronte compatto
(1) Per un’analisi della riforma e delle sue linee essenziali v. JORIO, « Le linee generali
della riforma ... riformata », in « Il fallimento ... atto terzo: primi spunti di dottrina e giurisprudenza », a cura di PANZANI, 2008, 13. MINUTOLI, « L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra
giustizia contrattuale e controllo di merito » in « Il Fallimento », 2008, 1047.
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che negava la possibilità di una rimozione dello stato di insolvenza attraverso
strumenti negoziali si era incrinato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (2).
La riforma, accentuando la « privatizzazione » della gestione della crisi
d’impresa attraverso il negoziato tra il debitore e i creditori ( anche una parte
di essi) finalizzato a ricercare la migliore soluzione possibile del dissesto,
consente — secondo la maggioranza degli interpreti — di ritenere superata la
questione della (presunta) indisponibilità dell’insolvenza, anche se non mancano autorevoli inviti a considerare con prudenza la materia, che si presta a
possibili distorsioni a danno della par condicio creditorum (3).
In questa prospettiva il dibattito si sposta su un altro piano, quello dei
limiti dell’autonomia privata in una materia che in re ipsa coinvolge rilevanti
profili di ordine pubblico economico e dei confini da assegnare all’intervento
dell’autorità giudiziaria.
Il principale strumento che il legislatore offre all’autonomia privata per
giungere ad una composizione negoziale dell’insolvenza è rappresentato dagli
« Accordi di ristrutturazione dei debiti » disciplinati dagli articoli da 182-bis a
182-quinquies della legge fallimentare.
La disciplina legislativa, peraltro, è frammentaria e riguarda quasi esclusivamente l’aspetto procedimentale; nulla è previsto in ordine alla natura
giuridica dell’accordo, alle conseguenze dell’inadempimento anche parziale,
all’ammissibilità di azioni di annullamento per vizi di volontà e, più in
generale, alla riferibilità a tali accordi della disciplina civilistica.
3.
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: natura ed effetti.
La dottrina prevalente ritiene che gli accordi abbiano natura essenzialmente privatistica, nonostante il necessario decreto di omologazione (elemento di natura pubblicistica). Sul punto si è affermato che anche nel sistema
privatistico l’autonomia negoziale non è illimitata ed è soggetta a controlli
esterni.
Se l’accordo è stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei
crediti può conseguire l’omologazione da parte del tribunale, ove consti
l’idoneità del piano di risanamento ad assicurare il regolare pagamento dei
creditori estranei.
Sono qui evidenti le peculiarità di tale strumento che, da un lato, non è
(2) Per una lucida disamina del problema v. ROVELLI, I nuovi assetti privatistici nel diritto
societario e concorsuale e la tutela creditoria, in Il Fall., 2009, 1029 ss., spec. 1033-34.
(3) Per una sintesi del percorso che ha portato al riconoscimento di spazi per l’autonomia
privata nella gestione delle crisi d’impresa v., se vuoi, GALLETTO, Nuove prospettive nel diritto
fallimentare italiano: il gruppo insolvente e la risoluzione negoziata delle crisi di impresa,
relazione presentata al Congresso del Conseil National des Administrateurs Judiciaires et des
Mandataires Judiciaires — CNAJMJ — tenutosi a Roma il 7 maggio 2010, in Rass. forense,
2/2010, 267 ss.
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obbligatorio per tutto il ceto creditorio, ma solo per coloro che aderiscono
all’accordo, e, da altro lato, consente pagamenti preferenziali, non soggetti
alla disciplina del concorso, in favore dei creditori estranei all’accordo, ipotesi
che in passato era pacificamente riconducibile al paradigma della bancarotta
preferenziale, in caso ovviamente di successivo fallimento.
Le ragioni che sono poste a fondamento della natura privatistica degli
accordi di ristrutturazione tale da differenziarli nettamente dal concordato
preventivo in cui coesistono momenti pubblicistici e privatistici, risiedono
sostanzialmente nella assenza di un decreto di ammissione alla procedura, di
nomina di organi deputati alla gestione e al controllo di essa, dalla mancata
previsione di una votazione dei creditori e dalla mancata estensione degli
effetti degli accordi ai creditori dissenzienti.
La recente riforma del 2012, peraltro, ha previsto la possibilità di innestare gli accordi di ristrutturazione del debito in un percorso aperto da una
domanda di concordato c.d. « in bianco » finalizzata alternativamente alla
formalizzazione successiva e alternativa di una proposta di concordato o di
accordi di ristrutturazione del debito (4).
Queste ultime previsioni normative hanno consentito la riviviscenza di
quelle opinioni che tendono ad ascrivere anche gli accordi di ristrutturazione
all’area della concorsualità, ipotizzando un apparentamento di questi ultimi al
concordato preventivo.
Ma, nonostante le suggestioni che possono essere suscitate dal richiamato
intervento legislativo, sembrano tuttora persuasive le opposte tesi che distinguono nettamente gli accordi di ristrutturazione dal concordato preventivo
rispetto al quale, nonostante il recente intervento delle Sezioni Unite con la
nota decisione n. 1521 del 23 gennaio 2013, resta irrisolta la questione della
prevalenza della natura negoziale o pubblicistica dell’istituto (5).
Ferma restando la già sottolineata differenziazione tra gli accordi di
ristrutturazione ed il concordato, tuttavia, occorre riconoscere che la tesi che
ascrive gli accordi all’area della concorsualità in senso lato non è priva di
significativi supporti rinvenibili nella stessa frammentaria disciplina legislativa.
Il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, ovvero di acquisire titoli di prelazione se non concordati,
che consegue alla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese (e che
può essere anche ottenuto dal tribunale prima della formalizzazione dell’accordo, durante il corso delle trattative per la formalizzazione di esso) induce
(4) Per un accurato esame delle novità della riforma del 2012 v. AMBROSINI, Gli accordi
di ristrutturazione dei debiti dopo la riforma del 2012 in Il Fall., 2012, 1137 ss.
(5) Sulla incerta natura giuridica del concordato preventivo, nonostante l’intervento
delle Sezioni Unite con la decisione richiamata nel testo, v. LO CASCIO, Concordato preventivo:
natura giuridica e fasi giurisprudenziali alterne in Il Fall., 2013, 525 secondo il quale si è di fronte
ad un orientamento ondivago nel cui ambito è venuta anche meno la prospettiva di privatizzare
la procedura di concordato preventivo ed è tramontato ancora una volta il tentativo di una
costruzione unitaria della sua natura giuridica (ivi p. 534).
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a riflettere sulla effettiva estraneità del fenomeno all’area concorsuale, ed
analoghe riflessioni conseguono alla constatazione del differimento dei termini di pagamento dei creditori estranei all’accordo entro 120 giorni dalla
omologazione di esso, in caso di crediti già scaduti a quella data, ovvero di 120
giorni dalla scadenza qualora a quella data non ancora scaduti.
D’altra parte, come è stato recentemente rilevato, anche gli accordi di
ristrutturazione attuerebbero l’esigenza dell’universalità in quanto coinvolgono l’intero patrimonio del debitore, con una caratteristica che è comune a
tutte le procedure concorsuali. Anche il profilo della par condicio creditorum
non sarebbe contraddetto dalla disciplina degli accordi in quanto essa riceverebbe tutela indiretta nelle previsioni che da un lato consentono di regolare
convenzionalmente la soddisfazione dei creditori aderenti all’accordo e, da
altro lato, obbligano alla integrale soddisfazione dei creditori non aderenti (6).
Non può quindi negarsi una certa ambiguità quanto alla natura degli
accordi di ristrutturazione, rispetto ai quali non può escludersi l’emersione di
profili di matrice pubblicistica che, senza alterarne la natura privatistica, li
rendono comunque di incerta collocazione sistematica.
Pur nella ambiguità della quale si è fatto cenno in precedenza, la natura
contrattuale degli accordi di ristrutturazione non sembra discutibile.
In questa prospettiva è opportuno un cenno, nei limiti funzionali all’indagine qui condotta e riferita alla utilizzabilità dello strumento arbitrale, alla
questione relativa alla causa di tali accordi ed alla struttura di essi.
Merita di essere condivisa l’opinione che ascrive alla rimozione negoziale
dello stato di crisi o insolvenza la causa concreta degli accordi di ristrutturazione del debito, con ciò confermandosi il superamento del dogma della
indisponibilità dell’insolvenza (7).
Se sulla funzione (intesa quale causa concreta) degli accordi di ristrutturazione del debito nel senso che essi perseguono lo scopo di superare,
rimuovendola, la situazione di crisi o di insolvenza si riscontra un ampio
consenso, assai più dibattuta è invece la questione relativa alla tipologia
strutturale dei menzionati accordi.
In estrema sintesi può dirsi che, quanto alla struttura negoziale degli
accordi, si contendono il campo due tesi principali : secondo la prima si
tratterebbe di contratti plurilaterali con comunione di scopo mentre secondo
l’altra si tratterebbe invece di un fascio di contratti bilaterali, collegati funzionalmente tra loro.
Non è certamente possibile in questa sede approfondire la questione (8).
(6) In questo senso v. DELLE MONACHE, Profili dei « nuovi » accordi di ristrutturazione dei
debiti, in www.judicium.it spec. 9 ss.
(7) In argomento v. ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti « di salvataggio » (o
di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. Fall., 2008, 1, 289
(8) Per una interessante analisi dei profili strutturali e funzionali degli accordi di
ristrutturazione dei debiti v. INZITARI, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis legge fallim.:
natura, profili funzionali e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, in Dir. Fall., 2012, 13
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Nei limiti funzionali all’economia al presente lavoro può rilevarsi che in
passato, con riferimento all’ipotesi del concordato stragiudiziale privo di
regolazione, ma diffuso nella prassi, la giurisprudenza di legittimità si era
espressa nel secondo senso e cioè nel riconoscere in tali accordi « un fascio di
contratti remissori » (Cass. 18 marzo 1979 n. 1562).
Questa ricostruzione è posta in discussione da coloro che osservano che
dal punto di vista funzionale la collocazione dell’accordo di ristrutturazione
dei debiti nella categoria dei contratti plurilaterali corrisponderebbe meglio
alle pratiche di cooperazione tra i vari soggetti interessati, senza dimenticare
peraltro che così facendo l’intera convenzione resta assoggettata alle vicende
che possano riguardare un singolo creditore qualora la sua partecipazione
all’accordo debba considerarsi essenziale (arg. ex art. 1420 cod. civ.).
L’elemento di maggiore criticità per una siffatta configurazione è rappresentato tuttavia dalla discutibile configurazione di una comunione di interessi
tra tutti i partecipanti all’accordo, finalizzata al conseguimento di uno scopo
comune, che è elemento imprescindibile per la configurabilità di un contratto
plurilaterale, almeno nel senso fatto proprio dalla giurisprudenza.
È anche stata avanzata, per la verità, una diversa opinione che ravvisa
una posizione antagonistica tra creditori ed imprenditore in crisi e conseguentemente raggruppa le posizioni dei primi in un unico centro di interesse,
contrapposto a quello rappresentato dall’imprenditore.
In questa ipotesi, allora, il contratto sarebbe unico, bilaterale ma caratterizzato da una parte soggettivamente complessa (i creditori aderenti).
Ciascuna delle ipotesi in precedenza sinteticamente richiamate presenta
spunti di interesse che meriterebbero approfondimenti qui non consentiti: un
profilo rilevante ai fini della qualificazione tipologia degli accordi è peraltro
costituito dalla constatazione della variabilità del contenuto degli stessi,
circostanza che rende oltremodo difficile (e probabilmente non esaustivo) un
tentativo di classificazione generale.
Proprio l’estrema flessibilità e variabilità del contenuto concreto che nella
prassi assumono gli accordi di ristrutturazione del debito può consentire, di
volta in volta, la iscrizione all’una o all’altra delle categorie. Si tratta, in altri
termini, di accordi che potrebbero essere definiti a « struttura variabile », a
seconda del loro effettivo e concreto contenuto e rispetto ai quali, allora, una
definizione generale ed astratta sotto il profilo tipologico risulta non appagante.
ss. Una accurata analisi dei profili civilistici degli accordi di ristrutturazione è contenuta in
NOCERA, Architettura strutturale degli accordi di ristrutturazione: una analisi di diritto civile, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 1129 ss. ed ivi i necessari riferimenti bibliografici. Dello stesso
Autore v., più recentemente, Gli accordi di ristrutturazione come contratto privatistico: il diritto
della crisi d’impresa oltre le procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2012, 376 ss., ove si sviluppa più
compiutamente la tesi della natura essenzialmente privatistica degli accordi di ristrutturazione
dei debiti, anche in questo caso con il corredo di una ampia bibliografia.
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Per quanto in questa sede rileva il dato significativo consiste nella
constatazione, sia pure con diversa graduazione, della interdipendenza tra gli
adempimenti a carico delle parti al fine della corretta attuazione dell’accordo.
Sia che si tratti di contratto plurilaterale, sia che si tratti invece di un
fascio di contratti bilaterali avvinti da collegamento negoziale sia infine che si
propenda per il contratto bilaterale con parte soggettivamente complessa (la
pluralità di creditori aderenti) è evidente come nella patologia dell’accordo
siano destinati ad emergere rilevanti profili di criticità.
L’inadempimento dell’imprenditore nei confronti di uno dei creditori
aderenti ovvero di quest’ultimo nei confronti dell’imprenditore è suscettibile
di alterare la fisiologia dell’adempimento dell’accordo, incidendo negativamente sugli interessi di coloro ai quali l’inadempimento non è imputabile (9).
4. Gli accordi nella prospettiva del legislatore.
Venendo ora ad un sintetico esame della scarna disciplina dettata dal
legislatore è agevole constatare che nessun aiuto può trarsi da tale disciplina
ai fini della qualificazione tipologica.
Come si è in precedenza ricordato, infatti, la normativa è finalizzata a
disciplinare gli aspetti procedimentali e gli effetti degli accordi ex art. 182-bis
l.f. e demanda al tribunale la verifica della idoneità dell’accordo ad assicurare
l’integrale pagamento dei creditori estranei.
Le modalità attraverso le quali l’imprenditore proponente ed i creditori
aderenti si prefiggono di perseguire le finalità proprie dell’accordo, come in
precedenza ricordate, sono rimesse all’autonomia negoziale delle parti, così
sottolineandosi il diverso approccio, di stampo tendenzialmente privatistico,
di composizione della crisi d’impresa che è stato fatto proprio dal legislatore.
