ISSN 1122-0147 ASSOCIAZIONE ITALIANA PER L’ARBITRATO Pubblicazione trimestrale Anno XXIV - N. 1/2014 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE) RIVISTA DELL’ARBITRATO diretta da Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina © Copyright - Giuffrè Editore comitato scientifico GUIDO ALPA - FERRUCCIO AULETTA - PIERO BERNARDINI - PAOLO BIAVATI - MAURO BOVE - FEDERICO CARPI - CLAUDIO CONSOLO - DIEGO CORAPI - FABRIZIO CRISCUOLO - GIORGIO GAJA - FRANCESCO PAOLO LUISO - RICCARDO LUZZATTO - NICOLA PICARDI - CARMINE PUNZI - LUCA RADICATI DI BROZOLO - PIETRO RESCIGNO - GIORGIO SACERDOTI - LAURA SALVANESCHI - FERRUCCIO TOMMASEO - ROMANO VACCARELLA - GIOVANNI VERDE - VINCENZO VIGORITI - ATTILIO ZIMATORE. già diretta da ELIO FAZZALARI. direzione: ANTONIO BRIGUGLIO - GIORGIO DE NOVA - ANDREA GIARDINA. MARIA BEATRICE DELI (direttore responsabile). redazione ANDREA BANDINI - LAURA BERGAMINI - ALDO BERLINGUER - ANDREA CARLEVARIS - CLAUDIO CECCHELLA - MASSIMO COCCIA - ALESSANDRA COLOSIMO - ELENA D’ALESSANDRO - ANNA DE LUCA - FERDINANDO EMANUELE - ALESSANDRO FUSILLO - DANTE GROSSI - MAURO LONGO - ROBERTO MARENGO † - FABRIZIO MARRELLA - ELENA OCCHIPINTI - ANDREW G. PATON - FRANCESCA PIETRANGELI ROBERTO VACCARELLA Segretari di redazione: ANDREA ATTERITANO - MARIANGELA ZUMPANO. La Direzione e la Redazione della Rivista hanno sede presso l’Associazione Italiana per l’Arbitrato, in Roma, Via Barnaba Oriani, 34 (c.a.p. 00197) tel. 06/42014749 - 06/42014665; fax 06/4882677; www.arbitratoaia.org e-mail: [email protected] L’Amministrazione ha sede presso la Casa Editrice, in Milano (c.a.p. 20151), Via Busto Arsizio, 40 - Internet: http://www.giuffre.it e-mail: [email protected] © Copyright - Giuffrè Editore ASSOCIAZIONE ITALIANA PER L’ARBITRATO Pubblicazione trimestrale Anno XXIV - N. 1/2014 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE) RIVISTA DELL’ARBITRATO diretta da Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina © Copyright - Giuffrè Editore INDICE DOTTRINA ELENA ZUCCONI GALLI FONSECA, Ancora su arbitrato rituale e fallimento. ANDREA LA MATTINA, L’arbitrato marittimo internazionale ....................... FRANCESCO CAMPIONE, La perizia contrattuale............................................... 1 19 53 GIURISPRUDENZA ORDINARIA I) Italiana Sentenze annotate: Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 223, con commenti di M. BOVE, A. BRIGUGLIO, S. MENCHINI, B. SASSANI ....................................................... Cass. 10 ottobre 2011, n. 20741, con nota di C. SPACCAPELO, Brevi note sull’ambito oggettivo e soggettivo della clausola compromissoria, nonché sulla sua interpretazione ............................................................ Cass. 6 aprile 2012, n. 5634, con nota di E. DEBERNARDI, Sull’impugnazione del lodo dichiarativo della competenza arbitrale ..................... Cass. 14 maggio 2012, n. 7450 con nota di RITA TUCCILLO, La nomina degli arbitri: capacità e qualifiche tra autonomia privata e poteri discrezionali dell’autorità giudiziaria..................................................... App. Milano 12 marzo 2013, con nota di S. CAPORUSSO, Sulla applicabilità del filtro all’impugnazione del lodo arbitrale rituale ........................... 81 115 133 153 183 GIURISPRUDENZA ARBITRALE I) Italiana Lodi annotati: Coll. arb., Napoli 20 giugno 2013, con nota F. TIZI, Alcune riflessioni in merito all’art. 816-septies c.p.c. .............................................................. 197 III © Copyright - Giuffrè Editore RASSEGNE E COMMENTI TOMASO GALLETTO, Arbitrato e accordi di ristrutturazione dei debiti: una convivenza possibile?............................................................................... 215 DOCUMENTI E NOTIZIE La riforma dell’arbitrato in Belgio................................................................. In memoria del giudice Bernard Corboz [P.B.] ........................................... Notizie libri [A.B.]............................................................................................ IV © Copyright - Giuffrè Editore 239 261 263 DOTTRINA Ancora su arbitrato rituale e fallimento (*) ELENA ZUCCONI GALLI FONSECA (**) 1. Premessa. — 2. La compromettibilità delle controversie endofallimentari. — 3. La sottoscrizione della convenzione arbitrale da parte del curatore. — 4. L’opponibilità al fallimento della convenzione arbitrale stipulata dal fallito in bonis. — 5. La sorte del procedimento arbitrale pendente alla data del fallimento. — 6. L’opponibilità del lodo nei confronti del successivo fallimento. 1. Il problema dei rapporti fra arbitrato e fallimento non cessa mai di porsi. Le questioni che si pongono specialmente sono le seguenti: a) la compromettibilità delle controversie endofallimentari; b) la sottoscrizione della convenzione arbitrale da parte del curatore; c) l’opponibilità al fallimento della convenzione arbitrale stipulata dal fallito in bonis; d) la sorte del procedimento arbitrale pendente alla data del fallimento; e) l’opponibilità del lodo nei confronti del successivo fallimento. Atteso lo sforzo di sintesi che mi prefiggo, non tratterò dei rapporti fra arbitrato e procedure minori, nonché dell’arbitrato irrituale: entrambi i temi richiederebbero infatti specifici approfondimenti (basti pensare all’art. 169 bis in materia di concordato fallimentare). Vediamo partitamente le ipotesi sopra menzionate. 2. La legge fallimentare non esclude la possibilità per il curatore di stipulare patti arbitrali, poiché detta, da una parte, le cautele necessarie per una valida sottoscrizione (art. 35 l. fall.), dall’altra parte, le modalità di nomina degli arbitri nell’ipotesi di clausola binaria (art. 25 l. fall.). Si tratta quindi di vedere quali siano le liti scaturenti dal fallimento che possono potenzialmente essere devolute ad arbitri. (*) Lo studio trae spunto dalla relazione tenuta presso la Camera arbitrale di Milano il 3 luglio 2013. (**) Professore ordinario nella Università di Bologna. 1 © Copyright - Giuffrè Editore L’art. 806 c.p.c., nel fissare il criterio generale della disponibilità del diritto, nonché il criterio concorrente dell’assenza di espresso divieto normativo, pur non risolvendo la questione, offre una luce. In difetto di una specifica presa di posizione del legislatore, infatti, non possono rilevare circostanze quali: la specialità del rito, se non sia legata ad un oggetto del processo non riconducibile all’accertamento di diritti soggettivi; eventuali previsioni di fori inderogabili; norme sostanziali inderogabili. Con riguardo al fallimento, dunque, una interpretazione riduttiva non può fondarsi sull’art. 24 l. fall. istituente il c.d. foro fallimentare (1), perché si tratta di norma che opera all’interno della giurisdizione statuale; neppure sulla scelta del rito camerale, se l’oggetto riguardi un diritto soggettivo compromettibile. Si tratta allora di capire se le liti endofallimentari abbiano ad oggetto diritti indisponibili ed a questo proposito, diverse sono le ricostruzioni proposte. Un leit motiv ricorre, peraltro: l’effetto cui la procedura fallimentare tende, vale a dire la liquidazione concorsuale, realizzabile solo attraverso lo speciale procedimento, impedisce l’arbitrato (2), perché altro è l’accertamento di diritti, altro sono le attività finalizzate al concorso fallimentare. In altri termini, solo la procedura prevista dalla legge è in grado di rispettare il principio della par condicio creditorum, cosicché il rito permea di se il diritto sostanziale, in un tutt’uno. L’assunto porta ad un corollario, pur abbisognevole di precisazioni: quando vi sono in gioco debiti a sfavore della massa, è necessario applicare il rito fallimentare; diversamente, quando oggetto della lite sono crediti a favore della massa, non vi è alcun ostacolo alla giustizia privata. V’è di più: ove si acceda alla discussa idea che il « mondo giuridico » della massa fallimentare sia distinto da quello del fallito, ben sarà possibile (1) Nel senso del testo VERDE, in Dir. dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino 2005, 68. Diff. CARLEO, Controversie non compromettibili, in Dizionario dell’arbitrato, Torino, 1997, 283; in giur. v. Cass., 4 settembre 2004, n. 17891, in Foro it., 2005, I, c. 744, in La nuova giur. civ. comm., 2005, 868 ss., nota di DELLA VEDOVA, Le sorti di un procedimento arbitrale in corso in seguito al sopravvenuto fallimento di una delle parti. Del resto, la norma si ritiene non si applichi alle liti connesse da mera occasionalità alla procedura fallimentare: CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 530 s.; E. F. RICCI, Lezioni sul fallimento, Milano, 1999, I, 322 ss., spec. 326 s.; BONSIGNORI, Arbitrati e fallimento, Padova, 2000, 59. Cass., 15 aprile 2003, n. 5950, in Rep. Foro it., 2003, voce Fallimento, n. 27. (2) VERDE, in Dir. dell’arbitrato, cit., 68. Più tranchant è Trib. Padova, 6 agosto 2004, in Giur. mer., 2005, 818, e in Soc., 2005, 1033, nota di FINARDI, secondo cui la clausola compromissoria statutaria non sarebbe vincolante per il curatore, perché la materia dei diritti della massa creditoria è interamente indisponibile. 2 © Copyright - Giuffrè Editore per quest’ultimo svolgere un arbitrato per l’accertamento di un suo debito, con lodo ovviamente inopponibile al curatore, ma spendibile nel caso di rientro in bonis. (3) La distinzione fra debiti e crediti appare soddisfacente, ma occorre verificare, caso per caso, quale tipo di controversia venga in rilievo. Con riguardo ai debiti o diritti a sfavore della massa e più in generale ai procedimenti finalizzati alla realizzazione del concorso fra creditori: a) il procedimento di ammissione al passivo rappresenta il cuore della funzione fallimentare, non esportabile in arbitrato. Un eventuale lodo di accertamento del credito, effettuato al di fuori del sistema endofallimentare, non sarebbe opponibile alla procedura (4). Analogo discorso va fatto per le impugnazioni dello stato passivo ex art. 96 l. fall., che scontano la stessa ratio. (5) b) Le insinuazioni tardive di crediti non sono compromettibili, sempre per lo stesso motivo sub a). Ove si ritenga che detto procedimento sia l’unico in grado di portare all’interno della procedura concorsuale i debiti del fallito, non resta spazio per l’arbitrato su questi ultimi (6). Parimenti vale per le richieste di restituzione e rivendica di beni mobili od immobili: anche in questo caso, gli inevitabili riflessi sulla formazione della massa passiva rendono a mio avviso inattuabile l’arbitrato. c) In generale i rimedi impugnatori dei provvedimenti del giudice fallimentare non possono essere devoluti ad arbitri, essendo funzionalmente inscindibili alla procedura concorsuale (7). Parimenti vale per il reclamo contro la sentenza di fallimento ex art. (3) BOVE, Arbitrato e fallimento, in questa Rivista, 2012, 293 ss., fa l’esempio della necessità di ottenere l’accertamento dell’inessitenza del credito, per fondare l’eventuale la ripetizione di indebito ex art. 114, comma 2, l. fall. (4) GROPPOLI, Sulla potestas iudicandi degli arbitri in materia fallimentare, in Il fall., 2009, 134 ss: non sarebbero arbitrabili « i procedimenti che conducono al decreto di esecutività dello stato passivo previsto all’art. 96, al decreto di ammissione o rigetto di una domanda tardiva di ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili ex art. 101, al decreto di esecutività del progetto di ripartizione di cui all’art. 110, al decreto ingiuntivo circa i versamenti ancora dovuti dai soci a responsabilità limitata come stabilito all’art. 150, richiamato pure dall’art. 77 in ordine ai versamenti dovuti dall’associato in partecipazione ». (5) BONSIGNORI, Arbitrati e fallimento, cit., 57, che nota come l’opposizione allo stato passivo abbia per oggetto anche effetti rilevanti per il fallimento; LA CHINA, Arbitrato, il sistema l’esperienza, Milano, 2011, 25; CARRATTA, Arbitrato rituale su credito e interferenze sulla verificazione del passivo, in questa Rivista, 1999, 105; BERLINGUER, La compromettibilità per arbitri: studio di diritto italiano e comparato, Torino, 1999, II, 168; diff. CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1959, 539 s., solo se l’opposizione sia stata regolarmente promossa nei modi e nei termini di cui all’art. 98 l. fall. (6) In tal senso, se non erro, VERDE, op. cit., 53. Sul punto anche Coll. arb. Roma, 6 aprile 2000, in Temi rom., 2000, II, 694. (7) FRASCAROLI SANTI, L’art. 83 bis e i problemi irrisolti nei rapporti tra fallimento e 3 © Copyright - Giuffrè Editore 18 l. fall., che, oltre che vertere su una situazione indisponibile, ha carattere impugnatorio e si inserisce strettamente nel meccanismo endofallimentare (8), nonché, per lo stesso motivo, con riguardo ai reclami ex art. 26 l. fall. (9). Non saranno compromettibili neppure i procedimenti di nullità degli atti della procedura. d) Per quanto riguarda invece i crediti o diritti a favore della massa, essi possono originare da: d1) stipula di contratti da parte del curatore; d2) subentro di costui in rapporti già stipulati dal fallito; d3) azioni revocatorie degli artt. 64 ss. l. fall. In tutti i predetti casi non vedo ostacoli preconcetti all’arbitrabilità. Lasciando da parte il caso sub d2), che verrà trattato al par. 4, l’assunto vale anche con riguardo alle procedure endofallimentari che fanno ricorso al sistema monitorio (art. 77, con riguardo al contratto di associazione in partecipazione, art. 150 con riguardo ai versamenti dei soci, l. fall.) (10), perché quest’ultimo non impedisce di compromettere in arbitri il diritto soggettivo sottostante, che nella specie riguarda un credito a favore della massa. Parimenti vale per le azioni revocatorie, ordinarie o fallimentari che siano (11). Per quanto riguarda i crediti da rapporti sorti dopo il fallimento, occorre il consenso compromissorio da ambo le parti, curatore e debitore del fallito. Ciò potrà avvenire sia per compromesso autonomo, sia per clausola compromissoria contenuta in nuovi contratti. Si pone dunque il problema di capire a quali condizioni il curatore possa stipulare patti compromissori. 3. La fonte normativa delle condizioni di stipula si ritrova nell’art. 35 l. fall. ove si legge che « i compromessi », alla pari degli atti di straordinaria amministrazione, sono sottoscritti dal curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori. Al 3º comma è precisato che, ove l’atto abbia valore superiore a cinquantamila euro (nel caso di specie occorrerà probabilmente fare riferimento al valore della lite oggetto di arbitrato), occorre che il giudice delegato venga informato. giudizio arbitrale, in Sull’arbitrato: Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 367 e ss. sostiene che non sono compromettibili tutti i casi in cui vi sono ragioni specifiche affinché la lite sia attratta all’interno del procedimento fallimentare, nonché i giudizi impugnatori. (8) Si fonda su quest’ultimo rilievo BONSIGNORI, op. cit., 59 s. (9) VINCRE, Fallimento e arbitrato rituale (premesse per uno studio), in Riv. dir. proc., 1995, 741 s. (10) Sul punto VINCRE, op. cit., 740 s. (11) Per BOVE, op. cit., 302, sono compromettibili anche le azioni revocatorie; conf. GROPPOLI, op. loc. citt.: tratta anche della revocatoria ordinaria, che dovrebbe parimenti essere arbitrabile. 4 © Copyright - Giuffrè Editore Nulla si precisa in ordine alle clausole compromissorie (o, oggi, alle convenzioni arbitrali non contrattuali). Accedendo alla ratio dell’art. 35 l. fall., che è evidentemente quella di considerare la scelta arbitrale un atto di straordinaria amministrazione, si sarebbe tentati di estendere la norma alle fattispecie de quibus, se non fosse che nel frattempo, nel regime dell’arbitrato comune, il riferimento alla straordinaria amministrazione è stato definitivamente soppresso, ed è stato al suo posto introdotto il criterio di « neutralità » del patto compromissorio, vale a dire la regola per la quale quest’ultimo segue, quanto alla capacità a compromettere, il regime del rapporto cui si riferisce. Ne consegue una — per quanto possa apparire irragionevole — disciplina differenziata: per i compromessi dovrà farsi riferimento all’art. 35 l. fall., speciale rispetto alla disciplina ordinaria; con riguardo invece alle altre species di convenzione arbitrale, dovrà ritenersi applicabile l’art. 808 c.p.c., per cui le cautele richieste dalla l. fall. saranno applicabili solo quando il rapporto cui si riferisce la convenzione abbia natura di straordinaria amministrazione. A smentita non può valere il richiamo agli atti ricognitivi dei diritti dei terzi, che necessitano autorizzazione sempre ai sensi dell’art. 35 cit., in quanto il lodo non può evidentemente rientrare in questa categoria. Si rammenta che, ove manchi l’autorizzazione, a termini della giurisprudenza, si verifica un vizio di mera annullabilità, con conseguente possibilità di sanatoria (12). 4. Le convenzioni arbitrali stipulate dall’imprenditore, in caso di successivo fallimento, sono opponibili al curatore fallimentare (13)? (12) Cass., 23 settembre 2002, n. 13825, in Fall., 2003, 837. (13) La disciplina sulla sopravvivenza delle opzioni arbitrali è frutto di un lungo dibattito nato ben prima dell’ultima riforma fallimentare. Si contrapponevano diverse tesi: a) la tesi dell’inopponibilità del patto compromissorio alla amministrazione fallimentare (FERRARA Jr., BORGIOLI, Il fallimento, Milano, 1995, 275; in giur. Cass., 4 agosto 1958, n. 2866, in Giust. civ., 1959, I, 130; Cass., 10 maggio 1959, n. 1474, in Mass. Foro it., 1956, c. 275; Cass., 11 giugno 1969, n. 2064, in Foro it., 1969, I, c. 2490, nota di DI NANNI ; BONELLI, Del fallimento, Milano, s.d., I, 490 nota 278 con riguardo al compromesso soltanto); b) la tesi secondo cui il patto compromissorio conserva i suoi effetti solo se il processo arbitrale è già pendente (Cass., 12 gennaio 1956, n. 30, in Mass. Foro it., 1956, c. 7); c) la tesi secondo cui il curatore può sempre scegliere se subentrare oppure no (VECCHIONE, L’arbitrato, Milano, 1971, 349); d) la tesi che il curatore è libero di scegliere se tenere fermo il vincolo della convenzione arbitrale già stipulata ovvero sciogliersene, con una valutazione che deve investire, nel caso della clausola compromissoria, l’intero assetto del contratto nel quale è contenuta: SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999, 120; CARLEO, Le vicende soggettive della clausola compromissoria, Torino, 1998, 123; cfr. anche BONSIGNORI, op. cit., 37; BERLINGUER, op. cit., 170; Trib. Milano, 3 dicembre 2001, n. 13399, in Guida al dir., n. 4 del 2002, 56 con riguardo al contratto d’appalto. VERDE, op. loc. citt.; Cass., 23 gennaio 1964, n. 162, cit. nega la possibilità per il curatore di subentrare nel contratto e non nella clausola compromissoria; e) la tesi secondo cui il rapporto parti-arbitri (il c.d. contratto d’arbitrato), inquadrato nell’ambito del mandato - specie con riferimento all’arbitrato irrituale - sarebbe comunque sopravvissuto, facendo leva fatto leva sull’inapplicabilità dell’art. 78 l. fall. (oggi riformulato), (Cass., 14 ottobre 1992, n. 11216, cit.; Cass., 17 aprile 2003, 5 © Copyright - Giuffrè Editore A questo interrogativo cerca di rispondere l’art. 83 bis l. fall., a termini del quale « se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito » (14). Sullo sfondo, sta una norma di chiusura secondo cui, in tutti i casi non previsti dalla legge, i contratti non ancora eseguiti all’epoca del fallimento rimangono sospesi finché il curatore non abbia scelto se subentrare o sciogliersi dal vincolo (art. 72, comma 1º, l. fall.). Dunque, solo l’ipotesi in cui il fallimento sopravvenga a procedimento arbitrale pendente è espressamente disciplinata dalla legge: essa prevede che, nei casi in cui il fallimento operi lo scioglimento ex lege del contratto « principale » non ancora esaurito, il procedimento arbitrale debba arrestarsi; parimenti accade nei casi in cui spetti al curatore la scelta di sciogliersi o meno e quest’ultimo opti per la prima via. La conclusione maggiormente accettata è che la norma sancisca l’estinzione della clausola arbitrale in una con l’estinzione del contratto cui accede (15), in deroga al principio di autonomia della convenzione arbitrale. Tuttavia, nessuna regola stabilisce che l’estinzione del contratto importi l’estinzione della clausola-contratto, quando non si accompagni ad una novazione; inoltre una siffatta interpretazione avrebbe come conseguenza di escludere una volta per tutte la scelta arbitrale in ordine ai rapporti fra fallito e terzo contraente che sopravvivano allo scioglimento del contratto e che derivino da quest’ultimo: conseguenza a mio avviso irragionevole nell’eventualità in cui il fallito torni in bonis. A bene vedere — e re melius perpensa (16) —, dunque, l’art. 83 bis può spiegarsi in altra maniera: non afferma infatti che la convenzione arbitrale si estingue con il contratto, più semplicemente stabilisce che il processo arbitrale non può essere proseguito. n. 6165, in questa Rivista, 2004, 701 ss., nota di LIPPONI, Ancora su arbitrato e fallimento). Per l’operatività del patto compromissorio nei riguardi dell’amministrazione fallimentare Cass., 14 ottobre 1992, n. 11216, in Fall., 1993, 475, con nota di BOZZA; in Foro it., 1993, I, c. 821 ss., con nota di BARONE; in Dir. fall., 1993, II, 601, con nota di BONSIGNORI. Ma già prima con riguardo ad un caso di perizia contrattuale v. Cass., 23 gennaio 1964, n. 162, in Foro it., 1964, I, c. 501 ss., in Banca e borsa, 1964, II, 223, con nota di GRAZIADEI e in Dir. e prat. ass., 1964, II, 407, con nota di PAJARDI. (14) Fra gli altri, sulla norma, VESSIA, Gli effetti del fallimento sulle clausole arbitrali e sui processi arbitrali pendenti, in Dir. fall., 2008, 773; ss. TEDIOLI, Appunti sul rapporto tra arbitrato rituale e sopravvenuto fallimento di una delle parti, in Studium iuris, 2006, 526 ss. (15) Diff. APICE, Arbitrato e procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2013, 263 ss., fa prevalere il contratto di arbitrato, cosicché il curatore, ove sia già in essere il rapporto parti-arbitri, non potrebbe rifiutare la clausola arbitrale perché non si applicherebbe l’art. 83 bis destinato solo ai casi in cui il contratto di arbitrato non si sia ancora perfezionato, ma si applicherebbe l’art. 72 sul fatto che il mandato non si scioglie per fallimento del mandante. A mio avviso, ove si accetti la premessa dell’estinzione della clausola arbitrale, anche il contratto di arbitrato verrebbe meno in quanto contratto dipendente dal primo, che è negozio di durata. Ma è la premessa a non convincermi come dirò subito appresso. (16) V. infatti quanto da me scritto in Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2007, 113 ss. 6 © Copyright - Giuffrè Editore Per chiarire l’assunto, è pregiudiziale verificare quale sia il ruolo assunto dal curatore rispetto al fallito ed ai rapporti giuridici inerenti il suo patrimonio. Le ricostruzioni (17) sono le più varie: rappresentanza legale, sostituzione processuale, netta terzietà. Probabilmente ha ragione chi nota che il curatore non può essere parificato ad un ordinario rappresentante legale, in quanto amministratore della massa nell’interesse dei creditori e, dunque, dotato di funzione autonoma, rispetto al rapporto fra fallito e suo patrimonio (18). Si è così detto che la perdita di capacità è solo relativa (19); che non si può negare l’interesse del fallito a regolare il proprio patrimonio per l’eventualità di ritorno in bonis (20) (ad es. ai fini della ripetizione di indebito, relativamente al credito dell’altro contraente); che nei casi in cui il fallito conserva un qualche interesse, — potenzialmente tutti — non si verificherebbe mai la perdita di legittimazione nel processo. (17) Per la perdita della capacità di agire in capo al fallito, fra gli altri: RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto fallimentare, Torino, 1994, 166; PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2006, 307; GIORGETTI, La capacita′ processuale del fallito nei giudizi litisconsortili con il fallimento, in Fall., 2003, 1085, in nota a Cass., 5 marzo 2003, n. 3245, che concorda con la pronuncia sulla perdita assoluta della capacità, nel caso in cui sia stato evocato in giudizio anche il fallimento; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27263, e Cass., 30 agosto 2004, n. 17418, in Dejure, entrambe in termini di incapacità relativa del curatore, da lui non rilevabile; sul punto anche GARRA, in Il nuovo fallimento, a cura di Santangeli, Milano, 2006, 217 ss.; per TURRONI, Liquidazione coatta amministrativa invalida, fallimento invalido e processi pendenti, in Riv. dir. proc., 2008, 1552, l’interruzione non deriva necessariamente dalla perdita della capacità di agire, ma dalla necessità di far intervenire il curatore. Se poi si accolga l’idea che oggetto del procedimento fallimentare non è il credito del terzo, bensì il suo diritto al concorso, a maggior ragione sarà legittimo un procedimento arbitrale avente ad oggetto il primo — e non il secondo —. Intendo riferirimi a quella autorevole dottrina secondo cui oggetto del procedimento fallimentare di ammissione al passivo è il diritto al concorso, di cui il diritto di credito costituisce meramente una questione pregiudiziale, in quanto tale soggetta all’art. 34 c.p.c. (E.F. RICCI, Lezioni, cit., 322 ss.): si potrebbe dunque ipotizzare che l’arbitrato possa proseguire sul diritto di credito, mentre in via parallela il giudice fallimentare possa apprezzarne l’esistenza incidenter tantum, ai fini del diritto al concorso; il fallito non è dunque incapace (ID., op. cit., 227 ss.); sul punto anche MONTANARI, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 83 ss. (18) Cfr. SATTA, Istituzioni di dir. fall., Roma, 1952, 104 ss., osserva che il curatore è piuttosto un amministratore sostitutivo. Il patrimonio che egli rappresenta è dunque diverso dal patrimonio del debitore, tanto è vero che vi rientrano le revocatorie. Non si sostituisce né ai creditori né al debitore, compie atti autonomi di amministrazione della massa, al fine precipuo di tutelare i creditori: ha dunque un potere originario (v. però p. 142, in cui accenna ad una perdita di legittimazione processuale in capo al fallito). (19) Vedi note precedenti; significativo in tal senso è lo studio di di MANDRIOLI, La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 120 ss.; secondo APICE, Arbitrato e procedure concorsuali, in Dir. fall., 2013, 263 ss. « poiché l’incapacità processuale del fallito non è assoluta, ma relativa al rapporto con la massa dei creditori, propenderei a ritenere che il lodo pronunciato dopo la dichiarazione di fallimento non sarà inutiliter datum, ma produrrà i suoi effetti una volta tornato in bonis il fallito ». Dubbioso sulla possibilità di portare avanti il processo, DE SANTIS, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge concorsuale, in Sull’arbitrato, cit., 357: pone in luce, peraltro, le difficoltà che nascono dal fatto che il fallito non ha la capacità processuale. (20) Cass., 28 maggio 2003, n. 8545, cit.; fa l’ipotesi in cui non emerga durante il procedimento arbitrale il fallimento della parte DE SANTIS, in Diritto delle procedure concorsuali, a cura di Trisorio Liuzzi, Milano, 2013, 197. 7 © Copyright - Giuffrè Editore L’assunto, pur estremamente ragionevole, si scontra però con l’istituto della interruzione generalizzata, che per sua funzione inerisce ad eventi incidenti sulla legittimazione processuale della parte (21): secondo l’art. 43 l. fall., infatti, al momento del fallimento il processo si interrompe e il curatore sta in giudizio al posto del fallito limitatamente ai « rapporti di diritto patrimoniale [...] compresi nel fallimento » (22). Non si spiegherebbe come mai il processo subisca un arresto, se il fallito, conservando in piena la sua legittimazione processuale, potesse continuare nella lite — senza beninteso poter spendere il giudicato nei confronti del curatore —. La giurisprudenza tenta di risolvere l’aporia sembrando dare, in modo francamente discutibile, agli organi fallimentari il potere di valutare se il fallito abbia interesse a proseguire (23): quasi uno stato di quiescenza temporaneo del processo, in attesa della decisione del curatore di proseguire lui stesso o consentire al fallito di continuare. Quale che sia la soluzione, occorre prendere atto, a mio avviso, che, limitatamente ai rapporti di cui all’art. 43 l. fall., nei quali il fallimento sia coinvolto (o, seguendo la giurisprudenza, decida di essere coinvolto), il fallito perde la legittimazione ad agire. In questi casi, dunque, è logico ritenere che il processo non possa proseguire, venendo meno un indispensabile presupposto processuale, a meno che non subentri il soggetto cui « spetta stare in giudizio ». Ed è proprio a questo punto che viene in rilievo la relatività del patto arbitrale: eccetto il caso della successione, quest’ultimo non è opponibile al terzo, nella specie il curatore. Converrà distinguere le diverse ipotesi. a) Contratti non eseguiti in cui il curatore subentra. Partendo dal caso più semplice, quale sorte avranno i processi arbitrali che vertano su contratti non ancora eseguiti, nei quali il curatore scelga (o ciò gli sia imposto dalla legge) di subentrare? (21) V. le perspicue osservazioni di MONTANARI, La sopravvenienza del fallimento in corso dicausa tra riforma e recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Fall., 2008, 308 ss., spec. 312 ss., che per sua espressa ammissione getta il sasso e allontana furbescamente la mano: l’a. aveva sostenuto imn altra sede (ID., Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 83 ss.) la tesi della inidoneità della sentenza di fallimento a privare il fallito della capacità di stare nel processo. (22) Se poi il procedimento arbitrale fosse stato iniziato con la proposizione della domanda d’arbitrato, ci si era chiesti se il curatore vi fosse vincolato: in senso positivo si era richiamato l’art. 43 l. fall. (che fa riferimento ai giudizi pendenti: a voler seguire l’impostazione della giurisprudenza sulle differenze fra arbitrato rituale e irrituale, per quest’ultimo l’art. 43 cit. non sarebbe invocabile, ma resterebbe pur sempre, secondo VERDE, op. cit., 55, l’opponibilità della convenzione arbitrale e la conseguente efficacia del contratto-lodo), in combinazione con il disposto di cui all’art. 820, comma 3º c.p.c. (23) Secondo Cass., 20 marzo 2012, n. 4448, mentre quando il fallimento è già parte, il fallito non può a lui sostituirsi nelle scelte processuali; diversamente, quando il fallimento è estraneo alla lite, il fallito può proseguire « quando alla negativa valutazione si accompagni l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere ». 8 © Copyright - Giuffrè Editore L’art. 83 bis nulla dice in ordine al caso di specie, ma la soluzione è ricavabile, oltre che da una esegesi a contrario della norma, ancor prima facendo richiamo ai principi generali in materia di negozio. Poiché il curatore succede nel contratto (24) succede anche nella clausola arbitrale ivi acclusa, non essendo possibile una valutazione autonoma circa la convenienza della scelta arbitrale, rispetto a quella del contratto principale. L’assunto è in linea con le regole in tema di successione nella convenzione arbitrale. Se dunque il fallimento si verifichi durante il procedimento arbitrale, ciò comporterà, come si vedrà nel prossimo paragrafo, l’onere per gli arbitri di adottare tutte le misure necessarie per ripristinare il contraddittorio nei confronti del nuovo legittimato. Unica eccezione saranno le liti inerenti crediti a sfavore della massa, che dovranno necessariamente essere sottoposte a procedura concorsuale: su queste gli arbitri non potranno pronunciarsi, quanto meno con effetti opponibili alla massa, e per lei al curatore (25). La stessa regola varrà, a maggior ragione, ove il processo arbitrale non sia ancora iniziato. b) Contratti non eseguiti in cui il curatore non subentra a processo arbitrale pendente. Più complesso è il caso in cui il curatore abbia deciso di sciogliersi dal contratto in corso: qui interviene l’art. 83 bis, limitatamente all’ipotesi di processo pendente. Scioglimento significa mancato subentro del curatore nel contratto: il curatore è e rimane terzo (26), anche rispetto alla clausola compromissoria. È logico, pertanto, che non gli possa essere opposta. D’altro canto, gli arbitri non potranno proseguire nella lite, in tutti i casi in cui riscontrino la perdita della legittimazione processuale in capo al fallito: cioè nei casi già visti — e, lo ripeto, la cui estensione non è affatto pacifica in dottrina — di cui all’art. 43 l. fall. Se ciò è vero in linea di massima, occorre però andare più a fondo, esemplificando opportunamente. b1. Crediti precedenti allo scioglimento. Può darsi che al momento del fallimento e del conseguente scioglimento del contratto, il fallito sia creditore dell’altro contraente per una obbligazione non eseguita. Ad esempio, con riguardo ad un contratto di leasing, l’utilizzatore non ha pagato alcune rate maturate prima del fallimento della società di leasing e c’è un procedimento arbitrale in corso su questo oggetto. (24) Anche chi, come Vincre (op. cit., 72), accoglie la tesi della differenziazione fra posizione del curatore e posizione del fallito, riconosce però un fenomeno successorio nel subentro nei contratti in essere. (25) In tal senso Cass., 17 aprile 2003, n. 6165, cit.; sulla riforma v. VINCRE, in I contratti in corso di esecuzione nelle procedure concorsuali, a cura di Guglielmucci, Padova, 2006, 332 ss.; SCHIANO DI PEPE, in Il dir. fall. riformato: commento sistematico, a cura di Schiano di Pepe, Padova, 2007, 294. (26) Esclude che il curatore possa essere considerato un successore nel procedimento di ammissione dei crediti, Cass., 20 febbraio 2013, n. 4213. 9 © Copyright - Giuffrè Editore Il curatore decide di sciogliersi dal contratto di leasing, ma intende altresì recuperare il credito a favore della massa: è vincolato al patto arbitrale? L’art. 82 bis è tranchant: in tutti i casi di scioglimento del contratto, nessuno escluso, il processo arbitrale è improseguibile. Se si dovesse ritenere che il curatore succeda nella posizione del fallito rispetto al credito derivante dal contratto sciolto, si avrebbe una vistosa eccezione alla regola secondo cui la successione nel diritto importa successione nel correlativo patto arbitrale (27): è vero che la Cassazione (28) nega che il cessionario del credito possa avvalersi del patto arbitrale, ma garantisce pur sempre il diritto all’arbitrato da parte del terzo contraente. Si potrebbe giustificare l’assunto sulla prevalenza dell’interesse alla tutela dei creditori del fallito. Tuttavia, resta difficilmente spiegabile la ragione della differenza di trattamento rispetto al subentro nel contratto: perché la successione nel diritto derivante dal contratto non importa, al pari della successione nel contratto, il vincolo arbitrale? Come si è anticipato supra, la soluzione adottata dall’art. 83 bis può spiegarsi in altro modo: il curatore rimane terzo rispetto al credito del fallito, per cui l’inopponiblità del patto compromissorio trova la sua piena ratio. Benché il profilo meriti ben altro approfondimento, osservo che la tesi secondo cui il curatore fa valere una situazione distinta rispetto a quella del fallito pare più in linea con l’indiscussa autonomia della sua funzione (29). L’art. 83 bis si limiterebbe dunque a prenderne atto, derivando la sua naturale conseguenza, cioè l’impossibilità per gli arbitri di giungere alla decisione nel merito: il fallito non ha più, infatti, la disponibilità di quel diritto — e dunque la correlativa legittimazione processuale — ormai attratto alla massa. A questo punto però ci si deve chiedere se sia possibile ovviare allo (27) La convenzione arbitrale, infatti, continua a regolare il rapporto anche quando questi si sia estinto: per Cass., 17 aprile 2003, n. 6165, in Fall., 2004, 523 con nota di VINCRE, in Giust. civ., 2004, I, 2408, « Il curatore che azioni un credito la cui causa petendi risieda nel rapporto sociale tra un consorzio e l’impresa (poi fallita ed esclusa) in relazione a prestazioni, attinenti all’oggetto sociale, da quest’ultima effettuate, non può disconoscere la clausola compromissoria contenuta nel contratto consortile e stabilita per la risoluzione delle controversie sorgenti tra le singole imprese consorziate o tra le stesse ed il consorzio ». (28) Cass., 28 dicembre 2011, n. 29261. (29) Osservava Satta (Istituzioni di dir. fall., Roma, 1952, 223 ss.) che il contratto che sia già stato eseguito da una delle parti, — e ne derivi solo un diritto di credito o di debito della massa —, non può rientrare in quelli in cui il curatore può subentrare, perché già esaurito; la fattispecie di cui al testo sarebbe analoga, dallo scioglimento il contratto non c’è più e residua solo un ordinario credito o debito. Sul punto anche PAJARDI, PALUCHOWSKY, Manuale di dir. fall., Milano, 2008, 460. 10 © Copyright - Giuffrè Editore spreco di costi e tempi, nel caso in cui il curatore reputi più utile proseguire nel processo arbitrale, piuttosto che iniziare un procedimento giudiziale ex novo. Si potrebbe invocare l’art. 72 comma 1º, sostenendo che la convenzione arbitrale è contratto ontologicamente separato, suscettibile di autonoma valutazione da parte del curatore, nonché di durata e dunque non ancora eseguito (30), ma si verificherebbe una difficilmente accettabile ipotesi di successione nella sola clausola arbitrale, senza che vi sia contemporanea assunzione del rapporto assistito da quest’ultima (31). Si potrebbe poi avanzare l’idea di un intervento del curatore. L’assunto non è peregrino, ma occorre tenere presente che, mentre l’intervento adesivo dipendente presuppone che il fallito conservi la legittimazione ad agire — il che non è almeno secondo l’interpretazione più aderente al testo dell’art. 43 l. fall. —, l’intervento adesivo autonomo o principale presuppongono il consenso dell’altra parte; solo a questa condizione, pertanto, il curatore potrà partecipare all’arbitrato, mentre l’intervento del successore a titolo particolare va a mio avviso escluso per la impossibilità di configurare nella fattispecie una ipotesi di successione a titolo particolare nell’accezione di cui all’art. 111 c.p.c. — come si vedrà nel prossimo par. —. (32) Nessuna delle soluzioni prospettate è soddisfacente: meglio sarebbe stato, nell’interesse del fallimento, permettere al curatore di valutare la convenienza del procedimento arbitrale in corso. Si deve pertanto prendere atto della risposta negativa. b2. Debiti precedenti allo scioglimento. La soluzione è più semplice: il credito del terzo nei confronti della massa deve seguire la procedura concorsuale (33); gli arbitri dovranno soprassedere al giudizio nel merito, e l’art. 83 bis ne è la conferma. Ne è parimenti la conferma l’art. 72 l. fall. nella parte in cui stabilisce che, a contratto sciolto, l’eventuale credito del terzo contraente possa essere ammesso al passivo. (30) Sul problema della qualifica della convenzione arbitrale ed in particolare del compromesso come contratto non ancora eseguito: VINCRE, Arbitrato rituale e fallimento, cit., 80. Su questi aspetti anche VERDE, op. cit., 53; MACCHIA, Opponibilità della clausola compromissoria al fallimento del contraente, in Il fall., 2006, 818 ss.; diff. Trib. Terni, 7 febbraio 2011, in Giur. it., 2012, 384 ss., con nota di FRADEANI, secondo cui la clausola non potrebbe definirsi come contratto pendente ex art. 72 perché non ha reciproche prestazioni. (31) Diverso sarebbe se si ritenesse che il curatore subentri nel rapporto di credito derivante dal contratto poi sciolto: a questo punto, si tratterebbe di « sistemare » l’incrociato disposto degli artt. 72, comma 1º e 83 bis, ritenendo che il primo vada ad attenuare il tenore tranchant del secondo: vale a dire, il processo non può essere proseguito, a meno che il curatore non decida di subentrare nella clausola arbitrale. (32) Si parla infatti di trasferimento per atto tra vivi a titolo particolare, che non mi pare ricorra nella fattispecie. (33) Nel qual caso, già prima la Cassazione aveva ritenuto che gli arbitri dovessero pronunciare la improcedibilità del giudizio arbitrale: Cass., 6 giugno 2003, n. 9070, in D&G, 2003, n. 26, 90, in questa Rivista, 2004, 299, nota SOTGIU, in Giur. it., 2004, 964, in Corr. giur., 2004, p. 322 ss., nota di MONTANARI; Cass., 4 settembre 2004, n. 17891, in Dejure; v. sul punto TIZI, Fallimento e giudizi arbitrali pendenti su crediti, in Dir. fall., 2005, 440 ss. 11 © Copyright - Giuffrè Editore b3. Azioni « neutre » precedenti allo scioglimento. L’art. 72 l. fall., al 5º comma, dispone che l’eventuale azione di risoluzione (34) del contratto, proposta prima del fallimento, « spiega i suoi effetti » nei confronti del curatore (35). Non v’è motivo di escludere che la disposizione valga anche quando l’azione di risoluzione sia pendente davanti agli arbitri: naturalmente, dovrà essere data la possibilità per il curatore di difendersi attivamente, se necessario attraverso la sua chiamata. A mio avviso, la ratio dell’art. 72 ne permette l’applicazione a tutte le possibili liti « neutre » preesistenti al fallimento sul contratto sciolto, quali l’annullamento o la nullità, a condizione che non siano avanzate pretese di credito da parte del terzo contraente, che dovranno essere in ogni caso assoggettare al rito fallimentare. Ciò significa che, in tutti questi casi, l’art. 83 bis non si applica in quanto superato da disposizione speciale. b4. Rapporti successivi o derivanti dallo scioglimento. Nel caso in cui vengano dedotti nel corso dell’arbitrato rapporti successivi all’estinzione o sorgano eventuali liti circa lo stesso scioglimento del contratto (36), rimane a maggior ragione valida la regola della inopponibilità della clausola arbitrale nei riguardi del curatore. Per esempio, l’eventuale risarcimento del danno conseguente dall’esercizio del diritto di scioglimento, che dovrebbe comunque essere rigettato per effetto dell’art. 72, comma 4º, non potrà essere rivolto agli arbitri di un processo pendente alla data del fallimento. Ancora, riprendendo l’esempio sopra dedotto del leasing, poiché ai sensi del’art. 72 quater l. fall. il concedente ha diritto alla restituzione del bene, mentre il curatore del fallimento dell’utilizzatore ha diritto alla differenza fra maggior somma ricavata dalla eventuale vendita ed il credito residuo che il fallito avrebbe dovuto pagare, nessun vincolo arbitrale potrà operare nel caso in cui il curatore faccia valere il diritto della massa e neppure se il concedente reclami la restituzione della cosa dal curatore. c) Contratti non eseguiti in cui il curatore non subentra a processo arbitrale non ancora iniziato. Se il processo arbitrale non sia ancora (34) Per una esaustiva ricostruzione dei precedenti e della ratio della norma, v. FRASCASANTI, Il dir. fall. e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, 270 s. (35) Purché, in caso di beni immobili, la domanda di arbitrato sia stata trascritta, altrimenti gli eventuali effetti del lodo non dovrebbero poter spiegare effetti nei riguardi del curatore. (36) Dico probabilmente perché, benché l’art. 808 quater c.p.c. suggerisca la soluzione contraria, vi sono a mio avviso problemi di limiti soggettivi, in quanto, a differenza dei casi in cui il curatore benefici di rapporti dare-avere preesistenti allo scioglimento, non può parlarsi di subentro del curatore in una situazione preesistente del fallito. Conf. DE SANTIS , Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge concorsuale, cit., 364. ROLI 12 © Copyright - Giuffrè Editore iniziato al momento del fallimento ed il contratto sia sciolto, la ratio dell’art. 83 bis, come esposta ai punti precedenti, rimane valida. Una eventuale lite promossa dal curatore in ordine a crediti della massa non sarà obbligatoriamente soggetta ad arbitrato; parimenti varrà per eventuali crediti derivanti dallo scioglimento, mentre eventuali debiti della massa dovranno essere dedotti con il rito concorsuale. d) Compromessi o convenzioni arbtrali non contrattuali. L’art. 83 bis non tratta del compromesso e della convenzione arbitrale non contrattuale preesistenti (37), ma sono propensa a far prevalere sul dato letterale la comunanza di ratio. e) Domande di dare-avere in processi arbitrali pendenti. Cosa accade se nel giudizio arbitrale si contrappongano domande di dare-avere, delle quali soltanto quella avente ad oggetto il credito a sfavore della massa sia attratta alla procedura fallimentare (38)? Si è ritenuto che l’intera controversia debba spostarsi in sede fallimentare (39), ma il sopravvenuto art. 819 ter legittima a mio avviso la soluzione opposta, cioè le vie parallele — con tutti i problemi di coordinamento che ne deriveranno —. Ove il credito sia posto in via di compensazione varrà la disciplina dell’art. 56 l. fall. (40) f) Contratti interamente eseguiti. Anche per i contratti già interamente eseguiti all’epoca del fallimento possono darsi rapporti sospesi, assistiti da clausola arbitrale, per i quali sia finanche già pendente il processo arbitrale. Qui l’art. 83 bis non opera per espressa previsione della norma, che si applica ai contratti non ancora del tutto eseguiti. Tuttavia, se si vuol essere coerenti con quanto sopra sostenuto, a maggior ragione deve ritenersi che il curatore non succeda nei rapporti scaturenti dai contratti già eseguiti (41) e conseguentemente non sia vincolato dal relativo patto compromissorio. Ciò non implica, come si è già detto in precedenza, che quest’ultimo si sia estinto per ciò solo dell’avvenuta estinzione del contratto: solo, non sarà opponibile al curatore. g) Liti fra fallito e terzo cui il fallimento è estraneo. Da ultimo occorre (37) Conf. BOVE, op. cit. 308. (38) Si è posto ad esempio il caso in cui, in un processo arbitrale (di arbitrato irrituale), il terzo aveva fatto valere in via riconvenzionale un credito: Cass., 16 giugno 2000, n. 8231, in questa Rivista, 2001, 439 ss. con nota di CAVALAGLIO. (39) COLESANTI, Giudizio arbitrale e sopravvenuto fallimento di una delle parti, in Dir. fall., 1998, 166 ss. (40) Per una esaustiva trattazione di quest’ultimo aspetto, VANZETTI, Compensazione e processo fallimentare, Milano, 2012, 37 ss.; nel Lodo arb. Milano, 10 settembre 2004, in questa Rivista, 2006, 149 ss., nota di LIPPONI si trattava di un credito opposto in compensazione come mera eccezione nei confronti dell’imprenditore in amministrazione straordinaria. (41) La lite riguardante un contratto estinto costituirebbe mera questione pregiudiziale rispetto alla massa secondo VANZETTI, op. cit., 436. 