5.
L’omologa giudiziale.
Il momento pubblicistico che connota gli accordi di ristrutturazione del
debito è costituito dalla omologa da parte del tribunale, dalla quale derivano
rilevanti effetti, non altrimenti conseguibili.
L’accordo omologato esenta da revocatoria i pagamenti effettuati in
conformità ad esso, consente a determinate condizioni di assicurare la prededucibilità dei crediti conseguenti alla erogazione di nuovi mezzi finanziari
all’imprenditore ed esclude l’applicazione delle norme in tema di bancarotta
preferenziale e di bancarotta semplice con riferimento ai pagamenti ed alle
operazioni compiute in conformità all’accordo omologato.
(9) Sull’importante tema dell’inadempimento del debitore rispetto agli accordi stragiudiziali ex art. 182 bis l.f. v. l’approfondita analisi di CAPOBIANCO, Gli accordi stragiudiziali per la
soluzione della crisi di impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento
del debitore, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, 295 ss. al quale si rinvia per i necessari
approfondimenti.
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L’ambito oggettivo della valutazione demandata al tribunale sul contenuto dell’accordo, inoltre, è graduato a seconda della presenza o meno di
opposizioni alla omologazione.
In assenza di opposizioni, infatti, al tribunale è demandato sostanzialmente un controllo di mera legittimità, intesa quale corrispondenza dell’accordo al paradigma legale, senza possibilità di sovrapporre un giudizio prognostico di fattibilità a quello risultante dalla relazione dell’esperto che deve
necessariamente accompagnare la documentazione dell’accordo, a meno che
— ovviamente — l’impossibilità della corretta esecuzione dell’accordo emerga
ictu oculi.
In presenza di opposizioni, invece, al tribunale è demandata la responsabilità di verificare la concreta fattibilità del piano alla luce delle contestazioni ad esso mosse ed il controllo giudiziario si configura conseguentemente
assai più pregnante (10).
6.
L’adempimento e le vicende successive all’omologa.
Un aspetto particolarmente rilevante che connota la disciplina legislativa
degli accordi di ristrutturazione del debito è costituito, come già è stato
rilevato, dalla assenza di un momento pubblicistico di controllo dell’adempimento dell’accordo omologato.
L’adempimento e le vicende successive alla omologazione ricadono, ad
ogni effetto, nella sfera privatistica e sono conseguentemente momenti demandati all’autonomia delle parti.
Anche le modificazioni successive al contenuto degli accordi sarebbero,
nella interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, sottratte ad un
nuovo controllo in sede giurisdizionale (11).
In questa prospettiva la prassi negoziale ha introdotto nell’ambito degli
accordi pattuizioni specificamente dedicate alla gestione delle sopravvenienze
e delle criticità sorte a valle della omologa, nella fase di adempimento
dell’accordo.
Si tratta di previsioni negoziali idonee ad assicurare nella maggior misura
possibile la flessibilità del piano di attuazione dell’accordo al fine di gestire le
vicende sopravvenute.
In questo ambito le parti, anche attraverso la predisposizione di idonei
flussi informativi, si obbligano ad una gestione negoziata, per quanto possibile,
delle sopravvenienze.
(10) Una accurata ricognizione dei limiti del controllo giurisdizionale in sede di omologazione degli accordi di ristrutturazione può leggersi in CARMELLINO Accordi di ristrutturazione
e controllo giudiziale, in Il Fall., 2013, 625 ss.
(11) Una interessante analisi delle vicende relative alla fase esecutiva degli accordi di
ristrutturazione può leggersi in FABIANI, Fase esecutiva degli accordi di ristrutturazione e varianti
del piano e dell’accordo, in Il Fall., 2013, 769 ss.
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È peraltro evidente che non tutte le sopravvenienze e/o gli inadempimenti successivi alla omologa possono essere definitivamente risolti attraverso
strumenti negoziali.
In questa prospettiva assume un autonomo rilievo (anche sotto il profilo
funzionale ed economico) la gestione dell’eventuale contenzioso.
7.
La patologia degli accordi: le controversie nella fase successiva all’omologa.
Le controversie nella fase successiva all’omologa dell’accordo possono
naturalmente essere di diversa natura.
Accanto alle controversie che riguardano la validità e l’efficacia dell’accordo in sé vi sono quelle originate da inadempimenti imputabili all’una o
all’altra parte dell’accordo.
Si è detto in precedenza che, almeno con riferimento agli accordi di
ristrutturazione del debito resi conoscibili al pubblico, non è rinvenibile alcuna
previsione di arbitrabilità delle relative controversie. Queste ultime risultano
demandate alla cognizione del tribunale che ha provveduto alla omologazione
dell’accordo.
Si tratta allora di verificare se questa scelta sia determinata da ragioni di
impossibilità di ricorrere allo strumento arbitrale ovvero da ragioni di opportunità che militino in favore della sottoposizione della controversia all’autorità
giudiziaria ordinaria.
I due profili meritano di essere separatamente indagati.
8.
Arbitrabilità o meno di tali controversie.
Il primo quesito che sorge spontaneo dalla constatazione che la prassi
riconduce alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria tutte le controversie comunque originate dalla stipulazione e/o dall’esecuzione degli accordi
di ristrutturazione del debito omologati riguarda la possibile non arbitrabilità
delle relative controversie.
Sotto questo profilo non sembra rinvenibile nel sistema un divieto di
arbitrabilità. Ai sensi dell’art. 806 c.p.c., invero, la non arbitrabilità di una
controversia discende alternativamente dal rilievo che essa abbia ad oggetto
diritti indisponibili ovvero dalla sussistenza di un espresso divieto di legge.
Dalle considerazioni che precedono emerge con sufficiente evidenza che,
anche a seguito della riforma della legge fallimentare e della conseguente
espressa previsione di una disciplina negoziale di componimento delle crisi
d’impresa, in questa materia non sia predicabile l’indisponibilità dei diritti,
nemmeno sotto il profilo che attiene alla rimozione delle cause dell’insolvenza.
Non vi sono quindi ostacoli costituiti dalla presenza di diritti indisponibili,
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né la presenza di momenti pubblicistici di controllo del contenuto degli
accordi ai fini dell’omologa è suscettibile di rendere indisponibili i diritti
patrimoniali connessi alla stipulazione degli accordi.
Sotto un diverso profilo, non è rinvenibile alcun espresso divieto di legge
in ordine alla arbitrabilità delle controversie che abbiano ad oggetto accordi di
ristrutturazione del debito. Anzi, proprio dal mancato richiamo dell’art. 186
l.f. in tema di risoluzione e annullamento del concordato dovrebbe desumersi
che il legislatore non ha inteso dettare una regola che imponga il necessario
ricorso al tribunale per le controversie originate dagli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Ancora, non può ritenersi non arbitrabile una controversia ricollegata ad
un accordo di ristrutturazione dei debiti in considerazione della possibile
ascrivibilità di quest’ultimo all’area delle procedure concorsuali in senso lato.
L’arbitrato, invero, non è ontologicamente incompatibile con una procedura concorsuale ed a riprova della correttezza dell’affermazione sarà sufficiente richiamare quelle disposizioni della legge fallimentare che autorizzano
il curatore alla stipulazione di compromessi, previa autorizzazione del comitato dei creditori (art. 35 l.f.) e più in generale il pacifico orientamento della
dottrina e della giurisprudenza che esclude l’arbitrabilità esclusivamente con
riferimento a specifiche tipologie di controversie endofallimentari o comunque tali da incidere sulla verifica dello stato passivo (12).
La natura e l’oggetto degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quindi,
non impediscono il ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione delle
controversie che possono insorgere con riferimento a tali accordi.
Questa constatazione, naturalmente, non implica la insussistenza di profili di criticità della scelta arbitrale.
9.
I profili di criticità: a) la formulazione della convenzione di arbitrato ed i
problemi dell’arbitrato multiparte; b) arbitrato e litisconsorzio necessario;
c) coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso.
L’incerta struttura tipologica degli accordi di ristrutturazione del debito
(contratto plurilaterale, fascio di contratti, oppure contratto bilaterale con
parte soggettivamente complessa) della quale si è fatto cenno in precedenza si
riverbera immediatamente, quale profilo di criticità, sulla opzione di devolvere in arbitrato le controversie originate da tali accordi.
a) Un primo profilo di criticità si rinviene nella constatazione che le
controversie originate da accordi ex art. 182-bis l.f. tendenzialmente coinvolgono più di due parti.
(12) Sul tema, assai delicato, relativo ai limiti dell’arbitrabilità delle controversie in
ambito fallimentare v. recentemente BOVE, Arbitrato e fallimento, in www.judicium.it. Sull’argomento v. altresì le considerazioni enunciate da ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato, commentario diretto da F. Carpi, Bologna, 2007, sub art. 806, 110 ss.
225
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Ciò è sicuramente vero se si ritiene che l’accordo sia un contratto
plurilaterale, ma è vero anche se si propende per una qualificazione di esso
quale pluralità di contratti collegati funzionalmente ed ancora se si ragiona in
termini di contratto bilaterale ma con parte soggettivamente complessa.
Nella generalità dei casi, quindi, la controversia darà luogo ad un arbitrato con più di due parti.
Da tale constatazione deriva la necessità di una attenta formulazione
della convenzione di arbitrato, idonea a dare vita ad un arbitrato multiparte.
Sono note in proposito le delicate questioni che si sono poste in passato
e che tuttora impegnano gli arbitri e le istituzioni che amministrano l’arbitrato
quando la controversia coinvolge una pluralità di parti.
A riprova della importanza e della complessità delle questioni suscitate
dall’arbitrato che vede coinvolte più di due parti ovvero una pluralità di
contratti tra le stesse parti può richiamarsi il nuovo Regolamento di Arbitrato
della ICC, entrato in vigore il 1º gennaio 2012, il quale dedica una intera (e
nuova) sezione alle questioni in oggetto.
Non è possibile in questa sede approfondire le scelte operate dal citato
nuovo regolamento della ICC, ma può essere significativo ricordare che
nell’ultimo decennio gli arbitrati amministrati dalla ICC con più di due parti
sono stati superiori al 30% del totale e che quasi ogni anno viene amministrato
un arbitrato con più di venti parti (13).
Gli accordi di ristrutturazione del debito sembrano costituire una ipotesi
paradigmatica di arbitrato multiparte (si pensi, a solo titolo di esempio, alle
controversie che riguardino la validità di tali accordi, necessariamente coinvolgenti tutti i soggetti che li hanno sottoscritti).
È noto, in proposito, che il legislatore della riforma dell’arbitrato del 2006
si è posto il problema (precedentemente ignorato dal codice di procedura)
dell’arbitrato con pluralità di parti.
L’art. 816-quater c.p.c. dispone che quando più di due parti siano vincolate dalla stessa convenzione di arbitrato ciascuna parte può convenire tutte o
alcune delle altre nel medesimo procedimento arbitrale se si verifica una delle
seguenti circostanze:
(i) la convenzione di arbitrato devolve ad un terzo la nomina degli
arbitri;
(ii) se gli arbitri sono nominati con l’accordo di tutte le parti, ovvero
(iii) se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l’arbitro o gli arbitri,
nominano d’accordo un ugual numero di arbitri o ne affidano ad un
terzo la nomina.
Se non si verificano le circostanze sopra indicate il procedimento arbitrale
si scinde in tanti distinti procedimenti quante sono le parti chiamate in
arbitrato.
(13) Per un commento al nuovo regolamento della ICC v. MAZZA Il nuovo regolamento
di arbitrato della ICC in questa Rivista, 2013, 43 ss. . In particolare, con riferimento alle nuove
regole introdotte in tema di arbitrato con pluralità di parti v. p. 59 ss.
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Nell’ipotesi di litis consorzio necessario, peraltro, se non si verificano le
circostanze in precedenza indicate [sub (i), (ii) e (iii)] l’arbitrato è improcedibile.
Quest’ultima previsione è particolarmente insidiosa come dimostrano
recenti esperienze nelle quali è stata dichiarata l’improcedibilità dell’arbitrato
per difetto delle condizioni in precedenza richiamate, nonostante l’intervento
volontario del litis consorte pretermesso.
Non è possibile in questa sede discutere sulla correttezza della declaratoria di improcedibilità dell’arbitrato nell’ipotesi sopra ricordata, questione
che vede divisi i numerosi, autorevoli commentatori di tale decisione (14).
Ai fini della presente indagine è sufficiente sottolineare la delicatezza
della questione per le conseguenze che ne possono derivare sulla procedibilità
dell’arbitrato.
Una soluzione idonea ad evitare l’insorgere di insidiose questioni è
certamente quella della stipulazione di una convenzione di arbitrato nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione del debito, che demandi ad un terzo la
nomina degli arbitri, così soddisfacendosi una delle condizioni poste dall’art.
816-quater c.p.c.
In questa prospettiva può essere particolarmente opportuna l’utilizzazione della clausola modello della Camera Arbitrale di Milano con la previsione ulteriore che tutti gli arbitri saranno nominati dalla Camera.
Il regolamento della Camera Arbitrale, per parte sua, è in grado di
consentire una corretta amministrazione dell’arbitrato multiparte.
b) Si è già rilevato che le controversie nascenti da accordi di ristrutturazione del debito sono suscettibili di dare luogo ad ipotesi di litis consorzio
necessario, vicenda tra le più dedicate nell’ambito dell’arbitrato multiparte.
Ma anche in questa ipotesi, che deve ritenersi tendenzialmente fisiologica
con riferimento agli accordi di ristrutturazione del debito, la scelta dell’arbitrato amministrato dalla Camera Arbitrale, sulla base di una convenzione di
arbitrato che devolva a quest’ultima la nomina degli arbitri è in grado di
superare le criticità sollevate dal litisconsorzio necessario.
Una residua criticità, tuttavia, persiste in relazione all’ipotesi di litis
consorzio necessario nell’ipotesi in cui il litis consorte non sia chiamato fin
dall’inizio nel procedimento arbitrale.
(14) Il riferimento è al lodo pubblicato in Riv. dir. proc., 2011, 943 ss., con nota critica di
SASSANI, Sull’esclusione del litis consorte necessario dal giudizio arbitrale, ivi 951 ss.; commenta
favorevolmente il lodo GRAZIOSI, Consenso delle parti e intervento del litisconsorte necessario
pretermesso, in arbitrato rituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 293 ss. In senso critico v.