13 © Copyright - Giuffrè Editore menzionare i casi in cui la lite fra fallito e terzo (pendente o no il processo arbitrale) abbia ad oggetto un rapporto diverso, non importa se pregiudiziale o meno, da quello di cui è titolare il curatore. Liti, cioè, che non rientrano nell’accezione già vista dell’art. 43 l. fall. Si è visto che quanto più si separano concettualmente i rapporti patrimoniali del fallito dai rapporti patrimoniali della massa, tanto più si allarga la sfera di terzietà del curatore rispetto ai vincoli arbitrali del fallito. Qui mi limito a riportare esempi nei quali la posizione di terzietà del curatore rispetto alla controversia pendente non può, a mio parere, revocarsi in dubbio: ad esempio, una lite fra fallito e terzo contraente, con riguardo ad una disposizione negoziale non opponibile alla massa (42); oppure una controversia endosocietaria, come ad esempio l’impugnativa da delibera assembleare da parte di un socio, devoluta ad arbitri per effetto di una clausola arbitrale contenuta nello statuto, con successivo fallimento della società. Anche in questi casi si rimane fuori dall’ambito dell’art. 83 bis. Ciò non toglie che il curatore rimarrà terzo sia rispetto alla convenzione arbitrale, sia all’eventuale processo arbitrale, sia al successivo lodo, che potrà se del caso impugnare con l’opposizione di terzo (43). Potrà, se mai, decidere di intervenire nel procedimento pendente, alle condizioni di cui all’art. 816 quinquies c.p.c.; nell’esempio dell’arbitrato endosocietario l’intervento sarà ammesso alle condizioni assai più larghe di cui all’art. 35 d.lgs. n. 5 del 2003. Dall’assetto che precede emerge a mio avviso una considerazione de iure condendo: poiché l’arbitrato non è uno strumento di soluzione delle liti ontologicamente peggiore rispetto al processo statuale, ma occorre valutare caso per caso i pro e i contra, meglio sarebbe stato affidare al curatore la valutazione circa la convenienza o meno di proseguire (44). Del resto, che il legislatore non abbia ancora trovato un punto fermo nei rapporti fra arbitrato e fallimento è dimostrato dal nuovo art. 169 bis l. fall. in tema di concordato preventivo, che adotta una soluzione opposta a quella dell’art. 83 bis. (42) Cass., 28 maggio 2003, n. 8545, in questa Rivista, 2004, 713 ss., con nota di TOTA, Sulla legittimazione del curatore all’opposizione ordinaria di terzo avverso il lodo arbitrale pronunciato nel contraddittorio del solo fallito: si trattava di una vendita non opponibile ex art. 45 l. fall. (43) VINCRE, op. cit., p. 71 ss.; ID., Opponibilità ed efficacia nei confronti del curatore della clausola compromissoria, in Il fall., 2004, 527 ss. (44) L’art. 83 bis, infatti, non sembra dare scampo e ciò nemmeno se lo si interpreti come automatica estinzione contestuale. Infatti non si può sostenere, a mio avviso, che riguardi solo le liti successive o derivanti dallo scioglimento, perché si tratta di rapporti che non possono essere stati dedotti prima del fallimento e la norma evidentemente lo presume. Né può ritenersi che la clausola arbitrale, pur estinguendosi, operi ex nunc, perciò resti in piedi per le liti precedenti, perché il patto compromissrio non riguarda diritti collocabili nel tempo; inoltre varrebbe pur sempre il principio tempus regit actum per gli atti conseguenti alla clausola. 14 © Copyright - Giuffrè Editore Significativa è anche la proposta di revisione (45) del regolamento europeo sul fallimento transfrontaliero (n. 1346 del 2000): l’art. 15 (46) dovrebbe infatti prevedere che « gli effetti della procedura d’insolvenza su un procedimento giudiziario o arbitrale pendente relativo a un bene o a un diritto del quale il debitore è stato spossessato sono disciplinati esclusivamente dalla legge dello Stato membro in cui il procedimento è pendente o ha sede l’arbitrato »; si aprono pertanto le porte — limitatamente ai fallimenti transnazionali — ad ordinamenti non altrettanto rigorosi rispetto al nostro, quanto all’operatività dell’arbitrato rispetto al fallimento. 5. A questo punto occorre verificare più da vicino quali siano i risvolti processuali nel caso in cui il fallimento ricorra a processo arbitrale pendente. a) Dichiarato in giudizio l’avvenuto fallimento, si discute se debba farsi applicazione dell’art. 816 sexies (47), o dell’art. 43, comma 3º, l. fall. (48), con diverse conseguenze: eventuale sospensione del processo, nel primo caso, interruzione obbligatoria, nel secondo caso. Io ritengo che debba preferirsi la prima soluzione: l’art. 816 sexies è dettato specificamente per l’arbitrato e riguarda tutti i casi in cui la parte « viene meno », accezione generica in grado di ricomprendere anche il caso de quo; in presenza di una disciplina dettata appositamente per l’arbitrato e tesa evidentemente ad escludere l’istituto della interruzione, sarei per ritenere l’art. 43, comma 3º, l. fall. rivolto alle sole liti davanti al giudice. Resta ferma, peraltro, l’applicabilità dell’art. 43, comma 1º, l. fall. (49), a termini della quale con il fallimento il fallito perde la legittimazione a stare nel processo e ciò perché la legittimazione a stare in arbitrato coincide con la legittimazione processuale davanti al giudice statuale: di conseguenza, va escluso, a mio avviso, ogni richiamo alla diversa ipotesi della successione a titolo particolare (50). Dunque, gli arbitri dovranno predisporre le misure idonee al ripristino del contraddittorio, chiamando direttamente il curatore in giudizio o (45) COM (2012) 744. (46) Riformulato nella rubrica « Effetti della procedura d’insolvenza sui procedimenti giudiziari o arbitrali pendenti », (47) BOVE, op. cit., 309 ss. (48) CASTAGNOLA, Arbitrato pendente e subentro del curatore nel contratto contenente la clausola compromissoria, in Sull’arbitrato, cit., 167 ritiene si applichi l’art. 43 l. fall., per cui il procedimento arbitrale è interrotto e non sospeso; conf. DE SANTIS , sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge concorsuale, loc. cit. (49) Diff. CASTAGNOLA, op. loc. ultt. citt. (50) Sempre CASTAGNOLA, op. loc. ultt. citt., che comunque perviene al risultato di far prevalere l’art. 43 l. fall. in tutto il suo contenuto. 15 © Copyright - Giuffrè Editore invitando le parti a farlo. Se del caso potranno sospendere il procedimento, ottenendo così anche la sospensione del termine per la pronuncia (art. 820 c.p.c.). Non va neppure esclusa l’ipotesi in cui il curatore si costituisca spontaneamente, senza soluzione di continuità. Se le parti, invitate a chiamare il curatore, non vi provvedano, non per ciò il processo viene meno: gli arbitri potranno discrezionalmente decidere di rinunciare al mandato e peserà nella loro valutazione l’eventualità che il lodo possa spiegare effetti al di fuori del fallimento (51). Quanto alla posizione del curatore, tutto dipenderà dall’operatività o meno del vincolo arbitrale nei suoi riguardi. Nei casi, già visti, in cui sia vincolato alla convenzione compromissoria, sarà soggetto agli effetti del lodo anche quando decida di non costituirsi (52). In ipotesi opposta, nulla toglie che sia notiziato del processo pendente, ma non lo si potrà forzare a parteciparvi, a meno che non decida di intervenire, ai sensi e nei limiti dell’art. 816 quinquies (53). In entrambi i casi, accetterà il processo arbitrale nello stato in cui si trova (54), senza poter influire sulla designazione degli arbitri in ipotesi già nominati, in linea con la disciplina ordinaria dell’intervento del terzo. Il meccanismo delineato torna a far emergere l’incongruenza già segnalata nelle pagine precedenti. Per un verso, l’applicazione dell’art. 816 sexies al sopravvenuto fallimento presuppone la perdita in capo al fallito della legittimazione a stare in arbitrato; per altro verso, ben possono darsi casi in cui il curatore non sia vincolato a partecipare al processo arbitrale, che potrebbe continuare senza la sua presenza e senza alcun effetto nei suoi riguardi. Ciò si spiega, ancora una volta, per la relatività della perdita di legittimazione in capo al fallito, che conserva l’astratta idoneità al compimento di atti processuali, mentre perde il potere di compierli, nei soli limiti previsti dagli artt. 42 ss. l. fall.: sarà dunque possibile per il fallito continuare a stare in giudizio al di fuori dell’ambito devoluto al fallimento. Nel caso in cui il curatore non succeda nella posizione del fallito, come opera tecnicamente il riferimento alla non « proseguibilità » del processo arbitrale? (51) NITROLA, Arbitrato e fallimento, in I contratti, 2012, 756 ss. (52) NITROLA, op. loc. ultt. citt. (53) Ci si può chiedere se, per un intervento autonomo o principale, occorra il consenso di ambo le parti: sarei per applicare fedelmente la norma citata, dato che in gioco vi è la consensualità del patto arbitrale, al di fuori dei casi in cui il curatore subentra ex lege nella clausola arbitrale. (54) Non v’è spazio qui per approfondire tutti i problemi che l’entrata del curatore comporta sul processo pendente, nonché i poteri processuali del medesimo, rinviandosi a VINCRE, op. loc. ultt. citt. 16 © Copyright - Giuffrè Editore A mio avviso, non si tratta di un motivo di « improcedibilità » secondo l’accezione del codice di procedura civile, che lo ricollega ad un vizio sopravvenuto alla proposizione dell’impugnazione; gli arbitri dovranno, con un lodo in rito, dichiarare la mancanza del presupposto processuale riguardante la legittimazione processuale del fallito (ove ciò, ovviamente, si verifichi). Si tratta di un vizio, come tale, rilevabile d’ufficio. Diversamente, ove si accogliesse l’interpretazione di altra parte della dottrina, secondo cui la convenzione arbitrale si estingue insieme al contratto, l’eccezione sarebbe rilevabile ex parte, ai sensi dell’art. 816 c.p.c. 6. Mi occupo ora brevemente degli effetti del lodo arbitrale già pronunciato all’atto del fallimento. La norma di riferimento, pur non regolando il caso di specie, è l’art. 96, comma 2º, l. fall., a termini del quale sono ammessi al passivo con riserva « i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento ». Naturalmente, il curatore può proporre o proseguire l’impugnazione. Sub Iulio, la Cassazione (55) aveva esteso l’analoga previsione (previgente art. 95) al lodo rituale, intendendolo ricompreso nell’accezione « sentenza ». Oggi l’assunto è confermato dall’art. 824 bis c.p.c., se non fosse che l’inciso « sentenza del giudice ordinario o speciale » contenuto nell’art. 96 l. fall. complica le cose. L’arbitro non è, infatti, né giudice ordinario, né tanto meno speciale. Sarei però propensa a superare l’ostacolo attraverso la lettura incrociata delle due norme citate: se il lodo ha « effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria », avrà anche l’effetto di accertare un credito opponibile alla massa al pari di una sentenza. (56) Ne segue che il curatore, ove intenda contestare il credito per le stesse censure che avrebbe potuto muovere il fallito, potrà impugnare il lodo con l’impugnazione per nullità (57); parimenti potrà proseguire nell’impugnazione già proposta dal — futuro — fallito. (55) Cass., 26 agosto 1998, n. 8495, in questa Rivista, 1999, 705 ss., con nota di CAVALAcontra BONSIGNORI, op. cit., 65. (56) In tal senso NITROLA, op. loc. ultt. citt.; MONTANARI, Lodi rituali e verifica dei crediti nel fallimento dopo la riforma, in Sull’arbitrato, cit., 529. (57) Certo, ove si distingua il diritto di credito dal diritto al concorso, il lodo, tecnicamente, non pronuncia sul rapporto del curatore, per cui questi si troverebbe ad impugnare come una parte, pur non essendo titolare del diritto. E tuttavia, ponendo il diritto di credito come pregiudiziale al diritto al concorso, l’opposizione di terzo revocatoria non appare uno strumento del tutto idoneo, in quanto limitato soltanto al caso del dolo o collusione fra le parti; occorrerebbe se mai ritenere che il curatore non sia vincolato dal lodo ma ci si troverebbe in contrasto con l’art. 96 cit. GLIO; 17 © Copyright - Giuffrè Editore Se invece il curatore si ponga come terzo rispetto all’oggetto del lodo (58), di cui lamenti un pregiudizio, il rimedio apposito sarà l’opposizione di terzo: occorrerà a tal fine distinguere i casi in cui il curatore sia soggetto all’efficacia riflessa del lodo (59), da quelli in cui sia titolare di un diritto autonomo ed incompatibile con quello deciso. The relationship between arbitration and bankruptcy deals with different aspects: arbitrability of disputes which concern insolvency, ability of the insolvency administrator to enter into arbitration agreements, enforceability of the arbitration agreement previously entered into by the company, with specifications about the arbitral proceedings and the award. In particular, the author proposes an interpretation of art. 83 bis of the italian insolvency act, as an expression of a more general rule: the insolvency administrator is a third party to the contract, except in cases of succession, and therefore the arbitration agreement contained therein cannot be opposed to him. (58) Non può neppure in ipotesi parlarsi di — pur atipica — successione: TOTA, op. cit., 723. La necessità di verificare in concreto quale sia la posizione assunta dal curatore, per verificare quale sia lo strumento impugnatorio idoneo, è affermata da Cass., 22 giugno 2005, n. 13442, in questa Rivista, 2006, p. 709 ss., con nota di SANTAGADA. (59) Cfr. DEL VECCHIO, Clausola compromissoria, compromesso e lodo di fronte al successivo fallimento di una delle parti, in Dir. fall., 1986, I, 304 ss. 18 © Copyright - Giuffrè Editore L’arbitrato marittimo internazionale ANDREA LA MATTINA (*) 1. La specialità dell’arbitrato marittimo rispetto all’arbitrato commerciale internazionale. — 2. La forza espansiva dell’autonomia privata nel contesto dell’arbitrato marittimo quale strumento interpretativo della volontà delle parti. — 3. La forma della clausola compromissoria nella prospettiva dell’arbitrato marittimo. — 4. La legge applicabile: il rilievo della lex maritima e l’emersione dello status mercatorio. — 5. Il procedimento. — 6. Il trasporto di linea come momento critico del sistema « arbitrato marittimo » e come conferma dei risultati dell’indagine. 1. L’arbitrato rappresenta lo « strumento privilegiato » di soluzione delle controversie marittime internazionali (1). Tale circostanza emerge dall’ampia diffusione delle clausole compromissorie nei formulari contrattuali più utilizzati dagli operatori marittimi e dal notevole sviluppo che hanno avuto negli ultimi decenni le istituzioni arbitrali specializzate nella risoluzione di controversie di natura marittima (2). Ciononostante, l’arbitrato in materia marittima non è compiutamente disciplinato né dalle convenzioni di diritto internazionale uniforme, né dalle legislazioni statali (3). La notevole rilevanza dell’arbitrato quale mezzo di soluzione delle controversie marittime internazionali ha condotto parte della dottrina a parlare con sempre maggior frequenza di « arbitrato marittimo » per fare (*) Docente a contratto nell’Università di Genova. (1) Così CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, in ALPA e VIGORITI, Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, Torino, 2013, 1294. Nello stesso senso DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain: point du vue français, in Dir. maritt., 2004, 436; HARRIS, Maritime Arbitrations, in TACKABERRY e MARRIOT, Bernstein’s Handbook of Arbitration and Dispute Resolution Practice, London, 2003, 743; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage maritime, in Études offertes à René Rodière, Paris, 1981, 401; LEGROS, Les conflicts de normes jurisdictionnelles en matière de contrats de transport internationaux de marchandises, in Clunet, 2007, 1105, cui adde LA MATTINA, L’arbitrato marittimo e i principi del commercio internazionale, Milano, 2012, 1 ss. (2) Sul punto sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 17-46. (3) V. ancora LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 46-56. 19 © Copyright - Giuffrè Editore riferimento al fenomeno in esame (4). È peraltro necessario precisare (4) Cfr. ALCANTARA, An international panel of maritime arbitrators, in Journ. Int. Arb., 1994, 117 ss.; ALLSOP, International maritime arbitration: legal and policy issues, in J.I.M.L., 2007, 398 ss.; ÁLVAREZ RUBIO, Arbitraje marìtimo y criterios de seleccìon del Derecho applicabile al fondo de la controversia. Especial referencia al settor del transporte, in Revista de la Corte Espagñola de Arbitraje, 1997, 55 ss.; AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, 3rd ed., London, 2009, passim; ARRADON, L’arbitrage maritime: le point de vue du praticien, in Dr. mar. fr., 2007, 389 ss.; ID., L’incorporation des clauses de charte-partie dans le connaissements, in Dr. mar. fr., 2004, 883 ss.; BARCLEY, Arbitration and Shipping, in Arbitration, 1967, 3-7; BERLINGIERI, International Maritime Arbitration, in J.M.L.C., 1979, 199-247; ID., Trasporto marittimo e arbitrato, in Dir. maritt., 2004, 423 ss.; BERNINI, L’arbitrato nel diritto marittimo, in CECCHELLA (cur,), L’arbitrato, Torino, 2005, 583 ss.; BOI, L’arbitrato marittimo e commerciale in un recente convegno, in Dir. maritt., 1991, 526; CARASSO BULOW, A user’s experience of London and New York maritime arbitration, in Eur. Transp. L., 1998, 293 ss.; CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; COHEN, A New Yorker looks London Maritime Arbitration, in L.M.C.L.Q., 1986, 57-79; ID., Maritime arbitration in Asia, in J.M.L.C., 1998, 117 ss.; CRAIG, PARK e PAULSSON, International Commercial Arbitration, I, Dobbs Ferry - New York, 1984, 58-59; CURTIN, Arbitration maritime cargo disputes - future problems and considerations, in L.M.C.L.Q., 1997, 31-64; DE LA VEGA JUSTRIBÒ, El arbitraje en el àmbito maritìmo, in AA. Vv., El Arbitraje en las distintas Áreas del Derecho, I, Lima, 2007, cap. 13; DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain: le point de vue français, in Dir. maritt., 2004, 436 ss.; ESPINOSA CALABUIG, La clàusulas arbitrales marìtimas a la luz de los ‘usos’ del tràfico comercial internacional, in Revista Eletrònica de Estudios Internacionales, 2007, reperibile sul sito Internet www.reei.org, 7 ss.; ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, Navarra, 2007, passim; ID., Some Current Developments in International Maritime Arbitration, in BASEDOW, MAGNUS e WOLFRUM (eds.), The Hamburg Lectures on Maritime Affairs 2007 & 2008, Berlin, 2010, 119 ss.; FORCE e MAVRANICOLAS, Two Models of Maritime Dispute Resolution: Litigation and Arbitration, in Tul. Law. Rew., 1991, 1461 ss.; GLATZMAYER, Arbitration of Marine Controversies, in The Arbitration Journal, 1937, 47-50; HAIGHT, Maritime Arbitration - the American experience, in AM. Disp. Res. 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Mario Riccomagno; MUSTILL, Maritime arbitration: the call for a wider perspective, in Journ. Int. Arb., 1992, 51 ss.; O’CONNOR, Marittime arbitration without consent vouching, consolidation and self-execution. Will New York practice migrate to Canada?, in Journ. Int. Arb., 1993, 161 ss.; PHILLIPS, The Needs of Arbitration from a Maritime Point of View, in Arbitration, 1978, 245 ss.; RAMOS MÉNDEZ, Arbitraje maritimo internacional: Confirmacìon de la doctrina jurisprudencial, in Anuario de Derecho Maritimo, vol. III, 988 ss.; REMOND-GOUILLOUD, Droit Maritime, 2ne ed., Paris, 1993; RIGHETTI (E.), L’istruzione probatoria nell’arbitrato internazionale commerciale e marittimo, in questa Rivista, 1993, 315 ss.; TASSIOS, Choosing the appropriate venue: maritime arbitration in London or New York?, in Journ. Int. 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Some comparative remarks, in Arbitration, 1998, 257 ss.; WAGENER, Legal Certainty and the Incorporation of Charterparty Arbitration Clauses in Bills of Lading, in J.M.L.C., 2009, 115 ss.; ZEKOS, Maritime Arbitration and the Rule of Law, in J.M.L.C., 2008, 523 ss.; ID., International Commercial and 20 © Copyright - Giuffrè Editore preliminarmente che, nel presente lavoro, con l’espressione « arbitrato marittimo » si intende fare riferimento esclusivamente all’arbitrato marittimo c.d. « transnazionale » (ossia all’arbitrato tra privati, avente a oggetto questioni inerenti il diritto marittimo e caratterizzato dall’esistenza di elementi di internazionalità) e non anche né all’arbitrato marittimo c.d. interstatale (ossia all’arbitrato tra Stati, o tra Stati e privati, relativo al diritto del mare) (5), né all’arbitrato marittimo « interno » (ossia all’arbitrato tra privati, avente a oggetto questioni inerenti il diritto marittimo che si esauriscono nell’ambito di un solo ordinamento giuridico) (6). L’espressione « arbitrato marittimo » (come sopra intesa) necessita comunque di essere « decodificata », in quanto apre le porte ad una duplice serie di fraintendimenti. Da un lato, si potrebbe sostenere che si è in presenza di un arbitrato marittimo semplicemente quando un arbitrato commerciale internazionale « in some way (...) involves a ship » (7): tale affermazione potrebbe far ritenere che l’arbitrato marittimo non esista come istituto giuridico a sé, in nulla distinguendosi da un « comune » arbitrato commerciale internazionale, a parte il fatto di riguardare una controversia marittima. Dall’altro lato, all’opposto, si potrebbe sostenere che l’arbitrato marittimo sia un procedimento intrinsecamente diverso e comunque autoMaritime Arbitration, London-New York, 2008; ZUBROD, The history of maritime arbitration in New York, in The Arbitrator, 2001, vol. 32, n. 2, 2 ss.; ZUNARELLI e ZOURNATZI, Arbitrato nelle controversie marittime internazionali, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre ADR, a cura di BUONFRATE e GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 422 ss., cui adde i lavori di RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, in Trasporti, 1999, vol. 79, 135-151; ID., Maritime arbitration between international commercial arbitration and regional iniatives, relazione presentata alla Maritime Arbitration Conference, Dubai, 5-7 aprile 2008; ID., Maritime arbitration and international commercial arbitration, relazione presentata al XVIIth International Congress of Maritime Arbitrators, Hamburg, 5-9 ottobre 2009; ID., Lecture note on international maritime arbitration, relazione presentata all’International Dispute Resolution Institute, Londra, 29 settembre 2010, questi ultimi inediti, ma cortesemente messimi a disposizione da parte dell’Autore. (5) Sul fatto che la distinzione tra arbitrato « transnazionale » e arbitrato « interstatale » sia « labile » e « incerta », cfr. per tutti TREVES, Le controversie internazionali. Nuove tendenze, nuovi tribunali, Milano, 1999, 35. Sull’arbitrato interstatale riguardante questioni inerenti il diritto del mare oltre al citato lavoro di Treves (ibidem, 102 ss.) cfr., senza pretesa di completezza, ADEDE, The System for Settlement of Disputes under the United Nations Convention on the law of the Sea, Dordrecht-Boston-Lancaster, 1987; BOYLE, Dispute Settlement and the Law of the Sea Convention: Problems of Fragmentation and Jurisdiction, in Int. Comp. Law Quart., 1997, 37 ss.; CAFLISCH, Le règlement judiciaire et arbitral des différends dans le nouveau droit de la mer, in Festschrift für Rudolf Bindschedler, Bern, 1980, 351 ss.; COQUIA, Settlement of Disputes in the UN Convention on the Law of the Sea, in Indian Jour. Int. Law, 1985, 171 ss.; MARRELLA, Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 788 ss.; SCOVAZZI, The Evolution of the International Law of the Sea: New Issues, New Challenges, in Recueil des Cours, 2000, 53, 122 ss.; ZEKOS, Competition or Conflict in the Dispute Settlement Mechanism of the Law of the Sea, in Rev. hellenique, 2003, 153 ss. (6) Stante il fatto che la stragrande maggioranza dei rapporti inerenti i traffici marittimi si svolge in una dimensione internazionale, il rilievo dell’arbitrato marittimo « interno » è del tutto trascurabile ai fini della presente analisi. In questo senso cfr. per tutti HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744. (7) Così HARRIS, SUMMERSKILL e COCKERILL, London Maritime Arbitration, cit., 275. La definizione è richiamata ed accolta da AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 1 e, nella dottrina italiana, da RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 135. 21 © Copyright - Giuffrè Editore nomo rispetto all’arbitrato commerciale internazione e ciò in quanto l’oggetto di tale arbitrato, ossia il diritto marittimo (8), è una materia autonoma rispetto al diritto « comune » (e, in particolare, rispetto al diritto del commercio internazionale). Nessuna di tali (opposte) ricostruzioni pare condivisibile. Infatti: (a) l’arbitrato marittimo non solo si caratterizza per avere ad oggetto una nave, ma è un fenomeno processuale la cui fisionomia discende direttamente ed è influenzata dalle caratteristiche (e dalle peculiarità) del diritto marittimo sostanziale (9) e (b) l’autonomia del diritto marittimo sostanziale è da intendersi in realtà come specialità, nel senso che il diritto marittimo non può prescindere da una continua interazione con i principi di diritto comune (principi spesso rinvenibili in norme di origine internazionale o nella prassi degli operatori commerciali), in quanto esso non è una disciplina autosufficiente e completa ed, in ogni caso, è inidoneo a regolare in maniera compiuta ogni aspetto dei rapporti giuridici riguardanti i traffici marittimi (10). La « permeabilità » del diritto marittimo rispetto ai principi del diritto comune e la sua pacifica dimensione internazionale rendono evidente che tale materia altro non è che una branca del diritto del commercio internazionale (11). L’arbitrato marittimo, strumento processuale « privilegiato » del diritto marittimo, rientra pertanto all’interno del più ampio genus dell’arbitrato commerciale internazionale (12), dal quale essenzialmente trae la propria disciplina giuridica (13). (8) Si veda, a questo riguardo, la definizione di JARROSSON, La spécificité de l’arbitrage maritime, cit., 444, secondo cui l’arbitrato marittimo è « celui d’arbitrage portant sur une question du fond qui relève du droit maritime ». (9) Per considerazioni analoghe a quelle svolte nel testo cfr. DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit., 435. (10) Per queste considerazioni si veda per tutti CARBONE, Specialità della disciplina del lavoro nautico, principi di diritto comune e contrattazione collettiva, in Dir. maritt., 1984, 494-496, cui adde, anche per ulteriori riferimenti nella dottrina italiana e straniera, LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 5-14. (11) Il punto è pacifico. Per una recente (ri)affermazione di tale circostanza cfr. per tutti DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit., 436. (12) In questo senso cfr. per tutti la relazione presentata da MUSTILL L.J. al Xth International Congress of Maritime Arbitrators, Vancouver, 11 Settembre 1991, inedita, cui adde AMBROSE e MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 69; CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit., 436; MARRELLA, Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 797; ZEKOS, Maritime Arbitration, cit., 524, nonché i lavori di RICCOMAGNO, Maritime arbitration between international commercial arbitration and regional iniatives, cit.; ID., Maritime arbitration and international commercial arbitration, cit.; ID., Lecture note on international maritime arbitration, cit. Ad ulteriore conferma si vedano anche le risposte delle principali istituzioni arbitrali marittime ai quesiti di cui al paper di ALCANTARA, Comparative review of the arbitration schemes available in the main arbitration centres, cit., loc. cit. (13) Cfr. DE LA VEGA JUSTRIBÒ, El arbitraje en el àmbito maritìmo, cit., loc. cit.; MARRELLA, Unità e diversità dell’arbitrato internazionale, cit., 787 ss. 22 © Copyright - Giuffrè Editore Sarebbe peraltro riduttivo non sottolineare che la specialità del diritto marittimo impone una dimensione processuale « adeguata » alle proprie caratteristiche: in altri termini, in questo ambito emerge in modo particolare la necessità che tra diritto sostanziale e diritto processuale vi sia un rapporto simbiotico e non uno iato (14). L’arbitrato marittimo, quindi, deve farsi (e — come vedremo — in concreto si fa) « strumento » per la più efficace attuazione dei rapporti sostanziali del commercio marittimo internazionale. Ciò significa che alcune specifiche caratteristiche della materia marittima incidono sulla fisionomia dell’arbitrato marittimo, facendolo « deviare » dal modello dell’arbitrato commerciale internazionale « generale ». Così, ad esempio, in questo ambito non trovano generalmente posto problemi relativi ai conflitti tra leggi sostanziali applicabili, in quanto gli arbitri marittimi decidono le controversie sottoposte al proprio esame sulla base di quella che è stata definita « lex maritima » o « general maritime law », la quale, pur avendo tra i propri formanti la c.d. lex mercatoria, è rappresentata da un corpus di principi speciali che si sono alimentati soprattutto della prassi degli operatori marittimi e del diritto uniforme dei trasporti (15). Con riguardo agli aspetti più squisitamente processuali, in campo marittimo viene poi più frequentemente utilizzata la tecnica della « consolidation » tra arbitrati connessi al fine di consentire la partecipazione ad un determinato procedimento a « terzi », formalmente estranei all’accordo compromissorio, ma « parti » sostanziali dei rapporti del commercio marittimo dedotti in arbitrato (il che accade specialmente nelle controversie relative alla costruzione di navi o in relazione a dispute riguardanti charter-parties tra loro collegati) (16). Ancora, le clausole compromissorie circolano generalmente non in base ai meccanismi della cessione del contratto, bensì attraverso lo strumento della girata della polizza di carico (17). Infine, nell’ambito in esame gli arbitri sono prevalentemente « commercial men » (e non giuristi) e i procedimenti sono per la maggior parte svolti nell’ambito di istituzioni arbitrali specializzate (e non vengono (14) È questo il c.d. « principio di adeguatezza » del processo teorizzato da FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, II, 2ª ed., Milano, 1968, 9. Nello stesso senso cfr. PROTO PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it. 1973, V, cc. 209-210. (15) In argomento v. le riflessioni svolte infra § 4, cui adde CORTAZZO, Development and Trends of the Lex Maritime from International Arbitration Jurisprudence, in J.M.L.C., 2012, 255 ss. (16) Sul punto sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 282 ss. (17) V. ancora LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 301 ss. 23 © Copyright - Giuffrè Editore invece generalmente decisi dai panels dell’ICC (18)), le quali applicano regole flessibili che vengono modellate soprattutto tenendo conto della volontà delle parti (19). È proprio la maggiore « flessibilità » delle regole del procedimento che caratterizza la specificità dell’arbitrato marittimo rispetto agli altri settori dell’arbitrato commerciale internazionale (20) e che consente di sottolineare l’emergere di precisi « usi » del commercio marittimo internazionale, i quali impongono appunto una maggiore flessibilità interpretativa nell’approcciare diversi rilevanti aspetti di questo tipo di arbitrato, tra cui, in particolare, il tema della validità da un punto di vista formale delle clausole compromissorie (21). In questo senso risulta evidente che l’arbitrato marittimo va inteso come un procedimento speciale rispetto all’arbitrato commerciale internazionale (22), nel quale alcuni istituti devono essere riletti non solo al fine di assecondare specifiche esigenze degli operatori marittimi internazionali, ma anche per tenere conto di precisi « usi commerciali » radicati in questo ambito. La specialità del settore marittimo determina quindi la specialità dell’arbitrato marittimo rispetto al modello generale dell’arbitrato commerciale internazionale, rendendo in particolare evidente l’esistenza di una sorta di status mercatorio che caratterizza gli operatori marittimi e (almeno in parte) li differenzia dagli operatori di altri ambiti del commercio internazionale (23). 2. Il rilievo dell’autonomia privata è particolarmente accentuato nell’ambito dell’arbitrato marittimo. Infatti, differentemente da altri settori del diritto del commercio internazionale, nel contesto in esame non vi è posto per forme di arbitrato c.d. « obbligatorio » (dove la rimessione di una determinata controversia alla cognizione degli arbitri non nasce da un atto negoziale, bensì trae origine da un provvedimento normativo o regolamentare ovvero da una convenzione internazionale (24)), essendo nel contesto marittimo la scelta dello strumento arbitrale sempre rimessa alla volontà delle parti (25). (18) Sulla risoluzione nell’ambito degli arbitrati ICC di controversie marittime v. comunque CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of Arbitration, in ICC Bull., 2011, vol. 22, n. 1, 31 ss. (19) Cfr. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 227 ss. (20) In questo senso cfr. per tutti MUSTILL, Relazione al Xth International Congress of Maritime Arbitrators, cit., 8. (21) Cfr. ESPINOSA CALABUIG, La clàusulas arbitrales marìtimas a la luz de los ‘usos’ del tràfico comercial internacional, cit. (22) Alle medesime conclusioni pervengono, tra gli altri, CARBONE e LUZZATTO, Clausole arbitrali, trasporto marittimo e diritto uniforme, cit., 274; DELEBECQUE, L’arbitrage maritime 24 © Copyright - Giuffrè Editore Inoltre, la grande maggioranza degli arbitrati marittimi (differentemente dagli altri arbitrati commerciali internazionali), ancorché svolti secondo le regole di istituzioni arbitrali, sono arbitrati « ad hoc » (26) e non arbitrati amministrati (27), con la conseguenza che le parti mantengono un più forte controllo sul procedimento (28). A questo riguardo, mentre le Rules of Arbitration dell’ICC (applicate nella maggior parte degli arbitrati commerciali internazionali non marittimi (29)) prevedono che le regole del procedimento possano essere stabilite dalle parti soltanto se tali Rules presentino una lacuna (30), i Terms della London Maritime Arbitrators Association (sulla base dei quali si svolge la gran parte degli arbitrati marittimi) dispongono invece che « It shall be for the tribunal to decide all contemporain, cit., 436; JARROSSON, La spécificité de l’arbitrage maritime, cit., loc. cit.; RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 144; TETLEY, The General Maritime Law - The Lex Maritima, in Eur. Transp. L., 1996, 497-504. (23) V. infra, § 4. (24) Tale è — ad esempio — il caso dell’arbitrato previsto dagli Accordi di Algeri del 1981 tra Iran e Stati Uniti d’America per la definizione delle pretese dei cittadini statunitensi nei confronti dell’Iran, su cui cfr. BERNARDINI, L’arbitrato nel commercio e negli investimenti internazionali, 2ª ed., Milano, 2008, 293 ss.; BROWER, The Iran-United States Claims Tribunal, in Recueil des cours, 1990, 123 ss.; KHAN, The Iran United States Claims Tribunal, controversies, cases and contributions, The Hague, 1990; RADICATI DI BROZOLO, La soluzione delle controversie tra Stati e stranieri mediante accordo internazionale; gli Accordi tra Stati Uniti ed Iran, in Riv. dir. int., 1982, 299 ss. (25) Nel senso di cui al testo si veda la recente decisione della Corte Suprema americana resa nel caso Stolt-Nielsen S.A. v. Animal Feeds International Corp. ([2010] Lloyd’s Rep 360), dove è stato affermato che « Imposing class arbitration on parties who have not agreed to authorize class arbitration is inconsistent with the Federal Arbitration Act »: la Corte Suprema ha quindi ulteriormente evidenziato il rilievo centrale dell’autonomia privata in un caso riguardante i rapporti tra un vettore leader mondiale dei trasporti « parcellizzati » su navi cisterna (Stolt-Nielsen S.A.) e un caricatore (Animal Feeds International Corp.), rapporti regolati da due charter-parties, redatti rispettivamente sul formulario Vegoilvoy e sul formulario Asbatankvoy ed entrambi contenenti una clausola arbitrale. In tale caso il caricatore agiva in proprio e per conto di « a class of direct purchasers of parcel tanker transportation services », affermando che Stolt-Nielsen avrebbe posto in essere « a global conspiracy to restrain competition in the world market for parcel tanker shipping services », con ciò violando la normativa federale antitrust. (26) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; BERLINGIERI, International maritime arbitration, cit., 217-247; RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 141. (27) In questo senso pare rilevante evidenziare che non tutti gli arbitrati istituzionali sono necessariamente arbitrati amministrati: cfr. LEW, MISTELIS e KRÖLL, Comparative International Commercial Arbitration, London, 2003, 32, secondo cui « Institutional arbitration is where parties submit their disputes to an arbitration procedure, which is conducted under the auspices of or administered or directed by an existing institution ». Come si è già evidenziato, peraltro, gli arbitrati svolgentisi secondo le regole della Chambre Arbitrale Maritime de Paris e della Tokyo Maritime Arbitration Commission sono arbitrati « amministrati » da tali istituzioni arbitrali. (28) V. ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, cit., 32 ss., cui adde le considerazioni svolte infra, § 5. (29) Sulla risoluzione nell’ambito degli arbitrati ICC di controversie marittime v. CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of Arbitration, cit., 31 ss. (30) L’art. 15.1 delle Rules of Arbitration dell’ICC dispone infatti che « The proceedings before the Arbitral Tribunal shall be governed by these Rules and, where these Rules are silent, by any rules which the parties or, failing them, the Arbitral Tribunal may settle on, whether or not reference is thereby made to the rules of procedure of a national law to be applied to the arbitration ». 25 © Copyright - Giuffrè Editore procedural and evidential matters subject to the right of the parties to agree any matter » (così Section 12, lett. a). In proposito occorre notare che, per molti anni, gli arbitrati marittimi svolti nell’ambito della London Maritime Arbitrators Association si sono sviluppati senza seguire particolari regole procedurali, regole che sono state invece introdotte (pur consentendo alle parti di derogarvi) soltanto a partire dal 1999 (con l’introduzione delle LMAA Procedural Guidelines) e che hanno trovato una compiuta realizzazione nei LMAA Terms del 2002 (oggi sostituiti dai LMAA Terms del 2012) (31). Analoghe considerazioni possono essere svolte anche in relazione ai procedimenti arbitrali condotti secondo le Rules of Arbitration della German Maritime Arbitration Association (32), nonché agli arbitrati marittimi che si svolgono in base alle Rules of the Society of Maritime Arbitrators di New York (dove, peraltro, l’autonomia privata trova un limite nelle disposizioni « inderogabili » che conferiscono agli arbitri i poteri « to administer the arbitration proceedings ») (33). Per contro, ovviamente, il rilievo dell’autonomia privata negli arbitrati « amministrati » condotti secondo il Règlement d’Arbitrage della Chambre Arbitrale Maritime de Paris è estremamente limitato, potendo la scelta delle parti riguardare soltanto l’applicabilità del regolamento in vigore al momento della conclusione della convenzione arbitrale piuttosto che quello vigente quando la controversia viene introdotta (34). Simile approccio è seguito anche in relazione agli arbitrati soggetti alle Rules of Arbitration of Tokyo Maritime Arbitration Commission (TOMAC) of the Japan Shipping Exchange (35). Il maggior rilievo dell’autonomia privata nel contesto in esame — oltre a rappresentare una conferma della « specialità » dell’arbitrato marittimo rispetto all’arbitrato commerciale internazionale — consente di individuare un canone ermeneutico fondamentale non solo nell’interpretazione delle convenzioni arbitrali contenute nei formulari utilizzati dagli operatori marittimi internazionali, ma anche, più in generale, nell’approccio che deve caratterizzare la « ricostruzione » dell’arbitrato marittimo. In questo ambito commerciale la volontà delle parti viene ad assumere un ruolo centrale e, pertanto, la disciplina applicabile ai vari aspetti dell’arbitrato marittimo deve soprattutto tenere conto di come le parti hanno inteso regolare un determinato aspetto del fenomeno arbitrale (36). (31) Cfr. HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762. (32) V. infra, nota 108 e testo corrispondente. (33) V. infra, nota 107 e testo corrispondente. (34) V. infra, nota 117 e testo corrispondente. (35) V. infra, nota 118 e testo corrispondente. (36) V. Harbour Assurance Co. v. Kansa General International Insurance Co. Ltd., [1992] 1 Lloyd’s Rep 81 (Q.B.), ove viene affermato che « there is the imperative of giving effect to the wishes of the parties unless there are compelling reasons of principle why it is not possible to do 26 © Copyright - Giuffrè Editore 3. Gli aspetti formali della clausola compromissoria richiesti dai vari ordinamenti giuridici rappresentano lo strumento di accertamento presuntivo della volontà delle parti di ricorrere all’arbitrato (37). Una parte della dottrina ha acutamente evidenziato che la pratica applicativa ha (ed, in particolare, le decisioni dei giudici italiani hanno) spesso « sopravvalutato » i requisiti formali della clausola arbitrale a discapito di qualunque ricerca sull’effettivo consenso delle parti a derogare alla giurisdizione in favore dell’arbitrato (38). Tale visione pare ricalcare quanto affermato dai processual-civilisti, i quali sono arrivati a sostenere che la validità e l’efficacia degli atti processuali, mentre dipende dall’osservanza delle forme, non dipende da alcun controllo sulla formazione della volontà (39) e, addirittura, che il « formalismo », necessario ad assicurare il regolare e spedito svolgimento del processo, non consente di dare alcuna rilevanza alla reale volontà delle parti (40). La forma solenne diviene, allora, presunzione assoluta del consenso: alla ricerca della volontà effettiva viene sostituita la ricerca della perfezione formale dell’atto; si passa dal « dogma della volontà », vagheggiato dai pandettisti, al « dogma della forma ». È necessario chiedersi se una simile ricostruzione sia coerente con il contesto della presente analisi. La risposta è negativa e nasce da due diversi ordini di considerazioni. In primo luogo, la convenzione arbitrale ha natura di contratto e, pur rientrando nella categoria dei c.d. « negozi processuali », essa non costituisce un atto del processo, bensì un atto sostanziale con rilevanza processuale (41). so ». Nello stesso senso, più di recente, la House of Lords ha sottolineato il « commercial purpose of the arbitral clause », affermando in particolare che nel contesto dell’arbitrato marittimo le clausole arbitrali debbano essere interpretate avendo soprattutto riguardo alla volontà delle parti « as rational businessmen »: così Premium Nafta Products Ltd. and others v. Fili Shipping Company Ltd. and others, [2008] Lloyd’s Rep 254 (H.L.). (37) Le norme che disciplinano la validità delle clausole compromissorie, siano esse nazionali o si rinvengano nel diritto uniforme, richiedono generalmente l’uso di forme vincolate, in proposito si veda l’ampia ed esaustiva panoramica di BERNARDINI, L’arbitrato nel commercio e negli investimenti internazionali, 2ª ed., Milano, 2008, 37-85 e 103-106. (38) Cfr. VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958, DeventerBoston, 1981, 177. (39) In questo senso MANDRIOLI, Diritto processuale civile, 21ª ed, Torino, 2011, 382. (40) Cfr. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, I, 2ª ed., Milano, 1957, 189. In verità, in qualche caso, anche i processualisti riconoscono che è consentita un’indagine sulla volontà delle parti. Sul punto si veda per tutti REDENTI, voce Atti processuali civili, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 115-116, secondo cui « anche nel campo del processo poss[o]no essere consentite talvolta delle indagini circa la simulazione, il dolo, la collusione, ma quegli accidenti patologici non vengono di solito in considerazione per i singoli atti delle parti come tali, bensì in quanto abbiano sviata, traviata o inquinata la decisione finale del giudice ». (41) In questo senso cfr. Trib. Roma 26 settembre 1980, Ditta Bartolomei Ferrina c. Soc. comp. Comm. Kreglinger, in Temi rom., 1980, 520, cui adde, in dottrina, BONELLI, La forma della clausola compromissoria per arbitrato estero, in Dir. maritt., 1984, 480-481, nota 6, nonché DENTI, voce Nullità degli atti processuali civili, in Nvss. Dig. It., XI, Torino, 1965, 467 ss. Contra v. 27 © Copyright - Giuffrè Editore In secondo luogo, il mondo dei traffici marittimi internazionali ha peculiarità proprie che rendono necessario un ripensamento dei criteri ermeneutici comunemente invalsi in altri settori (42). Infatti: (i) non pare ragionevole « imbrigliare » gli operatori del commercio internazionale con prescrizioni formali che mal si conciliano con le esigenze di speditezza che caratterizzano i loro rapporti (43); (ii) la funzione fondamentale che il requisito della forma esplica in materia consiste nell’accertamento che la clausola arbitrale abbia effettivamente costituito oggetto del consenso (44). Il problema della validità dal punto di vista della forma delle clausole compromissorie per arbitrato marittimo (45) deve quindi essere risolto attraverso la comprensione della strumentalità della forma rispetto all’esistenza del consenso (sostanziale) delle parti a concludere l’accordo compromissorio (46). In questo senso è possibile « rileggere » le regole in base alla quali deve essere valutata la validità formale delle clausole arbitrali relative ai rapporti del commercio marittimo internazionale — segnatamente, l’art. II della Convenzione di New York (47) — nella prospettiva dell’arbitrato peraltro CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1956, 265, che afferma: « La processualità dell’atto non è dovuta al suo compiersi nel processo, ma al suo valere per il processo ». (42) Significativo in proposito pare il richiamo agli insegnamenti di CARBONE, Il trasporto marittimo di cose nel sistema dei trasporti internazionali, Milano, 1976, 78-83, il quale evidenzia come nell’interpretare le norme di diritto uniforme che possano incidere sui rapporti de quibus (nel caso considerato dall’A. si trattava della Convenzione di Bruxelles sulla polizza di carico) si vada sempre maggiormente affermando come canone ermeneutico fondamentale la aderenza alle « reali esigenze del traffico marittimo internazionale ». (43) In questo senso già VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, IV, Obbligazioni, 5ª ed., Milano, 1926, 67, n. 1572 affermava che « [n]ei contratti commerciali la parola basta di regola a creare un’obbligazione ». (44) Cfr. Cass. S.U. 14 novembre 1981, n. 6035, Jauch & Huebener c S.tè de Navigation Transoceanique, in Dir. maritt., 1982, 391 ss., con nota adesiva di MARESCA, il quale ribadisce che « lo scopo del requisito di cui all’art. II della Convenzione di New York [...] è quello di consentire all’interprete un effettivo controllo sulla esistenza del consenso dei contraenti ». Nello stesso senso cfr. Cass. 12 ottobre 1982, n. 5244, Soc. Air India c. Avanzo, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1983, 149, dove si afferma che « è legittima una indagine ermeneutica volta a ricavare dallo scritto la comune intenzione delle parti contraenti di deferire alla cognizione dell’arbitro straniero l’esame delle eventuali controversie derivanti dall’esecuzione del contratto ». (45) Problema correttamente definito da CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit., loc. cit., come « conflitto in larga misura irrisolto, tra l’intento di garantire l’esistenza di un effettivo consenso delle parti al deferimento delle controversie ad arbitrato e le contrapposte esigenze di rapidità e semplificazione tipiche della contrattazione del commercio internazionale ». (46) Sulla « strumentalità » della clausola compromissoria rispetto al contratto cui essa accede v. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 77-81. (47) L’art. II della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione di sentenze arbitrali straniere è la norma fondamentale cui fare riferimento quanto alla forma delle clausole compromissorie per arbitrato marittimo, in quanto tali clausole — almeno dal punto di vista dell’ordinamento italiano — sono tutte clausole per arbitrato estero e rientrano nell’ambito di applicazione inderogabile della Convenzione, giustamente definita 28 © Copyright - Giuffrè Editore marittimo. In altri termini, il problema della forma della clausola compromissoria può (e, anzi, deve) essere risolto tenendo presente il contesto in cui si muovono gli operatori marittimi internazionali. Ciò significa: — da un lato, che i requisiti di forma previsti dalla norma in esame dovranno essere interpretati con flessibilità, al fine di venire incontro alle esigenze degli operatori marittimi internazionali (i quali, ad esempio, ben difficilmente sottoscrivono i contratti e/o i documenti di trasporto contenenti le clausole arbitrali, ma, semmai, si scambiano — soprattutto tramite brokers — e-mail o fax estremamente « laconici ») e — dall’altro lato, che particolare attenzione dovrà essere data allo « status » dei contraenti, nonché alla prassi seguita in un determinato ambito commerciale, e ciò al fine di valutare « in buona fede » l’effettività del consenso di ciascuna delle parti rispetto alla clausola arbitrale (nel senso che, ad esempio, non è possibile ipotizzare che un’impresa quotidianamente attiva sul mercato dei voyage charter parties possa non essere al corrente che il formulario Gencon contiene una clausola arbitrale (48), sicché — nel caso in cui i termini del Gencon siano richiamati in occasione della conclusione di un contratto di trasporto — tale impresa non potrebbe contestare « in buona fede » la giurisdizione arbitrale affermando di non aver specificamente richiamato la clausola compromissoria contenuta nel formulario). Insomma, in un ambito, quale quello delle operazioni del commercio marittimo internazionale, dove l’arbitrato è considerato « lo strumento privilegiato » di soluzione delle controversie (49), appare del tutto fuori luogo l’approccio « formalistico » spesso adottato dalla giurisprudenza italiana, la quale, interpretando rigidamente l’art. II della Convenzione di New York, sostanzialmente ostacola l’accesso alla giustizia arbitrale da parte degli operatori, senza peraltro tutelare le parti (realmente) « deboli » o semplicemente poco avvezze alla prassi contrattuale di un determinato settore commerciale (50). Si badi, però, che la prospettiva qui proposta non intende porre in discussione il rilievo (e la ragionevolezza) dei requisiti di forma stabiliti dall’art. II della Convenzione di New York: come è stato correttamente « ferro da lavoro essenziale per l’operatore e per il teorico che debbano occuparsi degli aspetti internazionalistici dell’arbitrato privato » (così BRIGUGLIO, voce Arbitrato estero, in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 216, ove ampi riferimenti in materia). (48) Il formulario Gencon è forse il formulario di voyage charter-parties più noto e diffuso a prescindere dall’ambito merceologico di impiego. (49) V. retro, § 1. (50) Per un’analisi della casistica italiana e straniera in materia sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 111-146, ove viene in particolare fatto riferimento ai problemi relativi alla validità dal punto di vista formale delle clausole compromissorie per arbitrato marittimo inserite in contratti conclusi a mezzo di scambi di corrispondenza ovvero tramite rappresentanti o brokers, alle clausole arbitrali per relationem, nonché alle forme tacite di accettazione dell’accordo compromissorio. 29 © Copyright - Giuffrè Editore posto in evidenza da parte della migliore dottrina processual-civilistica, « il formalismo non ha nulla a che fare con la forma e la critica al formalismo non si può intendere come una inconcepibile e assurda critica alle forme giuridiche » (51). In altri termini, non si vuole qui criticare l’art. II della Convenzione di New York, bensì sottolineare la inadeguatezza della giurisprudenza rispetto alle esigenze degli operatori marittimi internazionali e alla necessità di adottare una interpretazione ragionevolmente « evolutiva » dei requisiti di forma previsti da tale norma. In quest’ultimo senso è possibile affermare che la forma deve limitarsi a essere « strumento » di verifica della ricorrenza di un effettivo accordo tra i soggetti contraenti, senza però « intralciare » i traffici commerciali internazionali e sacrificare le esigenze degli operatori marittimi. La forma deve essere uno strumento al servizio degli operatori e non una sovrastruttura o, peggio, un « idolo » (52). 4. Una delle problematiche di maggiore interesse per chi volesse accostarsi all’arbitrato marittimo è rappresentata dalla materia dei conflitti di leggi (53), e ciò in quanto questo tipo di arbitrato si caratterizza per la propria spiccata vocazione internazionale, nell’ambito della quale assai raramente i rapporti giuridici si esauriscono all’interno di un unico ordinamento statale (54). Sotto questo aspetto l’arbitrato marittimo non si distingue da altri settori dell’arbitrato commerciale internazionale, rispetto ai quali la dottrina ha sempre sottolineato la rilevanza del tema dei conflitti di leggi. In particolare, è pacifico che ai differenti aspetti dell’arbitrato commerciale internazionale può essere teoricamente applicata una legge differente: è infatti possibile riscontrare una legge dell’accordo arbitrale che sia diversa da quella della procedura, nonché da quella della disciplina sostanziale della disputa ed anche da quella del lodo, e che queste ultime siano l’una non coincidente con l’altra (55). (51) Così SATTA, Il formalismo nel processo, relazione tenuta il 4 ottobre 1958 al quarto Convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, ora in ID., Il mistero del processo, Milano, 1994, 86. (52) La suggestione è ovviamente tratta da IRTI, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo, Milano, 1985, passim. (53) Cfr. le considerazioni svolte nel caso Mauritius Oil Refineries Ltd. v. Stolt-Nielsen Nederlands BV (The Stolt Sydness) [1997] 1 Lloyd’s Rep 273, nonché, in dottrina, AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 61 ss.; BERLINGIERI, The law applicable by the arbitrators, in Dir. maritt., 1998, 617-638; LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 177 ss.; ZEKOS, Problems of Applicable Law in Commercial and Maritime Arbitration, in Journ. Int. Arb., 1999, 173-174. In generale, sui conflitti di legge nell’ambito del diritto marittimo cfr. BAATZ, The Conflict of Laws, in AA.Vv., Southampton on Shipping Law, London, 2008, 1 ss. e, da ultimo, CARBONE, Conflicts de lois en droit maritime, in Recueil des cours, 2009, t. 340, 67 ss., ove ulteriori riferimenti. (54) Cfr. HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744. (55) Così ZEKOS, Problems of Applicable Law in Commercial and Maritime Arbitration, 30 © Copyright - Giuffrè Editore Ciò che, invece, caratterizza ed evidenzia la specialità dell’arbitrato marittimo relativamente alla materia dei conflitti di leggi sono due fondamentali aspetti. In primo luogo, la circostanza che il diritto marittimo sia propriamente uno « jus commune mercatorum », un diritto cioè di origine consuetudinaria, in larga parte recepito da convenzioni internazionali ovvero « codificato » nelle legislazioni nazionali in modo tale da assicurare soluzioni normative sostanzialmente convergenti pur se, a volte, adottate con formulazioni non identiche a causa della diversità dei sistemi dogmatici ispiratori di ciascuna di esse (56). Tale aspetto — che distingue e caratterizza la materia in esame rispetto a ogni altro settore del diritto del commercio internazionale — rende evidente che nell’ambito dell’arbitrato marittimo quale sia la disciplina applicabile al merito della controversia non determina propriamente un problema di conflitto di leggi, quanto piuttosto l’esigenza per l’arbitro di ricostruire la regola giuridica appropriata a decidere il caso di specie, all’uopo interpretando in chiave « uniforme » (57) le norme convenzionali e/o statali tenuto conto della rilevanza della prassi degli operatori marittimi internazionali (58). In quecit., 181. Sul punto cfr. ex multis GOLDMAN, Le conflict de lois en matière d’arbitrage international de droit privé, in Recueil des cours, 1963, II, 361 ss.; LEW, Applicable Law in International Commercial Arbitration, New York, 1978, 1 ss.; MUSTILL e BOYD, Commercial arbitration, 2nd ed., London, 1989, 61; RUSSELL, On arbitration, 23rd ed. (a cura di SUTTON, GILL e GEARING), London, 2007, 78 ss.; REDFERN e HUNTER, On International Arbitration, 5th ed. (in collaborazione con BLACKABY e PARTASIDES), London, 2009, 165, i quali affermano che nell’arbitrato commerciale internazionale si è in presenza di « a complex interaction of laws ». Sul punto v., da ultimo, FERRARI e KRÖLL (cur.), Conflict of laws in international arbitration, Munich, 2011. In giurisprudenza si vedano per tutte le decisioni rese nei casi Naviera Amazonica Peruana SA v. Compania Internacional de Seguros del Peru [1988] 1 Lloyd’s Rep 116, Union of India v. McDonnell Douglas Corporation [1993] 2 Lloyd’s Rep 48, e Channel Tunnel Group. Ltd v. Balfour Beatty Construction Ltd [1993] 1 Lloyd’s Rep 291. (56) Così CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Torino, 2010, 3, e, nello stesso senso, già VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, I, Torino, 1938, 5. Sul rilievo dell’uniformità internazionale delle soluzioni relative alla regolamentazione del diritto marittimo nella prospettiva storica della sua « codificazione » da parte degli Stati v. i lavori pubblicati in PIERGIOVANNI (cur.), From Lex Mercatoria to Commercial Law, Berlin, 2005. (57) Sul fatto che nei rapporti del commercio marittimo internazionale sia particolarmente sentita l’esigenza di uniformità cfr., tra i contributi più rilevanti, ASCARELLI, Recensione a Lefebvre D’Ovidio - Pescatore, Manuale di diritto della navigazione, in Riv. dir. nav. 1950, I, 159; BERLINGIERI (F. Sen.), Verso l’unificazione del diritto marittimo. Parole del Prof. A. Scialoja, in Dir. maritt., 1935, 449 ss.; ID., Verso l’unificazione del diritto del mare. Parole in replica al Prof. A. Scialoja, in Dir. maritt., 1936, 105 ss.; BERLINGIERI, Internazionalità del diritto marittimo e codificazione nazionale, in Dir. maritt., 1983, 61 ss.; CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 315 ss.; ID, La c.d. autonomia del diritto della navigazione: risultati e prospettive, in Dir. maritt., 1975, 40 ss. Da ultimo, BARIATTI, Quale modello normativo per un regime giuridico dei trasporti realmente uniforme?, in Dir. maritt., 2001, 486, ha sostenuto che l’uniformità nel diritto marittimo « è non solo un valore giuridico primario al quale tendere, ma anche un valore economicamente rilevante ». (58) Sul punto v., da ultimo, CACHARD, Maritime Arbitration under the ICC Rules of Arbitration, cit., 40 ss. 31 © Copyright - Giuffrè Editore sto senso l’arbitrato marittimo accentua un fenomeno che è tipico di tutto il diritto del commercio internazionale, ossia la insufficienza del metodo conflittuale tradizionale nella soluzione dei problemi riguardanti l’individuazione della normativa applicabile ad un determinato rapporto giuridico (59), insufficienza che si manifesta in maniera ancora più rilevante in caso di deferimento ad arbitrato della soluzione di una controversia (60). In secondo luogo, in ambito marittimo si accentua altresì la rilevanza dell’autonomia privata come strumento di « giustizia materiale » volto a disciplinare direttamente (senza i filtri delle norme di diritto internazionale privato) una determinata fattispecie (61). Insomma, relativamente al tema dei conflitti di leggi, la materia marittima conferma la propria « specialità » rispetto agli altri ambiti del diritto del commercio internazionale, imponendo all’arbitro di determi(59) Per uno sguardo critico sul metodo conflittuale tradizionale nell’ambito dei rapporti del commercio internazionale cfr. ex multis CAVERS, A Critique of the Choice-of-Law Problem, in Harvard Law Rev., 1933, 173 ss.; KEGEL, The Crisis of the Conflict of Laws, in Recueil des cours, 1973, II, 279 ss.; PICONE, Ordinamento competente e diritto internazionale privato, Padova, 1986, 1 ss., nonché BAXTER, International Conflict of Laws and International Business, in Int. Comp. Law Quart., 1985, 538, ove afferma che « current choice-of-law techniques are in general not well designed for application to problems that arise in the complex and rapidly developing field of international trade and investment ». Sul connesso problema dell’insufficienza delle legislazioni nazionali a disciplinare adeguatamente i rapporti del commercio internazionale si rinvia, senza pretesa di completezza, a BONELL, Le regole oggettive del commercio internazionale, Milano, 1976, 8-19; CARBONE e LUZZATTO, Il contratto internazionale, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, vol. 12, 2ª ed., Torino, 2000, 400 ss. (60) Sul punto cfr. VISMARA, Le norme applicabili al merito della controversia nell’arbitrato internazionale, Milano, 2001, passim, ma specialmente 155 ss. (61) Sul punto particolarmente chiara è l’analisi di CARBONE e LUZZATTO, Il contratto internazionale, cit., 344-350, ove ulteriori riferimenti nella letteratura internazional-privatistica, cui adde — da ultimo — CARBONE, La disciplina applicabile ai rapporti economici internazionali: verso una unitaria funzione dell’autonomia privata in senso sostanziale e internazionalprivatistico, in Nuova Giur. Ligure, 2013, 29 ss. Sul ruolo dell’autonomia privata nella determinazione della disciplina applicabile ai rapporti del commercio marittimo internazionale cfr. ALVAREZ RUBIO, Las clausolas Paramount: Autonomia de la voluntad y seleccion del derecho applicabile en el transporte maritimo internacional, Madrid, 1997, passim; CARBONE, L’attuazione del diritto marittimo uniforme tra codificazione e decodificazione, in ZICCARDI CAPALDO (a cura di) Attuazione dei Trattati internazionali e Costituzione italiana. Una riforma prioritaria nell’era della Comunità globale, Napoli, 2003, 153 ss.; ID., Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318; ID., Autonomia privata e forza « espansiva » del diritto uniforme dei trasporti, relazione tenuta al convegno « Il trasporto marittimo di persone e di cose. Novità sulla unificazione della loro disciplina » — Genova, 19 maggio 2006, in Dir. maritt., 2007, 1053 e ss.; CARBONE e LUZZATTO, Contratti internazionali, autonomia privata e diritto materiale uniforme, in Dir. comm. int., 1993, 755; CASTELLANOS RUIZ, Autonomìa de la voluntad y derecho uniforme en el transporte internacional, Granada, 1999; CELLE, La Paramount clause nell’evoluzione della normativa in materia di polizza di carico, in Dir. maritt., 1988, 11 ss.; GIARDINA, L’autonomia delle parti nel commercio internazionale, in AA. VV., Gli usi del commercio internazionale nella negoziazione ed esecuzione dei contratti internazionali, Milano, 1987, 15; IVALDI, Diritto uniforme dei trasporti e diritto internazionale privato, Milano, 1990, 70 e ss.; LA MATTINA, Le prime applicazioni delle Regole di Amburgo tra autonomia privata, diritto internazionale privato e diritto uniforme dei trasporti, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2004, 597 ss.; LOPEZ DE GONZALO, L’obbligazione di consegna nella vendita marittima, Milano, 1997, 7-24. 32 © Copyright - Giuffrè Editore nare la disciplina applicabile alla singola fattispecie avuto particolare riguardo non solo alla prassi degli operatori marittimi internazionali (che rappresenta propriamente un « filtro » attraverso cui anche i giudici dei singoli Stati dovrebbero interpretare il diritto marittimo), ma anche alla volontà delle parti che — pur con le distinzioni sopra esposte — in questo settore assume il ruolo decisivo di criterio di « giustizia materiale » volto a disegnare concretamente il background normativo del singolo rapporto giuridico. Quest’ultima caratteristica si coglie in maniera particolare nello sviluppo della disciplina giuridica dei trasporti marittimi, nell’ambito dei quali è però opportuno operare una distinzione tra contratti di trasporto di carico (generalmente documentati da charter parties) e contratti di trasporto di linea (62). Nei charter parties, ove il rapporto economico si svolge « tra pari » (essendo le parti di tali rapporti tutte operatori professionali), la regolamentazione del fenomeno è affidata essenzialmente a formulari contrattuali invalsi nella prassi del commercio internazionale (63), la cui utilizzazione conduce ad una pressoché totale « delocalizzazione » di tale tipologia di rapporti, che si vengono ad affrancare dal diritto statale in favore di scelte normative rispondenti alle esigenze degli operatori economici ed al grado di internazionalità di tali negozi. In questo settore, pertanto, l’ambito di operatività dell’autonomia privata è pressoché illimitato, salvo il rispetto dei principi di ordine pubblico e delle norme di applicazione necessaria degli ordinamenti collegati con l’operazione economica (64). (62) Sulla distinzione tra trasporto di carico e trasporto di linea si vedano, fra i contributi più significativi, BERLINGIERI (G.), Sulla distinzione tra trasporto di carico e trasporto di cose determinate, in Dir. maritt., 1952, 149 ss.; BERLINGIERI, Profilo dei contratti di utilizzazione della nave, in Dir. maritt., 1961, 417 ss.; CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, 2ª ed. in collaborazione con LA MATTINA, Milano, 2010, 169 ss.; FERRARINI, I contratti di utilizzazione della nave e dell’aeromobile, Roma, 1947, 120 ss.; GAETA, La distinzione tra trasporto di carico e trasporto di cose determinate, in Riv. dir. nav., 1972, I, 171; LEFEBVRE D’OVIDIO, PESCATORE e TULLIO, Manuale di diritto della navigazione, 9ª ed., Milano, 2000, 538 ss.; LOPEZ DE GONZALO, L’esercizio della giurisdizione civile, cit., 515-516; RIGHETTI, Trattato di diritto marittimo, II, Milano, 1990, n. 414; SPASIANO, I contratti di utilizzazione della nave: note per la revisione della disciplina attuale, in Giur. it., 1977, IV, c. 49 ss.; TULLIO, Il contratto di noleggio, Milano, 2006, passim. Per una essenziale ed efficace ricostruzione delle differenze del sostrato economico dei due tipi contrattuali sopra richiamati v. per tutti MUNARI, Il diritto comunitario antitrust nel commercio internazionale: il caso dei trasporti marittimi, Padova, 1993, 127-130. (63) Su questo tema cfr. per tutti BOI, I contratti marittimi, cit., loc. cit., cui adde CARBONE, CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo - Attraverso i casi e le clausole contrattuali, 4ª ed., Torino, 2011, 15 ss. (64) In questo senso CARBONE (Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale, cit., 318) ha constatato « un assai limitato rilievo, ed in via di estrema supplenza, della disciplina legale degli specifici ordinamenti statali nei cui ambiti devono essere realizzati gli effetti dei rapporti in esame, salvi alcuni principi di ordine pubblico e/o limiti all’autonomia privata eventualmente previsti da tali ordinamenti in virtù di norme di applicazione necessaria ». 33 © Copyright - Giuffrè Editore Nel trasporto di linea, per contro — la cui disciplina giuridica è contenuta in norme di diritto materiale uniforme aventi carattere inderogabile (rappresentate, allo stato, prevalentemente dal sistema delle Regole dell’Aja ed, entro una cerchia ridotta di stati in via di sviluppo, dalle Regole di Amburgo (65)) — l’autonomia privata assume una diversa rilevanza, in quanto essa non è uno strumento per disciplinare ogni aspetto dell’operazione economica, ma un mezzo attraverso il quale estendere le regole materiali uniformi oltre il proprio ambito di applicazione (tramite l’utilizzo delle Paramount Clauses (66)) ovvero predisporre un regime di responsabilità del vettore più gravoso rispetto a quello previsto dal diritto materiale uniforme (67). In entrambi i casi, comunque, l’esercizio dell’autonomia privata si concreta non tanto in una mera « scelta della legge applicabile » in senso internazional-privatistico, sibbene nella concreta definizione del back-ground normativo del rapporto giuridico. Anche in altri settori del diritto marittimo, da un lato, la massiccia presenza di convenzioni di diritto materiale uniforme ratificate dalla maggior parte degli Stati « marittimi » (si pensi alla Convenzione di Bruxelles del 1910 in tema di urto di navi e alla Convenzione di Londra del 1989 in tema di soccorso) e, dall’altro lato, l’esistenza di consolidati usi commerciali internazionali (quali, ad esempio, le Regole di York e Anversa in tema di liquidazione delle avarie generali (68)) confermano che, (65) Sulla disciplina uniforme del trasporto marittimo di linea cfr. per tutti CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit. Sulla compatibilità dello strumento arbitrale con la disciplina inderogabile di tale tipo di trasporto v. infra, § 6. (66) Sulle Paramount Clauses cfr. senza pretesa di completezza BERLINGIERI, Note sulla « paramount clause », nota a App. Trieste, 3 marzo 1978, Agemar c. SIAT, in Dir. maritt., 1979, 216 ss.; ID., Note sulla « paramount clause », nota a App. Trieste, 2 dicembre 1986, Adriatic Shipping Company c. Prudential, in Dir. maritt., 1987, 938 ss.; CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., 82 ss.; CELLE, La Paramount Clause nell’evoluzione della normativa internazionale, cit., 11 ss.; ID., Convenzione di Bruxelles del 25 agosto 1924 - Polizza emessa in stato non contraente - Legge applicabile - « Paramount clause », nota a Cass. 10 agosto 1988, n. 4905, Agenzia maritt. Spadoni c. Soc. Weltra, in N.G.C.C., 1989, I, 470 ss.; IVALDI, La volontà delle parti nel contratto di trasporto marittimo: note sulla Paramount Clause, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1985, 799 ss.; EAD., Diritto uniforme dei trasporti, cit., 70 ss.; RIGHETTI (G.), Trattato di diritto marittimo, II, Milano, 1990, 698-704; da ultimo ALVAREZ RUBIO, Las clàusolas Paramount, cit., passim ed ivi completi riferimenti alla dottrina inglese. (67) Sul ruolo dell’autonomia privata nell’ambito dei contratti di trasporto marittimo di linea cfr. CARBONE, La disciplina giuridica, cit., 63-67; ID., Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., 81 ss.; GRIGOLI, Rilevanza dell’autonomia privata nella normativa del trasporto marittimo internazionale di merci, in Giust. civ., 1996, I, 691, nonché CASTELLANOS RUIZ, Autonomìa de la voluntad y derecho uniforme en el transporte internacional, cit. Assai significativamente BARIATTI, Quale modello normativo per un regime giuridico dei trasporti realmente uniforme?, cit., 491 ha parlato di « ruolo centrale » della volontà delle parti nell’ambito in esame. (68) Sul fatto che le Regole di York e Anversa abbiano natura di « fonte di diritto consuetudinario » v. Trib. Genova, 23 dicembre 1940, in Dir. maritt., 1941, 288, cui adde CARBONE, CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo, cit., 408, secondo i quali esse, avendo natura di « veri e propri usi normativi », sarebbero « applicabili anche laddove non espressamente richiamate » 34 © Copyright - Giuffrè Editore negli arbitrati che hanno a oggetto controversie marittime internazionali, la « scelta della legge applicabile » non si sostanzia tanto nel mero rinvio ad un ordinamento statale con l’intento che il rapporto considerato sia disciplinato in via esclusiva dalle norme di tale ordinamento, quanto nella indicazione dell’ordinamento volto a imporre agli arbitri la applicazione (e la interpretazione conforme alla volontà delle parti) sia delle norme inderogabili di diritto materiale uniforme, sia degli usi del commercio marittimo internazionale rilevanti in relazione alla fattispecie (69). È in questo senso che si coglie l’importanza e il significato della indicazione della legge inglese quale legge applicabile da parte degli arbitri nei formulari più utilizzati dagli operatori marittimi internazionali: certamente con tale indicazione le parti dei contratti del commercio marittimo intendono « appoggiarsi » all’ordinamento che più di tutti ha consentito lo sviluppo e la corretta interpretazione dei principi della c.d. lex maritima, la quale rappresenta — anche in mancanza di scelta ad opera delle parti (70) — il corpus normativo in base al quale gli arbitri marittimi dovranno basare le proprie decisioni. Con tale espressione si intende in particolare riferirsi alla circostanza che il diritto applicato dalle istituzioni arbitrali chiamate a decidere le controversie marittime internazionali è basato su un corpus di principi normativi, i quali — anche laddove recepiti (69) Sul diverso problema della rilevanza del c.d. criterio di autocollegamento, in virtù del quale norme di applicazione necessaria (quali si configurano le disposizioni inderogabili delle convenzioni di diritto materiale uniforme) di ordinamenti diversi rispetto alla lex causae possono venire in rilievo nelle decisioni arbitrali, v., da ultimo, CARBONE, Iura novit curia e arbitrato commerciale internazionale, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2010, 363 ss., nonché RADICATI DI BROZOLO, Arbitrage commercial international et lois de police, cit., 463 ss. (70) La mancata indicazione della legge applicabile ad opera delle parti è ipotesi piuttosto rara nei rapporti del commercio marittimo internazionale. In ogni caso, come noto, in assenza di scelta della legge applicabile, la dottrina ha individuato molteplici criteri in base ai quali gli arbitri internazionali possono rintracciare la lex causae. In estrema sintesi, i principali criteri consistono: (a) nella applicazione delle norme di conflitto ritenute più appropriate al caso di specie (come previsto, ad esempio, dall’art. VII.1 della Convenzione di Ginevra del 1961 e dalla Section 46.3 dell’Arbitration Act inglese del 1996); (b) nella applicazione delle norme di conflitto della lex arbitri (il che accade di frequente nell’ambito dell’arbitrato marittimo, allorché esso abbia sede a Londra: v. AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 64. Tale soluzione — in linea generale e non con specifico riguardo all’arbitrato marittimo — è stata peraltro oggetto di critica: v. sul punto i riferimenti contenuti in BERLINGIERI, The law applicable by the arbitrators, cit., 621-622, nota 20); (c) nella applicazione « cumulativa » delle norme di conflitto degli ordinamenti con cui la fattispecie presenta un collegamento (sul punto v. già DERAINS, L’application cumulative par l’arbitre des systèmes de conflit de loi intéressés au litige, in Rev. arb., 1972, 99 ss.); (d) nella applicazione « in via diretta » delle norme sostanziali più appropriate a disciplinare la fattispecie (v. i riferimenti contenuti in VISMARA, Le norme applicabili al merito della controversia, cit., 187 ss.). Sui criteri concretamente utilizzati dagli arbitri internazionali per individuare la legge applicabile in assenza di scelta ad opera delle parti cfr. per tutti POUDRET e BESSON, Droit comparé de l’arbitrage international, cit., 616 ss., nonché, nella dottrina italiana, ancora VISMARA, Le norme applicabili al merito della controversia, cit., 173 ss. In ambito marittimo pare peraltro corretto ritenere che, in mancanza di scelta, trovino applicazione « in via diretta » i principi della c.d. lex maritima, su cui ci soffermeremo subito nel seguente paragrafo. 35 © Copyright - Giuffrè Editore o « codificati » nelle legislazioni nazionali (71) — traggono origine comune e sono costituiti da due diversi « formanti », ossia, da un lato, la lex mercatoria (che comprende sia le convenzioni internazionali in tema di trasporti marittimi (72), sia gli usi e le consuetudini diffusi nel settore (73)) (74), dall’altro lato, i formulari e modelli contrattuali maggiormente utilizzati dagli operatori marittimi internazionali (75). In questo senso, la Suprema Corte degli Stati Uniti d’America ha potuto affermare (71) Sul punto v. CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 15, secondo cui, con riferimento all’esperienza italiana, il codice della navigazione ha accolto quasi integralmente la regolamentazione internazionale di istituti fondamentali del diritto marittimo quali, ad esempio, l’urto di navi, l’assistenza e il salvataggio, l’avaria comune, il trasporto marittimo e il regime di responsabilità del vettore, nonché i privilegi e l’ipoteca. (72) Così LEGROS, Les conflits de normes jurisdictionnelles en matière de contrats de transport internationaux de marchandises, in Clunet, 2007, 1121. Sull’« insostituibile ruolo delle convenzioni internazionali » nel quadro delle fonti del diritto marittimo uniforme cfr. per tutti CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 23 ss. (73) Cfr. FALL, Defence and Illustration of Lex Mercatoria in Maritime Arbitration, in Journ. Int. Arb., 1998, 83, il quale sottolinea l’esistenza di un « corpus of customs and usages agreed upon by the shipping community and constitutive of the law that governs the substance of maritime-related contracts or the merits of maritime disputes ». Nello stesso senso v. già HOUGH, Admiralty Jurisdiction — Of Late Years, in Harv. L. Rev., 1924, 529 ss., e spec. 536, secondo cui « maritime law is a body of sea customs » e che « custom of the sea includes a customary interpretation of contract language ». Sulla particolare rilevanza degli usi e delle consuetudini quali « formanti » (nonché strumenti interpretativi) della lex maritima si vedano alcuni precedenti della giurisprudenza statunitense. In particolare: - Stolt-Nielsen v. AnimalFeeds International Corp, 559 U. S. Supreme Court (2010): « Under both New York law and general maritime law, evidence of« custom and usage » is relevant to determining the parties’ intent when an express agreement is ambiguous »; - Samsun Corp. v. Khozestan Mashine Kar Co., 926 F. Supp. 436, 439 (S.D.N.Y. 1996): « [W]here as here the contract is one of charter party, established practices and customs of the shipping industry inform the court’s analysis of what the parties agreed to »; - Great Circle Lines, Ltd. v. Matheson & Co., 681 F. 2d 121, 125 (C.A. 1982): « Certain longstanding customs of the shipping industry are crucial factors to be considered when deciding whether there has been a meeting of the minds on a maritime contract ». (74) In proposito cfr. TETLEY, Mixed jurisdictions: common law vs civil law (codified and uncodified), Roma, 1999 (reperibile sul sito Internet dell’UNIDROIT www.unidroit.org), secondo cui « The lex mercatoria incorporated a body of customary private maritime law, the lex maritima, or “Ley Maryne” as it was called in French Law ». Importante notare che FALL, Defence and Illustration of Lex Mercatoria in Maritime Arbitration, cit., 84, ritiene che la lex maritima rappresenti la « major part » della lex mercatoria. La bibliografia in tema di lex mercatoria è vastissima e, non essendo possibile darne atto in questa sede, si rinvia, anche per ulteriori riferimenti, a GALGANO e MARRELLA, Diritto e prassi del commercio internazionale, Padova, 2010, passim, cui adde MARRELLA, La nuova lex mercatoria - Principi UNIDROIT ed usi dei contratti del commercio internazionale, Padova, 2003, passim. (75) Così TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit. Sulla centralità dei modelli contrattuali e, in generale, delle pratiche mercantili nel panorama delle fonti del diritto marittimo cfr. CARBONE, CELLE e LOPEZ DE GONZALO, Il diritto marittimo, cit., spec. Introduzione; GRIGOLI, Introduzione al nuovo volto del diritto della navigazione, Torino, 1995, 217 ss. e, da ultimo, BOI, I contratti marittimi. La disciplina dei formulari, cit., passim. Sul fatto che i formulari dei contratti del commercio marittimo internazionale siano una fonte di « diritto oggettivo » v. per tutti Cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318-321. 