CONSOLO, I terzi e il procedimento arbitrale, in Riv. dir. proc., 2012, 858 ss.; sempre in senso
critico, v. altresì GRADI, Adesione del litis consorte necessario pretermesso al collegio arbitrale già
costituito e dissenso di uno dei litis consorti originari: uno « strano caso » di improcedibilità
dell’arbitrato, in Giust. civ., 2012, I, 2863 ss. In senso dubitativo, ma tendenzialmente favorevole
alla soluzione prescelta dal citato lodo v. recentemente BRIGUGLIO, Amleto, la pluralità di parti
sopravvenuta e la nomina degli arbitri, in Riv. dir. proc., 2012, 1533 ss. Più in generale
sull’intervento litisconsortile nell’arbitrato v. CORSINI, L’intervento del litis consorte necessario
nel procedimento arbitrale, in Riv. dir. proc., 2013, 589 ss.
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Le norme in tema di intervento di terzi, di cui all’art. 816-quinquies c.p.c.,
infatti, dispongono che la chiamata in arbitrato di un terzo può avvenire
soltanto con l’accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri,
essendo sempre ammesso l’intervento del litis consorte necessario. In ciò la
norma codicistica si differenzia dall’arbitrato societario, nell’ambito del quale
la chiamata in causa ai sensi degli artt. 106 e 107 c.p.c. è ammessa fino alla
prima udienza di trattazione e non necessita quindi dell’assenso di tutte le
parti e degli arbitri (arg. ex art. 35 comma 2 d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5).
Nella disciplina ordinaria, dunque, se il litis consorte necessario non è
chiamato in arbitrato sin dall’inizio, ovvero non interviene spontaneamente,
nella sussistenza delle condizioni poste dall’art. 816-quater c.p.c., l’integrazione del contraddittorio può risultare impossibile perché necessita del consenso del chiamato, di tutte le altre parti e degli arbitri.
Anche con riferimento a questo delicato profilo, peraltro, è possibile
rinvenire una soluzione nel regolamento della Camera Arbitrale.
L’art. 22 del regolamento, sotto la rubrica « poteri del Tribunale Arbitrale » prevede infatti (comma 5) il potere del Tribunale Arbitrale, sentite le
parti, di disporre, se richiesto, la partecipazione di un terzo al procedimento
(naturalmente il terzo potrà essere chiamato qualora sia vincolato dalla stessa
convenzione d’arbitrato, ipotesi che qui si assume per verificata in quanto la
convenzione di arbitrato risulterebbe apposta nell’accordo di ristrutturazione
dei debiti).
c) Un ulteriore profilo di criticità, oggettivamente ineliminabile, riguarda la posizione dei co-obbligati, dei fideiussori del debitore e degli
obbligati in via di regresso.
Salvo che non sia diversamente disposto nell’ambito dell’accordo di
ristrutturazione dei debiti, infatti, la posizione di questi soggetti risulta estranea alla regolazione negoziale della crisi d’impresa e l’efficacia dell’accordo
certamente non si estende alla loro posizione soggettiva.
La questione è analogamente regolata, con riferimento al concordato
preventivo, dall’art. 184 l.f. il quale come è noto dispone che l’efficacia
obbligatoria del concordato omologato per tutti i creditori anteriori alla
pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’ammissione alla
procedura non pregiudica i diritti di questi ultimi contro i co-obbligati, i
fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso.
La soluzione più razionale è, evidentemente, quella di coinvolgere i
co-obbligati o obbligati in via di regresso del debitore nell’accordo. Anche
sotto questo profilo, dunque, il connotato plurilaterale della eventuale controversia emerge con evidenza.
10.
Le due opzioni possibili: arbitrato e processo a confronto.
Le considerazioni che sono state svolte in merito alla astratta arbitrabilità
delle controversie che traggano la loro origine nella stipulazione di accordi di
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ristrutturazione del debito depongono univocamente in senso favorevole alla
scelta arbitrale, pur nella consapevolezza delle difficoltà insite nella gestione
di un procedimento arbitrale che coinvolge tendenzialmente più parti.
Esclusa quindi una ontologica incompatibilità dello strumento arbitrale
nella gestione dei conflitti originati dalla composizione negoziale dell’insolvenza dell’impresa, l’indagine sulle ragioni della mancata utilizzazione dell’arbitrato nell’esperienza pratica degli accordi ex art. 182-bis l.f. deve necessariamente volgersi ai profili di opportunità che possano giustificare questa
scelta.
L’indagine non può che riguardare un sintetico confronto tra le due
possibili opzioni per la gestione del contenzioso originato dagli accordi di
ristrutturazione del debito.
Il confronto riguarda da un lato la scelta in favore del processo civile
ordinario (privilegiata dalla prassi conosciuta) e, dall’altro, la scelta per lo
strumento arbitrale.
La comparazione tra processo arbitrale e processo ordinario è impietosa
per quest’ultimo: alla rapidità e relativa stabilità dell’esito del primo si
contrappone la lentezza ed imprevedibilità dell’esito del secondo (statisticamente, oltre il 50% delle sentenze civili di primo grado impugnate in appello
è oggetto di riforma) (15).
Come è stato correttamente rilevato, tuttavia, la crescita della domanda
di arbitrato riscontrata a livello europeo (e senza considerare l’amplissima
diffusione dell’istituto negli Stati Uniti) non può essere spiegata soltanto in
ragione della durata contenuta del relativo procedimento, dal momento che il
fenomeno arbitrale è in crescita anche in quegli ordinamenti in cui la durata
del processo civile è del tutto ragionevole (16).
La durata contenuta del procedimento arbitrale, quindi, è soltanto una
delle ragioni del crescente successo dell’istituto; la scelta arbitrale è orientata
anche da considerazioni sulla specifica competenza e preparazione degli
arbitri in determinate materie, caratterizzate da elevata complessità anche
sotto il profilo tecnico, e sulla maggiore flessibilità dello strumento arbitrale
rispetto al processo ordinario con riferimento sia alla procedura sia ai mezzi di
prova utilizzabili.
In altri termini, è l’ampio potere dispositivo che l’arbitrato assicura alle
parti del relativo procedimento a segnare la profonda differenza con il
giudizio ordinario e a rendere preferibile, in molti casi, la scelta arbitrale.
Sono quindi molteplici le ragioni che rendono l’arbitrato maggiormente
(15) Secondo le rilevazioni dell’Ufficio Statistica della Corte di Cassazione per l’anno
2011, inoltre, il 35% dei provvedimenti ulteriormente impugnati in sede di legittimità è stato
oggetto di annullamento, con o senza rinvio.
(16) In argomento v. le interessanti considerazioni di VIGORITI, Criteri di scelta tra
giudizio ordinario e arbitrato, in RUBINO SAMMARTANO (a cura di), Arbitrato, ADR, conciliazione,
Bologna, 2009, 3 ss..
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competitivo rispetto al giudizio ordinario, ma non vi è dubbio che — almeno
nel contesto italiano — la celerità con la quale in sede arbitrale si giunge ad
una pronuncia sul merito della controversia è il principale elemento che
orienta la scelta di stipulare una convenzione arbitrale.
La consapevolezza che il « fattore tempo » è una condizione imprescindibile del « rendere giustizia », in particolare in un sistema economico integrato
nel quale le scelte imprenditoriali includono nell’analisi degli investimenti
anche l’efficacia e la rapidità della risposta giudiziale è sottolineata, ancora
recentemente, nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno
2012 predisposta dal Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione
Ernesto Lupo (17).
I dati statistici che si rinvengono nella menzionata Relazione sono
tuttavia sconfortanti: la durata media dei procedimenti nelle Corti di appello
è pari a 1051 giorni, quella nei tribunali a 463 giorni e quella presso i giudici
di pace a 378 giorni.
Si tratta peraltro di dati statistici che ricomprendono nella media tutte le
tipologie di procedimenti che si svolgono in sede di merito e che conseguentemente non rispecchiano l’effettività della situazione dei giudizi di cognizione, la durata dei quali è oggettivamente maggiore di quella risultante dal
mero dato statistico.
D’altra parte è sufficiente prendere in considerazione il dato relativo al
numero dei procedimenti pendenti di merito al 30 giugno 2012 (pari a
5.388.544) per rendersi conto che questo arretrato è « una montagna insensibile alla pur costante e generosa attività di erosione posta in essere nei diversi
programmi di gestione » (18).
In questo contesto si colloca il rinnovato interesse dei giuristi e persino
del legislatore rispetto alla risoluzione in sede arbitrale delle controversie
civili in materia di diritti disponibili, testimoniato ad esempio dalla previsione
della istituzione di Camere Arbitrali, di Conciliazione e ADR costituite dai
Consigli Circondariali degli Ordini degli Avvocati presso ciascun tribunale ai
sensi dell’art. 29 lett. n) della legge 31 dicembre 2012 n. 247, recante la nuova
disciplina dell’ordinamento della professione forense.
11.
Per la convenienza della scelta arbitrale.
Nella comparazione tra processo ordinario e processo arbitrale assume
un particolare rilievo la gestione del fattore tempo.
Accanto all’ampia libertà e flessibilità che l’ordinamento consegna all’autonomia delle parti in ordine alla gestione del « processo » arbitrale, altri
fattori concorrono a determinare la maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario.
(17) Cfr. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012, Roma, 25 gennaio
2013, 71 in www.cortedicassazione.it.
(18) Così, testualmente, la Relazione sopra citata, 72.
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Fra questi rileva in primo luogo il fattore « tempo ».
Il tempo necessario per conseguire la pronuncia arbitrale evidenzia la
maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario sotto due
distinti profili:
(i) la prevedibilità e
(ii) la disponibilità.
Per quanto riguarda il primo profilo, la legge dispone che se non è fissato
un termine per la pronuncia del lodo questo deve essere pronunciato entro
240 giorni dalla accettazione della nomina da parte degli arbitri (art. 820
c.p.c.).
Le parti sono quindi poste in grado di conoscere, sin dalla stipulazione
della convenzione arbitrale (o del compromesso), il tempo necessario per
ottenere la decisione della controversia.
È vero che determinati eventi (o ragioni sopravvenute) possono comportare uno slittamento del tempo della decisione finale degli arbitri (assunzione
di mezzi di prova o licenziamento di consulenza tecnica, pronuncia di un lodo
non definitivo o parziale, modificazione della composizione dell’organo arbitrale), ma anche in queste ipotesi i tempi della proroga sono scanditi dalle
norme e sono quindi anch’essi prevedibili.
La prevedibilità del tempo della decisione è certamente un valore rilevante, di particolare interesse per le parti in conflitto: essa consente, quanto
meno, una programmazione delle attività che possono essere incise dalla
decisione arbitrale in funzione dei prevedibili tempi di essa.
Ma anche il secondo profilo evidenziato, relativo alla disponibilità del
tempo dell’arbitrato, è assai rilevante.
Le parti possono, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, non
soltanto prevedere ex ante (con la convenzione arbitrale o il compromesso) il
termine per la pronuncia del lodo in misura maggiore o minore di quello
generalmente previsto dalla legge, ma anche — con il consenso dell’organo
arbitrale — prorogare una o più volte il termine.
All’interno del procedimento arbitrale, poi, le parti possono modulare
come meglio ritengono le scansioni temporali per l’espletamento delle attività
necessarie per giungere alla decisione arbitrale.
I tempi del processo arbitrale non sono rigidamente scanditi come nel
processo ordinario e, ciò che più conta, essi sono disponibili, in quanto anche
sotto questo profilo vige il principio che privilegia l’autonomia delle parti.
Si è quindi in presenza di una straordinaria flessibilità del tempo del
processo (a seconda della convenienza delle parti) alla quale si contrappone la
rigidità delle scansioni temporali del processo civile.
In altri termini, mentre nel giudizio ordinario i tempi sono eterodiretti
(dalla legge, dal giudice), nel processo arbitrale essi sono dettati dall’autonomia delle parti.
La circostanza che, con la riforma del 2006, il termine per la pronuncia del
lodo possa essere prorogato, anche su istanza degli arbitri (o di una sola
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parte), ad opera del Presidente del Tribunale (art. 820, comma 3, lett. b) c.p.c.)
rappresenta una eccezione alla regola generale che vede nelle parti i soggetti
legittimati a disporre del tempo dell’arbitrato.
Non vi è dubbio, allora, che il dominio ad opera delle parti del fattore
tempo (nel procedimento e nella decisione arbitrale) è elemento che caratterizza l’arbitrato e contemporaneamente ne esalta la competitività rispetto al
processo ordinario (19).
Un aspetto che è spesso sottolineato dai detrattori della scelta arbitrale
riguarda l’eccessivo costo di questo strumento di risoluzione delle controversie.
È opinione diffusa (e risalente) che l’arbitrato sia uno strumento di
risoluzione delle controversie civili molto costoso e, in quanto tale, elitario.
Tale opinione merita di essere rivisitata (e rivista) alla luce dell’evoluzione che il fenomeno arbitrale ha conosciuto negli ultimi decenni.
Le iniziative assunte dagli organi comunitari già nell’ultimo decennio del
secolo scorso, intese a favorire il ricorso a metodi alternativi di risoluzione
delle controversie civili e commerciali, hanno fatto emergere le potenzialità
dell’arbitrato anche con riferimento a controversie di valore non particolarmente elevato, ferma restando la cautela, suggerita anche dalla Corte di
Giustizia, rispetto alla generale applicazione dell’arbitrato nella materia dei
diritti dei consumatori (20).
L’indagine dal punto di vista del diritto comparato, inoltre, consente di
rilevare una generale tendenza volta a favorire il ricorso allo strumento
arbitrale.
In questa prospettiva il problema dei costi dell’arbitrato assume un
particolare rilievo, poiché l’onerosità della procedura può costituire effettivamente un deterrente rispetto alla scelta arbitrale.
La questione, tuttavia, deve essere affrontata distinguendo le varie componenti del costo dell’arbitrato.
Innanzi tutto dalle voci del costo dell’arbitrato deve essere scomputata
quella riferita all’assistenza legale (non obbligatoria, tra l’altro, ma ora a
differenza del passato, riservata agli avvocati nell’ambito dell’arbitrato rituale
ex art. 2, comma V, della legge n. 247 del 2012) posto che il costo di essa è del
tutto analogo a quello da sostenersi in un ordinario processo di cognizione.