36 © Copyright - Giuffrè Editore nel caso The Lottawanna che « it happens that, from the general practice of commercial nations in making the same general law the basis and groundwork of their respective maritime systems, the great mass of maritime law which is thus received by these nations in common, comes to be the common maritime law of the world », sicché « the received maritime law may differ in different countries without affecting the general integrity of the system as a harmonious whole » (76). È quindi evidente che la « prospettiva statalista » viene sempre più a perdere di rilievo nell’ambito della risoluzione delle controversie marittime. E ciò in un triplice senso. In primo luogo, in quanto i rapporti giuridici concernenti i traffici marittimi hanno una « vocazione internazionale » che rende inadeguata una loro regolamentazione basata esclusivamente su norme di diritto interno (77). In secondo luogo, perché, comunque, i singoli diritti marittimi nazionali perdono progressivamente i propri specifici tratti distintivi e si « spersonalizzano » in favore di una loro comune riconducibilità a un « sistema », la lex maritima, costituita da principi che, a prescindere dalla localizzazione della fattispecie, sono in larga parte coincidenti in ogni parte del mondo, e ciò anche perché gli ordinamenti nazionali tendono ad adeguarvisi (78). In terzo luogo, perché, anche laddove il diritto marittimo venga « codificato » dalla normativa interna di un determinato Stato con una formulazione non esattamente coincidente a quella di cui alla lex maritima, esso potrà (e, anzi, dovrà) essere interpretato in modo tale da assicurare l’uniformità internazionale delle soluzioni, tenendo in debito conto i precedenti giurisprudenziali stranieri (79). Ciò non deve peraltro essere inteso nel senso che i rapporti del commercio marittimo internazionale siano del tutto impermeabili rispetto agli ordinamenti statali. A questo riguardo si deve innanzi tutto tenere conto che la lex maritima può trovare terreno fertile soltanto nella misura in cui i singoli diritti statali ne consentano lo sviluppo e la applica(76) Così The Lottawanna, 88 US 558 (1875) at 573. Nello stesso senso v., nella giurisprudenza inglese, la decisione resa nel caso The Tolten [1946] All. E.R. 79. (77) Nel senso di cui al testo cfr. per tutti CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale, cit., 315. (78) Così CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 29. Sul fatto che la lex maritima consti non solo di « principi », ma anche di « regole » cfr. per tutti TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit. (79) Cfr. ancora CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 26 e 30, cui adde quanto affermato dalla Corte Suprema americana nel caso The Lottawanna (v., in particolare, la citazione di cui al testo corrispondente alla nota 76). 37 © Copyright - Giuffrè Editore zione (80). Inoltre, come è stato anche di recente sottolineato, il diritto uniforme dei trasporti, così come gli usi commerciali invalsi tra gli operatori del commercio marittimo internazionale, necessitano (a) della continua « integrazione » da parte di norme di diritto interno volte a colmarne le lacune ovvero a consentirne la concreta attuazione (81), nonché (b) dell’enforcement da parte dei giudici nazionali (anche in sede di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni arbitrali) (82). Non ci troviamo quindi di fronte ad una contrapposizione frontale fra esigenze degli operatori del commercio internazionale e ordinamenti statali, bensì siamo in presenza del progressivo riconoscimento di tali esigenze da parte di legislatori e giudici nazionali (83). Le considerazioni sopra svolte permettono di comprendere perché l’arbitrato sia lo « strumento privilegiato » di soluzione delle controversie marittime internazionali (84). Infatti, in un contesto dove la legislazione statale perde quella « centralità » che normalmente riveste in altri settori (80) In questo senso occorre sottolineare il ruolo decisivo delle corti inglesi nello sviluppo e nalla applicazione della lex maritima: v. in proposito TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit.. Sul rilievo del riconoscimento da parte degli ordinamenti statali del potere degli operatori del commercio marittimo « di sottoporre in modo giuridicamente « effettivo » i loro rapporti contrattuali a complessi di norme e di principi non coincidenti con un determinato sistema giuridico statale », cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale, cit., 320-321. In generale, diverse e rilevanti pronunce della giurisprudenza italiana e straniera hanno riconosciuto l’esistenza e l’importanza della lex mercatoria nell’ambito del diritto del commercio internazionale: v., ex multis, per la giurisprudenza italiana, Cass. 8 febbraio 1982, n. 722, Ditta Fratelli Damiano snc c. Ditta August Töpfer & Co. GmbH, in Dir. maritt., 1982, 644 (su cui v., da ultimo, GALGANO e MARRELLA, Diritto e prassi del commercio internazionale, cit., 281 ss.); per quella francese, App. Paris 25 giugno 1993, in Rev. arb., 1993, 685 ss. con nota di BUREAU; per quella inglese, Deutsche Schachtsbau - und Tiefbohrgesellschaft mbH v. Ras Al Khaimah National Oil Co., [1990] 1 A.C., 295 (per un commento di questa decisione si rinvia ad HUNTER, Lex mercatoria, in L.M.C.L.Q., 1987, 277 ss.), nonché, da ultimo, Premium Nafta Products Ltd. and others v. Fili Shipping Company Ltd. and others [2008] 1 Lloyd’s Rep 254 at 29. (81) Cfr. CARBONE e SCHIANO DI PEPE, Conflitti di sovranità e di leggi nei traffici marittimi tra diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, cit., 18 e 22-23, nonché LA MATTINA, Le prime applicazioni delle Regole di Amburgo, cit., loc. cit. (82) Cfr., in generale, GALGANO, Lex mercatoria, cit., 220, il quale ha affermato che le norme di diritto interno statali sono il « braccio secolare » necessario per attuare i contenuti della lex mercatoria e per porre in esecuzione i lodi degli arbitrati commerciali internazionali. Sul punto v. anche CARBONE, Strumenti finanziari, corporate governance e diritto internazionale tra disciplina dei mercati finanziari e ordinamenti nazionali, in Riv. soc., 2000, 457, il quale afferma che « il ruolo degli ordinamenti statali tende ad essere confinato piuttosto a sede, garanzia e controllo della loro attuazione [delle regole del commercio internazionale] che fonte della disciplina al riguardo applicabile. [...] Tale osservazione incide significativamente sulla, e riduce grandemente la, c.d. sovranità degli Stati ». (83) Cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali, cit., 320-321. In proposito si veda questo passaggio di Cass. S.U. 1 ottobre 1987, n. 7341, Soc. Ceam c. Wiener Landes Hypothekenbank, in Foro it., 1988, I, 123, con note di VIALE e TUCCI: « il fondamentale principio dell’autonomia contrattuale consente alle parti di stipulare, nei limiti imposti dalla legge, tutte quelle intese negoziali, riconosciute dall’ordinamento giuridico, che vengano ritenute idonee alla tutela dei rapporti in continua evoluzione; [...] è inoppugnabile che sia meritevole di tutela l’esigenza connessa al commercio internazionale in grande espansione ». (84) Così CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit. Nello stesso senso 38 © Copyright - Giuffrè Editore del diritto e dove l’autonomia privata assume una importanza determinante nella disciplina dei rapporti tra gli operatori marittimi, è evidente che l’arbitrato assume il ruolo di sede più appropriata per dirimere le controversie marittime, essendo uno strumento di giustizia privata volto a comporre le controversie nell’ottica di dare « la più compiuta attuazione dei valori relativi ad una completa ed autosufficiente disciplina del rapporto » (85). E ciò anche avuto riguardo alla specificità della normativa applicabile a tali controversie, aspetto, quest’ultimo, che consente altresì di comprendere perché determinate istituzioni arbitrali (e mi riferisco, in particolare, alla London Maritime Arbitrators Association di Londra e alla Society of Maritime Arbitrators di New York) dirimano circa il 90% degli arbitrati marittimi mondiali. In quest’ultimo senso è altresì possibile comprendere l’importanza dell’arbitrato nello sviluppo e nella progressiva « sistematizzazione » della lex maritima (86): è chiaro che uno strumento di giustizia privata è certamente più appropriato rispetto a un tribunale statale a superare una visione « statocentrica » della regolamentazione dei rapporti giuridici e a consentire l’applicazione di un corpus di principi comuni all’intera comunità degli operatori del commercio marittimo internazionale (87), principi che — conformemente a un auspicio già rivolto da parte di SCIALOJA — consentono di disciplinare il fenomeno in esame tenendo in debito conto gli usi, le pratiche commerciali e le esigenze degli stessi operatori, nonché, soprattutto, i « fatti economici » che stanno alla base dei loro rapporti (88). Quanto sopra esposto conduce, infine, ad una riflessione di ordine più generale. I fenomeni del commercio marittimo internazionale tendono sempre più ad inquadrarsi secondo linee direttrici « centrifughe » rispetto alle DELEBECQUE, L’arbitrage maritime contemporain, cit, 436; HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 743; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage maritime, cit., 401; LEGROS, Les conflicts de normes jurisdictionnelles en matière de contrats de transport internationaux de marchandises, cit., 1105. (85) Così CARBONE e D’ANGELO, Cooperazione tra imprese e appalto internazionale, Milano, 1991, 188. (86) Cfr. TETLEY, The General Maritime Law, cit., loc. cit., secondo cui « the lex maritima, or ’general maritime law’, is found more and more today in maritime arbitral awards through the world ». (87) Sul punto, più in generale, con riferimento all’arbitrato commerciale internazionale, v. da ultimo ANCEL, L’application d’un droit non-étatique dans l’arbitrage international, in Revue libanaise de l’arbitrage arabe et international, 2011, 12 ss. (88) V. in proposito SCIALOJA, Corso di diritto della navigazione, Roma, 1943, 22, il quale, nell’auspicare la necessità di una « lettura economica » del diritto marittimo, affermava che « occorre [...] trarre la visione e l’interpretazione degli istituti giuridici dalla diretta osservazione dei fatti economici ». Nello stesso senso, recentemente, la giurisprudenza inglese ha sottolineato con particolare enfasi l’esigenza di interpretare i contratti del commercio marittimo internazionale dando soprattutto rilievo agli scopi economici perseguiti dalle parti: v. in proposito Premium Nafta Products Ltd. and others v. Fili Shipping Company Ltd. and others [2008] 1 Lloyd’s Rep 254, nonché, da ultimo, Rainy Sky SA and Others v. Kookmin Bank [2012] 1 Lloyd’s Rep 34. 39 © Copyright - Giuffrè Editore legislazioni statali. L’esistenza (e l’applicazione negli arbitrati marittimi internazionali) di una moderna lex maritima conferma il progressivo abbandono di una « prospettiva statalista » nella regolamentazione dei rapporti tra gli operatori marittimi e, conseguentemente, confermano il sempre minor rilievo delle tecniche conflittuali nella individuazione delle norme giuridiche volte a disciplinare tali rapporti. Se infatti è corretto affermare che lo status esprime « l’appartenenza del titolare ad un rapporto sociale » e che esso sia « fonte di una serie di effetti giuridici » (89), è altrettanto corretto ritenere che gli appartenenti al gruppo sociale degli operatori economici abituali del settore dei traffici marittimi si trovino a vedere i loro rapporti non già sottoposti ad una singola legge nazionale, ma soggetti ad un trattamento giuridico differente, uno statuto di gruppo loro particolare (consistente nella lex maritima), il quale viene in rilievo al fine di venire incontro alle esigenze degli operatori del settore (90). In altri termini, nel diritto marittimo transnazionale, alla legge, intesa come disciplina autoritativa con cui il singolo ordinamento statale rivendica la propria sovranità, si sostituisce (almeno in larga parte) uno ius commune mercatorum rappresentato dalla lex maritima, applicabile nei rapporti tra gli operatori del commercio marittimo internazionale, in funzione dello status di questi ultimi (91). Lo status mercatorio appare quindi come « momento di sintesi » della disciplina giuridica applicabile agli operatori del commercio marittimo internazionale « su base personale », al fine, cioè, di consentire a tali soggetti di ricevere un trattamento flessibile e improntato a soddisfare i principi del favor commercii e, in particolare, di veder soddisfatte le esigenze di speditezza e rapidità tipicamente emergenti con riferimento ai traffici marittimi. 5. Il rilievo dell’autonomia privata trova poi una conferma, e — anzi — una accentuazione, avuto riguardo agli aspetti in senso lato « procedimentali » dell’arbitrato marittimo. È ben vero che, come sottolineato da attenta dottrina, « the liberty enjoyed by the parties in fashioning the proceedings » rappresenta « the most basic hallmark » di tutti gli arbitrati commerciali internazionali (92); tuttavia, è proprio con riferimento agli (89) Così D’ANGELO (ANT.), Il concetto giuridico di « status », in Riv. it. sc. giur., 1938, 261 e 254. (90) Sul punto cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali, cit., 318 ss. (91) Sul punto sia consentito rinviare a quanto già anticipato in LA MATTINA, Clausole di deroga alla giurisdizione in polizza di carico e usi del commercio internazionale tra normativa interna e disciplina comunitaria, in Dir. maritt., 2002, 473-474. (92) Così COE, International Commercial Arbitration. American Principles and Practice in a Global Context, New York, 1997, 59. Il principio di autonomia delle parti nella scelta delle regole di procedura è stato codificato sia nell’art. V(1)(d) della Convenzione di New York del 1958 (il quale prevede come motivo di rifiuto di riconoscimento o esecuzione del lodo la circostanza che la procedura d’arbitrato non 40 © Copyright - Giuffrè Editore arbitrati marittimi che le parti (direttamente o per il tramite dei propri arbitri) mantengono un più forte controllo sul procedimento, modellandolo in modo tale da assecondare il più possibile le proprie esigenze, alla luce delle caratteristiche della materia trattata (93). È così che la grande maggioranza degli arbitrati marittimi (differentemente dagli altri tipi di arbitrati commerciali internazionali), ancorché svolti secondo le regole di istituzioni arbitrali, sono arbitrati « ad hoc » (94) e non arbitrati amministrati (95), con la conseguenza che i procedimenti arbitrali aventi a oggetto controversie marittime vengono generalmente condotti con una notevole flessibilità procedurale e — almeno tendenzialmente — sotto il costante controllo delle parti (96). Questo aspetto dell’arbitrato marittimo nasce da motivi di carattere storico. Infatti, per lungo tempo (e sino a pochi decenni fa) esso si è configurato come strumento di soluzione delle controversie che in larga parte prescindeva da schemi di tipo « processuale »: gli arbitri marittimi erano per lo più brokers afferenti al Baltic Exchange di Londra, i quali decidevano sulla base della propria sensibilità ed esperienza, in un contesto privo di formalismi, e quindi senza la necessità di utilizzare regole procedimentali (97). A partire dal 1960 circa, l’evoluzione dell’arbitrato sia stata conforme alla convenzione delle parti), sia nell’art. IV(1)(b)(iii) della Convenzione di Ginevra del 1961 (secondo cui le parti di un procedimento arbitrale ad hoc hanno la facoltà di stabilire le regole di procedura da seguirsi da parte degli arbitri). Tale principio trova inoltre conferma anche nella normativa interna in tema di arbitrato: si veda, ad esempio, l’art. 816-bis c.p.c. (secondo il quale « le parti possono stabilire nella convenzione d’arbitrato, o con atto scritto separato, purché anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che le parti debbono osservare nel procedimento »), nonché la Section 34 dell’Arbitration Act inglese del 1996 (il quale prevede che « It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters, subject to the right of the parties to agree any matter »). (93) Per analoghe considerazioni cfr. ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, cit., 510 ss. (94) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; BERLINGIERI, International maritime arbitration, cit., 217-247; HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 744; RICCOMAGNO, L’arbitrato marittimo, cit., 141. (95) In questo senso pare rilevante evidenziare che non tutti gli arbitrati istituzionali sono necessariamente arbitrati amministrati: cfr. LEW, MISTELIS e KRÖLL, Comparative International Commercial Arbitration, London, 2003, 32, secondo cui « Institutional arbitration is where parties submit their disputes to an arbitration procedure, which is conducted under the auspices of or administered or directed by an existing institution ». (96) Ovviamente, anche negli arbitrati marittimi l’autonomia delle parti trova un limite in taluni principi fondamentali che vengono ad assumere il ruolo di « norme procedurali imperative » e che trovano corrispondenza sia negli ordinamenti nazionali, sia nel diritto uniforme, sia nei regolamenti arbitrali: ci stiamo, in particolare, riferendo al principio del contraddittorio e al principio di uguaglianza tra le parti, nonché a tutti i principi generalmente riconducibili al concetto di « ordine pubblico processuale ». A questo riguardo v., da ultimo, RADICATI DI BROZOLO, CARLEVARIS, DI GIOVANNI, SABATINI e TORNESE, L’arbitrato internazionale ed estero, in SALVANESCHI, RADICATI DI BROZOLO, CARLEVARIS, ALLAVENA e ALTRI (cur.), Arbitrato, Milano, 2012, 385-387. (97) Cfr. HARRIS, London Maritime Arbitration, in Arbitration, 2011, 116 ss., il quale spiega che nella normalità dei casi — fino alla fine degli anni ’50 del secolo appena trascorso — ciascuna delle parti nominava un proprio arbitro tra i brokers del Baltic Exchange « to try to 41 © Copyright - Giuffrè Editore marittimo in senso sempre più « tecnico-giuridico », con il conseguente maggior coinvolgimento di avvocati o, comunque, di soggetti muniti di esperienza nel settore legale, ha certamente incrementato la « procedural complexity » di questo mezzo di risoluzione delle controversie (98), il quale ha ciononostante mantenuto un’impronta meno « processuale » rispetto ad altri tipi di arbitrato commerciale internazionale. In quest’ultimo senso si comprende perché la London Maritime Arbitrators Association - LMAA), ossia la principale istituzione arbitrale marittima del mondo, per lungo tempo non si sia neppure dotata di regole di procedura. Tali regole, infatti, sono state introdotte soltanto a partire dal 1999 (con la pubblicazione delle LMAA Procedural Guidelines) e hanno trovato una compiuta sistematizzazione nei LMAA Terms del 2002, che vengono periodicamente aggiornati (99). A questo riguardo, occorre peraltro evidenziare una recente evoluzione volta a tentare di ridurre il controllo delle parti sui procedimenti che si svolgono sulla base dei LMAA Terms: mentre fino all’edizione 2006 di tali Terms era previsto che — fermo l’utilizzo di default delle disposizioni di cui alla Schedule 2 allegata ai Terms — le regole di procedura venissero fissate dal Collegio arbitrale, « subject to the right of the parties to agree any matter » (100)), con la conseguenza che le parti avevano la possibilità di incidere direttamente sulla disciplina del procedimento arbitrale, nell’ultima edizione dei LMAA Terms 2012 viene stabilito il principio in base al reach an agreed recommendation to put to their principals ». Soltanto nel caso in cui un accordo non fosse stato raggiunto tra i due arbitri, questi ultimi avrebbero chiesto l’opinion di un « senior broker ». Insomma, lo svolgimento dell’arbitrato era caratterizzato dalla più completa assenza di una « procedura » in senso giuridico-processuale e, a questo riguardo, si consideri in particolare che l’A. sottolinea che « the discussion with the third experienced broker would take place at the bar, over a gin and tonic or two » [sic, 117]. (98) Cfr. HARRIS, London Maritime Arbitration, cit., 120, il quale sottolinea che la più frequente partecipazione di avvocati agli arbitrati marittimi a partire dal 1960 circa ha avuto rilevanti conseguenze « procedimentali », e ciò in quanto « in the first place, lawyers are accustomed to court procedures and so the informality of [maritime] arbitration was unfamiliar to them and, as they saw it, largely undesirable. They attempted to impose the procedures with which they were familiar from the courts upon commercial arbitration. Lawyers are also naturally cautious and do not want to risk being criticised for not having done something it might be thought they should have done. This, too, means that they tend to indulge in procedural arguments which might otherwise not have occurred ». (99) Cfr. ancora HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762. I LMAA Terms 1997 prevedevano soltanto norme di procedura relative agli arbitrati da condursi esclusivamente su base documentale (tali norme erano riportate nella Second Schedule allegata ai predetti Terms). (100) Così la Section 12 dei LMAA Terms 2006, di cui pare opportuno riportare di seguito il testo integrale (testo che — nella parte iniziale — corrisponde a quello della Section 34 dell’Arbitration Act inglese del 1996): « (a) It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters subject to the right of the parties to agree any matter. However, the normal procedure to be adopted is as set out in the Second Schedule. (b) In the absence of agreement it shall be for the tribunal to decide whether and to what extent there should be oral or written evidence or submissions in the arbitration. The parties should however attempt to agree at an early stage whether the arbitration is to be on documents alone (i.e. without a hearing) or whether there is to be an oral hearing ». 42 © Copyright - Giuffrè Editore quale è (solo) il Collegio arbitrale ad avere il potere di decidere « all procedural and evidential matters », anche tenendo conto di eventuali accordi in merito conclusi tra le parti. A queste ultime rimane peraltro il potere di decidere se l’istruttoria si debba svolgere esclusivamente su base documentale oppure se debba altresì comprendere uno hearing (101). Questa progressiva « erosione » dei poteri delle parti di organizzare « a propria discrezione » i procedimenti arbitrali svolti sotto l’egida dei LMAA Terms è la naturale conseguenza della già evidenziata maggiore complessità degli arbitrati marittimi e della crescente « sofisticazione » delle parti coinvolte, le quali — in tempi recenti — più difficilmente sono propense ad avere un approccio collaborativo rispetto alle questioni inerenti la procedura (102). Pertanto, ragioni di economia processuale (particolarmente legate al risparmio dei tempi dei procedimenti) hanno imposto di dare agli arbitri « l’ultima parola » in merito ad « all procedural and evidential matters », come del resto è stato previsto dalla stessa LMAA con riferimento alla c.d. Intermediate Claims Procedure (ideata nel 2009 in collaborazione con la Baltic Exchange per claims di valore non superiore a $ 400.000 e sinora assai poco utilizzata da parte degli operatori (103)). Più rigide, invece, sono le regole di procedura fissate dalla LMAA con riferimento agli altri procedimenti « minori »/« fast track », ossia la Small Claims Procedure - SCP (ideata nel 1989 per claims di valore non superiore a $ 50.000 e abbastanza utilizzata nel corso del tempo (104)) e il c.d. Fast and Low Cost Arbitration - FALCA (ideato nel 1997 per claims di valore compreso tra $ 50.000 e $ 250.000 e sostanzialmente mai impiegato nella prassi (105)): in questo tipo di giudizi — al fine di « sem(101) Così la Section 12 dei LMAA Terms 2012, di cui pare opportuno riportare di seguito il testo integrale: « (a) It shall be for the tribunal to decide all procedural and evidential matters, but the tribunal will where appropriate have regard to any agreement reached by the parties on such matters. The normal procedure to be adopted is set out in the Second Schedule, subject to the tribunal having power at any time to vary that procedure. (b) In the absence of agreement it shall be for the tribunal to decide whether and to what extent there should be oral or written evidence or submissions in the arbitration. The parties should however attempt to agree at an early stage whether the arbitration is to be on documents alone (i.e. without any oral hearing) or whether there is to be such a hearing ». (102) Cfr. in proposito HARRIS, Maritime Arbitrations, cit., 762, secondo cui il tradizionale « somewhat relaxed, ad hoc approach, had become inappropriate in a large number of cases because it was no longer possible, in many instances, to rely upon the common understandings, the co-operative approach and the good sense that had formerly prevailed ». (103) Nel corso del 2012 sono stati avviati soltanto 7 procedimenti (di cui nessuno si è concluso con un lodo) basati sulla LMAA Intermediate Claims Procedure: v. il sito Internet della LMAA (www.lmaa.org.uk). Per un’analisi dei termini principali di questo tipo di procedimento cfr. per tutti ancora AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, 3rd ed., London, 2009, 8-9. (104) Dai dati pubblicati sul sito Internet della LMAA (www.lmaa.org.uk) emerge che negli ultimi 15 anni sono stati avviati in media oltre 120 Small Claim Proceedings e sono stati resi circa 100 lodi all’anno. Sulla Small Claims Procedure cfr. AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 6-7. (105) Nel corso del 2012 non è stato avviato nessun procedimento c.d. FALCA: v. il sito 43 © Copyright - Giuffrè Editore plificarne » lo svolgimento — le parti non hanno la possibilità di modificare la regolamentazione del procedimento e i poteri degli arbitri di intervenire in merito sono estremamente ridotti (106). Sempre nel senso della tendenza volta a contemperare il principio di autonomia con esigenze di speditezza processuale devono pure essere lette le norme relative ai procedimenti arbitrali marittimi che si svolgono in base alle Rules of the Society of Maritime Arbitrators di New York SMA). In tale contesto, le parti hanno il potere di « alter or modify » le regole di procedura, con l’eccezione di quelle disposizioni che conferiscono agli arbitri i poteri di « amministrare » il procedimento arbitrale (107). Dall’esame delle Rules non è agevole desumere quali siano le disposizioni procedurali « inderogabili » per le parti, ma è ragionevole ritenere che tali disposizioni siano soltanto quelle relative (i) alla fissazione delle date e dei luoghi in cui verranno svolti gli eventuali hearings e (ii) alla individuazione del claimant nei (rari) casi in cui ciò sia dubbio (Section 21), nonché le norme (iii) sulla rilevanza delle prove ai fini della loro assunzione e successiva valutazione (Section 23) e (iv) sulla eventuale riapertura della fase istruttoria (Section 26). Anche le Rules of Arbitration della German Maritime Arbitration Association GMAA) consentono alle parti di incidere sulla disciplina del procedimento. A questo riguardo, peraltro, occorre sottolineare che il potere delle parti di modificare le regole di procedura non incontra limiti finché gli arbitri non sono stati ancora nominati; successivamente a tale momento, invece, è ancora ben possibile procedere con delle modifiche, ma — in questo caso — è necessario non solo il consenso delle parti, ma anche quello degli arbitri (108). Simili limiti non sono invece previsti dalle regole della Association of Internet della LMAA (www.lmaa.org.uk), dal quale risulta che tale tipologia di arbitrato marittimo è stata avviata in totale 11 volte, senza mai essersi conclusa con l’emissione di un lodo. Per un commento alle regole di questo tipo di procedura cfr. sempre AMBROSE, MAXWELL e PARRY, London Maritime Arbitration, cit., 7-8. (106) Sia nell’ambito della Small Claim Procedure (v. Section 5.i delle regole SCP), sia nell’ambito del Fast and Low Cost Arbitration (v. Section 17 delle regole FALCA) l’arbitro unico ha (o gli arbitri — nei limitati casi in cui il procedimento FALCA sia deciso da un panel — hanno) soltanto il potere di chiedere che all’esito dell’istruttoria venga svolto lo hearing. In quest’ultimo tipo di procedimento, inoltre, l’arbitro ha il potere di variare la timetable del procedimento (v. Section 7 delle regole FALCA). (107) La Section 1 delle Rules of the Society of Maritime Arbitrators dispone:« Wherever parties have agreed to arbitration under the Rules of the Society of Maritime Arbitrators, Inc., these Rules, including any amendment(s) in force on the date of the agreement to arbitrate shall be binding on the parties and constitute an integral part of that agreement. Nevertheless, except for those Rules which empower the Arbitrators to administer the arbitration proceedings, the parties may mutually alter or modify these Rules ». (108) L’articolo 1 delle Rules of Arbitration della GMAA dispone:« Where the parties to a contract have agreed that disputes between them shall be resolved in accordance with the rules of the German Maritime Arbitration Association (GMAA), these rules shall apply in the version in force at the time arbitration proceedings are commenced. The parties may amend or supple- 44 © Copyright - Giuffrè Editore Maritime Arbitrators of Canada AMAC), le quali dispongono soltanto che « The Rules may only be varied by the agreement of all parties to the arbitration » (109). Tale wording è del tutto analogo a quello adottato dalle Rules dell’altra istituzione arbitrale marittima canadese, la Vancouver Maritime Arbitrators Association VMAA (110). Nello stesso senso, con specifico riferimento alle regole procedurali, le Arbitration Rules della Singapore Chamber of Maritime Arbitration SCMA), come modificate nel 2009 (111), prevedono che la procedura venga stabilita dal Collegio Arbitrale, « subject to the right of the parties to agree any matter » (112), utilizzando quindi una disposizione analoga a quella contenuta nei LMAA Terms 2006 (113). Non solo. Le regole di arbitrato dell’International Maritime Organization ICC-CMI (IMAO (114)) — pur essendo in larga parte modellate sulle Rules of arbitration della ICC (115), le quali, come noto, prevedono un procedimento « amministrato » ove l’autonomia privata opera solo in funzione integrativa delle lacune regolamentari — lasciavano alle parti la possibilità di modificare la disciplina dell’arbitrato secondo specifici accordi relativi a ciascuna controversia, e ciò proprio in quanto con tale istituzione (ideata congiuntamente al Comité Maritime International) l’ICC intendeva proprio adeguare, in senso maggiormente flessibile, le proprie norme « processuali » alle tipiche esigenze delle controversie arbitrali marittime (116). Al contrario, il rilievo dell’autonomia privata negli arbitrati « amministrati » condotti secondo il Règlement d’Arbitrage della Chambre Arbitrale Maritime de Paris è estremamente limitato, potendo la scelta delle ment these rules for the purpose of an individual dispute. In the event, however, that arbitrators have already been appointed, such amendments or supplements shall be allowed only with the consent of the arbitrators ». (109) Così la Section 3 delle Arbitration Rules della AMAC. (110) Così la Section 2 delle Arbitration Rules della VMAA. (111) In proposito, nel commento alla nuova edizione di tali Rules viene sottolineato che « the most significant change was from an institution administrating the arbitration process to a maritime industry driven entity providing a framework for maritime arbitration which gives party autonomy »: così Commentary on the Rules of SCMA, reperibile sul sito Internet www.scma. org.sg. (112) L’art. 25.2 delle Arbitration Rules della SCMA dispone: « Subject to these Rules, it shall be for the Tribunal to decide the arbitration procedure, including all procedural and evidential matters subject to the right of the parties to agree to any matter ». (113) V. retro, nota 100 e testo corrispondente. (114) Su tali regole e sul loro insuccesso v. LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 45-46. (115) V. www.iccwbo.org/uploadedFiles/Court/Arbitration/other/rules_arb_english.pdf. (116) V. l’art. 3.1 delle Rules dell’IMAO, il quale disponeva che « Where the parties have agreed that disputes between them shall be referred to arbitration under these Rules, such disputes shall be settled in accordance with these Rules subject to such modification as the parties may agree ». 45 © Copyright - Giuffrè Editore parti riguardare soltanto l’applicabilità del regolamento in vigore al momento della conclusione della convenzione arbitrale piuttosto che quello vigente quando la controversia è stata introdotta (117). Simile approccio è seguito anche in relazione agli arbitrati soggetti alle Rules of Arbitration of Tokyo Maritime Arbitration Commission (TOMAC) of the Japan Shipping Exchange JSE), le quali, da un lato, prevedono che il richiamo di tali Rules da parte di una clausola arbitrale fa sì che esse « shall be deemed to constitute part of such arbitration ... clause » (118) e, dall’altra parte, stabiliscono espressamente che le Rules possono essere modificate soltanto dalla TOMAC su iniziativa del proprio Chairman (119). Dal combinato disposto di tali regole, appare quindi evidente l’impossibilità per le parti degli arbitrati assoggettati alle Rules della TOMAC di incidere sulla procedura. Assai meno rigida è invece la disciplina dell’arbitrato « amministrato » secondo le China Maritime Arbitration Commission Arbitration Rules, in base alle quali non solo le parti possono modificare — in linea generale — le predette Rules « subject to consent by the Arbitration Commission », ma inoltre esse, senza la necessità di ottenere alcun assenso da parte della Arbitration Commission, possono « shorten or extend by an agreement the procedural deadlines stipulated in these Rules or modify the arbitration procedural matters concerned to meet the special needs of their specific case » (120). Insomma, pur prevedendo un arbitrato marittimo (117) L’article I del Règlement d’Arbitrage della CAMP dispone infatti che « Le Règlement applicable à un litige est celui en vigueur au moment où la convention d’arbitrage a été convenue entre parties, à moins que celles-ci par une convention spéciale ne décident que le Règlement applicable sera celui en vigueur lors de l’introduction d’instance » (così la versione in vigore dall’8 giugno 2011). (118) L’art. 3 delle Rules of Arbitration della TOMAC dispone: « Where the parties to a dispute have stipulated, by an arbitration agreement entered into between them or by an arbitration clause contained in any other contract between them that any dispute shall be referred to arbitration of JSE or arbitration in accordance with its rules, these Rules (or such version of these Rules in force at the time the application for arbitration is referred) shall be deemed to constitute part of such arbitration agreement or arbitration clause ». (119) L’art. 50 delle Rules of Arbitration della TOMAC dispone: « Any amendment of these Rules shall be made by TOMAC at the initiative of Chairman of TOMAC ». (120) L’art. 7 delle China Maritime Arbitration Commission Arbitration Rules dispone:« Where the parties agree to submit their dispute for arbitration to the Arbitration Commission, to the Logistics Dispute Resolution Center of the Arbitration Commission or to the Fishery Dispute Resolution Center of the Arbitration Commission for arbitration, the arbitration proceedings shall be conducted under these Rules; and the Special Provisions On Fishery Disputes Cases of CMAC Arbitration Rules shall also apply to fishery disputes arbitration proceedings. However, if the parties have agreed otherwise, and subject to consent by the Arbitration Commission, the parties’ agreement shall prevail. The parties may shorten or extend by an agreement the procedural deadlines stipulated in these Rules or modify the arbitration procedural matters concerned to meet the special needs of their specific case; and they may also authorize by agreement the arbitration commission or the arbitration tribunal to make any necessary procedural adjustment as see fit while the arbitration procedure is underway. The power 46 © Copyright - Giuffrè Editore amministrato, le Rules in esame — almeno in teoria — consentono alle parti di avere il totale controllo delle norme relative alla scansione del procedimento (121). In conclusione, se è ben vero che, rispetto all’inizio degli anni ’60 del secolo appena trascorso, l’arbitrato marittimo oggi sta assumendo una fisionomia meno informale e si sta sviluppando anche presso nuovi centri ove è sempre più « istituzionalizzato » (e talvolta « amministrato » (122)), è altresì vero che — almeno allo stato — il 90% degli arbitrati marittimi attualmente sono condotti secondo procedimenti ad hoc, svolti in seno alla LMAA e alla SMA, nell’ambito dei quali le parti conservano (direttamente o indirettamente, per il tramite degli arbitri da loro nominati) ampi poteri di amministrazione del giudizio. E ciò rappresenta certamente una conferma della specialità dell’arbitrato marittimo rispetto agli altri tipi di arbitrato commerciale internazionale. 6. Nei paragrafi precedenti è stato possibile verificare che, nell’ambito dei traffici marittimi, le ragioni della prassi degli operatori incidono in misura rilevante sulla regolamentazione dell’arbitrato, sia con riferimento al suo momento genetico (123), sia quanto alla legge applicabile (124), sia con riferimento alla disciplina del procedimento (125). Tale circostanza non solo consente di fare riferimento all’arbitrato marittimo qualificandolo come un « procedimento speciale » rispetto all’arbitrato commerciale internazionale (126), ma inoltre rende possibile ricostruire il quadro dei rapporti giuridici che fanno capo agli operatori del commercio marittimo internazionale all’interno di quello che ho definito status mercatorio (127). A quest’ultimo riguardo, l’analisi svolta nel corso del presente lavoro permette di affermare che l’appartenenza di un soggetto al « gruppo sociale » degli operatori marittimi fa sì che — nell’ambito dei rapporti conclusi inter pares con altri soggetti appartenenti a tale « gruppo » — le norme rilevanti per la regolamentazione del stays with the Arbitration Commission and/or the Arbitral tribunal to decide thereupon. With regard to cases of ships collision, the Arbitration Commission or the arbitration tribunal may make any necessary adjustment relating to evidentiary issues ». (121) In questo senso non appaiono condivisibili le osservazioni di ESPLUGUES MOTA, Arbitraje Marìtimo Internacional, cit., 514, secondo cui « el Reglamento de Arbitraje de la China Maritime Arbitration Commission incorpora un conjunto muy elaborado de principios y actuaciones a seguir en el procedimiento arbitral, que restringen severamente el juego de la autonomìa de la voluntad, una vez sometida las partes al mismo ». (122) Come accade, ad esempio, con riferimento agli arbitrati marittimi che si svolgono presso la CAMP, la TOMAC e la China Maritime Arbitration Commission. (123) V. le considerazioni svolte nel precedente § 3 in tema di forma della clausola compromissoria. (124) V. retro, § 4. (125) V. retro, § 5. (126) V. retro, § 1. (127) V. retro, § 4. 