(19) Condividono l’opinione che il tempo della decisione costituisca un fattore di
competitività dell’arbitrato rispetto al processo civile ALPA-V. VIGORITI (Arbitrato (nuovi profili
dell’) in Digesto IV, Discipline privatistiche, Sez. Civile, Aggiornamento, 2011, 38 ss., spec. 71),
ma sottolineano nel contempo la tendenza, specialmente nell’arbitrato amministrato, a sottrarre
alle parti il controllo del termine per la pronuncia del lodo. La constatazione è condivisibile, ma
non è a mio avviso ostativa alle conclusioni enunciate nel testo.
(20) Per un inquadramento delle delicate questioni che si pongono in tema di arbitrato
delle controversie dei consumatori v., se vuoi, GALLETTO, Arbitrato e conciliazione nei contratti
dei consumatori, in (a cura di ALPA-VIGORITI) Arbitrati. Milano, 2012, Sezione IV, Cap. I, 92 ss.
Particolarmente importanti sono, in proposito, le decisioni della Corte di Giustizia Mostaza, 26
ottobre 2006, C-168/05 e Asturcom, 6 ottobre 2009, C-40/08.
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Il costo per la gestione amministrativa dell’arbitrato, riferibile alla funzione di segreteria, è invece effettivamente più elevato — in generale —
dell’importo del contributo unificato dovuto per le cause in sede ordinaria, ma
il servizio reso non è in alcun modo paragonabile a quello effettuato dalle
cancellerie dei tribunali (21).
Il costo relativo alla remunerazione dell’organo arbitrale, infine, è peculiare della procedura prescelta e non comparabile con un analogo costo
riferito al processo ordinario.
Tale costo, peraltro, non è altro che il riflesso, sotto il profilo patrimoniale, della circostanza per cui nell’arbitrato sono le stesse parti (direttamente
o in via mediata) a scegliere il/i componente/i dell’organo giudicante.
I vantaggi di questa opportunità, che consente di individuare i soggetti
astrattamente più idonei (per capacità, esperienza) a dirimere il conflitto, non
necessitano di particolari sottolineature e valgono certamente a giustificare la
maggior onerosità, sotto questo profilo, della scelta arbitrale (22).
D’altra parte, anche nel processo arbitrale vige il principio della soccombenza, in base al quale i costi del processo devono essere rimborsati alla parte
vincitrice.
In questa prospettiva deve essere disapprovata la tendenza degli arbitri
(per la verità oggi meno diffusa che in passato) a compensare tra le parti i costi
della procedura anche in assenza di plausibili ragioni giustificative di tale
scelta. Quest’ultima, tra l’altro, poteva forse in passato trarre spunto da una
inesatta percezione del fenomeno arbitrale, da taluno inteso quale strumento
volto a perseguire una soluzione in senso lato transattiva della controversia.
Oggi una tale visione dell’arbitrato non è più sostenibile, anche alla luce
della recente riforma del 2006 che ha fortemente accentuato la connotazione
processuale dell’arbitrato (emblematica è, in proposito, l’equiparazione — di
cui all’art. 824-bis c.p.c. — del lodo, quanto agli effetti, alla sentenza civile).
La tendenza dell’ordinamento processuale civile, tra l’altro, è evidentemente orientata a considerare eccezionale l’ipotesi di compensazione (parziale o totale) delle spese di causa (v. artt. 91 e 92 c.p.c. nel testo novellato nel
2009), e non vi è ragione per una diversa soluzione nell’ambito del processo
arbitrale.
(21) Questa affermazione di maggiore onerosità del costo della gestione amministrativa
dell’arbitrato rispetto al costo del contributo unificato dovuto per le cause in sede ordinaria è
suscettibile di essere messa in discussione in conseguenza del vertiginoso aumento degli importi
del contributo unificato che, rispetto alla originaria quantificazione al momento della sua
introduzione nel 2002 risultano alla data odierna incrementati del 500% come è stato rilevato
da una recente indagine pubblicata il 28 gennaio 2013 da Il Sole-24ore.
(22) Si è in proposito rilevato che « L’affermazione corrente che l’arbitrato sia oneroso, e
che lo sia in misura incomparabilmente superiore al processo ordinario, risponde dunque al vero,
ma si spiega con la complessività dell’apparato. In ogni caso essa vale solo nell’ottica dell’esborso
di denaro, e non tiene conto dei costi che derivano dall’immobilizzazione dei capitali e dall’incertezza dei rapporti esasperata dalla durata del processo civile. » (ALPA - VIGORITI, Arbitrato
(nuovi profili dell’), cit., 67).
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Attraverso il corretto uso del potere di allocare le spese originate dalla
controversia, allora, il maggiore costo della procedura arbitrale dovrebbe
tendenzialmente fare carico alla parte soccombente, rendendo neutri per la
parte vincitrice gli effetti patrimoniali della scelta arbitrale, in astratto più
onerosa di quella del giudizio ordinario.
Anche l’opzione per un organo arbitrale monocratico può contribuire a
diminuire la maggiore onerosità dei costi arbitrali rispetto a quelli del giudizio
ordinario e questa scelta, in effetti, è sempre più privilegiata nell’ambito
dell’arbitrato amministrato, naturalmente ove la natura della controversia e la
convenzione di arbitrato lo consentano.
L’arbitrato amministrato, per parte sua, si propone quale scelta privilegiata sia in ragione della prevedibilità dei costi della procedura (generalmente
più competitivi di quelli risultanti dalle tariffe forensi), sia per la maggior
professionalità del servizio complessivamente reso alle parti.
Come è stato rilevato da autorevole dottrina « in questa materia la
funzione delle Camere arbitrali è veramente preziosa e porta ad esaltare la
convenienza dell’arbitrato amministrato e a giustificarne la preferenza rispetto
all’arbitrato ad hoc.
Invero la formazione e la diffusione di tabelle contenenti le misure minime
e massime delle spese dell’arbitrato nonché delle spese amministrative, e dei
compensi agli arbitri, coniugate con la sottrazione agli arbitri e il conferimento
agli organi delle istituzioni arbitrali del potere di determinare queste spese e
questi compensi sono la risposta più idonea alle critiche e ai sospetti che, in
materia di costi dell’arbitrato, hanno investito, soprattutto in questi ultimi tempi,
l’arbitrato, giungendo sino a provocare provvedimenti legislativi per vietarne
l’applicazione e proclamare la nullità dei relativi patti compromissori.
Tutto ciò significa che l’arbitrato amministrato rappresenta la forma più
evoluta di arbitrato, adeguata al nostro tempo e capace di rispondere all’attesa
di soluzioni delle controversie rapide ed efficienti, e di garantire e soddisfare la
domanda di giustizia di tutti, soggetti pubblici e privati.
Arbitrato amministrato, dunque come « servizio », ma anche come « ufficio » socialmente elevato, strumento di giustizia a vantaggio della collettività e
segno di progresso e di civiltà » (23).
In ogni caso, e conclusivamente sul punto, deve rilevarsi che, come è stato
recentemente sottolineato, l’arbitrato è un genus ricco di molte species, atte a
garantire tutela anche in caso di ridotta importanza economica delle aspettative (24).
(23) In questo senso, testualmente, PUNZI, Brevi note in tema di arbitrato amministrato in
Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 1325 ss. spec. 1337.
(24) Cfr. ALPA - VIGORITI, Arbitrato (nuovi profili dell’), cit., 67, i quali osservano che « Il
confronto fra processo ordinario e arbitrato in punto di costi non può essere quindi impostato in
termini semplicistici, segnando solo la dispendiosità del secondo, perché l’arbitrato sa essere
funzionale anche alla tutela di interessi minori, con oneri addirittura inferiori a quelli del processo
ordinario. ».
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Merita infine un cenno, nella prospettiva qui sostenuta della convenienza
della scelta arbitrale, la questione della fiscalità nell’arbitrato.
Esula certamente dalle finalità dell’intervento (e dalle capacità del suo
autore) una approfondita disamina dei profili fiscali riconducibili al fenomeno
arbitrale.
I complessi meccanismi dell’imposizione indiretta in tema di arbitrato
formano oggetto di indagini specialistiche che, ancora recentemente, ne hanno
chiarito l’ambito applicativo; ad essi è quindi opportuno fare rinvio per una
esaustiva trattazione (25).
L’attenzione al profilo fiscale in questo contesto, invece, è incentrata sulla
verifica della sussistenza o meno di ragioni che, dal punto di vista tributario,
inducano a preferire lo strumento arbitrale al giudizio ordinario.
In disparte i profili relativi all’imposta di bollo, alla quale sono soggetti
tutti gli atti e i provvedimenti del procedimento arbitrale, salva diversa
regolamentazione, mentre nel processo civile ordinario l’imposizione avviene
su base forfettaria (il c.d. contributo unificato), ciò che maggiormente rileva
attiene all’imposta di registro.
Con riferimento a quest’ultima, a seguito delle riforme introdotte nel
codice di rito in materia di arbitrato, risulta che il solo lodo arbitrale omologato è soggetto ad imposizione di registro secondo quanto disposto dall’art. 8
Tariffa, Parte I, allegata al T.U. n. 131/1986, purché emesso nel territorio dello
Stato.
Un’imposizione, quindi, sostanzialmente analoga a quella applicabile alle
sentenze del giudice civile ordinario.
Del tutto diversa, invece, l’ipotesi del lodo arbitrale non omologato, che
è soggetto a tassazione solo in caso d’uso (art. 2, Tariffa, Parte II).
In questa prospettiva emerge un aspetto di maggior competitività dell’arbitrato.
Come è stato correttamente rilevato, infatti, « tale disposizione rappresenta certamente l’aspetto caratterizzante dell’imposizione sull’arbitrato, in
quanto finisce per rimettere all’interesse delle parti l’imposizione sul lodo,
consentendo così di giungere alla soluzione della controversia e ad una spontanea attuazione del lodo senza l’aggravio di costi fiscali. In tal modo è
l’interesse delle parti a condizionare l’imposizione, ricadendo sul soccombente
anche l’onere dell’imposta di registro, evitabile in presenza della prevenzione
della procedura esecutiva e della preventiva dichiarazione di esecutività del lodo
finalizzata a ciò.
(25) Per una completa disamina dei profili fiscali dell’arbitrato v. per tutti DOMINICI,
Aspetti tributari in ALPA-VIGORITI (a cura di), L’arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto
processuale, Torino, 2012, 1481 ss.
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Con tale sistema di imposizione si è in effetti incentivato in modo rilevante
il ricorso alla giustizia privata, sottraendo l’imposizione sul processo agli
automatismi propri della funzione pubblica svolta dagli organi dell’amministrazione della giustizia » (26).
La maggior appetibilità dello strumento arbitrale sotto il profilo dell’imposizione indiretta, peraltro, si esaurisce nei limiti sopra indicati (lodo non
omologato che non necessiti del ricorso alla esecuzione forzata).
Il legislatore non ha sinora ritenuto opportuno introdurre norme agevolative della fiscalità indiretta nell’arbitrato, come invece ha fatto ad esempio in
materia di procedimenti di mediazione finalizzati alla conciliazione delle
controversie civili e commerciali, di cui al D.lg.vo 28 del 2010.
Ai sensi dell’art. 17 del menzionato Decreto, infatti, i verbali di conciliazione redatti presso organismi abilitati sono esenti dall’imposta di registro
entro il limite di valore di 50.000 euro, e l’imposta è dovuta solo per la parte
eventualmente eccedente (l’intero procedimento, poi, è esente da imposta di
bollo e sono previsti crediti di imposta, sino a 500 euro, per le indennità
corrisposte agli organismi di mediazione).
È evidente come la previsione di una analoga agevolazione fiscale per
l’arbitrato potrebbe conseguire il risultato di incentivare le parti a fare ricorso
allo strumento arbitrale, con conseguente effetto deflattivo del contenzioso
civile ordinario.
Pur non essendo possibile individuare l’importo in termini di minor
gettito tributario di una siffatta previsione normativa, se si rammentano i costi
per la collettività della inefficienza della giustizia civile (che la Banca d’Italia
calcola in un punto percentuale del P.I.L. annuo) ne deriva che il minor gettito
riveniente dalla imposizione indiretta applicata alle sentenze civili sarebbe
ampiamente compensato dal minor costo globale del « servizio giustizia ».
In questa prospettiva non sembra allora azzardato auspicare un intervento del legislatore fiscale inteso ad agevolare — nei limiti compatibili con le
esigenze di bilancio — il ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione
delle controversie civili e commerciali, contribuendo così a completare il
quadro normativo che, come si è cercato di illustrare, determina la maggiore
competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio civile ordinario.
Questo intervento agevolativo avrebbe, tra l’altro, l’effetto di invogliare
le parti a ricorrere allo strumento arbitrale (in ipotesi all’arbitrato amministrato) con corrispondente diminuzione dell’accesso alla giustizia ordinaria.
Se è pacifica l’impossibilità per il legislatore di prevedere ipotesi di
arbitrato obbligatorio, non altrettanto può dirsi di iniziative incentivanti sotto
il profilo fiscale, idonee ad orientare la libera determinazione delle parti di
avvalersi dello strumento arbitrale.
(26)
Cfr. TINELLI, Profili tributari dell’arbitrato, in questa Rivista, 1993, 29, spec. 38.
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12.
Conclusioni.
Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza è possibile cercare di
trarre le fila del discorso per giungere ad alcune sintetiche conclusioni.
Per quanto riguarda la astratta percorribilità della scelta arbitrale per la
regolazione delle controversie che traggano origine da accordi di ristrutturazione del debito non sembra siano rinvenibili ostacoli che impediscano il
ricorso all’arbitrato nella materia considerata.
Per quanto concerne le eventuali ragioni di inopportunità dell’opzione
arbitrale, l’esito della sintetica comparazione tra processo ordinario e processo
arbitrale che è stata svolta in precedenza depone significativamente in favore
dell’arbitrato.
La maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario
quanto ai tempi di conseguimento di una decisione sul merito della lite è
oggettivamente innegabile, anche a fronte delle statistiche sulla durata media
di un giudizio di primo grado che sono state precedentemente ricordate.
L’aspetto sul quale è opportuno riflettere, peraltro, non è solo quello
della velocità della conclusione del procedimento: altrettanta importanza,
infatti, deve essere riconosciuta alla disponibilità dei tempi del processo
arbitrale che è riservata alle parti e che è un vero e proprio valore aggiunto
peculiare dello strumento arbitrale.
Anche per quanto riguarda il fattore costo, rispetto al quale non può
negarsi una potenziale maggiore onerosità dell’arbitrato rispetto al giudizio
ordinario, deve rilevarsi il profilo economico dei numerosi vantaggi indiretti
che sono offerti dall’arbitrato.
La possibilità di scegliere il giudice più adatto a risolvere una determinata
controversia, invero, non ha termine di comparazione con il giudizio ordinario
e costituisce un valore suscettibile di quantificazione economica.
La decisione assunta da persona competente, infatti, tende ad assicurare
maggiore stabilità alla pronuncia ed a scoraggiare l’impugnazione, con evidenti vantaggi per la parte vittoriosa in termini di tempo necessario ad
ottenere l’adempimento dell’obbligazione controversa.
In questa prospettiva, allora, il maggior costo della procedura arbitrale si
dissolve a fronte del costo riconducibile al protrarsi per molti anni (in qualche
caso oltre un decennio) delle controversie davanti al giudice ordinario con
conseguente impossibilità di programmazione basata sull’esito della lite.
L’arbitrato, specialmente se amministrato con conseguente controllo
sulla regolarità formale della procedura, esce vincitore anche nella sfida sul
costo, per le ragioni sinteticamente ricordate in precedenza.
Certo il cammino per una compiuta affermazione dell’arbitrato è ancora
lungo, ma non è senza significato che — in un recente convegno — il
Vice-Presidente della Corte Costituzionale abbia avuto modo di osservare che
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« intermediazione preventiva e arbitrato possono anche lasciare scorgere, naturalmente in lontananza, lo scenario, eventuale e probabile, di un futuro
privatistico della stessa giustizia civile e amministrativa » (27).
Non vi sono allora ragioni per escludere la possibile convivenza tra
accordi di ristrutturazione dei debiti e strumento arbitrale, specialmente se
l’opzione in favore di quest’ultimo è accompagnata dall’ulteriore scelta dell’arbitrato amministrato che garantisce ex ante la conoscibilità delle regole del
processo e dei costi della procedura.
In questa prospettiva non sembrano rinvenibili oggettive ragioni, né sotto
il profilo giuridico, né sotto quello dell’opportunità, che giustifichino la mancata opzione in favore dello strumento arbitrale per la risoluzione delle
controversie originate da accordi ex art. 182-bis l.f.
D’altra parte, e conclusivamente, è singolare la constatazione che vede da
un lato gli operatori escludere il ricorso allo strumento arbitrale nell’ambito
dei menzionati accordi e, dall’altro, le banche sottoporre a giudizio arbitrale le
controversie che possano tra loro insorgere in relazione agli obblighi derivanti
dal « Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi d’impresa », predisposto dalla Associazione
Bancaria Italiana (circolare serie legale n. 9 del 3 aprile 2000).
Anche per queste ragioni non può che auspicarsi che in futuro gli accordi
di ristrutturazione dei debiti contemplino il ricorso alla soluzione arbitrale,
mediante procedura amministrata, per la risoluzione delle controversie che da
essi traggano origine.
(27) MAZZELLA, Riflessioni sulla giustizia tra teoria e prassi, intervento al Convegno « La
giustizia: teoria e prassi », organizzato dalla Scuola Superiore di studi avanzati Università degli
Studi di Roma « La Sapienza », Roma, 6 marzo 2013, pag. 12 del dattiloscritto.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
La riforma dell’arbitrato in Belgio
Si riporta qui di seguito il testo francese della legge belga del 24 giugno
2013, pubblicata il 28 giugno 2013 ed entrata in vigore il 1° settembre 2013, che
ha riformato la disciplina dell’arbitrato.
Loi modifiant la sixième partie du Code judiciaire relative à l’arbitrage
(Loi 24 juin 2013)
CHAPITRE 1er.
Disposition générale
er
Article 1 . - La présente loi règle une matière visée à l’article 78 de la
Constitution.
CHAPITRE 2. - Modifications de la sixième partie
du Code judiciaire relative à l’arbitrage
Art. 2. Dans le Code judiciaire, les articles 1676 à 1723 de la sixième
partie, intitulée “L’arbitrage”, insérée par la loi du 4 juillet 1972 et modifiée
par les lois des 27 mars 1985 et 19 mai 1998, sont abrogés.
Art. 3. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre 1er
intitulé “Chapitre 1er. Dispositions générales”.
Art. 4. Dans le chapitre 1er inséré par l’article 3, il est inséré un article
1676 rédigé comme suit:
“Art. 1676. § 1er. Toute cause de nature patrimoniale peut faire l’objet
d’un arbitrage. Les causes de nature non-patrimoniale sur lesquelles il est
permis de transiger peuvent aussi faire l’objet d’un arbitrage.
§ 2. Quiconque a la capacité ou le pouvoir de transiger, peut conclure une
convention d’arbitrage.
§ 3. Sans préjudice des lois particulières, les personnes morales de droit
public ne peuvent conclure une convention d’arbitrage que lorsque celle-ci a
pour objet le règlement de différends relatifs à une convention. La convention
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d’arbitrage est soumise aux mêmes conditions quant à sa conclusion que la
convention qui fait l’objet de l’arbitrage. En outre, les personnes morales de
droit public peuvent conclure une convention d’arbitrage en toutes matières
déterminées par la loi ou par arrêté royal délibéré en Conseil des ministres.
Cet arrêté peut également fixer les conditions et les règles à respecter relatives
à la conclusion de la convention.
§ 4. Les dispositions qui précèdent sont applicables sous réserve des
exceptions prévues par la loi.
§ 5. Sous réserve des exceptions prévues par la loi, est nulle de plein droit
toute convention d’arbitrage conclue avant la naissance d’un litige dont le
tribunal du travail doit connaître en vertu des articles 578 à 583.
§ 6. Les articles 5 à 14 de la loi du 16 juillet 2004 portant le Code de droit
international privé s’appliquent en matière d’arbitrage et les juges belges sont
également compétents lorsque le lieu de l’arbitrage se trouve en Belgique au
sens de l’article 1701, § 1er, lors de l’introduction de la demande.
Tant que le lieu de l’arbitrage n’est pas fixé, les juges belges sont
compétents en vue de prendre les mesures visées aux articles 1682 et 1683. §
7. Sauf convention contraire des parties, la sixième partie du présent
Code s’applique lorsque le lieu de l’arbitrage au sens de l’article 1701, § 1er,
est situé en Belgique.
§ 8. Par dérogation au § 7, les dispositions des articles 1682, 1683, 1696 à
1698, 1708 et 1719 à 1722 s’appliquent quel que soit le lieu de l’arbitrage et
nonobstant toute clause conventionnelle contraire.”.
Art. 5. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1677 rédigé comme
suit:
“Art. 1677. § 1er. Dans la présente partie du Code, 1° les mots “tribunal
arbitral” désignent un arbitre unique ou plusieurs arbitres; 2° le mot “communication” désigne la transmission d’une pièce écrite tant entre les parties
qu’entre les parties et les arbitres et entre les parties et les tiers qui organisent
l’arbitrage, moyennant un moyen de communication ou d’une manière qui
fournit une preuve de l’envoi.
§ 2. Lorsqu’une disposition de la présente partie, à l’exception de l’article
1710, permet aux parties de décider d’une question qui y est visée, cette liberté
emporte le droit pour les parties d’autoriser un tiers à décider de cette
question.”.
Art. 6. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1678 rédigé comme
suit:
“Art. 1678. § 1er. Sauf convention contraire des parties, la communication
est remise ou envoyée au destinataire en personne, ou à son domicile, ou à sa
résidence, ou à son adresse électronique ou s’il s’agit d’une personne morale,
à son siège statutaire, ou à son établissement principal ou à son adresse
électronique.
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Si aucun de ces lieux n’a pu être trouvé après une enquête raisonnable,
la communication s’effectue valablement par sa remise ou son envoi au
dernier domicile connu ou à la dernière résidence connue, ou s’il s’agit d’une
personne morale, au dernier siège statutaire connu ou au dernier établissement principal connu ou à la dernière adresse électronique connue.
§ 2. Sauf convention contraire des parties, les délais qui commencent à
courir à l’égard du destinataire, à partir de la communication, sont calculés:
a) lorsque la communication est effectuée par remise contre un accusé de
réception daté, à partir du premier jour qui suit;
b) lorsque la communication est effectuée par courrier électronique ou
par un autre moyen de communication qui fournit une preuve de l’envoi, à
partir du premier jour qui suit la date indiquée sur l’accusé de réception;
c) lorsque la communication est effectuée par courrier recommandé avec
accusé de réception, à partir du premier jour qui suit celui où le courrier a été
présenté au destinataire en personne à son domicile ou à sa résidence, soit à
son siège statutaire ou son établissement principal ou, le cas échéant, au
dernier domicile connu ou la dernière résidence connue soit au dernier siège
statutaire connu soit au dernier établissement principal connu;
d) lorsque la communication est effectuée par courrier recommandé, à
partir du troisième jour ouvrable qui suit celui où le courrier a été présenté
aux services postaux, à moins que le destinataire apporte la preuve contraire.
§ 3. La communication est présumée être effectuée au destinataire le jour
de l’accusé de réception.
§ 4. Le présent article ne s’applique pas aux communications échangées
dans le cadre d’une procédure judiciaire.”.
Art. 7. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1679 rédigé comme
suit:
“Art. 1679. Une partie qui, en connaissance de cause et sans motif
légitime, s’abstient d’invoquer en temps utile une irrégularité devant le
tribunal arbitral est réputée avoir renoncé à s’en prévaloir.”.
Art. 8. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1680 rédigé comme
suit:
“Art. 1680. § 1er. Le président du tribunal de première instance, statuant
comme en référé, sur requête unilatérale présentée par la partie la plus
diligente, désigne l’arbitre conformément à l’article 1685, §§ 3 et 4.
Le président du tribunal de première instance statuant comme en référé,
sur citation procède au remplacement de l’arbitre, conformément à l’article
1689, § 2.
La décision de nomination ou de remplacement de l’arbitre n’est pas
susceptible de recours.
Toutefois, appel peut être interjeté contre cette décision lorsque le
président du tribunal de première instance déclare n’y avoir lieu à nomination.
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§ 2. Le président du tribunal de première instance statuant comme en
référé, sur citation, se prononce sur le déport d’un arbitre conformément à
l’article 1685, § 7, sur la récusation d’un arbitre conformément à l’article 1687,
§ 2, et sur la carence ou l’incapacité d’un arbitre dans le cas prévu à l’article
1688, § 2. Sa décision n’est susceptible d’aucun recours.
§ 3. Le président du tribunal de première instance statuant comme en
référé, peut impartir un délai à l’arbitre pour rendre sa sentence dans les
conditions prévues à l’article 1713, § 2. Sa décision n’est susceptible d’aucun
recours.
§ 4. Le président du tribunal de première instance statuant comme en
référé prend toutes les mesures nécessaires en vue de l’obtention de la preuve
conformément à l’article 1709. Sa décision n’est susceptible d’aucun recours.
§ 5. Sauf dans les cas visés aux §§ 1er à 4, le tribunal de première instance,
est compétent. Il statue, sur citation, en premier et dernier ressort.
§ 6. Sous réserve de l’article 1720, les actions visées au présent article sont
de la compétence du juge dont le siège est celui de la cour d’appel dans le
ressort duquel est fixé le lieu de l’arbitrage.
Lorsque ce lieu n’a pas été fixé, est compétent le juge dont le siège est
celui de la cour d’appel dans le ressort duquel se trouve la juridiction qui eut
pu connaître du litige s’il n’avait pas être soumis à l’arbitrage.”.
Art. 9. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre II
intitulé “Chapitre II. Convention d’arbitrage”.
Art. 10. Dans le chapitre II inséré par l’article 9, il est inséré un article
1681 rédigé comme suit:
“Art. 1681. Une convention d’arbitrage est une convention par laquelle
les parties soumettent à l’arbitrage tous les différends ou certains des différends qui sont nés ou pourraient naître entre elles au sujet d’un rapport de
droit déterminé, contractuel ou non contractuel.”.
Art. 11. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1682 rédigé comme
suit:
“Art. 1682. § 1er. Le juge saisi d’un différend faisant l’objet d’une
convention d’arbitrage se déclare sans juridiction à la demande d’une partie,
à moins qu’en ce qui concerne ce différend la convention ne soit pas valable
ou n’ait pris fin. A peine d’irrecevabilité, l’exception doit être proposée avant
toutes autres exceptions et moyens de défense.
§ 2. Lorsque le juge est saisi d’une action visée au § 1er, la procédure
arbitrale peut néanmoins être engagée ou poursuivie et une sentence peut être
rendue.”.
Art. 12. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1683 rédigé comme
suit:
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“Art. 1683. Une demande en justice, avant ou pendant la procédure
arbitrale, en vue de l’obtention de mesures provisoires ou conservatoires et
l’octroi de telles mesures ne sont pas incompatibles avec une convention
d’arbitrage et n’impliquent pas renonciation à celle-ci.”.
Art. 13. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre III
intitulé “Chapitre III. Composition du tribunal arbitral”.
Art. 14. Dans le chapitre III inséré par l’article 13, il est inséré un article
1684 rédigé comme suit:
“Art. 1684. § 1er. Les parties peuvent convenir du nombre d’arbitres
pourvu qu’il soit impair. Il peut y avoir un arbitre unique.
§ 2. Si les parties ont prévu un nombre pair d’arbitres, il est procédé à la
nomination d’un arbitre supplémentaire.
§ 3. A défaut d’accord entre les parties sur le nombre d’arbitres, le
tribunal arbitral est composé de trois arbitres.”.
Art. 15. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1685 rédigé comme
suit:
“Art. 1685. § 1er. Sauf convention contraire des parties, une personne ne
peut, en raison de sa nationalité, être empêchée d’exercer la fonction d’arbitre.
§ 2. Sans préjudice des §§ 3 et 4 ainsi que de l’exigence générale
dindépendance et d’impartialité du ou des arbitres, les parties peuvent convenir de la procédure de désignation de l’arbitre ou des arbitres.