47 © Copyright - Giuffrè Editore rapporto debbano trovare un’applicazione maggiormente « flessibile » e volta ad agevolare le esigenze di speditezza e di rapidità tipiche del commercio marittimo (128). Vi è di più. È possibile affermare che, nei rapporti del commercio marittimo internazionale, sia riscontrabile un generale favor arbitratus e ciò tenuto conto sia della diffusione dello strumento arbitrale nell’ambito di tali rapporti, sia della circostanza che l’arbitrato si presenta come l’unico strumento in grado di garantire l’applicazione di una disciplina giuridica coerente con l’operazione economica voluta dalle parti (129). In precedenza è stato peraltro messo in rilievo come una simile ricostruzione non possa essere accolta incondizionatamente e senza le debite premesse nell’ambito del trasporto marittimo di linea, il quale presenta tratti che lo differenziano in maniera marcata dal trasporto di carico (generalmente documentato da charter parties) (130). Tale considerazione nasce, in primo luogo, dal fatto che nel trasporto di linea le clausole arbitrali non presentano i caratteri di tipicità che si riscontrano, ad esempio, nei charter parties (131). In un contesto dove l’arbitrato non costituisce il mezzo di soluzione delle controversie tipicamente impiegato dagli operatori commerciali (132), sembrerebbe ben difficile poter invocare la « prassi » del commercio internazionale per giustificare controlli sulla validità delle clausole arbitrali maggiormente « flessibili » e sganciati dal « formalismo » che caratterizza l’approccio della giurisprudenza (specialmente italiana) in materia (133). In secondo luogo, i rapporti giuridici relativi ai trasporti di linea sono regolati in via sostanzialmente esclusiva dalla normativa di diritto uniforme inderogabile di cui alle Regole dell’Aja (134), e ciò in quanto in (128) Sul punto cfr. CARBONE, Autonomia privata e modelli contrattuali del commercio marittimo internazionale nei recenti sviluppi del diritto internazionale privato: un ritorno all’antico, in Dir. maritt., 1995, 318 ss. (129) Cfr. CARBONE e LOPEZ DE GONZALO, L’arbitrato marittimo, cit.; CARBONE e LUZZATTO, Clausole arbitrali, trasporto marittimo e diritto uniforme, in Dir. maritt., 1974, 252-260; LOPEZ DE GONZALO, L’esercizio della giurisdizione civile in materia di trasporto marittimo ed intermodale, in Dir. maritt., 2001, 530-532. (130) V. retro, il testo corrispondente alla nota 62. (131) Nel senso di cui al testo cfr. CARBONE e LUZZATTO, Clausole arbitrali e trasporto marittimo, cit., 262; BERLINGIERI, Arbitrato marittimo e Regole di Rotterdam, in Dir. maritt., 2011, 388; GARBESI, Arbitration and Ocean Marine Cargo Subrogation, in Arb. Journ., 1961, 79; JAMBU-MERLIN, L’arbitrage maritime, cit., 407; LOPEZ DE GONZALO, L’esercizio della giurisdizione, cit., 530; MCMAHON, The Hague Rules and Incorporation of Charter Party Arbitration Clauses Into Bills of Lading, in J.M.L.C., 1970-71, 2; O’HARE, Cargo Dispute Resolution and the Hamburg Rules, in Int. Comp. Law Quart., 1980, 229, che afferma esplicitamente che « Commercial arbitration is a common medium for dispute settlement in charterparties, yet not so common in bills of lading ». (132) Cfr. TRAPPE, The Arbitration Clause in Bill of Lading, in L.M.C.L.Q., 1999, 339. (133) V. retro, § 3. (134) Le c.d. Regole dell’Aja sono costituite dalla Convenzione di Bruxelles del 1924 (resa esecutiva in Italia con R.D.L. 6 gennaio 1928, n. 1958 conv. L. 19 luglio 1929, n. 1658; operante in Inghilterra per mezzo del Carriage of Goods By Sea Act del 1924), integrata dai 48 © Copyright - Giuffrè Editore questo ambito del commercio marittimo internazionale la posizione del soggetto interessato al carico è considerata « debole » e meritevole di tutela giuridica (135). Questa circostanza ha fatto addirittura sorgere dubbi circa la possibilità per le parti dei rapporti relativi ai traffici di linea di ricorrere all’arbitrato quale mezzo di soluzione delle controversie (136). Infatti, mentre con riferimento ai rapporti commerciali inter pares l’arbitrato è senz’altro lo strumento processuale più adatto, laddove ci si muova in un contesto di « sproporzione » fra il bargaining power di una parte rispetto a quello dell’altra e, quindi, emerga la presenza di soggetti contrattuali deboli (come è il caso del trasporto marittimo di linea), l’arbitrato parrebbe non essere il migliore mezzo di soluzione delle controversie, poiché potrebbe tradursi in un meccanismo volto ad ostacolare l’accesso alla giustizia della « parte debole », la quale — specie nel momento in cui si trovi a concludere un contratto regolato su condizioni generali predisposte unilateralmente dall’altro contraente e contenute sul retro della polizza di carico — potrebbe non essere neppure ben consapevole della scelta dell’arbitrato (137). Alla luce delle considerazioni svolte nel corso del presente paragrafo sembrerebbe doversi concludere che l’arbitrato marittimo non sia un fenomeno unitario, in quanto, da un lato, troviamo rapporti del commercio marittimo dove l’arbitrato è largamente impiegato ed emergono esigenze di rapidità delle forme e dove il controllo dei giudici statali sulle convenzioni arbitrali si fa meno rigido (contratti di trasporto di carico documentati da charter parties), dall’altro lato, vi sono rapporti dove le successivi Protocolli di Bruxelles del 1968, c.d. Regole dell’Aja-Visby, e del 1979 (resi esecutivi in Italia con L. 12 giugno 1984, nn. 243 e 244; attuati nell’ordinamento inglese per mezzo degli Acts del 1971 e del 1992). Sull’inderogabilità (a sfavore del soggetto interessato al carico) della disciplina di diritto uniforme relativa al trasporto su polizza di carico cfr. per tutti CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., 169 ss. Sul sistema delle Regole dell’Aja cfr. fra i contributi più significativi BERLINGIERI, La Convenzione di Bruxelles 25 agosto 1924 sulla polizza di carico, Genova, s.d., ma 1973; CARBONE, Le regole di responsabilità del vettore marittimo, Milano, 1984; ID., Il trasporto marittimo di cose nel sistema dei trasporti internazionali, Milano, 1976; LEFEBVRE-D’OVIDIO, La disciplina convenzionale della responsabilità del vettore marittimo, Roma, 1939; RIGHETTI, La responsabilità del vettore marittimo nel sistema dei pericoli eccettuati, Padova, 1960; TETLEY, Marine Cargo Claims, cit., cui adde, da ultimo, CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., passim, ma spec. Capitolo III. (135) In questo senso cfr. CARBONE, Contratto di trasporto marittimo di cose, cit., passim, ma spec. 169 ss. In tale sede gli interessati al carico nel trasporto di linea sono definiti come soggetti « che si trovano, da un lato, in una posizione contrattualmente più debole rispetto al vettore e, dall’altro, ad accettare clausole contrattuali ‘per adesione’ senza una consapevole partecipazione alla loro redazione e senza una chiara coscienza dei relativi contenuti ». Sulle ragioni di tutela della parte debole come presupposto della normativa di diritto uniforme in tema di polizza di carico cfr. per tutti PAVONE LA ROSA, Studi sulla polizza di carico, Milano, 1958, 88-91, il quale sottolinea che « con la cennata Convenzione si è voluto tutelare non solo il terzo portatore del titolo, ma anche ed anzitutto il caricatore ». (136) Sul punto cfr. per tutti CARBONE, Il trasporto marittimo di cose nel sistema dei trasporti internazionali, cit., 98-99. (137) In proposito sia consentito rinviare a LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 305 ss. 49 © Copyright - Giuffrè Editore convenzioni arbitrali non vengono generalmente impiegate e nell’ambito dei quali la possibilità di ricorrere all’arbitrato è addirittura posta in dubbio dalla presenza di norme inderogabili di origine internazionale a tutela dei soggetti interessati al carico (contratti di trasporto di linea). Insomma, lo status mercatorio, che ho in altra sede invocato come « momento di sintesi » delle posizioni giuridiche soggettive degli attori del commercio marittimo internazionale (138), sembra compromesso in ragione della sua limitata applicabilità ai rapporti relativi ai traffici marittimi di linea. Il trasporto di linea appare allora come momento « critico » dell’arbitrato marittimo, in quanto conduce a riflettere sulla configurabilità di quest’ultimo come « sistema » e suggerisce un controllo dei risultati dell’analisi svolta nel corso del presente lavoro alla luce delle peculiarità dei rapporti in esame. I rapporti giuridici relativi ai traffici marittimi c.d. « liner » sono certamente un momento critico per l’istituto dell’arbitrato marittimo, e ciò perché la presenza di una « parte debole » da proteggere (l’interessato al carico) parrebbe in primo luogo compromettere la possibilità di accogliere nell’ambito di questo settore la lettura « evolutiva » (e flessibile) dei requisiti di forma delle clausole compromissorie che abbiamo suggerito in precedenza e che trova come perno interpretativo la considerazione della « strumentalità » di tali clausole rispetto all’operazione economica perseguita tra le parti (139). In realtà, però, anche nell’ambito in esame è certamente da rigettare una valutazione in chiave « rigida » dei requisiti di forma delle clausole arbitrali previsti dall’art. II della Convenzione di New York del 1958. Al contrario, la giurisprudenza più avveduta (segnatamente, inglese e statunitense) ha riconosciuto proprio con riferimento ai rapporti relativi ai traffici marittimi di linea l’importanza di svolgere verifiche basate sulla ragionevolezza e sulla prassi abituale degli operatori commerciali, le quali rappresentano i meccanismi maggiormente idonei ad assicurare la tutela del contraente debole in quanto sono gli unici strumenti che garantiscono l’accertamento del consenso dell’interessato al carico rispetto alle pattuizioni compromissorie (140). In questo senso, nel trasporto di linea trovano conferma i medesimi criteri di valutazione delle clausole arbitrali che sono (138) 473-474. (139) (140) 301-317. Cfr. LA MATTINA, Clausole di deroga alla giurisdizione in polizza di carico, cit., V. retro, § 3. V. l’analisi della casistica riportata in LA MATTINA, L’arbitrato marittimo, cit., 50 © Copyright - Giuffrè Editore stati indicati (e fruttuosamente impiegati da larga parte della giurisprudenza più avveduta) nell’ambito degli altri settori del commercio marittimo internazionale (141). Inoltre, la normativa uniforme di applicazione necessaria posta a tutela dei soggetti interessati al carico non limita la possibilità di deferire ad arbitrato le controversie relative ai trasporti marittimi di linea, ma pone soltanto (ed è stata così correttamente interpretata dalla giurisprudenza) limiti volti a impedire che, attraverso lo strumento dell’arbitrato, venga di fatto « by-passato » il contenuto inderogabile di tale normativa (142). Il che è del tutto coerente con il rilievo del canone di « buona fede » nell’interpretazione dell’art. II della Convenzione di New York del 1958 (143). Anche da un punto di vista sostanziale, il « sistema arbitrato marittimo » non pare compromesso con riferimento ai rapporti relativi ai trasporti di linea. La disciplina uniforme applicabile a questo tipo di trasporti, infatti, non solo rappresenta pacificamente parte della lex maritima, ma inoltre — fermi i propri contenuti inderogabili — non impedisce di valorizzare anche in questo contesto il rilievo dello status mercatorio. E ciò nel senso che — al di là della localizzazione della fattispecie in un determinato ordinamento giuridico — la disciplina applicabile ai rapporti relativi ai traffici di linea sarà rinvenibile esclusivamente nella normativa uniforme come integrata dagli usi e dalle consuetudini internazionali invalsi nello specifico settore di riferimento. Infine, le regole di procedura delle principali istituzioni arbitrali paiono certamente garantire un agevole « accesso alla giustizia » e sono strutturate in modo tale da garantire non solo il rispetto del principio del contraddittorio, ma anche una tempistica di risoluzione della controversia assai celere e senz’altro più rapida di quella conseguibile davanti ai giudici di qualsivoglia ordinamento statale. In conclusione, alla luce di quanto sopra, l’arbitrato marittimo conferma anche nell’ambito del trasporto di linea le proprie caratteristiche di « strumento privilegiato » volto a garantire in maniera « adeguata » la tutela giurisdizionale dei diritti delle parti dei rapporti del commercio marittimo internazionale. In questo senso, è possibile affermare che (141) V. retro, § 3. (142) V., ad esempio, le affermazioni contenute nel caso inglese The Morviken (The Hollandia) [1983] 1 Lloyd’s Rep., 7 (invero riguardante il connesso tema delle clausole di deroga alla giurisdizione), nonché nella pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti relativa al caso Vimar Seguros y Reseguros S.A. v. M/V Sky Reefer, 515 U.S. 528, in Am. Mar. Cases, 1995, 1817, ove è stato chiarito che le clausole arbitrali contenute in polizza di carico non sono di per sé invalide, ma, al contrario, se ne deve presumere la validità fino a quando non sia dimostrato in giudizio che (a) esse si traducono per il vettore in un esonero da responsabilità o che (b) la loro efficacia limita in concreto la possibilità dell’attore di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (ad esempio, in quanto per effetto di tali clausole il soggetto interessato al carico si trovi a dover sopportare i costi di un procedimento « prohibitively expensive »). (143) V. retro, § 3, il testo corrispondente alla nota 48. 51 © Copyright - Giuffrè Editore l’arbitrato marittimo è un fenomeno « unitario », nel quale le caratteristiche del trasporto di linea si inseriscono senza generare fratture del sistema. In questo contesto, inoltre, le peculiarità dei rapporti relativi ai traffici di linea confermano ancora una volta la specialità dell’arbitrato marittimo rispetto agli altri tipi di arbitrato commerciale internazionale. This paper analyses the so-called “International Maritime Arbitration”, which is the “preferential” procedural instrument in order to settle disputes between shipping operators worldwide. This arbitration falls under the broader genus of international commercial arbitration, from where, essentially, it draws its legal regulation; however, because of certain “specific” characteristics of the shipping context, International Maritime Arbitration “departs” from the model of “general” international commercial arbitration. Therefore, the paper is primarily focused on illustrating the specific features of this kind of arbitration with particular attention to the rules of the principal arbitration institutions specialized in maritime disputes (primarily the London Maritime Arbitration Association and the Society of Maritime Arbitrators of New York). 52 © Copyright - Giuffrè Editore La perizia contrattuale FRANCESCO CAMPIONE (*) 1. Introduzione. — 2. Come nasce il fenomeno. — 3. Perizia contrattuale tra arbitrato e arbitraggio. — 4. L’autonomia della perizia. — 5. Un approccio analitico alla prassi: fenomenologia della perizia contrattuale. — 6. Perizia contrattuale e arbitraggio: linee distintive. — 7. La perizia contrattuale nel quadro della composizione delle liti. — 8. La disciplina applicabile: 8.1. La clausola per perizia contrattuale; 8.2. Rapporto parti-arbitri e profili procedurali; 8.3. L’efficacia della perizia; 8.4. Il responso peritale: natura e regime. — 9. Spunti problematici: brevi cenni alla nuova disciplina dell’arbitrato (irrituale). — 10. Considerazioni conclusive. 1. Per meglio comprendere il contesto sistematico e concettuale entro il quale collocare l’istituto della c.d. perizia contrattuale (o, per alcuni autori, la perizia arbitrale (1)), occorre far riferimento al tema della soluzione non giurisdizionale delle controversie (relative ovviamente a diritti disponibili). Il nostro ordinamento giuridico, infatti, riconosce e disciplina espressamente mezzi alternativi di composizione delle liti (contrattuali e non). Così, esso contempla figure negoziali tipiche (la transazione, la quale, ex art. 1965 c.c., comma 1, « è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro ») e non (si pensi al negozio di accertamento, mediante il quale due o più parti, senza le reciproche concessioni, danno certezza, predisponendo regole di condotta per esse vincolanti, ad un determinato rapporto o ad una determinata situazione giuridica (2)). Vi è poi l’arbitrato, il quale rappresenta uno strumento che bensì trova « giustificazione » e origine nell’autonomia privata, ma può assu(*) Dottorando di ricerca presso la L.U.I.S.S. - Guido Carli di Roma. (1) BOVE, La perizia arbitrale, Torino, 2001. (2) AA.VV., Diritto privato, Milano, 2009, Volume II, n. 849; per una conoscenza più approfondita della teoria dell’accertamento giuridico e delle problematiche connesse al negozio di accertamento si veda FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento 53 © Copyright - Giuffrè Editore mere forme molto simili a quelle tipiche della via giurisdizionale. Esso, infatti, può trovare svolgimento secondo due modalità distinte: in un caso (c.d. arbitrato rituale, artt. 806-840 c.p.c.) si ha un vero e proprio processo con uno o più giudici « privati » che emanano, all’esito di una dinamica procedimentale improntata al principio del contraddittorio, un atto idoneo alla produzione degli stessi effetti della sentenza del giudice statuale; nell’altro caso (c.d. arbitrato irrituale, art. 808 ter c.p.c.), il contesto procedimentale è (normalmente) semplificato e più flessibile, e la decisione finale, sempre presa da un giudicante privato, è fondamentalmente un contratto riconducibile alla volontà delle parti in controversia. In linea di prima approssimazione, l’arbitrato (tanto rituale quanto irrituale (3)) deve essere tenuto distinto dall’arbitraggio. Invero, quest’ultimo istituto è previsto e regolato dal codice civile all’art. 1349 e, in linea generale, si differenzia dall’arbitrato in quanto sistematicamente e funzionalmente non destinato alla soluzione di una controversia giuridica. Infatti, la norma ex art. 1349 consente alle parti di rimettere ad un terzo la determinazione della prestazione dedotta nel contratto, la quale è ritenuta direttamente riconducibile alla volontà dei contraenti, onde si viene a realizzare una cooperazione tra le parti e il terzo nell’attività di completamento del regolamento d’interessi (4). Sennonché anche l’arbitraggio può essere in un certo senso considerato una forma negoziale di soluzione di una controversia, giacché le parti non vogliono o non possono determinare un elemento essenziale del loro rapporto contrattuale e, tuttavia, si trovano concordi nel rimettere tale determinazione a un terzo, impegnandosi a considerare il di lui responso come sostitutivo della propria volontà, quindi vincolante. Ma in tal caso la controversia non è di tipo giuridico, quanto tutt’al più lato sensu economica (5). Invero, intorno alla figura dell’arbitraggio e ai profili distintivi di questo dall’arbitrato, possono crearsi dei « momenti » d’incertezza e di non sufficiente chiarezza. L’attività del c.d. arbitratore, infatti, è pur giuridico, Torino, 2002; sul negozio di accertamento in generale cfr., per tutti, FALZEA, Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 205 ss.; GIORGIANNI, Accertamento (negozio di), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 227 ss. (3) Ma si veda la ricostruzione di BOVE, Art. 808 ter, in MENCHINI (coord.), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 65 ss. e i richiami di dottrina e giurisprudenza ivi contenuti. (4) Cass. 25 giugno 1983, n. 4364, in Mass. giust. civ. 1983, fasc. 6, che si esprime in questi termini: « solo in presenza di un arbitraggio — che ricorre quando le parti abbiano affidato al terzo arbitratore non già l’incarico di risolvere una controversia nascente da un rapporto giuridico preesistente e già perfetto (come nell’arbitrato rituale ed in quello libero) ma di determinare in un negozio giuridico in via di perfezionamento, un elemento che le parti non hanno voluto o potuto determinare, sicché l’arbitratore non dirime liti con poteri decisori, ma concorre con le parti nella formazione del contenuto del negozio — è possibile la impugnazione del lodo per manifesta iniquità ». (5) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2011. 54 © Copyright - Giuffrè Editore sempre attività di uno o più terzi, scelti dai contraenti, volta a completare un assetto d’interessi; inoltre, strutturalmente la fattispecie ex art. 1349 c.c. ben può trovare applicazione anche in ipotesi di contratti (ad es. una transazione) finalizzati alla composizione di una lite giuridica (6). È nel contesto sopra descritto che va correttamente (o almeno così ci sembra) inserita l’analisi della perizia contrattuale, la quale — è bene precisarlo subito a scanso di equivoci — rappresenta un istituto dai tratti non ancora ben definiti, ad onta degli autorevoli studi succedutisi in materia e dei numerosi arresti giurisprudenziale intervenuti sulla questione. In un’ottica meramente introduttiva, la perizia contrattuale è configurabile come un meccanismo complesso, il quale origina da un patto (normalmente una clausola contrattuale) con cui le parti prevedono che determinate questioni tecniche vengano risolte e decise da uno o più soggetti dotati di specifiche conoscenze tecnico-scientifiche (i c.d. periti). La determinazione dei periti è dalle parti considerata vincolante. Detto ciò, il vero problema della perizia contrattuale concerne proprio la sua definizione, o per meglio dire la sua individuazione, ricostruzione e descrizione come fenomeno giuridico « unitario » e in un certo senso « autonomo ». In sostanza, si tratta di capire che cosa sia realmente la perizia contrattuale; se, cioè, integri una realtà di diritto sostanziale, un istituto giuridico di matrice processuale, ovvero un fenomeno in un certo senso duplice. 2. D’accordo con la dottrina che più di recente ha avuto modo di offrire uno studio più organico del fenomeno e proporre un’interessante ricostruzione di esso (7), pare utile muovere la disamina dell’istituto dalle diverse situazioni pratiche nelle quali esso trova attuazione. L’approccio, dunque, è di tipo empirico: si vuol cioè intraprendere una strada che conduca ad un possibile inquadramento organico della perizia contrattuale, partendo dai casi (soprattutto tratti dall’esperienza giurisprudenziale) ove essa è ritenuta operante. Una prima ipotesi, che invero è quella di massima diffusione della perizia contrattuale e rispetto alla quale la sussistenza di essa è confermata sia in giurisprudenza sia in dottrina, è rappresentata dalla previsione, inserita in clausole apposte ad alcuni contratti di assicurazione (polizze danni e assicurazioni contro gli infortuni, per lo più), in base alla quale, in caso di disaccordo tra le parti, uno o più elementi di particolare rilevanza tecnica (il quantum del danno prodotto; il grado di invalidità; il nesso di (6) È a tale fattispecie, del resto, che alcuni autori (tra cui BOVE, citato in nota 4) riconducono, strutturalmente, l’arbitrato irrituale. (7) BOVE, La perizia arbitrale, cit.; Id., La perizia contrattuale, in LUISO - GABRIELLI (coord.), I contratti di composizione delle liti, Milano, 2005. 55 © Copyright - Giuffrè Editore causalità tra l’evento e il danno; e così via) ai fini dell’esistenza o del modo di essere di una situazione giuridica soggettiva (il diritto risarcitorio), siano oggetto della valutazione e dell’accertamento di uno o più esperti designati dalle parti, i quali risolvono tali questioni servendosi delle proprie cognizioni tecnico-scientifiche mediante un responso che i contraenti accettano come espressione della propria volontà (8). Un’altra ipotesi, comunemente ricondotta dagli studiosi e dalla giurisprudenza alla perizia contrattuale, è data dai c.d. arbitrati tecnici o di qualità. I casi concreti sono quelli di contratti in cui una parte s’impegna a dare o fare qualcosa verso il corrispettivo di un prezzo o di un compenso e dove i contraenti stabiliscono che, in caso di divergenze maturate in fase esecutiva in ordine alla qualità delle cose fornite, dell’opera o del lavoro effettuati, la decisione circa la corrispondenza o meno di quanto fatto a quanto previsto o promesso sia affidata ad uno o più terzi, con efficacia vincolante tra le parti (9). Altre ipotesi nelle quali è stato ritenuto operante il meccanismo oggetto di questo studio, ricavate direttamente da concreti casi sottoposti a vaglio giurisprudenziale, sono le seguenti: — sorta controversia nella fase esecutiva di un contratto di appalto, le parti stipulano una transazione ove prevedono che la valutazione e la decisione (vincolante) in ordine al calcolo di eventuali maggiori somme spettanti all’impresa appaltatrice sia presa da un collegio di esperti nominati dalle parti (10); — sempre in tema di appalto, sorta controversia durante l’esecuzione del rapporto, in particolare con riferimento al valore dei lavori da eseguire oggetto di capitolato, le parti incaricano della determinazione di tale valore un collegio di esperti, con responso per esse vincolante (11); — nell’ambito di un contratto di cessione di partecipazioni azionarie, viene pattuito che il calcolo del valore reale di esse (funzionale alla corresponsione del prezzo contenente l’eventuale plusvalore rispetto al valore nominale delle azioni) sia effettuato da tecnici di fiducia nominati dalle parti contraenti, con responso vincolante tra le stesse (12); — due fratelli, beneficiari, mediante distinti atti di donazione, di tutti i beni immobili della madre, stipulano un contratto in virtù al quale, al fine di addivenire ad un’eguale ripartizione dei cespiti (dei quali, par vari motivi, al momento delle liberalità non era ben noto l’effettivo valore) (8) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4. Per il tenore di alcune clausole inserite in contratti di assicurazione, v. infra nel testo. (9) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4; LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa Rivista, 1996, 671. (10) Cass. 24 maggio 2004, n. 9996, in questa Rivista, 2006, 4, 727, con nota di MARULLO DI CONDOJANNI. (11) Trib. Piacenza 29 ottobre 2010, in Foro padano 2011, 1, I, 202. (12) Cass. 30 giugno 2005, n. 13954, in Foro it. 2006, 2, I, 482. 56 © Copyright - Giuffrè Editore anche in funzione della corresponsione di un eventuale conguaglio, incaricano un tecnico di stimare il valore dell’asse immobiliare, impegnandosi a considerare il relativo responso come riconducibile alla propria volontà (13). Si ritiene inoltre necessario segnalare, ancora ispirandoci alla dottrina che più ha studiato il fenomeno della perizia (arbitrale) anche prendendo spunto dal sistema tedesco (14), altri casi normalmente ricondotti alla fattispecie in esame: — due soggetti, non legati da alcun rapporto contrattuale, incaricano un terzo, dotato di specifiche cognizioni tecniche, di accertare (in maniera vincolante) l’eventuale nesso di causalità tra un sinistro e un danno, con l’ulteriore compito di determinare il quantum delle conseguenze pregiudizievoli in caso di esito positivo del primo accertamento; — i contraenti incaricano il terzo-perito di accertare, con responso per le parti vincolante, se ricorra o meno la giusta causa del recesso contrattuale; — i contraenti stabiliscono che un terzo accerti, sempre con responso vincolante, se vi sia stata violazione di una norma contrattuale ovvero di legge; — conferimento al perito del compito di determinare la situazione patrimoniale di una società, al fine di quantificare il credito del socio escluso per la liquidazione della quota; — l’inserimento in alcuni contratti di durata di una clausola, in virtù della quale le parti s’impegnano a rinegoziare le reciproche prestazioni nel caso in cui si verifichino eventi che alterino in modo rilevante l’equilibrio negoziale, con affidamento ad un terzo di effettuare un accertamento vincolante in ordine alle condizioni di rinegoziazione e alla fissazione del nuovo contenuto contrattuale (15). Infine, è stata considerata ipotesi di perizia contrattuale la clausola con cui viene affidato ad un terzo l’accertamento dello stato di riconsegna del fondo locato e la liquidazione del dare e dell’avere oltre che degli eventuali danni (16). L’elencazione su esposta non può ritenersi tassativa, poiché come si è (13) Cass. 11 novembre 2008, n. 26946, in Riv. Notariato, 2010, 1, 226, con nota di CARADONNA. (14) Per gli esempi a seguire si veda BOVE, La perizia arbitrale, cit., 6 e le citazioni alle note 10, 11, 12 e 13; LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 671-672, e nota 7. Gli autori citati, in particolar modo il primo, danno conto dell’importanza del contributo della dottrina tedesca allo studio del fenomeno della c.d. perizia contrattuale, in seno alla quale è stata sviluppata la figura dell’arbitratore-perito, come segnalato anche da DIMUNDO, L’arbitraggio. La perizia contrattuale, in ALPA (coord.), L’arbitrato. Profili sostanziali, Milano, 1999, Volume I, 211. (15) Cfr. BOVE, La perizia contrattuale, cit., il quale riprende l’esempio da FAZZALARI, L’arbitrato, Torino, 1997. (16) ZUDDAS, L’arbitraggio, Napoli, 1992, 218. 57 © Copyright - Giuffrè Editore specificato si tratta di casi riscontrati nella prassi dei traffici giuridicocommerciali. Inoltre, si tratta di situazioni nelle quali la sussistenza della perizia contrattuale è data per certa dalla giurisprudenza o dalla dottrina, ovvero da entrambe, ma ciò non significa che in tutti gli episodi descritti ricorra senza ombra di dubbio una perizia. In altre parole, l’obiettivo del presente scritto è quello di riportare ordine circa la disciplina di un istituto, sicuramente noto ma ancora non ben delineato nei suoi profili giuridici. Sicché, volendo razionalizzare e comporre il quadro, potrebbe alla fine risultare che, alcuna delle fattispecie esemplificative sopra riportate, descrivano una realtà diversa da quella che effettivamente rappresenta la perizia contrattuale. 3. Secondo una parte della dottrina, la perizia contrattuale non gode di una propria « legittimazione » giuridica autonoma. Invero, secondo una prima ricostruzione, essa è una particolare forma di arbitraggio, in quanto interviene allo scopo di colmare una lacuna contrattuale, ossia a determinare un elemento di un contratto già perfezionato ma, per l’appunto, incompleto. Rispetto all’arbitraggio, per così dire, tout court, recherebbe con sé la peculiarità della natura necessariamente tecnica dell’accertamento posto alla base della determinazione del terzo perito-arbitratore (17). Per questa via, pertanto, la perizia costituirebbe un fenomeno di diritto sostanziale. Peraltro, in quest’ottica, la perizia contrattuale è declinabile in due modi: da un primo punto di vista, come arbitraggio nel contratto di accertamento ove l’attività del peritoarbitratore ha ad oggetto l’elemento tecnico oggetto di contrasto (delineandosi un contratto di accertamento di un fatto (18)); da altro punto di vista, come necessario sviluppo, in termini di arbitraggio, del contratto base, onde il rapporto costituito dal negozio originario non è completo sino allo svolgimento della perizia (19). Secondo un’altra tesi, il fenomeno della perizia contrattuale nasce e si sviluppa essenzialmente in seno ad episodi di vita giuridica nei quali intercorre una controversia tra soggetti relativa a situazioni giuridiche soggettive (di guisa che occorre decidere in ordine alla spettanza del bene della vita e dei contrapposti obblighi), la cui base è rappresentata da un (17) FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 29; VOLPE PUTZOLU, Assicurazione, clausola arbitrale e clausola peritale, in questa Rivista, 1996, 623 ss.; in passato tale ricostruzione è stata fatta propria da ASCARELLI, I c.d. collegi arbitrali per l’accertamento del danno nell’assicurazione infortuni, in Assicurazioni, 1936, II; SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, Cortona, 1923. (18) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 14 ss., ove illustra la tesi, nel senso riportato nel testo, di ASCARELLI, con i relativi richiami in nota. Per quanto riguarda la dottrina tedesca concorde rispetto a tale ricostruzione, l’Autore citato nel testo dà conto, approfonditamente, delle tesi di WITTMAN (pp. 88 e ss., con relative note) e di WAGNER (pp. 103 e ss. e note ivi contenute). (19) Cfr. la ricostruzione in BOVE, La perizia arbitrale, cit., e i richiami a SCADUTO (pp. 10 e ss.), WEISMANN e KISCH (pp. 42 e ss. e note ivi contenute). 58 © Copyright - Giuffrè Editore rapporto giuridico preesistente (non necessariamente contrattuale) e litigioso. In tale contesto verrebbe a configurarsi una peculiare forma di arbitrato ad oggetto limitato (20), donde la natura processuale, o per meglio dire arbitrale, della perizia (21). Secondo altra impostazione, probabilmente maggioritari in dottrina, la perizia contrattuale altro non è che una particolare forma di arbitrato ovvero di arbitraggio a seconda che venga posta in essere per dirimere una controversia in forma negoziale (su una determinata questione tecnica) o per completare il contenuto di un contratto, bensì perfezionato ma carente di uno o più elementi rilevanti nell’economia del regolamento d’interessi (22). Da questo punto di vista, la particolare competenza tecnica del terzo perito non condizionerebbe la natura dell’istituto, anche se la « scientificità » dell’accertamento serve, in un’ottica definitoria, a distinguere la perizia dall’arbitraggio e dall’arbitrato (23). Invero, autorevole dottrina (24), ha rilevato che anche nell’ipotesi dell’arbitraggio (che pure deve essere tenuto ben distinto dall’arbitrato (25), avendo questo funzione di risoluzione di una controversia riferita ad un rapporto preesistente mediante forme processuali, ed intervenendo quello a completamento di un rapporto contrattuale, cioè nella fase genetica della sua formazione (26)) è possibile configurare un contrasto che, anche se spesso soltanto economico, configura un conflitto d’interessi. Solo che l’arbitratore non decide (stabilendo chi ha torto e chi ha ragione rispetto ad una situazione sostanziale), bensì, per così dire, sosti(20) Questa è l’idea, tra gli altri, di LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 669 e ss.; e di BOVE, La perizia arbitrale, cit., 170 e ss. (21) Come sostenuto dall’autore che ha dedicato alla perizia contrattuale lo studio più approfondito, riportato nella sua opera intitolata, per l’appunto, La perizia arbitrale. (22) Così, tra gli altri, GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009; DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 215 ss.; ZUDDAS, L’arbitraggio, cit., 217 e ss.; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato (interno), Padova, 1991, 12; BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, 330 ss; SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, art. 1321-1352, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1970, 385. (23) ZUDDAS, L’arbitraggio, cit., 220; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 278 e ss. (24) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 14-15 e 16. (25) GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di composizione delle liti, Milano, 2005, 1152 « la differenza tra arbitrato ed arbitraggio va ricercata nel contenuto del mandato conferito dalle parti ad uno o più terzi. Mentre, infatti, nell’arbitrato le parti demandano agli arbitri il compito di risolvere divergenze sorte in ordine ad un rapporto precostituito in tutti i suoi elementi, mediante l’esplicazione di una funzione giurisdizionale, per modo che la decisione sia destinata ad acquisire efficacia pari a quella della sentenza del giudice (arbitrato rituale), oppure mediante la formazione, sul piano negoziale, di un nuovo rapporto riconducibile esclusivamente alla volontà dei mandanti, senza l’osservanza, per la natura non contenziosa dell’incarico, delle norme contenute negli artt. 806 ss. c.p.c. (arbitrato irrituale, cosiddetto libero); nell’arbitraggio, invece, le parti demandano ad altri di determinare, in loro sostituzione, il contenuto di un contratto già concluso ma non completo, per modo che l’arbitratore, con la propria attività volitiva ed autonoma, concorre alla integrazione ed alla formazione del contenuto del negozio stesso », e i richiami a nota 28. (26) Cfr. FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, in questa Rivista, 1993, 583 ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 14. 59 © Copyright - Giuffrè Editore tuisce le parti nella determinazione di un elemento del regolamento d’interessi. In tale prospettiva, la perizia contrattuale, costituendo un meccanismo volto alla composizione di contrasti in ordine a questioni tecniche, ben può corrispondere allo strumento ex art. 1349 c.c., laddove il perito debba intervenire in fase genetica; può realizzare un arbitrato (irrituale, pare d’intendere), allorché l’accertamento tecnico sia richiesto circa questioni relative ad un rapporto giuridico preesistente e litigioso (27). 4. Non sono mancate opinioni, in dottrina, indirizzate verso la configurazione della perizia contrattuale come istituto autonomo, degno di una propria dimensione giuridica, differente da quella dell’arbitraggio e dell’arbitrato (irrituale). Il punto centrale di questa differenza, pur considerandosi che la vincolatività del responso del terzo-perito rende il fenomeno molto vicino alla fattispecie ex art. 1349 c.c. e all’arbitrato libero, risiederebbe nella natura e nella qualità dei poteri conferiti al terzo: qui, invero, si avrebbe un accertamento tecnico, mancante di qualunque determinazione volitiva e discrezionale, presenti invece in sede di arbitraggio e arbitrato. Insomma, con la perizia il terzo si renderebbe autore di una mera dichiarazione di scienza (28), di una valutazione tecnica priva di qualsiasi arbitrium ma semplicemente caratterizzata da discrezionalità tecnica, senza la libertà di giudizio di cui gode ad esempio l’arbitratore (29). Si è segnalato (30) che l’idea della natura « autonoma » della perizia è assolutamente dominante in giurisprudenza (e ciò — va da sé — si riflette anche in termini di disciplina giuridica, di cui poi daremo più approfonditamente conto, volendo per ora rimanere, come base di partenza e di inquadramento del fenomeno, su un terreno tendenzialmente definitorio dell’istituto). In realtà, l’approccio ermeneutico della giurisprudenza, il quale senz’altro mostra una tendenza ad isolare l’istituto in questione tanto rispetto all’arbitraggio quanto rispetto all’arbitrato tout court, non appare sempre chiaro e univoco. Un’impostazione minoritaria ha avvicinato notevolmente la perizia contrattuale alla fattispecie di cui all’art. 1349 c.c., riscontrando però l’essenza della prima nella natura squisitamente tecnica dell’accertamento valido ai fini delle determinazione dell’elemento contrattuale. In altre parole, la perizia contrattuale è strumento di completamento di un contratto, ma si differenzia dall’arbitraggio poiché in questo il terzo svolge la (27) (28) (29) (30) PUNZI, Disegno sistematico, cit., 16. BIAMONTI, voce « Arbitrato », in Enc. del dir., II, Milano, 1958, 955. CATRICALÀ, voce « Arbitraggio », in Enc. Giur., 1988, 2. GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, cit., 1160. 60 © Copyright - Giuffrè Editore sua attività secondo il criterio dell’equo apprezzamento ovvero del suo mero arbitrio; mentre in quella il terzo-perito non ricorre né all’uno né all’altro criterio, dovendo soltanto conformarsi alle regole tecnico-scientifiche del proprio settore di competenza. E ciò si riflette in termini di disciplina applicabile, restando fuori gioco l’art. 1349 c.c. anche in punto d’impugnativa del responso del terzo (31). Invero, sulla base dell’orientamento (tendenzialmente) costante della giurisprudenza, la perizia contrattuale è mezzo di composizione di un contrasto ad opera di uno o più terzi scelti dalle parti, e a tale fine il paradigma strutturale di riferimento è rappresentato dall’arbitrato libero. La peculiarità della perizia, idonea a distinguerla dall’arbitrato irrituale, sta nel suo oggetto, quindi nel contenuto dell’accertamento richiesto ai periti. Qua infatti il contrasto si riferisce ad una questione di fatto di elevata pregnanza tecnica. Nell’arbitrato (libero) il contrasto invece è giuridico, in quanto concerne il rapporto (preesistente) nel suo complesso. In sostanza, in un caso i soggetti, con riferimento ad un rapporto giuridico tra loro intercorrente ovvero ad una determinata situazione sostanziale, sono in disaccordo rispetto ad una o più questioni (rilevanti nella fattispecie di alcuno dei diritti in gioco) il cui accertamento (e la cui soluzione) richiede competenza tecnica; nell’altro caso la lite concerne il rapporto nel suo complesso. Ma strutturalmente, in ambo i casi, le parti s’ispirano al medesimo modello contrattuale, ossia ad un mandato a un terzo al fine di comporre un contrasto e di realizzare un nuovo assetto di interessi di tipo negoziale. Seguendo questa (prevalente) lettura, si giunge alla conclusione che l’autonomia della perizia sussiste solo a livello definitorio e concettuale, dal momento che, in termini di disciplina, si seguono le norme applicabili all’arbitrato irrituale (ad esempio per ciò che riguarda i profili d’impugnabilità del responso del perito) (32). 5. Il quadro ricostruttivo, benché la figura della perizia contrattuale (o arbitrale) sia conosciuta da molti secoli (sin dal diritto romano (33)), appare tutt’altro che unitario. Tuttavia, la perizia come mezzo di composizione di contrasti, ancorché soltanto tecnici, esiste e persiste nei traffici giuridico-commerciali. Insomma, il fenomeno è atipico ma allo stesso tempo appare dotato di una non scarsa rilevanza « sociale ». Ciò puntualizzato, nel tentativo di razionalizzare il quadro e, pertanto, di trovare una collocazione concettuale e una disciplina il più (31) Cfr., tra le più recenti, Cass. n. 13954 del 2005, cit. (32) Il concetto di fondo di questa impostazione è chiaramente espresso in Cass. 5 dicembre 2001, n. 15410, in Foro it. 2002, I, 723 (con ulteriori e numerosi richiami giurisprudenziali in motivazione); in senso analogo, più di recente, Cass. 10 maggio 2007, n. 10705, in Mass. giust. civ. 2007, 5. (33) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 1. 61 © Copyright - Giuffrè Editore possibile unitaria dell’istituto, pare opportuno e utile ripartire, questa volta in maniera più analitica, da un approccio empirico al fenomeno. Si tratta cioè di studiarlo per come esso si sviluppa nella prassi delle relazioni giuridico-commerciali, cercando di capire quali sono le esigenze che spingono le parti a stipulare una clausola per perizia contrattuale e, quindi, qual è la ratio di fondo di questa figura. Coniugando poi le conclusioni raggiunte per questa via con le idee espresse, in particolare, dalla giurisprudenza, si dovrà cercare di tracciare la disciplina giuridica del fenomeno. Innanzitutto preme segnalare che gran parte dei regolamenti delle Camere Arbitrali presentano delle clausole-tipo, non solo compromissorie, ma anche per arbitraggio e per perizia contrattuale (34). Confrontando tali clausole il dato rilevante che emerge è che, allorché la clausola contiene una pattuizione per un arbitrato (tanto rituale quanto libero), l’incarico affidato al terzo è finalizzato alla risoluzione di qualsiasi controversia giuridica derivante dal rapporto contrattuale (ivi comprese le liti circa la validità, esecuzione, risoluzione e interpretazione del contratto); se, invece, si tratta di una clausola per arbitraggio ex art. 1349 c.c. al terzo è richiesta la determinazione di un elemento di un certo contratto, con ciò denotandosi uno stato d’incompletezza del negozio. L’attività dell’arbitratore consente quindi di « ultimare » il regolamento di interessi; quando, poi, si ha a che fare con una pattuizione per perizia contrattuale, il terzo è chiamato ad effettuare un accertamento tecnico e/o la valutazione di determinati elementi di un contratto, o, più dettagliatamente, l’accertamento e/o la valutazione qualitativa e/o quantitativa dello stato dei luoghi, della consistenza, qualità, condizione di beni (o di cose) riguardanti un certo contratto (35). Sembra allora che — tenuta da parte per ora qualunque deduzione in punto di disciplina applicabile —, nell’ottica insita in tali regolamenti, la perizia contrattuale rappresenti qualcosa di distinto sia dall’arbitrato sia dall’arbitraggio. (34) Cfr. ad esempio i regolamenti delle Camere di Commercio di Bologna, Bolzano, Cesena, Verona, nonché dell’Istituto Arbitrale Immobiliare di Firenze. (35) Clausola per perizia contrattuale, peraltro definita « compromissoria », contenuta nel regolamento della Camera Arbitrale di Bologna: Le parti sottoscritte convengono di demandare a n. .......................... (1) l’accertamento e/o la valutazione qualitativa e/o quantitativa dello stato dei luoghi, della consistenza, qualità, condizione di beni (o di cose) riguardanti il presente contratto (2). Per quanto riguarda la designazione dei periti, le parti espressamente si obbligano ad attenersi al regolamento della Camera Arbitrale Immobiliare istituita presso la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna che dichiarano di conoscere e di accettare. Le parti si impegnano sin da ora a riconoscere alla determinazione peritale gli stessi effetti di un contratto tra esse direttamente pattuito. (1) Precisare se si intende rimettere l’accertamento ad un solo perito o a più periti: in questa seconda ipotesi il numero dei periti deve essere dispari. (2) Specificare l’oggetto dell’accertamento e/o della valutazione. 62 © Copyright - Giuffrè Editore Invero, essa è prevista in funzione di un accertamento rigorosamente tecnico (valutazione qualitativa e/o quantitativa) di elementi di fatto (luoghi, beni o cose) oggetto di un determinato contratto; accertamento che non è determinazione (nel senso espresso dall’art. 1349 c.c.), giacché qua il contratto è completo, il rapporto giuridico è perfezionato (e preesistente), e occorre effettuare una valutazione, vincolante tra le parti, in fase (almeno) esecutiva. Si noti bene che il contrasto è sulla questione tecnica, la quale comunque rileva nell’ambito del rapporto giuridico contrattuale di riferimento, poiché incide sui diritti da esso derivanti. Pare, peraltro, che le clausole-tipo appena analizzate concepiscano, come ipotesi per così dire standard di perizia contrattuale, i c.d. arbitrati sulle qualità (36). Proseguendo in questo iter empirico, è importante considerare la niente affatto scarsa diffusione di clausole per perizia contrattuale nell’ambito dei contratti di assicurazione (in particolare, polizze infortuni o polizze relative a danni cagionati da varie tipologia di sinistri, per es. incendio). E un punto di partenza fondamentale, in tale prospettiva, è dato dal rilievo che la quasi totalità delle pronunce giurisprudenziali (di merito e di legittimità) sono intervenute in casi di controversie relative all’applicazione di perizie derivanti da clausole contenute proprio in contratti di assicurazione. Volendo prendere a modello esemplificativo le condizioni generali UNIPOL (contratto di assicurazione multirischi dell’abitazione) (37), qui la perizia contrattuale è prevista nell’ambito della liquidazione dei sinistri per incendio, furto e rapina. All’art. 2.3, in particolare, è previsto che « l’ammontare del danno e la determinazione dell’indennizzo può essere concordato direttamente dalle parti, oppure, di comune accordo tra di esse, mediante periti nominati uno dalla società e uno dal contraente con apposito atto unico. I periti ne eleggeranno un terzo nel caso in cui non trovassero l’accordo e le decisioni saranno prese a maggioranza. (...) ». Successivamente viene specificato il contenuto del mandato conferito ai periti. Essi, in particolare, devono: accertare causa, natura e modalità del sinistro; verificare l’esattezza delle indicazioni e delle dichiarazioni risultanti dalla polizza e stabilire se al momento del sinistro esistevano circostanze aggravanti il rischio non dichiarate nonché verificare se l’assicurato ha adempiuto agli obblighi di denuncia del sinistro; verificare separatamente, per ciascuna partita colpita da sinistro, l’esistenza, la qualità, la quantità delle cose assicurate, determinandone il valore al momento del sinistro secondo i criteri di valutazione previsti dalla forma di assicurazione e dal tipo di garanzia risultanti dalla scheda di polizza; procedere alla stima del danno secondo i criteri previsti dal tipo di garanzia prescelta. (36) (37) Cfr. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2011, V, 133. Reperibile in www.unipolassicurazioni.it. 63 © Copyright - Giuffrè Editore È inoltre disposto che i risultati delle ultime due attività tecniche sopra elencate sono vincolanti tra le parti, salva l’impugnativa per violenza, dolo, errore e violazione di patti contrattuali, e impregiudicata in ogni caso ogni azione ed eccezione inerenti l’indennizzabilità del danno (ossia concernenti l’an del diritto risarcitorio). Norme contrattuali come quelle appena analizzate, invero, si ritrovano anche in altre polizze, magari con piccole variazioni in ordine agli elementi di fatto ad alto tasso di tecnicità sui quali può estendersi l’attività peritale (38) Ora, il caso della perizia in ambito assicurativo è emblematico: tra le parti è operante un contratto, perfezionato e completo in tutti i suoi elementi; tale contratto costituisce un rapporto giuridico, consistente in reciproci diritti ed obblighi, i quali rappresentano i tipici effetti giuridici prodotti dal negozio; tra tali effetti tipici rientra l’obbligo per l’assicuratore di liquidare un danno coperto dalla garanzia ricompresa nella polizza; sicché, quando interviene un sinistro e s’invoca il diritto al risarcimento, si è nella fase esecutiva del contratto di assicurazione; in tale contesto, se le parti non addivengono ad un accordo e occorre accertare alcuni elementi, di particolare pregnanza tecnica, significa che rispetto ad essi, i quali — è bene ripeterlo — incidono sull’esistenza e/o modo di essere di situazioni giuridiche derivanti dal contratto, vi è una controversia. Dunque pure qua, come nel caso degli arbitrati sulle qualità, l’accertamento tecnico serve a superare un contrasto, rispetto ad una questione o un elemento rilevante per l’esistenza o il modo di essere di un diritto, che interviene nella fase di esecuzione di un rapporto giuridico preesistente. 6. Sempre proseguendo con un metodo casistico, pare utile rilevare che, nei (pochi) casi in cui la Cassazione ha individuato la perizia contrattuale come ipotesi di integrazione (del contenuto) di un contratto, invero la controversia muoveva da fattispecie negoziali ove al terzo veniva demandata una valutazione tecnica vincolante che valesse come base per la determinazione della prestazione contrattuale. Sennonché, almeno dal tenore dei patti in questione, mancavano espressi riferimenti a perizie contrattuali. Si chiedeva una valutazione tecnica al fine di stabilire il contenuto della prestazione (39). In altre parole, in tali (non frequenti) situazioni era controversa pure l’individuazione della fattispecie. E la S.C. ha optato per la perizia contrattuale in luogo dell’arbitraggio, spiegando la differenza, come si è (38) Cfr. BOVE, La perizia arbitrale, cit., 4 e 5, il quale riporta le condizioni generali per le polizze infortuni, danni da incendio e furto del Lloyd Italico, le quali ripetono le condizioni ANIA. (39) Si tratta dei casi decisi dalle già citate sentenze di cui a Cass. 30 giugno 2005, n. 13954, cit. e a Cass. 11 novembre 2008, n. 26946, cit. 64 © Copyright - Giuffrè Editore già segnalato, in ciò, che nel caso di responsi tecnici non si applica il 1349 c.c. in quanto quest’ultima norma opera laddove al terzo si chieda di determinare un elemento di un contratto con equo apprezzamento ovvero con mero arbitrio, criteri inconcepibili in sede di determinazione tecnica. D’altro canto, come si è cercato in precedenza di dimostrare, la prassi delle relazioni giuridico-commerciali conosce la perizia contrattuale come strumento di composizione di contrasti, ancorché esclusivamente tecnici. Nei casi ove la Suprema Corte ha riscontrato l’operatività di una perizia in luogo di un arbitraggio, in realtà, ben si poteva immaginare la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 1349 c.c., con la peculiarità che in tali casi l’accertamento richiesto, pur sempre finalizzato alla determinazione della prestazione da dedurre nel contratto per completarne il contenuto, si caratterizzava per un’elevata dose di tecnicità, sicché in sostanza si trattava di incidere sulla disciplina applicabile, adattando alle particolarità dell’attività peritale il meccanismo dell’arbitraggio con equo apprezzamento e la regolamentazione del regime del relativo responso. Anche la copiosa dottrina, la quale sostiene la tesi contraria all’autonomia della perizia (potendo questa integrare un arbitraggio ovvero un arbitrato), ritiene che nelle ipotesi di accertamento tecnico volto al completamento di un contratto non ci si trovi dinanzi ad una perizia contrattuale ma ad un arbitraggio tecnico (40). Del resto, da più parti si è segnalato che il perito tecnico-arbitratore, pur dovendo attenersi a regole scientifiche, può mantenere un minimo di discrezionalità; e così l’arbitratore, per determinare l’elemento contrattuale, può dover far ricorso a cognizioni tecniche (41). Non sembra, dunque, assurdo concepire l’esistenza di un arbitraggio altamente tecnico, ammettendo al più che tale conformazione si rifletta sul regime del responso, non potendo questo essere impugnato per iniquità ma per erroneità (42). Perizia contrattuale e arbitraggio integrano due fenomeni distinti, risolvendosi la prima in un’attività di accertamento (tecnico) (43) e caratterizzandosi il secondo per la sua funzione dispositiva; la prima interviene al posto del giudice in sede di accertamento di una o più questioni relative ad una certa controversia giuridica, il secondo interviene in luogo dei contraenti stessi (44). (40) Cfr. DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 216, ove si esprime in termini di « arbitraggio di precisione », portando ad esempio il caso del contratto per la costruzione di un’opera (sommariamente descritta), la quale richiede le prestazioni di un esperto a cui viene dato l’incarico di redigere il progetto, considerato parte integrante dell’accordo. (41) V. ancora DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 215-216. (42) DIMUNDO, L’arbitraggio, cit., 216. (43) L’accertamento vincolante può avere ad oggetto anche soltanto fatti. In questo senso, con riferimento al negozio di accertamento, si veda l’analitica ricostruzione di FORNACIARI, cit., 336-337 e, sull’accertamento giuridico in generale, 216-218. (44) BOVE, La perizia arbitrale, cit., 154-155. 65 © Copyright - Giuffrè Editore 7. Sulla base della sommaria analisi delle diverse tesi proposte nel corso degli anni e della (breve) indagine di tipo casistico, pare dunque potersi affermare che la perizia contrattuale rappresenta un istituto finalizzato a comporre, in maniera vincolante, una controversia tecnica. Inoltre il contrasto si riferisce ad una questione (tendenzialmente di fatto) rilevante per l’esistenza o il modo di essere di una situazione sostanziale, sicché l’accertamento è richiesto sempre nel contesto di un rapporto giuridico preesistente tra i litiganti. Ora, un siffatto meccanismo, con incarico a soggetti terzi, peraltro scelti in ragione della loro competenza tecnico-scientifica, della soluzione di un contrasto (tecnico), evoca senza dubbio lo schema dell’arbitrato. Si tratta a questo punto di stabilire se il modello di riferimento sia l’arbitrato rituale di cui agli artt. 806 ss. c.p.c., oppure l’arbitrato irrituale (o libero), ora disciplinato all’art. 808 ter c.p.c. (45) Come si è accennato, il diritto vivente, frutto della copiosa e annosa produzione giurisprudenziale, tende ad accostare il fenomeno della perizia contrattuale all’arbitrato libero, pur sottolineando la differenza di oggetto e di contenuto dell’attività del terzo incaricato di risolvere il contrasto (46). 8. Una volta tentato di definire, in maniera auspicabilmente esaustiva, il profilo concettuale della perizia, avendo quindi ben presenti le difficoltà (45) Partendo dall’assunto in base al quale nell’arbitrato non ci si deve conformare ad esigenze di economia processuale come nel processuale statuale, essendo questo uno strumento a carico dello Stato, al contrario di quello, mezzo legittimato dall’autonomia privata, BOVE, La perizia contrattuale, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di composizione delle liti, cit., giunge alla conclusione, che invero poi risulta il punto di partenza della sua riflessione, che l’oggetto del giudizio arbitrale può anche essere una questione di fatto (o di diritto). L’A. ritiene quindi la perizia contrattuale un arbitrato ad oggetto più « piccolo »; in particolare, riconduce l’istituto all’arbitrato rituale, onde si applicano alla perizia le norme ex artt. 806 ss. c.p.c., fatta eccezione per quelle la cui operatività suppone un oggetto del processo arbitrale « ampio » (ossia, un diritto soggettivo disponibile); della medesima idea circa la possibilità di attivare un giudizio arbitrale chiedendo l’accertamento di una mera questione, riconduce la perizia a fenomeno arbitrale anche LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 672 ss.; la perizia è istituto strutturalmente riconducibile all’arbitrato irrituale per CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 23 e 158, ove l’A. rileva la compatibilità dello strumento peritale con un’attività di risoluzione di una questione non già di fatto, bensì di diritto (si porta l’esempio dei c.d. arbitrati interpretativi). (46) Arresto di riferimento, in questo senso, è una decisione nella quale la Cassazione si esprime in questi termini: « la perizia contrattuale, con la quale le parti deferiscono ad uno o più terzi, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito di formulare un apprezzamento tecnico che esse si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà negoziale, si inserisce in una fattispecie negoziale diretta ad eliminare, su basi transattive o conciliative, una controversia insorta tra le parti, mediante mandato conferito ad un terzo, così come avviene nell’arbitrato libero, dal quale si differenzia per il diverso oggetto del contrasto, che attiene ad una questione tecnica, e non giuridica (come nell’arbitrato libero), ma non per gli effetti, dato che in entrambi il contrasto è superato mediante la creazione di un nuovo assetto di interessi dipendente dal responso del terzo, che le parti si impegnano preventivamente a rispettare », Cass. 30 marzo 1995, n. 3791, in Rep. giust. civ., 1995, « Compromesso e arbitrato », n. 103; Per arresti conformi, cfr. GABRIELLI, Il contratto di arbitraggio, in GABRIELLI - LUISO (coord.), I contratti di composizione delle liti, cit., 1156, nota 41. La perizia rientra nell’ambito dell’arbitrato irrituale anche per CURTI, L’arbitrato, Milano, 2006. 66 © Copyright - Giuffrè Editore ricostruttive del fenomeno in parola, al fine di tracciare la disciplina applicabile all’istituto occorre in primo luogo muovere dal diritto vivente, non senza trascurare, soprattutto con riferimento ad aspetti per così dire lasciati scoperti, i contributi della dottrina. Mancando una regolamentazione espressa, l’ottica potrebbe essere quella di ordinare le varie questioni rilevanti, così come affrontate in primo luogo dalla giurisprudenza, secondo una successione logica. 8.1. Il fenomeno oggetto del presente contributo consiste, invero, in un meccanismo complesso, che origina da un patto tra i soggetti in conflitto e si esaurisce, salvi eventuali profili d’impugnazione del suo prodotto, con l’emanazione di un atto da parte dei periti, mediante il quale essi risolvono il contrasto tecnico. In senso stretto, è quest’ultima determinazione la vera e propria perizia. Tuttavia, il fenomeno deve necessariamente essere studiato nel suo complesso. L’accordo, mediante il quale le parti stabiliscono che, in caso di contrasto circa una questione la cui soluzione richiede specifiche competenze tecniche, la determinazione sia assunta da un perito (per così dire monocratico ovvero collegiale) come diretta espressione della loro volontà, il più delle volte è inserito in una clausola contrattuale. Onde risultano applicabili, per esempio con riferimento ai profili ermeneutici della clausola stessa, le norme dettate dal codice civile in materia di contratti. Non risulta che sia stato espressamente affrontato il problema della necessità della forma scritta, la quale peraltro è adesso testualmente prevista per il patto compromissorio irrituale dall’art. 808 ter, comma 1, c.p.c. Un aspetto di sicuro rilievo concerne l’esatta individuazione di una clausola per perizia contrattuale. Infatti, occorre valutare se la pattuizione sia volta a conferire al terzo l’incarico di risolvere una controversia giuridica ovvero una o più questioni tecniche (comunque rilevanti nell’ambito di un rapporto giuridico preesistente). Non sempre a tal fine le indicazioni risultano chiare, sicché spesso si rivela necessario fare ricorso alla disciplina che il codice civile detta con riguardo alla interpretazione del contratto (artt. 1362-1371). Che vi si giunga direttamente, mercé una chiara e precisa redazione della clausola, oppure indirettamente, ossia mediante l’ausilio delle regole di ermeneutica negoziale, il risultato deve essere nel senso che con tale clausola le parti hanno voluto devolvere al terzo la soluzione di un problema tecnico, restando escluse tutte le altre questioni rilevanti nel rapporto giuridico. Così, un patto, per mezzo del quale si deferisce al terzo 67 © Copyright - Giuffrè Editore la soluzione dei problemi relativi all’interpretazione, validità ed esecuzione del contratto base, non dà origine ad una perizia ma ad un arbitrato (47). D’altro canto, allorché le parti pattuiscono che il terzo sia incaricato soltanto di decidere, mediante un accertamento sostitutivo della loro volontà, una questione tecnica (ad esempio il quantum di un pregiudizio), la clausola così predisposta integra, o per meglio dire è alla base di una perizia contrattuale, onde le ulteriori e diverse questioni concernenti il diritto (si pensi agli altri profili relativi all’an o al modo di essere del diritto all’indennizzo) sono sottratte all’attività peritale o comunque rispetto ad esse il vincolo del responso non si produce. Non sempre è agevole ricavare, dal tenore di una clausola, l’incarico di espletare una perizia o un arbitrato, perché può succedere che il patto concepisca bensì una questione di elevata pregnanza tecnica, ma accanto a questa contempli anche l’accertamento di profili dai quali può dipendere la sussistenza del diritto nascente dal rapporto intercorrente tra le parti (48). Il contrasto oggetto di clausola per perizia contrattuale e poi risolto dal perito deve avere ad oggetto una o più questioni tecniche; non è escluso che vi possa essere contrasto anche in ordine ad altri profili del rapporto, ma essi, se non sono tecnici e non sono inseriti nella clausola, possono essere superati mediante ricorso alle vie ordinarie. Può succedere che le parti conferiscano al terzo la soluzione di una controversia giuridica ma la contestazione cada solo su una questione tecnica. In un siffatto caso siamo comunque di fronte ad un arbitrato, giacché ciò che rileva è l’ambito della decisione, non quello della cognizione. Pare potersi ritenere che non valga, per il patto peritale, il principio di autonomia, desumibile dalla prima parte del comma 3 dell’art. 808 c.p.c., in tema di clausola compromissoria: la validità di quest’ultima deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce. (47) Cass. 10 maggio 2007, n. 10705, cit.; Cass. n. 13954 del 2005, cit.; occorre aggiungere che, in assenza di specificazione in favore dell’irritualità, la scelta delle parti dovrà ritenersi indirizzata all’arbitrato rituale, giacché l’art. 808 ter ha sovvertito il principio sostenuto dalla giurisprudenza fino alla riforma del 2006, ossia che, in caso di dubbio sul tenore della clausola, l’arbitrato deve ritenersi irrituale. Per questi profili Cfr., per tutti, BIAVATI, Arbitrato irrituale, in CARPI (coord.), Arbitrato, Bologna, 2007, 170-171. (48) Cass. n. 10705 del 2007, cit.: « né appare ravvisabile nella clausola in discorso una perizia contrattuale, (...), atteso che il complesso delle attività demandate ai periti, con particolare riferimento al controllo dell’adempimento da parte dell’assicurato o del contraente degli obblighi previsti nelle condizioni generali di polizza e nelle clausole del contratto, che il collegio era quindi tenuto ad aver presenti nell’espletamento del mandato, induce ad argomentare che ad esso non fosse semplicemente richiesto un accertamento circa l’entità del danno denunciato, ma anche un giudizio sulla sussistenza delle condizioni per la liquidazione di esso ». 68 © Copyright - Giuffrè Editore Benché tale principio operi anche rispetto all’arbitrato irrituale (49), è evidente che, non contemplando la clausola peritale tutte le possibili controversie derivanti dal contratto (comprese quelle circa la validità e l’efficacia di quest’ultimo), se viene meno il contratto cade anche il patto peritale. È da registrare, in giurisprudenza, un contrasto intorno alla vessatorietà della clausola per perizia contrattuale. Il c.d. codice del consumo (D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) all’art. 33, comma 2, stabilisce che, nel contratto tra professionista e consumatore, si considerano vessatorie, fino a prova contraria (che può essere data dimostrando, ad esempio, la trattativa individuale sulla clausola ex art. 34. Comma 4), le clausole che hanno per oggetto o per effetto, tra l’altro, di « sancire a carico del consumatore (...) deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria » (art. 33, comma 2, lett. t) (50). Per una cospicua parte della giurisprudenza di merito, la clausola per perizia contrattuale è vessatoria poiché deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria, ma non intesa in senso tecnico, bensì come mera possibilità di chiedere la tutela dei diritti dinanzi al giudice statuale. La disciplina a tutela del consumatore deve essere interpretata alla luce degli scopi prefissati dalla normativa comunitaria di riferimento (51), la quale assicura al soggetto debole del mercato la possibilità di chiedere giustizia agli organi statuali, senza che possa vedersi imposto il ricorso a forme alternative come l’arbitrato (di cui la perizia contrattuale altro non è che una species). Il nuovo art. 819 ter c.p.c. sembra porre arbitri e giudici in rapporto di competenza in senso tecnico solo con riguardo alla modalità rituale, ma la normativa europea, invero, non contempla la competenza, ai fini della tutela del consumatore, in una tale accezione. Peraltro, la dichiarazione di nullità della clausola è evitabile laddove venga dimostrata la specifica trattativa tra le parti (52). Ancora, la natura vessatoria del patto per perizia contrattuale deve necessariamente sottostare alla disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. Per quanto qui interessa, le due norme, ciascuna al proprio comma 2, nell’ambito, rispettivamente, delle condizioni generali di contratto e dei contratti conclusi mediante moduli e formulari, prevedono che non hanno efficacia, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, tra l’altro, clausole compromissorie o deroghe alla com(49) ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 806, in MENCHINI (coord.), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 51; DE NOVA, Nullità del contratto e arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 404 ss. (50) Per l’arbitrato irrituale è stata anche data rilevanza alla lett. b), laddove è vessatoria la clausola che ha per oggetto o per effetto di « escludere o limitare le azioni (...) del consumatore (...) ». Cfr. sul punto ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 806, cit., 53 (51) In particolare la direttiva CE 93/13 in materia di clausole abusive. (52) Tra le altre, Trib Mantova 24 settembre 2010, in www.ilcaso.it 69 © Copyright - Giuffrè Editore petenza dell’autorità giudiziaria. Ora, dato che la Cassazione (53) ha riconosciuto la natura di merito dell’exceptio compromissi rituale, ricostruendo l’arbitrato codicistico come fenomeno negoziale al pari dell’arbitrato libero, sarebbe logico desumerne che il comma 2 dell’art 1341 c.c., allorché si esprime in termini di « deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria », non si riferisce all’arbitrato rituale come ritenuto precedentemente. Sennonché, di recente, ha cominciato a prendere quota una lettura dei rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, sulla base dell’impianto normativo predisposto dalla riforma del 2006, che pare avvicinarsi a quella assestatasi prima della svolta « privatistica » delle Sezioni Unite del 2000 (54). Invero, nel corso del 2013, sia la Corte costituzionale (55), sia la Cassazione (56), hanno avuto modo di (ri)affermare la natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale, considerando tale strumento come sostitutivo della giustizia pubblica e idoneo al raggiungimento di un « risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale ». Sicuramente la specifica sottoscrizione, in caso di controversia devoluta ad arbitri, deve investire le « condizioni che sanciscono (...) clausole compromissorie », ciò valendo sia per l’arbitrato rituale sia per l’arbitrato irrituale. Inoltre allo stesso regime è sottoposta anche la clausola per perizia contrattuale, essendo questa istituto assimilabile, ancorché diverso nei contenuti, all’arbitrato libero (57). Senza contare che, mediante la predisposizione di una procedura alternativa alla giurisdizione, la parte affronta costi e oneri, pertanto deve essere posta in grado di conoscere e di approvare specificamente la clausola (vessatoria) (58). Tuttavia, per il Giudice della legittimità, la clausola per perizia (53) Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss., con nota di RICCI, La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite; in Corr. giur., 2001, 51 ss., con note di CONSOLO, RUFFINI e MARINELLI; in Il foro padano, 2002, 34 ss., con nota di RUBINO SAMMARTANO, Vittoria di tappa - Arbitrato irrituale come processo: un sogno impossibile?; in questa Rivista, 2000, 704 ss., con nota di FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato; Ma si veda il nuovo art. 819 ter c.p.c., come riformato dal D.lgs n. 40 del 2006, laddove dispone che « la sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione di arbitrato, è impugnabile a norma degli articoli 42 e 43. L’eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta ». Sul punto Cfr., ex multis, RUFFINI, Art. 819 ter, in MENCHINI (coord.), La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 364 ss. (54) Sull’orientamento precedente la pronuncia delle Sezioni Unite cfr., per tutti, RUFFINI, cit., 368. (55) Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223, in Dir. e giust., 2013, 22 luglio, con nota di VALERINI. Con tale decisione il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del’art. 819 ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 c.p.c. (56) Cass. civ., sez. un., ord. 25 ottobre 2013, n. 24153, in Mass. giust. civ., 2013. (57) Trib. Nola 2 febbraio 2010, in www.iussit.eu. (58) Trib. Nola 2 febbraio 2010, cit. 70 © Copyright - Giuffrè Editore contrattuale non è vessatoria, in quanto non determina uno squilibrio tra le parti; né ha carattere compromissorio o comunque derogativo della competenza giurisdizionale, sicché non soggiace alla disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. (59) 8.2. « Tanto l’arbitrato irrituale (o libero), quanto la perizia contrattuale sono caratterizzati dal conferimento agli arbitri o ai periti di un mandato per una definizione negoziale, che nel primo caso attiene all’intera controversia, mentre nel secondo caso attiene solo ad un apprezzamento tecnico. Ne consegue che (...) nella fattispecie [è] applicabile l’art. 1727 c.c., per cui il mandatario che rinunzia senza giusta causa al mandato deve risarcire i danni al mandante » (60). In questi emblematici termini si è espressa la Suprema Corte — ribadendo peraltro quanto già ampiamente riportato in ordine al rapporto tra perizia e arbitrato libero — per descrivere, in poche righe, la figura contrattuale di riferimento per inquadrare il rapporto tra le parti e i periti (o gli arbitri). Lo schema è quindi quello del mandato (61). Per tutto ciò che attiene al « percorso » mediante il quale i periti giungono al responso, la prima sede d’individuazione di eventuali regole procedurali è la clausola. È qui che occorre rilevare possibili indicazioni circa la nomina dei periti e le regole ai quali essi devono attenersi nell’espletamento dell’incarico loro conferito (62). In mancanza di chiare e precise formulazioni, per quanto concerne la nomina, la Suprema Corte, in particolare a far data dal noto arresto con il quale è stata propugnata la teoria negoziale anche dell’arbitrato rituale (63) (con conseguenziale avvicinamento delle due figure di arbitrato dal punto di vista delle norme applicabili), sembra ammettere l’operatività anche alla perizia contrattuale dell’art. 810, comma 2 c.p.c., il quale, in caso di inerzia delle parti, consente, a quella di esse interessata, di presentare istanza di nomina al presidente del tribunale (64). (59) Cass. 2 febbraio 2006, n. 2277, in Mass. giust. civ. 2006, 2; Cass. 17 dicembre 2010, n. 25643, in questa Rivista, 2010, 4, 687, con nota di BOVE; per la vessatorietà della clausola per perizia contrattuale cfr. GALATI, « Contratti di assicurazione, perizia contrattuale e clausole abusive », in I contratti, 5/2007. Per Cass. 5 settembre 1992, n. 10240, in Foro italiano, 1992, I, 3298 ss., non è soggetta alla disciplina ex artt. 1341 e 1342 la clausola compromissoria per arbitrato irrituale. (60) Cass. 24 maggio 2004, n. 9996, cit. (61) Per una trattazione più approfondita circa il rapporto parti-arbitri si rimanda a CECCHELLA, L’arbitrato, cit., passim. (62) Così, ad esempio, i paciscenti possono stabilire che il terzo sia designato dal presidente del tribunale, salvo il rispetto da parte di quest’ultimo dei requisiti previsti nel patto per la scelta del perito, pena l’invalidità della perizia. Cfr. in questo senso Cass., sez. III, 14 marzo 2013, n. 6554, in Mass. giust. civ., 2013. (63) Cass. Sez. Un. 527 del 2000, cit. (64) Cass. 13 aprile 1999, n. 3609, la quale afferma in via diretta che in punto di nomina 71 © Copyright - Giuffrè Editore La riconducibilità strutturale della perizia all’arbitrato libero, a sua volta avvicinato, come poco sopra rilevato, all’arbitrato rituale, ha portato la Cassazione a ritenere applicabile al fenomeno peritale gli artt. 2943, comma 4 e 2945, comma 4. Dunque l’atto mediante il quale viene manifestata l’intenzione di avviare la procedura peritale e viene nominato il perito è idoneo a interrompere, anche permanentemente, il termine di prescrizione del diritto (65). Più di recente la giurisprudenza ha affermato che, rendendo il patto peritale improponibile qualunque domanda avente ad oggetto diritti derivanti dal rapporto preesistente, la prescrizione rimane sospesa sino all’esaurimento dell’attività peritale, dovendosi comunque denunciare il sinistro (in ipotesi di contratto di assicurazione) entro un anno dall’evento dannoso (66). In breve, circa la differenza tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale, il discorso di fondo è che i due strumenti si distinguono, soprattutto, perché con il secondo si vuole giungere, senza tutte le formalità di procedura prevista dal codice di rito, ad un lodo avente efficacia contrattuale, anziché produttivo di effetti equipollenti a quelli della sentenza e sottoposto ad un peculiare regime d’impugnativa. Ad ogni modo, pare che requisito imprescindibile dell’arbitrato libero sia il rispetto del principio del contraddittorio (67). Analogo rilievo sembra potersi avanzare anche con riferimento alla perizia contrattuale, essendo questa finalizzata a comporre un contrasto, ancorché soltanto tecnico, ma pur sempre rilevante nell’ambito dello svolgimento di un rapporto giuridico (68). Ovviamente, all’atto della decisione le uniche regole che i periti dovranno rispettare sono quelle proprie del settore tecnico-scientifico la cui conoscenza è necessaria per la soluzione del contrasto. Non pare azzardato affermare che altre regole di disciplina possono essere, per così dire, prese in prestito, nei limiti della compatibilità, dal sistema normativo, anche come ricostruito in via interpretativa, delle figure negoziali di riferimento: l’arbitrato irrituale e il mandato. 8.3. La perizia contrattuale deve necessariamente produrre due efdei periti non si applica l’art. 810, comma 1, giacché la notifica a mezzo di ufficiale giudiziario dell’atto contenente la nomina degli arbitri è prevista solo per l’arbitrato rituale, vigendo a favore alle parti, che abbiano optato per un arbitrato irrituale, ampia libertà negoziale, sicché tale disposizione è niente affatto inderogabile. Per un ricostruzione critica della giurisprudenza sulle norme previste per l’arbitrato rituale e ritenute applicabili ovvero non applicabili all’arbitrato libero, Cfr. CECCHELLA, L’arbitrato, cit., 98 e, soprattutto, 136 ss. (65) Cass. 5 dicembre 2001, n. 15410, in Foro it. 2002, I, 723 (66) Cass. 13 marzo 2012, 3961, in Mass. giust. civ. 2012, 3, 329. (67) V. per tutti FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, cit. 583 ss. (68) Per la giurisprudenza il mancato rispetto del contraddittorio rileva, invero, solo se determina un’ipotesi di invalidità, ossia se produce un vizio del consenso. V. infra 8.4 72 © Copyright - Giuffrè Editore fetti: vincolare le parti in ordine all’accertamento tecnico; evitare che sull’elemento oggetto di perizia intervenga il potere cognitivo della giurisdizione. La fattispecie è costruita, come si è ribadito più volte, secondo un meccanismo mediante il quale le parti incaricano i periti di accertare, con un responso che esse considerano sostitutivo della propria volontà, una o più determinate questioni tecniche controverse. Il vincolo sta tutto qui: mediante un atto negoziale, le parti legittimano l’espletamento di un accertamento effettuato da terzi ma comunque riconducibile alla loro volontà. La giurisprudenza costantemente si esprime in termini di « accertamento sostitutivo della volontà delle parti » (69). In ordine al secondo effetto, occorre premettere che, in teoria, ben può non essere necessario porsi il problema di un eventuale effetto impediente della perizia nei confronti della giurisdizione. Infatti, essa può muovere dal presupposto che il contrasto abbia ad oggetto solo la questione tecnica dedotta nel patto, sicché, una volta risolta questa con la via peritale, il rapporto giuridico può ben proseguire lungo i binari di una fisiologica relazione di diritto sostanziale. Evidentemente il problema si pone quando il conflitto nasce (ovvero si estende) relativamente agli altri elementi della fattispecie costituente il rapporto giuridico, così da generare una vera e propria controversia giuridica. Questa, laddove non sia previsto un arbitrato, deve essere risolta dall’autorità giudiziaria, la quale, per accordare la tutela richiesta, dovrà svolgere la cognizione sulla fattispecie costitutiva della situazione sostanziale. Nell’ambito di questa rileva anche la questione tecnica dedotta nel patto per perizia contrattuale. Ora, se già si è esaurita la procedura peritale, il giudice non può far altro che prendere atto dell’esistenza, sul punto, di un atto negoziale (70). (69) In ordine alla possibilità di effettuare un accertamento di fatto per via negoziale, si veda la nota 43. L’A. citato, in particolare alle pagg. 322-326, afferma che la perizia contrattuale si differenzia dall’arbitrato irrituale poiché essa dà luogo ad un accertamento di fatti, mentre l’altro conduce ad un accertamento di situazioni giuridiche soggettive. Entrambi gli strumenti, peraltro, si differenziano dall’arbitraggio, il quale consiste in un’attività determinativa a carattere innovativo, estranea all’accertamento. (70) Nell’ambito di una controversia giuridica, laddove essa sia oggetto di processo dinanzi all’autorità giurisdizionale, può essere che sorga la necessità di effettuare degli accertamenti tecnici. In tal caso l’attività del CTU non vincola affatto il giudice, il quale può, congruamente motivando, discostarsi dalle risultanze peritali (iudex peritus peritorum). Viceversa, nel caso della perizia contrattuale, l’accertamento tecnico è il prodotto di un’attività svolta sul piano dell’autonomia privata e finalizzata a realizzare un nuovo assetto d’interessi di tipo negoziale. Le parti conferiscono ai periti l’incarico di dare un responso che esse stesse considerano vincolante, dunque si realizza una fattispecie negoziale che il giudice non può far altro che, per così dire, recepire (salvo ogni profilo relativo alla validità/efficacia della perizia). È evidente che un siffatto meccanismo è estraneo alla CTU. Rilievi analoghi devono valere anche per il caso della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., ove il vincolo per le parti (e, quindi, per il giudice) nasce, invero, nel momento in cui in sede peritale è raggiunta la conciliazione. 73 © Copyright - Giuffrè Editore Se invece, nella fase processuale dinanzi al giudice, la perizia non è ancora stata attivata ovvero è in fase di svolgimento, evidentemente all’autorità è sottratto il potere di decidere in ordine al diritto oggetto di giudizio senza prima aver atteso il responso peritale. Sul punto il quadro in giurisprudenza non appare molto chiaro. Invero, l’idea di fondo è che la previsione della perizia per l’accertamento tecnico comporta una temporanea rinuncia alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal contratto-base, sicché la domanda giudiziale risulta improponibile sino alla definizione dell’attività peritale. Solo che, secondo una prima ricostruzione, tale improponibilità coinvolgerebbe qualsivoglia domanda relativa a diritti contrattuali, non assumendo pertanto alcun rilevo la qualificazione della domanda giudiziale eventualmente proposta (71); viceversa, per un orientamento sviluppatosi nella Cassazione più recente, non sarebbero precluse azioni giurisdizionali finalizzate all’accertamento di questioni preliminari di merito (validità del contratto, operatività della garanzia assicurativa, e così via), incidenti quindi sull’an del diritto contrattuale (72). Anche nella giurisprudenza di merito si nota un certo contrasto, tuttavia in questo ambito sembra prevalere l’idea secondo la quale non sarebbero affatto precluse, in mancanza o nel corso del procedimento peritale, domande vertenti su questioni estranee alla clausola che istituisce la perizia, ossia su questioni (quali quella sull’an del diritto) che si pongono come preliminari rispetto alla questione di fatto oggetto di perizia (ad esempio, il quantum) (73). Secondo la giurisprudenza più recente della Suprema Corte, con particolare riguardo ai contratti di assicurazione, la clausola per perizia contrattuale inibisce tutte le azioni derivanti dal contratto, salvo che venga contestata l’operatività della garanzia. Attivato peraltro un processo giurisdizionale sul diritto, la presenza della clausola deve essere fatta valere mediante un’eccezione di merito in senso stretto, essendo per tale profilo la perizia contrattuale equiparata all’arbitrato irrituale (74). Tentando di voler concludere sul punto, il rilievo da ultimo riportato può essere proiettato su un piano più generale: evidentemente occorre valutare il punto di contrasto tra le parti; la controversia può essere soltanto tecnica (ossia sull’elemento oggetto di patto peritale) oppure coinvolgere anche altre questioni, ponendosi come vera e propria contro- (71) Per tutte, Cass. 22 maggio 2007, n. 11876, in Resp. civ. e prev., 2007, 11, 2438. (72) Cass. 18 gennaio 2011, n. 1081, cit. (73) Trib. Bari 18 novembre 2008, in giurisprudenzabarese.it 2008; Trib. Lucca 12 febbraio 2001. (74) Cass. 13 marzo 2012, 3961, cit. 74 © Copyright - Giuffrè Editore versia giuridica la cui soluzione richiede la cognizione (anche) dell’elemento oggetto di perizia, ed allora la domanda giudiziale, mutuando la terminologia giurisprudenziale, è provvisoriamente improponibile; il contrasto, viceversa, può riguardare altri profili (del rapporto preesistente), il giudizio sui quali può non richiedere affatto una cognizione dell’elemento dedotto nella clausola peritale, onde in tal caso la domanda giudiziale risulta proponibile. Così, se nella fase esecutiva di un contratto a prestazioni corrispettive, nel quale è inserita una clausola peritale volta a deferire al terzo l’accertamento della corrispondenza del bene consegnato alla qualità promessa, una parte risulta totalmente inadempiente, evidentemente non si crea l’occasione per l’espletamento della perizia, pertanto diviene pienamente esperibile dinanzi all’autorità giudiziaria la domanda di risoluzione. Lo si è già rilevato, ma occorre ribadire quanto segue: nell’ambito di un determinato rapporto giuridico (il più delle volte) contrattuale, con effetti e sviluppi di notevole pregnanza tecnica, è ben possibile che le parti ricorrano ad un patto peritale, magari ritenendo che solo sull’elemento tecnico possa sorgere un contrasto (75). Con ciò esse tendono ad una soluzione del conflitto più rapida e più affidabile. Non si può escludere, però, che la controversia si estenda agli altri aspetti del rapporto, insomma che si presenti come vera e propria controversia giuridica. Il vincolo derivante dal patto peritale resta fermo, ma si pone il problema, affrontato come si è testé riportato dalla giurisprudenza, di un eventuale impedimento all’esperibilità di una domanda al giudice statuale (76). 