§ 3. Faute d’une telle convention;
a) en cas d’arbitrage par trois arbitres, chaque partie désigne un arbitre
et les deux arbitres ainsi désignés choisissent le troisième arbitre; si une partie
ne désigne pas un arbitre dans un délai d’un mois à compter de la réception
d’une demande à cette fin émanant de l’autre partie, ou si les deux arbitres ne
s’accordent pas sur le choix du troisième arbitre dans un délai d’un mois à
compter de la désignation du deuxième arbitre, il est procédé à la désignation
du ou des arbitres par le président du tribunal de première instance statuant
sur requête de la partie la plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er;
b) en cas d’arbitrage par un arbitre unique, si les parties ne peuvent
s’accorder sur le choix de l’arbitre, celui-ci est désigné par le président du
tribunal de première instance statuant sur requête de la partie la plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er;
c) en cas d’arbitrage par plus de trois arbitres, si les parties ne peuvent
s’accorder sur la composition du tribunal arbitral, celui-ci est désigné par le
président du tribunal de première instance statuant sur requête de la partie la
plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er.
§ 4. Lorsque, durant une procédure de désignation convenue par les
parties,
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a) une partie n’agit pas conformément à ladite procédure; ou
b) les parties, ou deux arbitres, ne peuvent parvenir à un accord conformément à ladite procédure; ou un tiers, y compris une institution, ne s’acquitte
pas d’une fonction qui lui a été conférée dans ladite procédure, l’une ou
l’autre partie peut demander au président du tribunal de première instance
statuant conformément à l’article 1680, § 1er, de prendre la mesure voulue, à
moins que la convention relative à la procédure de désignation ne stipule
d’autres moyens pour assurer cette désignation.
§ 5. Lorsqu’il désigne un arbitre, le président du tribunal tient compte de
toutes les qualifications requises de l’arbitre en vertu de la convention des
parties et de toutes considérations propres à garantir la désignation d’un
arbitre indépendant et impartial.
§ 6. La désignation d’un arbitre ne peut être rétractée après avoir été
notifiée.
§ 7. L’arbitre qui a accepté sa mission ne peut se retirer que de l’accord
des parties ou moyennant l’autorisation du président du tribunal de première
instance statuant conformément à l’article 1680, § 2.”.
Art. 16. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1686 rédigé comme
suit:
“Art. 1686. § 1er. Lorsqu’une personne est pressentie en vue de sa
désignation éventuelle en qualité d’arbitre, elle signale toute circonstance de
nature à soulever des doutes légitimes sur son indépendance ou son impartialité. A partir de la date de sa désignation et durant toute la procédure
arbitrale, l’arbitre signale sans délai aux parties toutes nouvelles circonstances
de cette nature.
§ 2. Un arbitre ne peut être récusé que s’il existe des circonstances de
nature à soulever des doutes légitimes sur son indépendance ou son impartialité, ou s’il ne possède pas les qualifications convenues par les parties. Une
partie ne peut récuser l’arbitre qu’elle a désigné ou à la désignation duquel
elle a participé que pour une cause dont elle a eu connaissance après cette
désignation.”.
Art. 17. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1687 rédigé comme
suit:
“Art. 1687. § 1er. Les parties peuvent convenir de la procédure de
récusation d’un arbitre.
§ 2. Faute d’un tel accord:
a) la partie qui a l’intention de récuser un arbitre expose par écrit les
motifs de récusation à l’arbitre concerné, le cas échéant aux autres arbitres si
le tribunal en comporte, et à la partie adverse. A peine d’irrecevabilité, cette
communication intervient dans un délai de quinze jours à compter de la date
à laquelle la partie récusante a eu connaissance de la constitution du tribunal
arbitral ou de la date à laquelle elle a eu connaissance des circonstances visées
à l’article 1686, § 2.
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b) Si, dans un délai de dix jours à partir de la communication de la
récusation qui lui est faite, l’arbitre récusé ne se déporte pas ou que l’autre
partie n’admet pas la récusation, le récusant cite l’arbitre et les autres parties,
à peine d’irrecevabilité, dans un délai de dix jours, devant le président du
tribunal de première instance statuant conformément à l’article 1680, § 2.
Dans l’attente de la décision du président, le tribunal arbitral, y compris
l’arbitre récusé, peut poursuivre la procédure arbitrale et rendre une sentence.”.
Art. 18. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1688 rédigé comme
suit:
“Art. 1688. § 1er. Sauf convention contraire des parties, lorsqu’un arbitre
se trouve dans l’impossibilité de droit ou de fait de remplir sa mission, ou,
pour tout autre motif, ne s’acquitte pas de sa mission dans un délai raisonnable, son mandat prend fin s’il se retire dans les conditions prévues à l’article
1685, § 7, ou si les parties conviennent d’y mettre fin.
§ 2. S’il subsiste un désaccord quant à l’un quelconque de ces motifs, la
partie la plus diligente cite les autres parties ainsi que l’arbitre visé au § 1er
devant le président du tribunal de première instance qui statue conformément
à l’article 1680, § 2.
§ 3. Le fait qu’en application du présent article ou de l’article 1687, un
arbitre se retire ou qu’une partie accepte que la mission d’un arbitre prenne
fin, n’implique pas reconnaissance des motifs mentionnés à l’article 1687 ou
dans le présent article.”.
Art. 19. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1689 rédigé comme
suit:
“Art. 1689. § 1er. Dans tous les cas où il est mis fin à la mission de l’arbitre
avant que la sentence finale ne soit rendue, un arbitre remplaçant est désigné.
Cette désignation est effectuée conformément aux règles qui étaient applicables à la désignation de l’arbitre remplacé, à moins que les parties n’en
conviennent autrement.
§ 2. Si l’arbitre n’est pas remplacé conformément au § 1er, chaque partie
peut saisir le président du tribunal de première instance, statuant conformément à l’article 1680, § 1er.
§ 3. Une fois désigné l’arbitre remplaçant, les arbitres, après avoir
entendu les parties, décident s’il y a lieu de reprendre tout ou partie de la
procédure sans qu’ils puissent revenir sur la ou les sentences définitives
partielles qui auraient été rendues.”.
Art. 20. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre IV
intitulé “Chapitre IV. Compétence du tribunal arbitral”.
Art. 21. Dans le chapitre IV inséré par l’article 20, il est inséré un article
1690 rédigé comme suit:
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“Art. 1690. § 1er. Le tribunal arbitral peut statuer sur sa propre compétence, y compris sur toute exception relative à l’existence ou à la validité de
la convention d’arbitrage. A cette fin, une convention d’arbitrage faisant
partie d’un contrat est considérée comme une convention distincte des autres
clauses du contrat. La constatation de la nullité du contrat par le tribunal
arbitral n’entraîne pas de plein droit la nullité de la convention d’arbitrage.
§ 2. L’exception d’incompétence du tribunal arbitral doit être soulevée au
plus tard dans les premières conclusions communiquées par la partie qui
l’invoque, dans les délais et selon les modalités fixées conformément à l’article
1704.
Le fait pour une partie d’avoir désigné un arbitre ou d’avoir participé à
sa désignation ne la prive pas du droit de soulever cette exception.
L’exception prise de ce que la question litigieuse excèderait les pouvoirs
du tribunal arbitral doit être soulevée aussitôt que cette question est formulée
dans le cours de la procédure.
Dans les deux cas, le tribunal arbitral peut recevoir des exceptions
soulevées tardivement, s’il estime que le retard est justifié.
§ 3. Le tribunal arbitral peut statuer sur les exceptions visées au § 2 soit
en les traitant comme des questions à trancher préalablement soit dans sa
sentence au fond.
§ 4. La décision par laquelle le tribunal arbitral s’est déclaré compétent
ne peut faire l’objet d’un recours en annulation qu’en même temps que la
sentence au fond et par la même voie.
Le tribunal de première instance peut également, à la demande d’une des
parties, se prononcer sur le bien fondé de la décision d’incompétence du
tribunal arbitral.”.
Art. 22. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1691 rédigé comme
suit:
“Art. 1691. Sans préjudice des pouvoirs reconnus aux cours et tribunaux
en vertu de l’article 1683, et sauf convention contraire des parties, le tribunal
arbitral peut, à la demande d’une partie, ordonner les mesures provisoires ou
conservatoires qu’il juge nécessaires.
Le tribunal arbitral ne peut toutefois autoriser une saisie conservatoire.”.
Art. 23. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1692 rédigé comme
suit:
“Art. 1692. A la demande de l’une des parties, le tribunal arbitral peut
modifier, suspendre ou rétracter une mesure provisoire ou conservatoire.”.
Art. 24. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1693 rédigé comme
suit:
“Art. 1693. Le tribunal arbitral peut décider que la partie qui demande
une mesure provisoire ou conservatoire fournira une garantie appropriée.”.
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Art. 25. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1694 rédigé comme
suit:
“Art. 1694. Le tribunal arbitral peut décider qu’une partie communiquera
sans tarder tout changement important des circonstances sur la base desquelles la mesure provisoire ou conservatoire a été demandée ou accordée.”.
Art. 26. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1695 rédigé comme
suit:
“Art. 1695. La partie qui poursuit l’exécution d’une mesure provisoire ou
conservatoire est responsable de tous les frais et de tous les dommages causés
par la mesure à une autre partie, si le tribunal arbitral décide par la suite qu’en
l’espèce la mesure provisoire ou conservatoire n’aurait pas dû être prononcée.
Le tribunal arbitral peut accorder réparation pour ces frais et dommages à
tout moment pendant la procédure.”.
Art. 27. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1696 rédigé comme
suit:
“Art. 1696. § 1er. Une mesure provisoire ou conservatoire prononcée par
un tribunal arbitral est reconnue comme ayant force obligatoire et, sauf
indication contraire du tribunal arbitral, est déclarée exécutoire par le tribunal
de première instance, quel que soit le pays où elle a été prononcée, sous
réserve des dispositions de l’article 1697.
§ 2. La partie qui demande ou a obtenu qu’une mesure provisoire ou
conservatoire soit reconnue ou déclarée exécutoire en informe sans délai
l’arbitre unique ou le président du tribunal arbitral ainsi que de toute
rétractation, suspension ou modification de cette mesure.
§ 3. Le tribunal de première instance à qui est demandé de reconnaître ou
de déclarer exécutoire une mesure provisoire ou conservatoire peut ordonner
au demandeur de constituer une garantie appropriée si le tribunal arbitral ne
s’est pas déjà prononcé sur la garantie ou lorsqu’une telle décision est
nécessaire pour protéger les droits du défendeur et des tiers.”.
Art. 28. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1697 rédigé comme
suit:
“Art. 1697. § 1er. La reconnaissance ou la déclaration de la force exécutoire d’une mesure provisoire ou conservatoire ne peut être refusée que:
a) à la demande de la partie contre laquelle cette mesure est invoquée:
i) si ce refus est justifié par les motifs exposés à l’article 1721, § 1er, a), i.,
ii., iii., iv. ou v.; ou
ii) si la décision du tribunal arbitral concernant la constitution d’une
garantie n’a pas été respectée; ou
iii) si la mesure provisoire ou conservatoire a été rétractée ou suspendue
par le tribunal arbitral ou, lorsqu’il y est habilité, annulée ou suspendue par le
tribunal de l’Etat dans lequel a lieu l’arbitrage ou conformément à la loi selon
laquelle cette mesure a été accordée;
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ou
b) si le tribunal de première instance constate que l’un des motifs visés à
l’article 1721, § 1er, b) s’applique à la reconnaissance et à la déclaration
exécutoire de la mesure provisoire ou conservatoire.
§ 2. Toute décision prise par le tribunal de première instance pour l’un
des motifs visés au § 1er n’a d’effet qu’aux fins de la demande de reconnaissance et de déclaration exécutoire de la mesure provisoire ou conservatoire. Le tribunal de première instance auprès duquel la reconnaissance ou la
déclaration exécutoire est demandée n’examine pas, lorsqu’il prend sa décision, le bien fondé de la mesure provisoire ou conservatoire.”.
Art. 29. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1698 rédigé comme
suit:
“Art. 1698. Le juge des référés dispose, pour prononcer une mesure
provisoire ou conservatoire en relation avec une procédure d’arbitrage,
qu’elle ait ou non lieu sur le territoire belge, du même pouvoir que celui dont
il dispose en relation avec une procédure judiciaire. Il exerce ce pouvoir
conformément à ses propres procédures en tenant compte des particularités
de l’arbitrage.”.
Art. 30. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre V
intitulé “Chapitre V. Conduite de la procédure arbitrale”.
Art. 31. Dans le chapitre V inséré par l’article 30, il est inséré un article
1699 rédigé comme suit:
“Art. 1699. Nonobstant toute convention contraire, les parties doivent
être traitées sur un pied d’égalité et chaque partie doit avoir toute possibilité
de faire valoir ses droits, moyens et arguments dans le respect du contradictoire. Le tribunal arbitral veille au respect de cette exigence ainsi qu’au
respect de la loyauté des débats.”.
Art. 32. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1700 rédigé comme
suit:
“Art. 1700. § 1er. Les parties peuvent convenir de la procédure à suivre
par le tribunal arbitral.
§ 2. Faute d’une telle convention, le tribunal arbitral peut, sous réserve
des dispositions de la sixième partie du présent Code, fixer les règles de
procédure applicable à l’arbitrage comme il le juge approprié.
§ 3. Sauf convention contraire des parties, le tribunal arbitral apprécie
librement l’admissibilité des moyens de preuve et leur force probante.
§ 4. Le tribunal arbitral procède aux actes d’instruction nécessaires à
moins que les parties ne l’autorisent à y commettre l’un de ses membres.
Il peut entendre toute personne. Cette audition a lieu sans prestation de
serment.
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i une partie détient un élément de preuve, le tribunal arbitral peut lui
enjoindre de le produire selon les modalités qu’il détermine et au besoin, à
peine d’astreinte.
§ 5. A l’exception des demandes relatives à des actes authentiques, le
tribunal arbitral a le pouvoir de trancher les demandes de vérification d’écritures et de statuer sur la prétendue fausseté de documents.
Pour les demandes relatives à des actes authentiques, le tribunal arbitral
délaisse les parties à se pourvoir dans un délai déterminé devant le tribunal de
première instance.
Dans l’hypothèse visée à l’alinéa 2, les délais de l’arbitrage sont suspendus jusqu’au jour où le tribunal arbitral a eu communication par la partie la
plus diligente de la décision coulée en force de chose jugée sur l’incident. ”.