8.4. La perizia contrattuale è un fenomeno arbitrale (irrituale) (77). L’arbitrato irrituale può essere ritenuto, come l’arbitrato rituale, un istituto di matrice processuale, solo che, a differenza del secondo, il primo conduce ad un atto avente gli effetti e il regime di un contratto. Sicché la perizia contrattuale è un arbitrato irrituale « ristretto », giacché il suo oggetto è costituito da una o più questioni (normalmente di (75) Invero, quando il contrasto concerne solo la questione tecnica, non si può escludere che il patto peritale venga stipulato successivamente, senza essere contenuto in una specifica clausola contrattuale. (76) Da segnalare la tesi di BOVE, La perizia arbitrale, cit., 195 ss., secondo la quale, esperita domanda giudiziale, laddove il giudice accerti l’impedimento alla trattazione della questione tecnica in quanto oggetto di patto per perizia contrattuale (non espletata ovvero in fase di svolgimento), il provvedimento da adottare è l’ordinanza di sospensione (propria) di cui all’art. 295 c.p.c. (77) Sulla processualità dell’arbitrato irrituale FAZZALARI, L’arbitrato, cit.; BIAVATI, Arbitratrato irrituale, cit., 164 ss., alla luce del nuovo art. 808 ter c.p.c., è ancora più evidente la processualità dell’arbitrato libero per SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa Rivista, 2007; contra BOVE, Art. 808 ter, cit. 75 © Copyright - Giuffrè Editore fatto) di elevata pregnanza tecnica. Non può essere un arbitrato rituale, perché questo sfocia in un atto equipollente alla sentenza del giudice statuale (78). La Suprema Corte rileva che il perito, il quale per giungere al responso deve necessariamente utilizzare le proprie specifiche competenze, esprime una dichiarazione di scienza, non godendo di discrezionalità alcuna (79). Il risultato finale è equiparabile a quello che si ottiene mediante un arbitrato a modalità irrituale: un atto che risolve un contrasto con la stessa efficacia di un contratto; un nuovo assetto di interessi di tipo negoziale. Come tale, il responso del terzo e, quindi, il negozio giuridico che si viene a realizzare deve contenere i requisiti essenziali del contratto. In un caso specifico, la Cassazione ha affermato che anche alla perizia contrattuale si applica l’art. 1346 c.c., ai sensi del quale l’oggetto del contratto, oltre che lecito e possibile, deve essere determinato o determinabile. In particolare, secondo la S.C. « la disposizione dell’art. 1346 cod. civ. pone, infatti, una regola di diritto sicuramente applicabile, benché riferita espressamente solo ai contratti, anche agli atti unilaterali (art. 1324 cod. civ.) ed alla perizia contrattuale, che, come, più in generale, il parere reso dagli arbitri (nell’arbitrato libero), non avendo il contenuto decisorio che è proprio del lodo reso nell’arbitrato rituale, agisce (...) nella sfera e con effetti di diritto privato per procedere, in forza dei poteri conferiti dal mandato, ad un regolamento di interessi altrui sul tema in conflitto e per ricollegare alla volontà delle parti il regolamento da essi deliberato con natura ed efficacia di carattere negoziale » (80). Contro il responso del perito sono esperibili i tipici rimedi spendibili avverso gli atti negoziali. È esclusa in radice l’applicazione del regime del lodo rituale, ossia l’impugnazione ai sensi degli artt. 827 e ss. c.p.c. Valgono quindi, anche nei confronti della perizia contrattuale, le cause di nullità (artt. 1418 e ss. c.c.) e di annullabilità (artt. 1425 e ss. c.c.). Con riferimento alle prime, si può, a mero titolo esemplificativo, pensare al caso giurisprudenziale poco sopra riportato: una perizia ad oggetto indeterminato ovvero indeterminabile. Per quanto riguarda i motivi di annullabilità, la giurisprudenza segue le medesime linee direttive tracciate, in parte qua, in relazione all’arbitrato irrituale (81). Dunque la perizia è annullabile per errore (del perito) se questo, ex art. 1428 c.c., è essenziale e riconoscibile e cade su uno degli (78) L’art. 824 bis c.p.c. stabilisce che il lodo ha « gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ». Cfr. CECCHELLA, L’arbitrato, cit. (79) Cass. n. 15410 del 2001, cit. (80) Cass. 12 maggio 2005, n. 10023, in Mass. giust. civ. 2005, 5. (81) V. TARZIA, Nullità e annullamento di lodo arbitrale irrituale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 451 ss. 76 © Copyright - Giuffrè Editore elementi, di cui all’art. 1429 c.c., che le parti abbiano prospettato al terzo. Ciò accade quando l’errore incide sul processo di formazione della volontà del perito, nel senso che egli « subisce » un’alterata percezione o una falsa rappresentazione della realtà, omettendo di considerare alcuni elementi rilevanti, supponendone altri inesistenti, o ritenendo pacifici fatti contestati e viceversa. Rimane esclusa, ai fini dell’annullamento, la possibilità di far valere errori di giudizio o di interpretazione giuridica. Gli eventuali errores in procedendo o in iudicando, che pure si traducano nella violazione del principio del contraddittorio, rilevano in quanto integrino un’ipotesi di invalidità, determinando un vizio del consenso o di risoluzione (82) Ovviamente la perizia è impugnabile anche per dolo o violenza (83) Va inoltre considerato, con particolare riguardo ai contratti di assicurazione, che le polizze spesso prevedono l’impugnazione della perizia per « errore, violenza, dolo, eccesso di mandato e violazione delle condizioni delle norme e i limiti delle condizioni di polizza », cioè mediante il ricorso alle tipiche azioni di annullamento e di risoluzione per inadempimento predisposte per i contratti (84). 9. Probabilmente la giurisprudenza tende ad accostare, almeno per ciò che attiene agli effetti e al regime dell’atto finale, la perizia contrattuale all’arbitrato irrituale (o libero) poiché ha sempre ricondotto quest’ultimo all’ambito dei mezzi di soluzione delle controversie di natura negoziale. L’idea di fondo è sempre stata quella del mandato a un terzo per definire — su basi transattive, conciliative oppure attingendo al paradigma del negozio di accertamento — la lite, mediante un atto direttamente riconducibile alla volontà delle parti. Per contro, l’arbitrato rituale così come modellato dal codice di rito è sempre stato considerato strumento di decisione delle controversie perfettamente alternativo alla giurisdizione, per mezzo del quale i litiganti puntano ad ottenere un atto idoneo, mediante decreto pretorile, ad acquisire i crismi della sentenza giurisdizionale. In seguito le Sezioni Unite hanno affermato la natura negoziale anche dell’arbitrato rituale, costruendo la relativa exceptio compromissi come eccezione di merito (85). Ma si è trattata, al più, di (tendenziale) opera di avvicinamento dell’arbitrato rituale all’arbitrato libero, e non viceversa, onde l’impostazione di fondo circa la modalità irrituale è rimasta intatta. In breve, fino alla riforma dell’arbitrato operata dal D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la giurisprudenza si è mostrata ferma nel distinguere arbitrato (82) (83) (84) (85) Cass. Cass. Cass. Cass. 16 marzo 2005, 5678, in Mass. giust. civ., 2005, 4. n. 13954 del 2005, cit. 27 settembre 2002, in Dir. e prat. delle soc., 2003, 17, 85. Sez. Un. n. 527 del 2000, cit. 77 © Copyright - Giuffrè Editore rituale e irrituale in ciò, che con il primo le parti in lite vogliono la soluzione della controversia mediante un processo (privato) che sfoci in un atto idoneo ad assumere i connotati di una sentenza; con il secondo le parti demandano all’arbitro una composizione del contrasto per mezzo di un atto riconducibile direttamente alla loro volontà. Quest’ultimo modello, nell’ottica della giurisprudenza, ha ispirato anche la prassi delle perizie contrattuali. Sennonché la riforma del 2006 ha profondamente inciso sulla disciplina dell’arbitrato. In particolare, per quanto rileva ai fini del presente scritto, la novità più consistente concerne l’arbitrato irrituale. Esso infatti è stato finalmente previsto e disciplinato espressamente (laddove la sua costruzione storica, soprattutto in termini di arbitrato « libero », va giustificata proprio in ragione dell’assenza di una organica regolamentazione giuridica). Il nuovo art. 808 ter, comma 1, stabilisce infatti che « le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto previsto dall’art. 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo ». È ancora più interessante il disposto del comma 2, il quale dispone che « il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del libro I: 1) se la convenzione d’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; 2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; 3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’articolo 812 c.p.c.; 4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; 5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Al lodo contrattuale non si applica l’art. 825. Come si è segnalato, prima dell’espresso riconoscimento normativo dell’arbitrato a modalità irrituale, il regime del lodo libero era quello tipico del contratto, sottoposto pertanto alle impugnative negoziali. In assenza di riscontri giurisprudenziali, si pone il problema di capire se i motivi d’impugnazione del lodo ex art. 808 ter siano tassativi o meno (86). Avendo la giurisprudenza ante riforma, in punto di impugnabilità (86) Per BOVE, Art. 808 ter, cit., 95-96 nulla impedisce di adottare un’interpretazione permissiva; favorevole alla tassatività dei motivi di annullabilità la dottrina maggioritaria, salvo aggiungere, in alcuni casi, la necessita di estendere i motivi d’impugnazione almeno al dolo dell’arbitro e al travisamento del fatto (Cfr. BIAVATI, Arbitrato irrituale, cit., 1174-1175); per SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, cit., l’art. 808 ter porta ad escludere la possibilità di impugnare il lodo libero per motivi di nullità e per altri motivi di annullabilità, onde l’elenco è 78 © Copyright - Giuffrè Editore della perizia, ritenuto applicabile il regime vigente per il lodo irrituale, in quanto soggetto alla disciplina dei contratti, il vero nodo da sciogliere è se adesso anche la perizia contrattuale sia annullabile per i motivi di cui all’art. 808 ter. Invero, pur riconoscendo l’opportunità di un’approfondita indagine in materia, si potrebbe ritenere che nulla ostacoli una lettura in chiave positiva, che tenga eventualmente conto delle peculiarità “oggettivostrutturali” della perizia. Tuttavia, avendo ben presente l’origine « pratica » della perizia contrattuale e la sua ricostruzione ad opera dei contributi degli studiosi e dei numerosi interventi giurisprudenziali, sembra prudente attendere che si sviluppi, sul punto, un diritto vivente. 10. Tracciare una ricostruzione analitica e sistematica della disciplina applicabile alla perizia contrattuale è operazione niente affatto semplice, non fosse altro perché risulta già poco agevole dare un inquadramento di partenza al fenomeno in parola. Con il presente contributo si è cercato principalmente di « collocare » l’istituto della perizia a livello sistematico; si è preferito poi, dopo aver « fotografato » la fattispecie, dar conto della disciplina applicabile mantenendosi su un piano il più possibile obiettivo, e cioè proponendo una sorta di rassegna dei diversi profili di regolamentazione affrontati dalla giurisprudenza. Prima di concludere si ritiene necessaria una precisazione terminologica. La dottrina che più approfonditamente ha studiato il fenomeno ha utilizzato l’espressione « perizia arbitrale ». In questo scritto si è ritenuta fondata la ricostruzione dell’istituto come mezzo di composizione di un contrasto (tecnico) omologabile all’arbitrato (irrituale), in linea con la giurisprudenza prevalente. Si potrebbe essere tentati, dunque, di proporre pure in questa sede il nomen di perizia arbitrale. Sennonché, ritenendo che il paradigma di riferimento sia l’arbitrato irrituale, e considerando che la riforma del 2006 qualifica il lodo ex art. 808 ter in termini di « determinazione contrattuale », non pare illogico confermare la denominazione più diffusa di « perizia contrattuale ». In this article, the Author reconstructs and analyze the institutional practice of “perizia contrattuale”. It consists in a mechanism through which two subjects commission one or more third parties with specific technical-scientific skills — so called “periti,” field-experts — to verify a relevant technical matter in a legal relationship or a controversy. The verification is considered binding by the parties involved, who consider it a result of their own deliberating will. tassativo ma, anche prendendo spunto dalle vicende che, in parte qua, hanno coinvolto il lodo rituale, non si può escludere l’impugnazione del lodo irrituale per contrarietà all’ordine pubblico. 79 © Copyright - Giuffrè Editore After a description of the main differences between “perizia contrattuale” and arbitration, the Author compares “perizia contrattuale” to arbitration by making reference to the legal doctrine that has produced most in-depth studies of the phenomenon, and to recurring trends in court decisions. Taking court decisions as a departure point, the Author will then draw structural comparisons between perizia contrattuale and arbitration; the two structures differ only with regards to the object of verification. By putting together the insights derived from the evolution of court decisions, the Author will sketch the regulation of the phenomenon in question. The paper will conclude with a presentation of the potentially problematic questions posed by the arbitration reform of 2006, and the anticipation of a rule with regards to irritual arbitration, particularly with reference to the contenstation of “lodo”. 80 © Copyright - Giuffrè Editore GIURISPRUDENZA ORDINARIA I) ITALIANA Sentenze annotate CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 luglio 2013, n. 223; GALLO Pres.; MAZZELLA Est.; A.R. c. R.I. S.r.l. Giudizio arbitrale - Rapporto con il giudizio ordinario - Translatio iudicii Esclusione - Art. 819 ter c.p.c. - Incostituzionalità. È incostituzionale l’art. 819 ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Con ordinanza emessa il 13 novembre 2012 in Bologna nel corso di un arbitrato rituale tra F.F. e la E.C. s.r.l. ed iscritta al n. 38 del registro ordinanze dell’anno 2013, l’arbitro ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 11 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applichino regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile. Il rimettente afferma che, con atto di citazione notificato il 4 marzo 2011 alla E.C. s.r.l., il socio F.F. aveva convenuto in giudizio la predetta società davanti al Tribunale ordinario di Bologna, impugnando la delibera assembleare del 6 dicembre 2010, trascritta in pari data nel libro delle decisioni dei soci. Con sentenza del 13 dicembre 2011, detto Tribunale aveva dichiarato la propria incompetenza in ragione della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società che rimetteva alla decisione dell’arbitro unico, tra l’altro, le controversie relative alle deliberazioni sociali concernenti interessi individuali dei soci. L’arbitro aggiunge che F.F., con ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale ordinario di Bologna il 10 febbraio 2012, aveva proposto domanda per la nomina dell’arbitro. Nel corso del successivo procedimento davanti all’arbitro unico designato dal Presidente del Tribunale, la E.C. s.r.l. aveva eccepito in via preliminare la decadenza della controparte dall’impugnazione della delibera assembleare per decorrenza del termine di novanta giorni stabilito dall’art. 2479-ter del codice civile. 81 © Copyright - Giuffrè Editore L’arbitro a quo sostiene che, ove non fossero fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda formulata nell’atto di citazione davanti al Tribunale di Bologna, si determinerebbe inevitabilmente una pronuncia di decadenza dall’azione proposta, mediante il ricorso per la nomina dell’arbitro, solamente in data 10 febbraio 2012, quando era ormai scaduto il termine stabilito dall’art. 2479-ter del codice civile. Ma a tale salvezza si oppone l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., il quale stabilisce che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica, tra l’altro, l’art. 50 del cod. proc. Civ., in virtù del quale, quando la riassunzione davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato, il processo continua e pertanto, al fine di verificare l’ammissibilità della domanda in relazione ai termini di decadenza cui essa sia eventualmente sottoposta, occorre far riferimento all’originario atto introduttivo della lite. Ad avviso del rimettente, così disponendo l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., perché irragionevolmente ed in plateale disarmonia con la vigente disciplina codicistica che regola i rapporti tra i giudici ordinari e tra questi ultimi e quelli speciali, violando il diritto di difesa delle parti e i principi del giusto processo, determina, in caso di pronuncia di diniego della competenza del giudice ordinario adito in favore dell’arbitro, l’impossibilità, nel giudizio arbitrale successivamente instaurato, di far salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, proposta davanti al giudice ordinario. Secondo il rimettente, la reciproca estraneità fra giudizio statuale ed arbitrato non può giustificare, in caso di passaggio dall’uno all’altro, la mancata conservazione degli effetti dell’atto introduttivo, prevista invece nei rapporti tra il giudice ordinario e quello amministrativo, in forza delle pronunce della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. Al riguardo, l’arbitro a quo richiama la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 4109 del 2007, la quale, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, ha ritenuto che nell’ordinamento processuale sia stato dato ingresso al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale e, viceversa, anche in caso di pronuncia resa sulla «giurisdizione» . Il rimettente aggiunge che, successivamente, questa Corte, con sentenza n. 77 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, evidenziando, nella motivazione, come il vigente codice di procedura civile, nel regolare questioni di rito — ed in particolare nella disciplina relativa all’individuazione del giudice competente — si ispira al principio per cui le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, senza che sia possibile sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al «bene della vita» oggetto della loro contesa. L’arbitro a quo ricorda, poi, come il legislatore, preso atto dei descritti arresti giurisprudenziali, sia intervenuto a regolare i rapporti tra giudici appartenenti a diverse giurisdizioni, prima con l’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in 82 © Copyright - Giuffrè Editore materia di processo civile), e poi con l’art. 11 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), norme in forza delle quali oggi, nel caso in cui il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, se il processo sia tempestivamente riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, «sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda» . Il rimettente afferma anche che, pur volendo riconoscere la persistente problematicità dell’esatta qualificazione dei rapporti fra la giurisdizione ordinaria e quella arbitrale, occorre considerare che questa Corte, nella sentenza n. 376 del 2001, ha chiarito che il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statuali della giurisdizione, essendo potenzialmente fungibile con quello degli organi giurisdizionali. Inoltre, con la riforma della disciplina dell’arbitrato introdotta dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), i rapporti tra arbitro e giudice ordinario sono stati inequivocabilmente ricondotti nell’ambito della «competenza», come riconosciuto dalla successiva giurisprudenza di legittimità. Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che non si applichi l’art. 50 c.p.c. nei rapporti tra arbitrato e processo, comportando la mancata conservazione degli effetti dell’atto introduttivo in caso di riassunzione del processo nel termine di legge, contrasterebbe con il carattere della fungibilità della giurisdizione del giudice statale con quella dell’arbitro. Infatti, ad avviso del rimettente, pur volendo qualificare il compromesso come atto di rinuncia alla giurisdizione statale, non sarebbe possibile individuare la razionalità di un assetto normativo che, a fronte della medesima domanda giudiziale svolta originariamente innanzi ad un giudice ordinario, faccia conseguire la perdita irrimediabile degli effetti sostanziali e processuali derivanti dalla domanda nel caso in cui questa venga ritenuta improponibile dal giudice adito poiché doveva essere promossa innanzi all’arbitro ed invece escluda qualsivoglia decadenza sostanziale o processuale quando sussista il difetto di competenza o di giurisdizione in favore di altro giudice ordinario o speciale. 2. Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. La difesa dello Stato sostiene che nel diritto processuale positivo non si rinvengono norme che dispongano in maniera chiara la piena equiparazione della disciplina del processo davanti al giudice togato con quella del procedimento arbitrale. Anzi, il sistema continua a basarsi sulla perdurante diversità ed estraneità fra giudizio statale ed arbitrato, a differenza di quanto si può affermare rispetto ai rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Inoltre occorre considerare che il compromesso costituisce un atto di rinuncia alla giurisdizione statale, frutto di una libera scelta delle parti che presuppone necessariamente la conoscenza delle conseguenze derivanti dalla differenziazione delle discipline dei due tipi di giudizio previste dall’ordinamento, tra le quali rientra anche l’impossibilità della riassunzione della causa davanti all’arbitro in 83 © Copyright - Giuffrè Editore caso di dichiarazione di incompetenza resa dal giudice statale e della conseguente conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la mancata previsione della translatio iudicii è da ricondurre alla discrezionalità del legislatore, la quale si basa sulla non completa assimilazione del giudizio statuale e di quello arbitrale in ragione della differenza ontologica derivante dalla libera scelta delle parti che caratterizza il secondo e, pertanto, non è fonte di alcuna lesione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente. Del resto, aggiunge l’Avvocatura generale dello Stato, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 376 del 2001, ha affermato che il giudizio di arbitrale è fungibile solo «potenzialmente» con quello degli organi giurisdizionali. 3. Nel corso di un giudizio civile promosso da A.R. contro la R.I. s.r.l. e avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera dell’assemblea straordinaria dei soci, il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza iscritta al n. 62 del registro ordinanze dell’anno 2013, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applichino regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura civile. Il giudice a quo espone che la società convenuta in giudizio ha eccepito l’improponibilità della domanda e la decadenza dall’azione in ragione della presenza, nello statuto sociale, di una clausola compromissoria. Sulla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente svolge argomentazioni identiche a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione pronunciata dall’arbitro di Bologna riportate sopra al punto n. 1. Sulla rilevanza, il Tribunale ordinario di Catania afferma che la pronuncia di incompetenza del giudice adito sull’impugnativa della delibera assunta dall’assemblea straordinaria dei soci, ove non fossero fatti salvi, mediante il meccanismo offerto dall’art. 50 cod. proc. civ., gli effetti sostanziali e processuali della domanda in precedenza proposta davanti al giudice ordinario, determinerebbe comunque la decadenza dell’attrice (ai sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di impugnare la medesima delibera innanzi all’arbitro unico designando. 4. Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita A.R., la quale chiede che la norma censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima. La parte sostiene, anzitutto, che la questione è rilevante, perché, ove non fossero fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta davanti al giudice ordinario, la pronuncia di incompetenza di quest’ultimo determinerebbe la decadenza dal potere di impugnare la delibera societaria davanti all’arbitro designando. Quanto al merito, A.R. afferma che, a seguito della sentenza di questa Corte n. 77 del 2007 e di quella della Corte di cassazione n. 4109 del 2007, nel caso in cui il giudice adito dichiari il proprio difetto di giurisdizione, la regola generale oggi vigente nell’ordinamento è quella della possibilità di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Pertanto l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilendo che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica l’art. 50 cod. proc. civ., contrasta con l’art. 3 Cost., sia perché tratta in modo diverso cittadini che versano in situazioni identiche, sia per carenza di ragionevolezza interna ed esterna. 84 © Copyright - Giuffrè Editore Ad avviso della parte, sussiste lesione anche degli artt. 24 e 111 Cost., che assicurano ad ogni parte il diritto ad un giusto processo, così come previsto anche dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 5. Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata. La difesa dello Stato sostiene che la questione è inammissibile, perché oggetto del giudizio principale è la pregiudiziale arbitrale, onde il rimettente dovrà decidere solamente sulla competenza propria o dell’arbitro, mentre la decadenza della parte attrice dal potere di impugnazione della delibera assembleare è questione che si potrà porre nell’eventuale giudizio arbitrale successivamente instaurato. Con riferimento al merito della questione, l’Avvocatura generale dello Stato svolge argomentazioni analoghe a quelle sostenute nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dall’arbitro unico di Bologna e riportate sopra al punto n. 2. 6. In prossimità dell’udienza di discussione, A.R. ha depositato una memoria nella quale ha ribadito la rilevanza della questione, affermando che, ove non fossero fatti salvi — mediante il meccanismo previsto dall’art. 50 cod. proc. civ. — gli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta davanti al giudice ordinario, la pronuncia del Tribunale relativa alla devoluzione ad arbitri dell’impugnativa della delibera dell’assemblea dei soci determinerebbe la decadenza (ai sensi dell’art. 2377, sesto comma, cod. civ.) dal potere di impugnare la medesima delibera davanti all’arbitro designando. Né potrebbe opinarsi diversamente, sostenendo che a sollevare la questione dovrebbe essere proprio l’arbitro, perché questi, una volta investito del giudizio di impugnazione della delibera assembleare, si dovrebbe limitare a dichiarare l’inammissibilità della domanda per intervenuta decadenza. Nel merito, la parte privata ripercorre l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di translatio iudicii tra giurisdizioni diverse e aggiunge che il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. esige che la domanda proposta dal soggetto sia esaminata nel merito dal giudice e che il processo si concluda con una sentenza idonea a dare una risposta in ordine al bene della vita oggetto della lite. Inoltre, con riferimento all’art. 3 Cost., ad avviso della parte debbono essere ravvisate la violazione del principio di uguaglianza in senso formale e la mancata assimilazione di categorie di soggetti omogenee, nonché la carenza di ragionevolezza interna ed esterna della norma censurata. Questa, infatti, tratta in modo diverso cittadini che versano in analoghe o identiche situazioni, ponendo in essere una disparità di trattamento non giustificata da ragionevoli motivi. La parte privata aggiunge che il principio del giusto processo è oggi testualmente consacrato nell’art. 111 Cost. come diritto di ogni cittadino di rivolgersi alla giustizia senza timore di alchimie processuali o di decisioni di rito discrezionali che impediscano il sereno esame della vicenda portata all’attenzione del giudice. Considerato in diritto — 1. Il Tribunale ordinario di Catania e l’arbitro di Bologna dubitano, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, della 85 © Copyright - Giuffrè Editore legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti all’art. 50 dello stesso codice. Ad avviso di entrambi i rimettenti, la norma censurata contrasterebbe con i menzionati parametri costituzionali perché, irragionevolmente e in disarmonia con la vigente disciplina del codice di rito relativa ai rapporti tra i giudici ordinari e tra questi e quelli speciali, violando il diritto di difesa e i principi del giusto processo, determina, in caso di pronuncia del giudice ordinario di diniego della propria competenza a favore di quella dell’arbitro, l’impossibilità di far salvi gli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda proposta dall’attore davanti al giudice ordinario. 2. In ragione dell’identità delle questioni sollevate, i giudizi debbono essere riuniti per essere definiti con unica decisione. 3. Successivamente alla pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza di legittimità si è espressa, con una isolata pronuncia, nel senso che l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., laddove afferma che «nei rapporti tra arbitrato e processo» non si applica l’art. 50 cod. proc. civ., riguarderebbe solo il caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella del giudice ordinario; allorquando, invece (come nel caso dei giudizi a quibus), sia il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri, sarebbe possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri nel termine fissato o, in mancanza, in quello previsto dall’art. 50, con salvezza degli effetti sostanziali della domanda (ordinanza n. 22002 del 2012). Una simile interpretazione della norma censurata — che non costituisce diritto vivente — si basa, però, su argomentazioni fragili, fondandosi esclusivamente sulla constatazione che il secondo comma dell’art. 819-ter menziona i rapporti «fra arbitrato e processo» e non anche quelli «fra processo e arbitrato» . È evidente la debolezza dell’argomento: l’espressione utilizzata dalla norma è tale da comprendere, in generale, qualsiasi tipo di rapporto che può intercorrere, rispetto ad una stessa causa, tra arbitri e giudici. Del resto, i giudici di legittimità non hanno chiarito quale sarebbe la ratio della diversità di trattamento che discende dall’interpretazione della norma da essi fatta propria e, cioè, per quale motivo la causa potrebbe proseguire davanti all’arbitro se è il giudice a dichiarare la propria incompetenza e invece dovrebbe essere riproposta ex novo davanti al giudice ove fosse l’arbitro a dichiararsi incompetente. L’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione è smentita, poi, da inequivoci elementi letterali. Primo fra tutti, la rubrica della norma, intitolata, anch’essa, ai «Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria»; volendo seguire il ragionamento della citata ordinanza n. 22002 del 2012, da una simile indicazione si dovrebbe dedurre che l’intero art. 819-ter sia dedicato al caso in cui è l’arbitro a dichiarare la propria incompetenza. Al contrario, dal primo comma dell’articolo emerge chiaramente che esso tratta di aspetti relativi in generale ai rapporti tra i due soggetti e, anzi, dedica due specifiche disposizioni (il secondo ed il terzo periodo) al caso in cui è il giudice a dichiararsi incompetente. Ne deriva che il successivo secondo comma, nell’escludere l’applicabilità di una serie di norme del codice di rito in tema di competenza, ha sicuramente riguardo anche alle ipotesi in cui, appunto, la causa sia stata originariamente proposta davanti al giudice che si sia poi dichiarato incompetente. E ciò senza considerare che l’eccezione di incompe86 © Copyright - Giuffrè Editore tenza dell’arbitro è disciplinata specificamente dall’art. 817 cod. proc. civ., onde, se davvero la norma espressa dal secondo comma dell’art. 819-ter avesse ad oggetto esclusivamente il caso in cui l’arbitro si dichiari incompetente, sarebbe stato più logico il suo inserimento nel citato art. 817. Si deve dunque concludere nel senso che l’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., inibisce l’applicazione di regole corrispondenti a quelle enunciate dall’art. 50 cod. proc. civ., tanto nel caso in cui sia l’arbitro a dichiararsi incompetente a favore del giudice statale, quanto nell’ipotesi inversa. 4. Nel merito, la questione sollevata dall’arbitro di Bologna è ammissibile e fondata. Come già riconosciuto da questa Corte (sentenza n. 77 del 2007) gli artt. 24 e 111 Cost. attribuiscono all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ed impongono che la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi si ispiri al principio secondo cui l’individuazione del giudice munito di giurisdizione non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa. Da tale constatazione discende, tra l’altro, la conseguenza della necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione. Tali principi si impongono anche nei rapporti tra arbitri e giudici, perché la possibilità che le parti affidino la risoluzione delle loro controversie a privati invece che a giudici è la conseguenza di specifiche previsioni dell’ordinamento. Questa Corte, al fine di verificare la sussistenza della legittimazione degli arbitri a sollevare questioni di legittimità costituzionale, ha riconosciuto che «l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie» e ha affermato che il giudizio degli arbitri «è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione» (sentenza n. 376 del 2001). Sul piano della disciplina positiva dell’arbitrato, poi, è indubbio che, con la riforma attuata con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il legislatore ha introdotto una serie di norme che confermano l’attribuzione alla giustizia arbitrale di una funzione sostitutiva della giustizia pubblica. Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale. Rilevano, al riguardo: l’art. 816-quinquies (sull’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 cod. proc. civ. in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso), l’art. 819-bis (nella parte in cui presuppone la possibilità per gli arbitri di sollevare questioni di legittimità costituzionale), l’art. 824-bis (che ricollega al lodo, fin dalla sua sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria). 87 © Copyright - Giuffrè Editore Anche dall’esame della disciplina sostanziale emerge che, sotto molti aspetti, l’ordinamento attribuisce alla promozione del giudizio arbitrale conseguenze analoghe a quelle dell’instaurazione della causa davanti al giudice. Infatti, il codice civile, sia in materia di prescrizione (artt. 2943 e 2945), sia in materia di trascrizione (artt. 2652, 2653, 2690, 2691), equipara espressamente alla domanda giudiziale l’atto con il quale la parte promuove il procedimento arbitrale. Pertanto, nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (ove assunta nel rispetto delle norme del codice di procedura civile) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite. Se, quindi, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse. Una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro. Ed invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità dell’art. 50 cod. proc. civ., impedisce che la causa possa proseguire davanti all’arbitro o al giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda. Deve essere dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del codice di procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter. 5. La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Catania è assorbita. P.Q.M. — LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile. Commenti di M. Bove, A. Briguglio, S. Menchini, B. Sassani I Se l’arbitro (rituale) fa ciò che altrimenti farebbe il giudice statale e se l’interessato, quando si rivolge alla giurisdizione pubblica, non paga l’errore nella scelta del giudice con la perdita degli effetti sostanziali e 88 © Copyright - Giuffrè Editore processuali della domanda, lo stesso principio di salvezza deve valere anche nei rapporti tra via privata e via pubblica. Insomma, se l’attore che cerca tutela per un suo diritto può usufruire di meccanismi di «trasmigrazione» del processo da un giudice statale ad un altro, con ciò salvando quegli effetti della domanda, non si vede perché analoghi meccanismi di «trasmigrazione», e quindi di salvezza degli effetti della domanda irritualmente proposta, debbano essere vietati nei rapporti tra arbitro e giudice statale. Questo ha determinato la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c. nella parte in cui appunto poneva un simile divieto. Tale assunto, semplice e direi indiscutibile, è stato scolpito nella sentenza in commento. Ma in essa la Corte costituzionale non dice assolutamente altro, lasciando così, già oggi all’interprete, ma direi soprattutto al legislatore il compito di attuare il detto principio nel vuoto normativo che così si è venuto a creare. Invero, la Consulta non ha reso applicabile qui l’art. 50 c.p.c., ma solo ha eliminato il divieto di applicare una regola analoga a quella in questo articolo contenuta. Un simile compito esige un chiarimento concettuale preliminare, per poi potersi svolgere su due linee direttrici. Per quanto riguarda il chiarimento, a me sembra che si dovrebbe partire dall’idea che i rapporti tra giudice statale e giudice privato non sono inquadrabili in termini di competenza, bensì di giurisdizione, perché l’arbitro non fa parte del plesso organizzativo della giurisdizione statale, emergendo piuttosto come una autonoma giurisdizione che l’ordinamento statale, che certo non pretende di assumere alcun monopolio in materia, riconosce come tale, ossia, se così si può dire, come altro da sé. Per quanto riguarda le linee direttrici, se la prima dovrà individuarsi in virtù dell’esigenza di disciplinare il meccanismo di sanatoria in tutti i suoi vari tecnicismi, la seconda dovrà avere cura di stabilire i limiti dell’intervento, in particolare chiedendosi se esso esiga delle scelte consequenziali ineludibili. Siano consentiti in questo breve spazio alcuni spunti in riferimento ad entrambi gli aspetti. Per quanto riguarda la disciplina del meccanismo di sanatoria, se la premessa concettuale qui scelta sembra indurre a preferire quale modello di riferimento, piuttosto che l’art. 50 c.p.c., gli articoli 59 della legge n. 69 del 2009 ed 11 del codice del processo amministrativo, direi che a tal proposito si debba essere cauti. In riferimento alla forma ed al termine per la «trasmigrazione» del processo dal giudice sbagliato a quello giusto, a me sembra francamente che il legislatore dovrà preoccuparsi del secondo problema e non certo del primo. Su quale sarà il termine entro il quale dovrà compiersi l’attività in sanatoria, ovviamente il legislatore avrà pieno spazio di movimento. Ma, rispetto alla forma dell’atto di «trasmigrazione», non vedo come si potrebbe immaginare un atto di riassunzione tra giudice privato e giudice statale, e viceversa, dovendosi piuttosto rispettare le forme disciplinate 89 © Copyright - Giuffrè Editore nell’ambito del processo che dovrà essere celebrato di fronte al giudice (ad quem) riconosciuto fornito di potestas iudicandi. Tuttavia, per diversi altri aspetti non credo che quelle norme potranno essere prese a modello. Soprattutto per quanto riguarda il problema delle preclusioni e del valore del materiale raccolto di fronte al giudice irritualmente adito (a quo). Dal primo punto di vista, se già una norma che pretende di fissare un effetto di trascinamento delle preclusioni da un processo ad un altro (diverso) è poco ragionevole, ancor meno ragionevole sarebbe una simile previsione tra arbitro e giudice statale, perché in arbitrato non si hanno preclusioni. Che senso avrebbe trascinare in arbitrato preclusioni in ipotesi maturate di fronte al giudice statale, se in arbitrato non vige il principio di preclusione? E come si potrebbero trascinare di fronte al giudice statale preclusioni che in arbitrato non maturano? Dal secondo punto di vista, se al giudice statale basta la previsione dell’art. 310, 3º comma, c.p.c., all’arbitro non serve alcuna disposizione, operando di fronte ad esso il principio del puro libero convincimento. Piuttosto, una scelta si imporrà al legislatore a fronte del problema dell’efficacia della declinatoria assunta in una via quando il giudizio trasmigrerà nell’altra via. Qui rientriamo nella seconda direttrice sopra citata, sulla quale nulla ha detto la Consulta, silenzio che anzi potrebbe far sorgere il sospetto che la Corte costituzionale non voglia o quantomeno non pretenda interventi consequenziali su questo piano, nulla avendo detto in riferimento al divieto previsto ancora nell’art. 819-ter c.p.c. di applicare norme analoghe a quella contenuta nell’art. 44 c.p.c. A me sembra francamente inevitabile che il legislatore si occupi della questione appena citata, perché la mancata previsione di un’efficacia vincolante di detta declinatoria rappresenta una seria vulnerazione all’effettività del diritto di azione. Ed, allora, si tratterà di scegliere la disciplina di essa, in riferimento alla quale non nascondo la mia preferenza per un sistema nel quale semplicemente si preveda quel vincolo, ove l’atto di trasmigrazione sia compiuto entro un dato termine, senza attribuire al giudice ad quem il potere di sollevare conflitto negativo di fronte alla Corte di cassazione. Invero, se sulla questione della sussistenza della potestas iudicandi tra arbitro e giudice statale la legge non riconosce un ruolo al giudice quando disciplina la relativa eccezione, in ipotesi da sollevare incidentalmente nel processo sul rapporto sostanziale in riferimento al quale si discute se sussista o meno un patto compromissorio, non vedo perché dovrebbe poi attribuirsi quel ruolo a seguito di una declinatoria di giurisdizione assunta in una via. Nulla invece ha da dire il legislatore sul complesso normativo che si riassume nell’espressione «sistema delle c.d. vie parallele» . Certo un sistema ora scelto può sempre essere rigettato in futuro. Ma ciò che qui si vuole dire è che nulla di necessitato deriva oggi dalla sentenza in com90 © Copyright - Giuffrè Editore mento. Il legislatore potrà scegliere se mantenere o meno quel sistema, che si fonda su una sostanziale mancanza di coordinamento preventivo tra le due vie, operando solo, si ripete preventivamente, l’eccezione di patto compromissorio, peraltro consentendo da noi, analogamente a ciò che accade in Germania e diversamente da ciò che accade in Francia, una cognizione piena sui presupposti della relativa decisione, salvo che sulla valida esistenza del patto compromissorio sia stato celebrato un giudizio che se ne sia occupato in via principale. A tal proposito il legislatore, se manterrà il detto sistema, sarà solo di fronte ad un dovere ed a una opportunità. Il dovere: disciplinare, in qualche modo, il vincolo della declinatoria di giurisdizione, come sopra abbiamo accennato, dovere che gli derivava già prima dall’art. 24 Cost. L’opportunità: cogliere l’occasione per chiarire alcuni lati oscuri della attuale disciplina, come ad esempio quello che emerge dall’ultimo inciso del primo comma dell’art. 819-ter c.p.c., quando si dice che la mancata proposizione dell’eccezione di patto compromissorio di fronte al giudice statale esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio. MAURO BOVE II 1. La Consulta risolve con salutare e, nel nostro caso, agevolmente praticabile saggezza. Saggio è altresì il metodo motivazionale o se si vuole l’approccio culturale: come già in occasione della pronuncia del 2001 sulla legittimazione dell’arbitro alla Richterklage alla Corte costituzionale, neppure la benché minima concessione a triti discorsi sulla “natura” dell’arbitrato (il sesso degli Angeli o quasi) ed attenzione invece al dato funzionale. Gli arbitri, non meno che i giudici, risolvono controversie in contraddittorio con decisione destinata alla stabilità degli effetti una volta decorsi i termini di impugnazione; l’esercizio dell’azione è tale dunque, come dinanzi al giudice, anche dinanzi agli arbitri, allorché per scelta di autonomia privata sia ad essi destinato. Perciò l’applicazione di una regola quale quella scritta nell’art. 50 c.p.c. — che garantisce l’effetto utile dell’azione impedendo che l’individuazione dapprima erronea poi corretta dell’organo munito di potestas iudicandi “sacrifichi” “il diritto delle parti ad ottenere una risposta affermativa o negativa in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa” (parole della Corte) — non può essere preclusa (come 91 © Copyright - Giuffrè Editore fa invece l’art. 819 ter), pena il contrasto con gli art. 24 e 111 Cost., quando l’errore o incertezza sulla individuazione della potestas iudicandi coinvolga, piuttosto che l’alternativa fra diversi giudici dello Stato, l’alternativa pur radicale fra il giudice e l’arbitro. In questo corretto approccio perfino il nuovo art. 824 bis, e la equiparazione effettuale piena ed ormai indiscutibile fra lodo e sentenza, rappresenta un elemento certamente di conferma, ma non un elemento decisivo per la soluzione attinta dalla Corte. La quale — senza perciò che ci si debba chiedere se quella disposizione sia e quanto innovativa ovvero, come ho sempre ritenuto, nella sostanza ricognitiva della ricostruzione corretta quoad effectum apprestabile già dopo la novella dell’arbitrato del 1994 — sarebbe stata verosimilmente adottata anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 824 bis, come fu, a suo tempo, adottata quella sul rinvio della questione di costituzionalità ad opera degli arbitri. 