Art. 33. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1701 rédigé comme
suit:
“Art. 1701. § 1er. Les parties peuvent décider du lieu de l’arbitrage. Faute
d’une telle décision, ce lieu est fixé par le tribunal arbitral, compte tenu des
circonstances de l’affaire, en ce compris les convenances des parties.
Si le lieu de l’arbitrage n’a pas été déterminé par les parties ou par les
arbitres, le lieu où la sentence est rendue vaut comme lieu de l’arbitrage.
§ 2. Nonobstant les dispositions du § 1er et à moins qu’il en ait été
convenu autrement par les parties, le tribunal arbitral peut, après les avoir
consultées, tenir ses audiences et réunions en tout autre endroit qu’il estime
approprié.”.
Art. 34. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1702 rédigé comme
suit:
“Art. 1702. Sauf convention contraire des parties, la procédure arbitrale
commence à la date à laquelle la demande d’arbitrage est reçue par le
défendeur, conformément à l’article 1678, § 1er, a).”.
Art. 35. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1703 rédigé comme
suit:
“Art. 1703. § 1er. Les parties peuvent convenir de la langue ou des langues
à utiliser dans la procédure arbitrale. Faute d’un tel accord, le tribunal arbitral
décide de la langue ou des langues à utiliser dans la procédure. Cet accord ou
cette décision, à moins qu’il n’en soit convenu ou décidé autrement, s’applique à toute communication des parties, à toute procédure orale et à toute
sentence, décision ou autre communication du tribunal arbitral.
§ 2. Le tribunal arbitral peut ordonner que toute pièce soit accompagnée
d’une traduction dans la ou les langues convenues par les parties ou choisies
par le tribunal arbitral.”.
Art. 36. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1704 rédigé comme
suit:
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“Art. 1704. § 1er. Dans le délai et selon les modalités convenues par les
parties ou fixées par le tribunal arbitral, les parties développent l’ensemble de
leurs moyens et arguments à l’appui de leur demande ou de leur défense ainsi
que les faits au soutien de celle-ci.
Les parties peuvent convenir ou le tribunal arbitral peut décider l’échange de conclusions complémentaires, ainsi que de ses modalités, entre les
parties.
Les parties joignent à leurs conclusions toutes les pièces qu’elles souhaitent verser aux débats.
§ 2. Sauf convention contraire des parties, chaque partie peut modifier ou
compléter sa demande ou sa défense au cours de la procédure arbitrale, à
moins que le tribunal arbitral considère ne pas devoir autoriser un tel
amendement, notamment en raison du retard avec lequel il est formulé.”.
Art. 37. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1705 rédigé comme
suit:
“Art. 1705. § 1er. A moins que les parties n’aient convenu qu’il n’y aurait
pas de procédure orale, le tribunal arbitral organise une telle procédure à un
stade approprié de la procédure arbitrale, si une partie lui en fait la demande.
§ 2. Le président du tribunal arbitral règle l’ordre des audiences et dirige
les débats.”.
Art. 38. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1706 rédigé comme
suit:
“Art. 1706. Sauf convention contraire des parties, si, sans invoquer
d’empêchement légitime,
a) le demandeur ne développe pas sa demande conformément à l’article
1704, § 1er, le tribunal arbitral met fin à la procédure arbitrale, sans préjudice
du traitement des demandes d’une autre partie;
b) le défendeur ne développe pas sa défense conformément à l’article
1704, § 1er, le tribunal arbitral poursuit la procédure arbitrale sans pouvoir
considérer cette carence en soi comme une acceptation des allégations du
demandeur;
c) l’une des parties ne participe pas à la procédure orale ou ne produit pas
de documents, le tribunal arbitral peut poursuivre la procédure et statue sur
la base des éléments dont il dispose.”.
Art. 39. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1707 rédigé comme
suit:
“Art. 1707. § 1er. Le tribunal arbitral peut, sauf convention contraire des
parties,
a) nommer un ou plusieurs experts chargés de lui faire rapport sur les
points précis qu’il détermine;
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b) enjoindre à une partie de fournir à l’expert tous renseignements
appropriés ou de lui soumettre ou de lui rendre accessible, aux fins d’examen,
toutes pièces, toutes marchandises ou autres biens pertinents.
§ 2. Si une partie en fait la demande ou si le tribunal arbitral le juge
nécessaire, l’expert participe à une audience à laquelle les parties peuvent
l’interroger.
§ 3. Le paragraphe 2 s’applique aux conseils techniques désignés par les
parties.
§ 4. Un expert peut être récusé pour les motifs énoncés à l’article 1686 et
selon la procédure prévue à l’article 1687.”.
Art. 40. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1708 rédigé comme
suit:
“Art. 1708. Une partie peut avec l’accord du tribunal arbitral, demander
au président du tribunal de première instance statuant comme en référé
d’ordonner toute les mesures nécessaires en vue de l’obtention de preuves
conformément à l’article 1680, § 4.”.
Art. 41. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1709 rédigé comme
suit:
“Art. 1709. § 1er. Tout tiers intéressé peut demander au tribunal arbitral
d’intervenir dans la procédure. Cette demande est adressée par écrit au
tribunal arbitral qui la communique aux parties.
§ 2. Une partie peut appeler un tiers en intervention.
§ 3. En toute hypothèse, pour être admise, l’intervention nécessite une
convention d’arbitrage entre le tiers et les parties en différend. Elle est, en
outre, subordonnée, à l’assentiment du tribunal arbitral qui statue à l’unanimité.”.
Art. 42. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre VI
intitulé “Chapitre VI. Sentence arbitrale et clôture de la procédure”.
Art. 43. Dans le chapitre VI inséré par l’article 42, il est inséré un article
1710 rédigé comme suit:
“Art. 1710. § 1er. Le tribunal arbitral tranche le différend conformément
aux règles de droit choisies par les parties comme étant applicables au fond du
différend.
Toute désignation du droit d’un Etat donné est considérée, sauf indication contraire expresse, comme désignant directement les règles juridiques de
fond de cet Etat et non ses règles de conflit de lois.
§ 2. A défaut d’une telle désignation par les parties, le tribunal arbitral
applique les règles de droit qu’il juge les plus appropriées.
§ 3. Le tribunal arbitral statue en qualité d’amiable compositeur uniquement si les parties l’y ont expressément autorisé.
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§ 4. Qu’il statue selon des règles de droit ou en qualité d’amiable
compositeur, le tribunal arbitral décidera conformément aux stipulations du
contrat si le différend qui oppose les parties est d’ordre contractuel et tiendra
compte des usages du commerce si le différend oppose des commerçants.”.
Art. 44. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1711 rédigé comme
suit:
“Art. 1711. § 1er. Dans une procédure arbitrale comportant plus d’un
arbitre, toute décision du tribunal arbitral est, sauf convention contraire des
parties, prise après délibération à la majorité de ses membres.
§ 2. Les questions de procédure peuvent être tranchées par le président
du tribunal arbitral, si ce dernier y est autorisé par les parties.
§ 3. Les parties peuvent également convenir que, lorsqu’une majorité ne
peut se former, la voix du président du tribunal arbitral est prépondérante.
§ 4. Au cas où un arbitre refuse de participer à la délibération ou au vote
sur la sentence arbitrale, les autres arbitres peuvent décider sans lui, sauf
convention contraire des parties. L’intention de rendre la sentence sans
l’arbitre qui a refusé de participer à la délibération ou au vote doit être
communiquée aux parties d’avance.”.
Art. 45. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1712 rédigé comme
suit:
“Art. 1712. § 1er. Si, durant la procédure arbitrale, les parties s’entendent
pour régler le différend, le tribunal arbitral met fin à la procédure arbitrale et,
si les parties lui en font la demande, constate par une sentence l’accord des
parties, sauf si celui-ci est contraire à l’ordre public.
§ 2. La sentence d’accord-parties est rendue conformément à l’article
1713 et mentionne le fait qu’il s’agit d’une sentence. Une telle sentence a le
même statut et le même effet que toute autre sentence prononcée sur le fond
de l’affaire.
§ 3. La décision par laquelle la sentence est déclarée exécutoire est sans
effet dans la mesure où l’accord des parties a été annulé.”.
Art. 46. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1713 rédigé comme
suit:
“Art. 1713. § 1er. Le tribunal arbitral statue définitivement ou avant dire
droit par une ou plusieurs sentences.
§ 2. Les parties peuvent fixer le délai dans lequel la sentence doit être
rendue ou prévoir les modalités selon lesquelles ce délai sera fixé et le cas
échéant, prolongé.
Faute de l’avoir fait, si le tribunal arbitral tarde à rendre sa sentence et
qu’un délai de six mois s’est écoulé à compter de la désignation du dernier
arbitre, le président du tribunal de première instance peut impartir un délai au
tribunal arbitral conformément à l’article 1680, § 3.
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La mission des arbitres prend fin de plein droit lorsque le tribunal arbitral
n’a pas rendu sa sentence à l’expiration du délai imparti.
§ 3. La sentence arbitrale est rendue par écrit et signée par l’arbitre. Dans
une procédure arbitrale comprenant plusieurs arbitres, les signatures de la
majorité des membres du tribunal arbitral suffisent, pourvu que soit mentionnée la raison de l’omission des autres.
§ 4. La sentence arbitrale est motivée.
§ 5. La sentence comprend notamment, outre le dispositif, les mentions
suivantes:
a) les noms et domiciles des arbitres;
b) les noms et domiciles des parties;
c) l’objet du litige;
d) la date à laquelle la sentence est rendue;
e) le lieu de l’arbitrage déterminé conformément à l’article 1701, § 1er,
ainsi que le lieu où la sentence est rendue.
§ 6. La sentence arbitrale liquide les frais d’arbitrage et décide à laquelle
des parties le paiement en incombe ou dans quelle proportion ils sont partagés
entre elles. Sauf convention contraire des parties, ces frais comprennent les
honoraires et frais des arbitres et les honoraires et frais des conseils et
représentants des parties, les coûts des services rendus par l’institution chargée de l’administration de l’arbitrage et tous autres frais découlant de la
procédure arbitrale.
§ 7. Le tribunal arbitral peut condamner une partie au paiement d’une
astreinte. Les articles 1385bis à octies sont d’application mutatis mutandis.
§ 8. Après que la sentence arbitrale a été rendue, un exemplaire est
communiqué, conformément à l’article 1678, § 1er, à chacune des parties par
l’arbitre unique ou par le président du tribunal arbitral, qui s’assure que
chaque partie reçoive en outre un original de la sentence si le mode de
communication retenu conformément à l’article 1678, § 1er n’a pas emporté
remise d’un tel original. Il en dépose l’original au greffe du tribunal de
première instance. Il informe les parties de ce dépôt.
§ 9. La sentence, a, dans les relations entre les parties, les mêmes effets
qu’une décision d’un tribunal.”.
Art. 47. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1714 rédigé comme
suit:
“Art. 1714. § 1er. La procédure arbitrale est close par la signature de la
sentence arbitrale qui épuise la juridiction du tribunal arbitral ou par une
décision de clôture rendue par le tribunal arbitral conformément au § 2.
§ 2. Le tribunal arbitral ordonne la clôture de la procédure arbitrale
lorsque:
a) le demandeur se désiste de sa demande, à moins que le défendeur y
fasse objection et que le tribunal arbitral reconnaisse qu’il a un intérêt
légitime à ce que le différend soit définitivement réglé;
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b) les parties conviennent de clore la procédure.
§ 3. La mission du tribunal arbitral prend fin avec la clôture de la
procédure arbitrale, la communication de la sentence et son dépôt, sous
réserve des articles 1715 et 1717, § 6.”.
Art. 48. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1715 rédigé comme
suit:
“Art. 1715. § 1er. Dans le mois de la réception de la sentence conformément l’article 1678, § 1er, à moins que les parties ne soient convenues d’un
autre délai,
a) une des parties peut, moyennant communication à l’autre, demander
au tribunal arbitral de rectifier dans le texte de la sentence toute erreur de
calcul, toute erreur matérielle ou typographique ou toute erreur de même
nature;
b) si les parties en sont convenues, une partie peut, moyennant communication à l’autre, demander au tribunal arbitral de donner une interprétation
d’un point ou passage précis de la sentence.
Si le tribunal arbitral considère que la demande est fondée, il fait la
rectification ou donne l’interprétation dans le mois qui suit la réception de la
demande. L’interprétation fait partie intégrante de la sentence.
§ 2. Le tribunal arbitral peut, de son propre chef, rectifier toute erreur du
type visé au § 1er, a), dans le mois qui suit la date de la sentence.
§ 3. Sauf convention contraire des parties, l’une des parties peut, moyennant communication à l’autre, demander au tribunal arbitral, dans le mois qui
suit la réception de la sentence conformément à l’article 1678, § 1er, de rendre
une sentence additionnelle sur des chefs de demande exposés au cours de la
procédure arbitrale mais omis dans la sentence. S’il juge la demande fondée,
le tribunal arbitral complète sa sentence dans les deux mois, même si les délais
prévus à l’article 1713, § 2 sont expirés.
§ 4. Le tribunal arbitral peut prolonger, si besoin est, le délai dont il
dispose pour rectifier, interpréter ou compléter la sentence en vertu du § 1er
ou § 3.
§ 5. L’article 1713 s’applique à la rectification ou l’interprétation de la
sentence ou à la sentence additionnelle.
§ 6. Lorsque les mêmes arbitres ne peuvent plus être réunis, la demande
d’interprétation, de rectification ou de compléter la sentence arbitrale doit
être portée devant le tribunal de première instance.
§ 7. Lorsque le tribunal de première instance renvoie une sentence
arbitrale en vertu de l’article 1717, § 6, l’article 1713 et le présent article sont
applicables mutatis mutandis à la sentence rendue conformément à la décision
de renvoi.”.
Art. 49. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre VII
intitulé “Chapitre VII. Recours contre la sentence arbitrale”.
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Art. 50. Dans le chapitre VII inséré par l’article 49, il est inséré un article
1716 rédigé comme suit:
“Art. 1716. Il ne peut être interjeté appel contre une sentence arbitrale
que si les parties ont prévu cette possibilité dans la convention d’arbitrage.
Sauf stipulation contraire, le délai pour interjeter appel est d’un mois à partir
de la communication de la sentence, conformément à l’article 1678, § 1er.”.
Art. 51. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1717 rédigé comme
suit:
“Art. 1717. § 1er. La demande d’annulation n’est recevable que si la
sentence ne peut plus être attaquée devant les arbitres.
§ 2. La sentence arbitrale ne peut être attaquée que devant le tribunal de
première instance, par voie de citation, et elle ne peut être annulée que dans
les cas énumérés au présent article.
§ 3. La sentence arbitrale ne peut être annulée que si:
a) la partie en faisant la demande apporte la preuve:
i) qu’une partie à la convention d’arbitrage visée à l’article 1681 était
frappée d’une incapacité; ou que ladite convention n’est pas valable en vertu
du droit auquel les parties l’ont soumise ou, à défaut d’une indication à cet
égard, en vertu du droit belge; ou
ii) qu’elle n’a pas été dûment informée de la désignation d’un arbitre ou
de la procédure arbitrale, ou qu’il lui a été impossible pour une autre raison
de faire valoir ses droits; dans ce cas, il ne peut toutefois y avoir annulation s’il
est établi que l’irrégularité n’a pas eu d’incidence sur la sentence arbitrale; ou
iii) que la sentence porte sur un différend non visé ou n’entrant pas dans
les prévisions de la convention d’arbitrage, ou qu’elle contient des décisions
qui dépassent les termes de la convention d’arbitrage, étant entendu toutefois
que, si les dispositions de la sentence qui ont trait à des questions soumises à
l’arbitrage peuvent être dissociées de celles qui ont trait à des questions non
soumises à l’arbitrage, seule la partie de la sentence contenant des décisions
sur les questions non soumise à l’arbitrage pourra être annulée; ou
iv) que la sentence n’est pas motivée; ou
v) que la constitution du tribunal arbitral, ou la procédure arbitrale, n’a
pas été conforme à la convention des parties, à condition que cette convention
ne soit pas contraire à une disposition de la sixième partie du présent Code à
laquelle les parties ne peuvent déroger, ou, à défaut d’une telle convention,
qu’elle n’a pas été conforme à la sixième partie du présent Code; à l’exception
de l’irrégularité touchant à la constitution du tribunal arbitral, ces irrégularités
ne peuvent toutefois donner lieu à annulation de la sentence arbitrale s’il est
établi qu’elles n’ont pas eu d’incidence sur la sentence; ou
vi) que le tribunal arbitral a excédé ses pouvoirs; ou
b) le tribunal de première instance constate:
i) que l’objet du différend n’est pas susceptible d’être réglé par voie
d’arbitrage; ou
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ii) que la sentence est contraire à l’ordre public; ou
iii) que la sentence a été obtenue par fraude.
§ 4. Hormis dans le cas visé à l’article 1690, § 4, alinéa 1er, une demande
d’annulation ne peut être présentée après l’expiration d’un délai de trois mois
à compter de la date à laquelle la partie introduisant cette demande a reçu
communication de la sentence conformément à l’article 1678, § 1er, a), ou, si
une demande a été introduite en vertu de l’article 1715, à compter de la date
à laquelle la partie introduisant la demande d’annulation a reçu communication de la décision du tribunal arbitral sur la demande introduite en vertu de
l’article 1715, conformément à l’article 1678, § 1er, a).
§ 5. Ne sont pas retenues comme causes d’annulation de la sentence
arbitrale les cas prévus au § 2, a), i., ii., iii. et v., lorsque la partie qui s’en
prévaut en a eu connaissance au cours de la procédure arbitrale et ne les a pas
alors invoquées.
§ 6. Lorsqu’il lui est demandé d’annuler une sentence arbitrale le tribunal
de première instance peut, le cas échéant et à la demande d’une partie,
suspendre la procédure d’annulation pendant une période dont il fixe la durée
afin de donner au tribunal arbitral la possibilité de reprendre la procédure
arbitrale ou de prendre toute autre mesure que ce dernier juge susceptible
d’éliminer les motifs d’annulation.”.
Art. 52. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1718 rédigé comme
suit:
“Art. 1718. Les parties peuvent, par une déclaration expresse dans la
convention d’arbitrage ou par une convention ultérieure, exclure tout recours
en annulation d’une sentence arbitrale lorsqu’aucune d’elles n’est soit une
personne physique ayant la nationalité belge ou son domicile ou sa résidence
habituelle en Belgique, soit une personne morale ayant en Belgique, son siège
statutaire, son principal établissement ou une succursale.”.
Art. 53. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre
VIII intitulé “Chapitre VIII. Reconnaissance et exécution des sentences
arbitrales”.
Art. 54. Dans le chapitre VIII inséré par l’article 53, il est inséré un article
1719 rédigé comme suit:
“Art. 1719. § 1er. La sentence arbitrale, rendue en Belgique ou à l’étranger, ne peut faire l’objet d’une exécution forcée qu’après avoir été revêtue de
la formule exécutoire, entièrement ou partiellement, par le tribunal de première instance conformément à la procédure visée à l’article 1720.
§ 2. Le tribunal de première instance ne peut revêtir la sentence de la
formule exécutoire que si la sentence ne peut plus être attaquée devant les
arbitres ou si les arbitres en ont ordonné l’exécution provisoire nonobstant
appel.”.
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Art. 55. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1720 rédigé comme
suit:
“Art. 1720. § 1er. Le tribunal de première instance est compétent pour
connaître d’une demande concernant la reconnaissance et l’exécution d’une
sentence arbitrale rendue en Belgique ou à l’étranger.
§ 2. Le tribunal territorialement compétent est le tribunal de première
instance du siège de la cour d’appel dans le ressort duquel la personne contre
laquelle la déclaration exécutoire est demandée a son domicile et, à défaut de
domicile, sa résidence habituelle où, le cas échant, son siège social, ou à
défaut, son établissement ou sa succursale. Si cette personne n’a ni domicile,
ni résidence habituelle, ni siège social ni établissement ou succursale en
Belgique, la demande est portée devant le tribunal de première instance du
siège de la cour d’appel de l’arrondissement dans lequel la sentence doit être
exécutée.
§ 3. La demande est introduite et instruite sur requête unilatérale. Le
requérant doit faire élection de domicile dans le ressort du tribunal.
§ 4. Le requérant doit fournir l’original de la sentence arbitrale ou une
copie certifiée conforme ainsi que l’original de la convention d’arbitrage ou
une copie certifiée conforme.
§ 5. La sentence ne peut être reconnue ou déclarée exécutoire que si elle
ne contrevient pas aux conditions de l’article 1721.”.
Art. 56. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1721 rédigé comme
suit:
“Art. 1721. § 1er. Le tribunal de première instance ne refuse la reconnaissance et la déclaration exécutoire d’une sentence arbitrale, quel que soit
le pays où elle a été rendue, que dans les circonstances suivantes:
a) à la demande de la partie contre laquelle elle est invoquée, si cette dite
partie apporte la preuve:
i) qu’une partie à la convention d’arbitrage visée à l’article 1681 était
frappée d’une incapacité; ou que ladite convention n’est pas valable en vertu
de la loi à laquelle les parties l’ont subordonnée ou, à défaut de choix exercé,
en vertu de la loi du pays où la sentence a été rendue; ou
ii) que la partie contre laquelle la sentence est invoquée n’a pas été
dûment informée de la désignation d’un arbitre ou de la procédure arbitrale,
ou qu’il lui a été impossible pour une autre raison de faire valoir ses droits;
dans ces cas, il ne peut toutefois y avoir refus de reconnaissance ou de
déclaration exécutoire de la sentence arbitrale s’il est établi que l’irrégularité
n’a pas eu une incidence sur la sentence arbitrale; ou
iii) que la sentence porte sur un différend non visé ou n’entrant pas dans
les termes de la convention d’arbitrage, ou qu’elle contient des décisions qui
dépassent les termes de la convention d’arbitrage, étant entendu toutefois
que, si les dispositions de la sentence qui ont trait à des questions soumises à
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l’arbitrage peuvent être dissociées de celles qui ont trait à des questions non
soumises à l’arbitrage, seule la partie de la sentence contenant des décisions
sur les questions soumises à l’arbitrage pourra être reconnue et exécutée; ou
iv) que la sentence n’est pas motivée alors qu’une telle motivation est
prescrite par les règles de droit applicables à la procédure arbitrale dans le
cadre de laquelle la sentence a été prononcée; ou
v) que la constitution du tribunal arbitral, ou la procédure arbitrale, n’a
pas été conforme à la convention des parties ou, à défaut d’une telle convention, à la loi du pays où l’arbitrage a eu lieu; à l’exception de l’irrégularité
touchant à la constitution du tribunal arbitral, ces irrégularités ne peuvent
toutefois donner lieu à refus de reconnaissance ou de déclaration exécutoire
de la sentence arbitrale s’il est établi qu’elles n’ont pas eu d’incidence sur la
sentence; ou
vi) que la sentence n’est pas encore devenue obligatoire pour les parties,
ou a été annulée ou suspendue par un tribunal du pays dans lequel ou en vertu
de la loi duquel elle a été rendue;
vii) que le tribunal arbitral a excédé ses pouvoirs;
ou
b) si le tribunal de première instance constate:
i) que l’objet du différend n’est pas susceptible d’être réglé par arbitrage;
ou
ii) que la reconnaissance ou l’exécution de la sentence serait contraire à
l’ordre public.
§ 2. Le tribunal de première instance surseoit de plein droit à la demande
tant qu’il n’est pas produit à l’appui de la requête une sentence arbitrale écrite
et signée par les arbitres conformément à l’article 1713, § 3.
§ 3. Lorsqu’il y a lieu à application d’un traité entre la Belgique et le pays
où la sentence a été rendue, le traité prévaut.”.
Art. 57. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre IX
intitulé “Chapitre IX. Prescription”.
Art. 58. Dans le chapitre IX inséré par l’article 57, il est inséré un article
1722 rédigé comme suit:
“Art. 1722. La condamnation prononcée par une sentence arbitrale se
prescrit par dix années révolues, à compter de la date où la sentence arbitrale
a été communiquée.” .
CHAPITRE 3. - Disposition transitoire
Art. 59. La présente loi s’applique aux arbitrages qui commencent
conformément à l’article 34 après la date d’entrée en vigueur de la présente
loi.
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La sixième partie du Code judiciaire, telle qu’elle était rédigée avant
l’entrée en vigueur de la présente loi, reste d’application aux arbitrages qui
ont commencé avant la date d’entrée en vigueur de la présente loi.
La présente loi s’applique aux actions qui sont portées devant le juge,
pour autant qu’elles concernent un arbitrage visé à l’alinéa 1er.
La sixième partie du Code judiciaire, telle qu’elle était rédigée avant
l’entrée en vigueur de la présente loi, reste d’application aux actions pendantes ou introduites devant le juge relativement à un arbitrage visé à l’alinéa 2.
CHAPITRE 4. - Entrée en vigueur
Art. 60. La présente loi entre en vigueur le premier jour du troisième
mois qui suit celui de sa publication au Moniteur belge.
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In memoria del giudice Bernard Corboz
Il 24 settembre 2013 è deceduto a Ginevra il giudice federale Bernard
Corboz. Da sempre interessato ai problemi dell’arbitrato, il Giudice Corboz
ha partecipato come relatore a numerosi convegni, anche nel nostro Paese,
dedicati a questa materia. Da ultimo, lo abbiamo incontrato alcuni mesi fa a
Milano in occasione di un convegno dedicato alle prospettive in Italia dell’arbitrato internazionale, dove ha avuto modo di illustrare, con l’abituale chiarezza, la disciplina svizzera dell’arbitrato.
Membro ordinario del Tribunale federale svizzero dal marzo 1990 e
Vice-Presidente dello stesso Tribunale dal dicembre 2004, Bernard Corboz è
stato tra i maggiori artefici della giurisprudenza del Tribunale federale. La
competenza di questo Tribunale in materia di ricorsi per l’annullamento di
sentenze arbitrali rese in Svizzera e la grande diffusione dell’arbitrato in
questo Paese hanno consentito a Bernard Corboz di esprimere al meglio le sue
qualità di giurista raffinato, contribuendo alla enunciazione di una serie di
principi e regole che fanno della giurisprudenza del Tribunale federale un
modello di chiarezza e coerenza nell’interpretazione della legge, oltreché di
grande apertura ai problemi pratici dell’arbitrato.
Come attestato dal comunicato del decesso da parte dello stesso Tribunale federale, “Monsieur le Juge fédéral Corboz possédait une capacité de
travail hors du commun et a influencé la jurisprudence du Tribunal Fédéral de
manière durable“.
L’Associazione Italiana per l’Arbitrato e la Rivista dell’arbitrato sono
vicine alla comunità svizzera dell’arbitrato nel rimpianto per la perdita di una
personalità tanto eminente e sensibile ai problemi dell’arbitrato. [P.B.]
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Notizie libri
Si deve a Ferdinando Emanuele e Milo Malfa (con collaborazioni di L.
Marvasi, G. Gosi, C. Santoro, L. Bergamini, F. Gesualdi, P. Bertoli e P.
D’Elia, ed autorevole prefazione di Guido Alpa) una notevole guida in lingua
inglese alle principali questioni in materia di arbitrato internazionale viste
nella prospettiva della cultura giuridica italiana: “Selected Issues in International Arbitration: the Italian Perspective”, London, 2014, XV - 329, edito da
Cleary Gottlieb Steen & Hamilton per i tipi della Thomson Reuters.
Utile come veicolo, nel latino di oggi, di elaborazioni, riflessioni e concetti
altrimenti destinati a ben poca diffusione, il volume è in proposito assai
accurato e meditato (si pensi alla abilità linguistica e concettuale con cui, a
pag. 64 ss., è decifrato per i non italiani il mistero di ciò che si cela dietro il
nomen “arbitrato irrituale”, mistero pari solo, per inesplicabilità all’estero e
sopravvenuta obsolescenza, a ciò che si cela dietro “interesse legittimo”).
Ma i pregi non sono solo quelli didascalici e divulgativi, ché molti temi di
recente emersi (la litispendenza innanzi ad arbitri e giudici o innanzi ad arbitri,
la disclosure, il Merger remedy arbitration di origine comunitaria ed altro)
sono trattati con consapevolezza scientifica nei vari capitoli, nonché nelle
appendici (alcune delle quali in lingua spagnola). [A.B.]
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Unione europea
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Rivista dell’arbitrato
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