2. In entrambi i giudizi a quibus si faceva questione di termine di decadenza sostanziale per l’impugnazione di delibera societaria e dunque di conservazione o meno dell’effetto sostanziale impeditivo della decadenza per la domanda erroneamente proposta dapprima all’arbitro o dapprima al giudice. Se la Consulta non avesse troncato il problema in radice, garantendo definitivamente la conservazione anche di quell’effetto, non sarebbe rimasto che da concentrarsi su di esso (oggi lo si dovrà probabilmente fare comunque in relazione all’arbitrato irrituale) ed appigliarsi una ancora ipotetica ma non del tutto peregrina (arg. ex art. 2965 c.c.) dottrina civilistica dell’errore scusabile, ovvero ad una interpretazione costituzionalmente orientata (delle norme sulla decadenza) tale da postulare un effetto impeditivo senza translatio anche per l’esercizio dell’azione davanti a giudice “incompetente”, sì da salvare dalla decadenza anche l’azione esercitata ex novo; così ovviando all’inconveniente più drammatico della mancata previsione della translatio, posto che quelli relativi ai termini prescrizionali o ad altri effetti sostanziali della domanda sono di norma meno drammatici (basta pensare per tempo ad esercitare l’azione ex novo dopo la declinatoria, la quale, in assenza di translatio, chiude il processo in rito, e come ogni altra chiusura in rito non estintivo, fa salvo l’effetto interruttivo permanente sul termine di prescrizione) e quelli della mancata “prosecuzione” dell’(unica) vicenda processuale con conservazione degli effetti processuali sono, sul piano pratico, ancor più gestibili. 3. Francamente non riesco a ricostruire come e donde nacque, all’epoca della riforma del 2005/2006 l’infelice “non si applicano regole corrispondenti... [all’art.] 50”. L’alternativa è fra la svista (indotta dalla proclamata e difficilmente discutibile inapplicabilità degli artt. 44, 45, 48 92 © Copyright - Giuffrè Editore ed all’idea che a questi dovesse aggiungersi come in un unico corpus l’art. 50) ed il retropensiero circa la necessità, altrimenti, e la difficoltà di disciplinare alcuni profili della “riassunzione”, nonché circa la relativa secondarietà della conservazione degli effetti processuali e la possibilità di salvare in altro modo alcuni effetti sostanziali (v. supra). Sia come sia la situazione andava certamente rimediata. Cass. n. 22002/2012 ha additato, nelle more fra la prima ordinanza di rimessione ed il responso della Consulta, soluzione a senso unico: translatio e conservazione sì dal giudice all’arbitro, ma non viceversa. Isolata e giustamente criticata, questa pronuncia non merita però né nella forma né nella sostanza alcuni strali acutissimmi che le sono stati indirizzati, ed ha invece il merito di aver mostrato consapevolezza del problema al più alto livello di giurisdizione ordinaria e di aver aperto la strada al rimedio, sia pure attraverso l’errore, né più e né meno di come l’erronea convinzione di trovarvi le Indie aprì la strada alla scoperta dell’America. La esibita ragione formale alla soluzione a senso unico — che il c. 2° dell’art. 819 ter menzioni solo i rapporti fra arbitrato e processo e non viceversa — era comunque manifestamente fallace come un sofisma bizantino. La Consulta lo evidenzia con puntigliosità perfino sproporzionata. Ci mancherebbe davvero che per impedire all’interprete un trattamento sperequato di due situazioni nella sostanza equivalenti il legislatore dovesse essere comicamente ridondante e scrivere: “nei rapporti fra arbitrato e processo e fra processo e arbitrato” (ed è ovviamente inutile far dietrologia riguardo ad intenzioni recondite e parimenti irrazionali della Cassazione di cui non si ha prova, e cioè ad una sorta di ritrosia nobiliare nell’ammettere che il giudice dello Stato si prenda carico di un giudizio già iniziato innanzi agli arbitri, potendosi invece consentire semmai l’ipotesi contraria; né la giustificazione implicita poteva consistere in una rilevante maggior difficoltà di organizzare applicativamente la translatio in un senso piuttosto che in un altro, perché le difficoltà vi sono in entrambi i sensi e comunque superabili). Rilevato l’errore, il gradino successivo era alla portata di un fanciullo. Si fa per dire. Altro che fanciullo: è intervenuto, grazie alla perspicacia dei remittenti (è vero: avrebbe potuto e dovuto pensare al rinvio anche la Corte di cassazione), l’unico organo giurisdizionale dotato di potestà di “negative” e qui anzi di “positive Gesetzgebung”, e così la vicenda si è definitivamente conclusa. La Cassazione aveva nel frattempo scoperto il nervo e radicalizzato il problema: essendo la sua interpretazione dell’art. 819 ter tutt’altro che salvifica (ed anzi essa pure incostituzionale per irrazionale sperequazione e violazione dell’art. 3, oltre che dell’art. 24, in relazione al caso della declaratoria di incompetenza arbitrale) e per di più erronea, alla Consulta non è rimasto che constatare che l’art. 819 ter era irredimibile e dichiararlo incostituzionale in parte qua. 93 © Copyright - Giuffrè Editore 4. Cosa resta da fare? Salvo altro, resta da chiedersi se il nuovo e più convincente assetto dei rapporti fra arbitro e giudice (già lodevolmente sceverati, sotto svariati profili un tempo problematici, dalla novella del 2006) dovrà condurre o meno ad ulteriori ripensamenti della dottrina delle “vie parallele” o del “doppio binario”. Ciò che in prima approssimazione non credo, perché il nucleo di verità di quella dottrina risiede nella indiscutibile “alternatività” fra arbitrato (i.e. giurisdizione privata) e giurisdizione statuale e non è escluso dalla applicazione a scopo eminentemente pratico di pezzi di disciplina desunti dai rapporti di competenza fra i giudici dello Stato. E tale applicazione non comporta affatto, salvo che per i patiti della coerenza pseudo-sistematica (ma in realtà puramente estetica) perinde ac cadaver, sovrapposizione di concetti. E così la “alternatività” ed il “doppio binario” ben coesistono con il regime della eccezione di compromesso quale disciplinata, ad instar dell’art. 38, dall’art. 819 ter, c. 1°, o con la impugnabilità mediante regolamento della relativa pronuncia del giudice statuale (qui sì la “alternatività” consente ed anzi impone la soluzione a senso unico che rende invece impugnabile il lodo sulla competenza arbitrale solo ex art. 829 e non mediante regolamento). E così pure la predetta “alternatività” fra arbitrato e giurisdizione ordinaria non è affatto esclusa da una osmosi trasmigratoria dell’esercizio del diritto d’azione, in modo da lasciarlo più intatto ed utile possibile, sull’uno dei due versanti quando l’altro si riveli in radice impraticabile. Per contro, la riconduzione del rapporto fra arbitro e giudice a rapporto di competenza, ai soli effetti dell’applicazione delle regole ex art. 50, è stata per la Corte costituzionale soltanto la soluzione (corretta ed inevitabile) di un (evidente) problema di costituzionalità. Ma nessuna smania di coerenza sistematica ad ogni costo ha condotto la Corte a dichiarare la incostituzionalità conseguenziale del divieto di applicazione degli art. 44, 45 e 48, esso pure predicato dall’art. 819 ter. Sicchè il teorico potrà continuare a dire, in termini generali, che l’“alternatività” ed il “doppio binario”, e cioè l’esatto e più che condivisibile contrario della assimilazione totale al rapporto di competenza, coesistono con frammenti di regolazione in cui arbitro e giudice vengono trattati “come se” appartenenti allo stesso ordine in nome di esigenze di tutela e principi sovraordinati che ciò impongono. 5. Resta poi da gestire con buon senso le conseguenze pratiche della pronuncia della Consulta. Qui occorrerà anzitutto por mente a due differenze evidenti fra i due giudizi, di partenza e di arrivo, della translatio. a) Una differenza è intrinseca ed imprescindibile: l’assenza di precostituzione dell’organo 94 © Copyright - Giuffrè Editore arbitrale; b) l’altra è estrinseca e contingente: la disseminazione, nel giudizio ordinario, di preclusioni insussistenti invece, almeno a priori, in quello arbitrale (altre differenze rilevanti al nostro riguardo, salvo talune marginalissime, non vedo: l’arbitro, se lo hanno voluto le parti, non è meno del giudice nella funzione del far giustizia). Conseguentemente occorrerà costruire cum grano salis il dettaglio delle “regole corrispondenti all’art. 50” per come oggi applicabili ai casi che qui ci interessano. La espressione “regole corrispondenti”, proprio perché lascia all’interprete della legge ordinaria un opportuno margine di adeguamento, ha evidentemente convinto la Corte — diversamente da ciò che accadde al momento della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 30 Legge Tar a motivo del medesimo impedimento della translatio — ad affidare a quell’interprete la soluzione di ogni problema applicativo, senza auspicare come allora l’intervento del legislatore “con l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale”. Ferma, e non necessitante di particolari adeguamenti di dettaglio, la conservazione degli effetti sostanziali, nonché quella del fondamentale effetto processuale della litispendenza in ordine alla prevenzione, si tratterà, tenuto conto delle due differenze che si son dette, di verificare quali siano i meccanismi idonei alla “prosecuzione” processuale dall’un versante all’altro, individuando appunto regole nella sostanza corrispondenti, anche se non rigorosamente equivalenti, a quelle dell’art. 50 ed alle altre ad esso sistematicamente connesse. 5.1. Basterà anzitutto constatare che ove il giudice si dichiari incompetente non si può certo “riassumere” il giudizio davanti ad un organo arbitrale che ancora non vi è, né del resto ha senso congetturare un “atto di riassunzione” sconosciuto nel processo arbitrale. La “prosecuzione” del giudizio avverrà dunque attraverso la notifica di una normale domanda di arbitrato riproduttiva delle domande (eccezioni, se a riassumere è per avventura il “convenuto” in arbitrato), deduzioni e conclusioni già svolte in sede ordinaria, o ad esse facente relatio (con riserva di depositare innanzi al costituendo organo arbitrale gli atti della precedente fase, ed eventuale delimitazione dei poteri del difensore ai sensi dell’art. 816 bis ove lo si ritenga opportuno ed il mandato cui ci si riferisce sia quello originariamente conferito in occasione dell’avvio del giudizio ordinario). Il tutto — affinché il giudizio “prosegua” e si conservino gli effetti sostanziali e processuali — entro i medesimi termini legali o giudiziali previsti dall’art. 50, e decorrenti per come da questo stabilito. Fermi ed inalterati restano i comuni insegnamenti giurisprudenziali (v. Cass. 9.9.1993, n. 9444 ed altre) sulla utilizzabilità piena delle prove già 95 © Copyright - Giuffrè Editore assunte nel troncone processuale abortito con la declinatoria; il riferimento agli “argomenti di prova” di cui all’art. 59, u.c., l. n. 69/2009, in tema di translatio fra diverse giurisdizioni statuali, è un eccesso di rigore formalistico, tutto sommato praticamente innocuo e che però non vi è ragione di trapiantare nel nostro caso. Quanto alle preclusioni occorre ancor qui non farsi fuorviare dall’art. 59, c. 2° l. n. 69/2009 (del quale e dell’infelice formula “ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute” è data comunque una ragionevole interpretazione riduttiva e salvifica). In definitiva mi sembra sensato dire che, non esistendo, perfino per le domande nuove, preclusioni aprioristiche in arbitrato (salva la possibilità per gli arbitri, una volta costituiti, di fissare opportunamente termini anche perentori), tutti i nova siano perfettamente ammissibili una volta che il giudizio trasmigri davanti agli arbitri e nonostante l’intervenuto spirare, nel precedente troncone, dei termini ex art. 183. 5.2. Nell’ipotesi inversa, ove cioè sia l’arbitro a dichiararsi incompetente (con eventuale indicazione di giurisdizione statuale, ordinaria o amministrativa, o perfino di giudice competente ovviamente priva di alcuna vincolatività e superabile con successiva semplice declinatoria del giudice dello Stato, vista la perdurante inapplicabilità dell’art. 45 ed insomma il tendenziale mantenimento delle “vie parallele”), la prosecuzione potrebbe pure avvenire — innanzi al giudice civile, non innanzi al giudice amministrativo — con un atto formalmente intitolato alla “riassunzione”. Ma sarà gioco forza dare a quest’atto non il contenuto puramente ricognitivo della originaria domanda di arbitrato (che può essere ed è di solito cosa contenutisticamente diversa dall’atto di citazione), bensì quello di un vero atto di citazione. Tanto vale allora semplificare le cose al pratico e dire anche qui che la domanda formulata si ripropone (come si dice nell’art. 59 l. 2009/69), con conservazione pur sempre degli effetti sostanziali e della litispendenza originaria, sia innanzi al TAR che innanzi al giudice ordinario, ed innanzi a quest’ultimo allora fors’anche potendosi scegliere la forma del ricorso sommario ex art. 702 bis. Il problema più spinoso è poi quello del termine di riassunzione, o meglio della sua decorrenza, perché mi sembra invece pacifico che il termine sia quello stesso di tre mesi previsto dall’art. 50 o quello diverso che lo stesso art. 50 autorizza il giudice ed allora — perché no, caduto il divieto ex art. 819 ter — anche l’arbitro a fissare. Vale anche in caso di declinatoria della competenza arbitrale la decorrenza, voluta dall’art. 50, dalla semplice “comunicazione” della pronuncia (e cioè qui della comunicazione ex art. 824 del lodo di incompetenza anche se ancora impugnabile), ovvero occorre ritenere che la “regola corrispondente” più adeguata vada desunta per imitazione dal96 © Copyright - Giuffrè Editore l’art. 59 l. n. 69/2009 ed il termine decorra dalla sopravvenuta definitività della declinatoria? Sarei per la seconda risposta. Non però per una intrinseca ed autonoma forza espansiva alla soluzione ex l. 69/2009, bensì in ossequio allo spirito implicito della sentenza della Consulta e dello stesso art. 50. In virtù di questo spirito non sembra possibile sacrificare o penalizzare l’attore che a fronte della declinatoria voglia, prima di proseguire con effetti conservativi sull’altro versante, provare ad insistere in via impugnatoria per la competenza e perciò per il giudizio di merito del giudicante originariamente adito, né sembra possibile penalizzare il suo diritto a giovarsi dell’intero termine per tale impugnazione. Salvando questo spirito, l’art. 50 può nondimeno ben prevedere che, nella vicenda traslativa da giudice a giudice, ed oggi da giudice ad arbitro, il termine decorrà dalla comunicazione della pronuncia declinatoria “o” dalla comunicazione della pronuncia (della Cassazione) che la conferma in sede di regolamento. La cosa è evidentemente razionale sul piano pratico, perché anche il termine di impugnazione mediante regolamento prende avvio dalla medesima comunicazione della prima pronuncia ed è assai più breve del termine di riassunzione, di guisa che l’interessato ad impugnare ha modo di riflettere, per l’intera durata del termine impugnatorio, sulla opportunità di insistere per la potestas iudicandi del primo giudice, ed in caso di mancata impugnazione ha poi ancora agio di riassumere. Nella vicenda traslativa inversa — da arbitro a giudice — non avrebbe invece senso una “regola” formalmente “corrispondente” a quella dell’art. 50, secondo cui il termine decorresse della declinatoria arbitrale ovvero della pronuncia che definitivamente la conferma. E ciò perché il termine per la impugnazione ex art. 828 della pronuncia di incompetenza resa dall’arbitro può essere praticamente equivalente (90 giorni) a quello di riassunzione, e decorrere per altro da data successiva, quella della notificazione del lodo, ovvero può essere addirittura assai più lungo in caso di mancata notifica. Non resta dunque che concludere per l’unica decorrenza dal momento in cui la declaratoria della incompetenza arbitrale diviene definitiva per mancata impugnazione o per la sua conferma in sede impugnatoria. Naturalmente, e come le Sez. Unite (22.11.2010, n. 23596) hanno già avuto modo di chiarire in relazione all’art. 59 l. n. 69/2009, nulla impedisce all’interessato la immediata prosecuzione prima della scadenza del termine e prima della definitività della declinatoria arbitrale. Le conseguenze della contemporanea pendenza del processo proseguito innanzi al giudice e del giudizio di impugnazione instaurato dall’altra parte avverso il lodo di incompetenza saranno decifrabili sulla base della dottrina delle “vie parallele” per quel che essa attualmente è, con tutte le sue incertezze ed i suoi margini di opinabilità. Voglio dire che ancor qui la sentenza della 97 © Copyright - Giuffrè Editore Corte apre un fronte pratico, prima insussistente, di applicazione di quella dottrina; non ne muta i presupposti ed i contenuti teorici. Trasferito avanti al giudice, il giudizio olim arbitrale non porterà di norma seco preclusioni di sorta ed il problema relativo alla vicenda inversa, dunque, neppure si porrà. Spetterà a ciascuna parte decidere se giovano ancora le memorie ex art. 183 o se sia miglior partito rifarsi agli scritti già versati nel giudizio arbitrale e andare in decisione. In ogni caso riterrei che chi abbia assunto in quel giudizio la posizione di attore possa con l’atto di riassunzione/ prosecuzione, e non oltre, proporre domande nuove (ma ammetto che una preclusione in senso opposto potrebbe essere ritenuta intrinseca ad una vicenda processuale che deve proseguire in una sede nella quale è regola aurea che la domanda si proponga con l’atto introduttivo e non più oltre); e che il “convenuto” possa e debba con l’atto di prosecuzione o con la comparsa con cui a quello replica, e non oltre, svolgere le attività previste a pena di decadenza dall’art. 167. Quanto alla conservazione delle prove assunte davanti agli arbitri (ipotesi ben rara se costoro si sono poi dichiarati incompetenti), essa non impedirebbe la reiterazione della assunzione testimoniale ove si volesse considerare decisivo il maggiore metus che compulsa il testimone a dire la verità nel giudizio ordinario, ov’egli può commettere il reato di falsa testimonianza, piuttosto che nel giudizio arbitrale, ov’egli non può commetterlo. 6. A seguito del responso all’arbitro remittente, la Corte dichiara “assorbita” la identica questione póstale del Tribunale di Catania, traendosi dall’imbarazzo di doverla dire inammissibile per irrilevanza. Irrilevante, a rigore, lo era, ma per così dire di una irrilevanza a fin di bene, o se si vuole “rilevante in prevenzione”, e non in relazione agli omnes e pro futuro, bensì proprio in relazione alle parti della concreta vicenda processuale. Il giudice catanese si preoccupava evidentemente delle ripercussioni immediate che la sua declaratoria di incompetenza avrebbe avuto, sull’attore onerato del rispetto del termine decadenziale, ove mai l’art. 819 ter non fosse stato nel frattempo dichiarato incostituzionale: l’incertezza sulla conservazione o meno dell’effetto sostanziale della originaria domanda. Non è questo di certo il nesso di rilevanza cui pensarono i conditores del giudizio incidentale, ed altrettanto certamente la decisione sulla competenza del Tribunale di Catania (quella sola che ad esso toccava prendere) non era giuridicamente condizionata dalla soluzione della questione di costituzionalità; né poteva minimamente prendersi in considerazione la stravagante pretesa del convenuto: che il giudice dichiarasse contempora98 © Copyright - Giuffrè Editore neamente la propria carenza di potestas iudicandi e la decadenza dall’azione. Ma non è detto che la Consulta in futuro ed in situazioni analoghe — soprattutto ove questa sorta di “rilevanza in prevenzione” si ponga in termini pratici più pressanti e drammatici (nel nostro caso all’attore sarebbe bastato, per sortire dall’incertezza, semplicemente notificare nei termini di riassunzione ex art. 50 una domanda di arbitrato e porre la questione di costituzionalità all’arbitro, ma se ci fossimo trovati invece nell’epoca in cui la questione non poteva essere rimessa dall’arbitro, bensì solo e nei congrui casi, ed a buoi già usciti dalla stalla vale a dire a lodo sfavorevole già emanato, dal giudice dell’impugnazione?) non sia disposta ad addomesticare un poco il nesso di rilevanza. ANTONIO BRIGUGLIO III 1. A seguito della riforma della disciplina dell’arbitrato introdotta dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e sulla base dell’interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina prevalenti delle disposizioni generali del codice di rito e di quelle speciali in ordine al giudizio arbitrale, i rapporti tra quest’ultimo e quello di fronte al giudice dello stato possono essere così sinteticamente descritti (1). In primo luogo, per l’art. 819-ter, comma 1, c.p.c., non opera l’istituto della litispendenza, per cui eventuali giudizi, aventi ad oggetto la stessa causa, proposti contemporaneamente davanti al giudice privato e a quello pubblico, non subiscono alcun impedimento reciproco e debbono proseguire entrambi in modo autonomo. D’altro canto, alla luce della regolamentazione della sospensione, risultante dagli artt. 819-bis e 819-ter, comma 2, c.p.c., deve essere esclusa anche la possibilità che venga sospeso uno dei due procedimenti, in attesa che l’altro sia definito, con provvedimento di merito o, eventualmente, di rito declinatorio della competenza. Ciò significa che non sussistono strumenti di raccordo preventivo tra i due processi, che siano capaci di impedire il loro contemporaneo svolgimento e la pronuncia di più provvedimenti, anche di contenuto difforme, di rito o di merito, in ordine ad un’unica controversia. In secondo luogo, la questione relativa alla validità, al contenuto e all’ampiezza della convenzione di arbitrato, sollevata dinanzi al tribunale, (1) In modo più esteso, si veda MENCHINI, Il controllo e la tutela della convenzione arbitrale, in questa Rivista 2013, 363 ss., ed ivi ulteriori indicazioni e riferimenti. 99 © Copyright - Giuffrè Editore privato od ordinario, al fine di disconoscere la potestas iudicandi del giudice adito rispetto alla domanda proposta, concerne la competenza (artt. 817 e 819-ter, comma 1, c.p.c.). La pronuncia, che risolve tale questione, è di competenza e, sempre che provenga dal giudice dello stato, è impugnabile con regolamento di competenza (art. 819-ter, comma 1, c.p.c.). Il giudice, davanti al quale è stata esercitata l’azione, ha il potere di conoscere e di decidere circa le proprie attribuzioni rispetto alla stessa e, in particolare, l’arbitro non vede incisa o eliminata tale potestà per il solo fatto che, in sede ordinaria, con autonoma azione, sia posta in discussione la validità e l’efficacia della convenzione (artt. 819-bis, comma 2, e 819-ter, comma 3, c.p.c.). Sulla base della communis opinio, per ciò che attiene agli effetti prodotti dai provvedimenti sulla competenza emessi dai due tribunali, essi, sia che riconoscano la competenza sia che la neghino, non sono vincolanti al di fuori del processo in cui sono stati resi, né per il giudice da cui promanano né per ogni altro giudice, qualora venga riproposta la medesima causa. Al contrario, la pronuncia della Corte di Cassazione, emanata in esito sia a regolamento di competenza sia a ricorso ordinario, ex art. 360, comma 2, c.p.c., ha efficacia panprocessuale e rende incontestabile, in ogni processo e per ogni giudice (pubblico e privato), l’accertamento compiuto circa la spettanza della competenza e, prima ancora, riguardo alla validità e all’efficacia della convenzione. Di conseguenza, a meno che non sia intervenuta una decisione della Suprema Corte, possono insorgere conflitti vuoi positivi vuoi, peggio ancora, negativi di competenza tra i tribunali (ordinari e privati) davanti ai quali siano state instaurate, contestualmente o una dopo l’altra, due controversie aventi ad oggetto la stessa pretesa. In terzo luogo, l’art. 819-ter, comma 2, stabilisce che “nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli artt. 44, 45, 48 e 50 c.p.c.”; l’estraneità e la diversità tra il procedimento arbitrale e quello statale, ad avviso del legislatore, non consentono che il processo, erroneamente introdotto di fronte ad uno dei due organi, in qualche modo, possa continuare o trasmigrare dinanzi all’altro, del quale il primo abbia riconosciuto la titolarità del potere di giudicare. Perciò, da un lato, diversamente da quanto previsto dall’art. 44 c.p.c. rispetto ai rapporti tra giudici ordinari, il provvedimento del giudice a quo non è vincolante per quello ad quem, ossia non rende incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza dell’ufficio indicato, e, dall’altro lato, non sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda invalidamente proposta ad organo carente di competenza. Non essendo ammessa la riassunzione del giudizio di fronte al tribunale (arbitrale od ordinario) dichiarato competente, la parte è costretta a riproporre ex novo la domanda, esponendosi al pericolo di conflitti negativi di competenza e potendo incorrere in decadenze nel frattempo maturate. 100 © Copyright - Giuffrè Editore Dottrina e giurisprudenza hanno tentato di superare, almeno in parte, in via interpretativa, i gravi inconvenienti causati da questo sistema, sotto l’aspetto della salvaguardia del diritto di azione e della sua effettività (2). In particolare, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 6 dicembre 2012 n. 22002 della sesta sezione (pres. Finocchiaro ed estensore Frasca), ha propugnato, relativamente ai rapporti tra arbitro e giudice, l’esistenza di un fenomeno di translatio iudicii a senso unico. Infatti, per tale decisione, l’art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui afferma che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica l’art. 50 c.p.c., riguarda soltanto il caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella del giudice ordinario; invece, allorché sia il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri, oppure sia la Corte di Cassazione, adita con riferimento ad una pronuncia affermativa della competenza del giudice pubblico, a dichiarare la competenza degli arbitri, è possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri nel termine fissato o, in mancanza, in quello previsto dall’art. 50 c.p.c., con salvezza dell’effetto interruttivo c.d. istantaneo della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943, comma 3, c.c., e di quello permanente, di cui all’art. 2945, comma 2, dello stesso codice (3). Tuttavia, la dottrina dominante ha rilevato, a più riprese, l’impossibilità di superare in via interpretativa l’irragionevolezza e la contrarietà ai principi costituzionali della disciplina dettata dal legislatore ordinario, ritenendo inevitabile l’intervento della Corte Costituzionale (4); pertanto, sono state salutate favorevolmente le ordinanze di rimessione della questione alla Corte del Tribunale di Catania del 21 giugno 2012 e dell’Arbitro unico di Genova del 13 novembre 2012 (5). 2. Con la sentenza n. 223 del 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, c.p.c., “nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e (2) Per l’esame dei plurimi tentativi compiuti dalla dottrina, per ovviare alle criticità denunciate, si rimanda, da ultimi, a MENCHINI, op. cit., 391 ss., e SALVANESCHI, Translatio iudicii a senso unico nei rapporti tra arbitro e giudice?, in Riv. dir. proc. 2013, 1150 ss., specie 1152 ss. (3) Vedi questa pronuncia pubblicata in Riv. dir. proc. 2013, 1150 ss., con nota critica di Salvaneschi, e in questa Rivista 2013, 699 ss., con nota critica di FORNACIARI, Ancora sulla conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti tra giudice e arbitro: Cassazione vs. Corte Costituzionale? (4) Per tutti, si segnalano: LUISO, Effetti sostanziali della domanda e conclusione del processo con una pronuncia di rito, in Riv. dir. proc. 2013, 1 ss., specie10 ss.; MENCHINI, op. cit., 401 ss.; FORNACIARI, op. cit., 702 ss.; SALVANESCHI, op. cit., 1156. (5) Si vedano tali provvedimenti pubblicati in questa Rivista 2012, 891 ss., con nota di FORNACIARI, Conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti tra giudice e arbitro: sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, comma 2, c.p.c.; e in Riv. dir. proc. 2013, 467 ss., con nota di Boccagna, Translatio iudicii nei rapporti tra giudice ed arbitro: sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c. 101 © Copyright - Giuffrè Editore processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 del codice di procedura civile, ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter” (6). La pronuncia del giudice delle leggi consta di due parti distinte. In un primo tempo, viene censurata, in quanto fondata su “argomentazioni fragili”, l’interpretazione accolta dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22002 del 2012, per la quale il secondo comma dell’art. 819-ter c.p.c. si occupa soltanto dei rapporti tra arbitrato e processo statuale, mentre quelli tra processo ordinario ed arbitrato sono regolati dall’art. 50 c.p.c.; invece, costituisce diritto vivente, per il giudice delle leggi, la conclusione che l’art. 819-ter, comma 2, c.p.c. inibisce l’applicazione di regole corrispondenti a quelle enunciate dall’art. 50 c.p.c., tanto nel caso in cui sia l’arbitro a dichiararsi incompetente a favore del giudice statale, quanto nell’ipotesi inversa. Successivamente, richiamando i propri precedenti circa la funzione dell’arbitrato (sentenza n. 376 del 2001) e in ordine alla necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione (sentenza n. 77 del 2007), conclude che “l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite”. L’art. 24 Cost. impone che l’ordinamento giuridico preveda misure idonee ad evitare che la scelta sbagliata del giudice al quale è proposta la domanda abbia ricadute negative per i diritti oggetto della controversia; in particolare, se la parte sia incorsa in errore nello scegliere tra giudice ed arbitro, alla stessa maniera di quanto accade per i rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale, è necessario che sia assicurata la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti. Questa decisione ricalca quella del 2007 in materia di difetto di giurisdizione; oggi, come allora, la Corte Costituzionale sancisce la sussistenza del principio di salvezza degli effetti della domanda giudiziale proposta ad un ufficio che non ha il potere di giudicare, ma non si occupa, né avrebbe potuto farlo, delle modalità tecniche di applicazione di esso e di ulteriori questioni che stanno accanto o a valle di quella affrontata e risolta. Giova evidenziare che, non essendo stata colpita dalla censura di incostituzionalità la parte del comma secondo dell’art. 819-ter c.p.c. che stabilisce la non applicabilità, nei rapporti tra giudice ed arbitro, di regole (6 ) Pertanto non sono colpite dalla pronuncia di incostituzionalità le disposizioni contenute nei commi 1 e 3 dell’art. 819-ter e neppure quelle del secondo comma che escludono l’applicabilità, nei rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti agli articoli 44, 45, 48 e 295 c.p.c. 102 © Copyright - Giuffrè Editore corrispondenti agli articoli 44, 45 e 48 c.p.c., non è stata espunta dal sistema, in modo diretto dalla Corte, la regola per la quale il giudice ad quem non è vincolato dal provvedimento di diniego della competenza emesso da quello a quo e non è costretto, in caso di dissenso, a proporre regolamento di competenza d’ufficio. Ne segue una situazione di incertezza, rispetto alla quale il solo elemento sicuro è che, anche nei rapporti tra arbitro e giudice, deve essere assicurata la conservazione degli effetti della domanda originaria, mentre restano non definite le regole corrispondenti a quelle dell’art. 50 c.p.c. che dovrebbero essere applicate per conseguire tale risultato. Prima di affrontare ex professo gli interrogativi ed i dubbi, deve essere ancora osservato che il contenuto della sentenza della Corte e, prima ancora, delle ordinanze di rimessione induce a ritenere che gli effetti della pronuncia di incostituzionalità siano circoscritti alla disciplina dell’arbitrato rituale e non si propaghino, invece, a quella dell’arbitrato irrituale o libero (7). 3. Quante volte si sia chiamati a disciplinare un fenomeno in senso lato di translatio iudicii, in modo tale che il trasferimento di una causa da un giudice ad un altro non pregiudichi il diritto dell’attore ad ottenere una sentenza di merito e consenta la conservazione degli effetti della domanda originaria, debbono essere affrontati e sciolti taluni nodi. Innanzitutto, occorre individuare il modello di riferimento: riassunzione-prosecuzione della causa davanti al giudice indicato, sulla falsariga di quanto stabilito dall’articolo 50 c.p.c. con riguardo alla declinatoria della competenza tra giudici dello stato oppure riproposizione della domanda secondo quanto previsto per l’esercizio dell’azione di fronte al secondo giudice e instaurazione di un nuovo giudizio, sulla base di quanto imposto, con riferimento al diniego di giurisdizione, dagli articoli 59 l. 69/2009 e, in modo più coerente, dall’art. 11 d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104 (c.d. codice del processo amministrativo)? Circa la forma dell’atto, le differenze tra i due schemi non sono secondarie: la riassunzione è un mero atto d’impulso processuale, con il quale è richiamato il contenuto del precedente atto introduttivo e che può essere compiuto da qualsiasi parte del processo; per contro, la riproposizione della domanda, introducendo un nuovo giudizio sebbene in continuità con quello vecchio, deve essere predisposta secondo le tecniche e le regole del processo ad quem, può essere effettuata soltanto dall’originario attore e deve contenere una editio (7) Confronta, nello stesso senso, CONSOLO, Il rapporto tra arbitri-giudici ricondotto, e giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata e viceversa, in Corr. giur. 2013, 1109 ss., specie 1109-1110; BOVE, Sulla dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c., § 7, in corso di pubblicazione in Giust. proc. civ., 2013, fasc. 4. 103 © Copyright - Giuffrè Editore actionis che, pur avendo a riferimento la situazione materiale già esercitata con la prima domanda, dal punto di vista sia sostanziale sia processuale, sia in linea con le caratteristiche delle tutele azionabili di fronte al nuovo giudice (8). In secondo luogo, è necessario regolare il procedimento di ripresa della causa davanti al giudice competente, stabilendo il momento dal quale essa possa essere riassunta o riproposta, il termine perentorio per il compimento delle attività necessarie e le conseguenze per la sua inosservanza. In terzo luogo, deve essere dettata la disciplina di raccordo tra i due processi; in particolare, si deve chiarire se: a) restano ferme oppure no le preclusioni maturate nella fase processuale che si è svolta dinanzi al giudice a quo; b) conservano o meno effetti, ed eventualmente quali, gli atti posti in essere nel primo giudizio e, in specie, le prove raccolte in esso; c) perdono o meno efficacia le misure cautelari concesse dal primo giudice. Infine, ci si deve chiedere se, in caso di tempestiva ripresa della controversia, le parti ed il giudice siano vincolati dalla decisione resa circa l’incompetenza dichiarata e la competenza affermata. In caso di risposta positiva a tale interrogativo: a) deve essere previsto l’obbligo di indicare, nella pronuncia declinatoria della potestas iudicandi del giudice adito, quale sia l’ufficio competente; esigenza questa che si apprezza vieppiù quante volte il diniego provenga dall’arbitro e la lite appartenga alla cognizione del giudice dello stato; b) deve essere specificato se il giudice ad quem abbia oppure no il potere di rimettere d’ufficio la questione alla Corte di Cassazione, ove dissenta dalla decisione assunta dal primo. Quali sono le ricadute della sentenza della Corte Costituzionale rispetto a tali problemi? E, prima ancora, qual’è la portata innovativa della stessa? Di certo, la pronuncia in commento non introduce nell’ordinamento regole nuove rispetto a quelli che si possono definire i “temi a valle” del trasferimento del processo dal giudice dello stato agli arbitri e viceversa (vincolo del giudice ad quem rispetto alla declinatoria di competenza e suo modo di operare; conservazione o meno degli effetti degli atti compiuti nel primo giudizio e dei provvedimenti emessi dal tribunale incompetente; e così via); la disciplina di essi è rimessa, dunque, all’intervento del legislatore (9). Peraltro, sembra che anche in ordine alla tecnica della ripresa del giudizio (riassunzione-prosecuzione oppure riproposizione della domanda) l’interprete e il futuro legislatore abbiano le mani libere; il giudice (8 ) ( 9) Al riguardo, confronta LUISO, op.cit., 9-10. In questo modo, già CONSOLO, op.cit., 1111-1112. 104 © Copyright - Giuffrè Editore delle leggi si è limitato a sancire la necessità dell’accoglimento, nei rapporti tra giudice ed arbitro, del principio della salvezza degli effetti della domanda originaria, ma non ha inserito, in via immediata, nell’ordinamento un regolamento identico a quello operante tra giudici dello stato con riguardo alla declinatoria di competenza, incentrato sulla riassunzione ex art. 50 c.p.c. e sulla traslatio iudicii, per cui anche in ordine a tale decisivo aspetto sussiste oggi una lacuna che deve essere in qualche maniera colmata. (10) 4. Non è possibile fornire in via interpretativa la soluzione di questi problemi; è indispensabile l’intervento del legislatore, il quale deve dettare un’apposita e specifica disciplina. Ciò, principalmente, per due ordini di motivi. La prima ragione è rappresentata dalla considerazione che talune scelte sono assolutamente discrezionali, prescindono dal modello generale adottato e non sono imposte da aspetti di ordine logico e giuridico qualificabili come condizionanti. Un esempio per tutti: una volta riconosciuta l’efficacia vincolante della decisione del giudice di merito a quo rispetto a quello ad quem circa l’operatività o meno della convenzione di arbitrato e, quindi, in ordine all’incontestabilità da parte del secondo della pronuncia del primo, resta da stabilire se il tribunale (pubblico o privato) di fronte al quale è trasmigrata la causa abbia o meno il potere di sollevare d’ufficio la questione di fronte alla Corte di Cassazione e, in caso di risposta negativa, quale sia lo strumento tecnico (regolamento di competenza, regolamento di giurisdizione o altro ancora), quali siano i termini e quali siano gli effetti prodotti sul giudizio di merito; la risposta a queste domande prescinde del tutto dallo schema generale accolto (riassunzione ovvero riproposizione della domanda), come è dimostrato, da un lato, dagli artt. 44 e 45 c.p.c. e, dall’altro lato, dagli artt. 59, comma 3, l. 69/2009 e 11, comma 3, del c.p.a. Il secondo argomento è costituito dal rilievo che entrambi i riferimenti di diritto positivo — la riassunzione dell’art. 50 c.p.c. e la riproposizione della domanda di cui agli artt. 59 l. 69/2009 e, soprattutto, 11 del c.p.a. — non si attagliano completamente ai rapporti tra arbitro e giudice dello stato. La tecnica della riassunzione con conseguente prosecuzione del processo originario, dettata dall’art. 50 c.p.c. in caso di declinatoria di competenza nelle relazioni tra giudici ordinari, mal si presta ad essere utilizzata con riferimento ai rapporti tra giudizio arbitrale e giudizio statale, a causa della radicale diversità di regole processuali nell’uno e nell’altro. In particolare, specialmente nelle ipotesi di translatio iudicii dal tribunale (10) Analogamente BOVE, op. cit., § 5; contra, CONSOLO, op. cit., 1110 ss. 105 © Copyright - Giuffrè Editore ordinario a quello privato, la necessità che venga costituito il collegio arbitrale prima della eventuale prosecuzione del processo non permettono di tener fermo l’atto introduttivo del primo giudizio e di ritenere bastevole il compimento di un semplice atto di riassunzione. Anche la disciplina concernente lo svolgimento dei due processi presenta tratti di differenziazione troppo accentuati per ammettere una mera translatio iudicii; per convincersi di ciò, basti pensare al regime delle preclusioni, delle prove, delle nuove domande in corso di causa, degli interventi e della chiamata di terzi (11). Però, anche il sistema della riproposizione della domanda, nella sua forma più coerente che è quella risultante dall’art. 11 del c.p.a., essendo invece un ibrido la disciplina risultante dall’art. 59 l. 69/2009, seppure incentrato sulla riproposizione della domanda e, dunque, sotto questo punto di vista, maggiormente adeguato a regolare il trasferimento del giudizio dal tribunale arbitrale a quello pubblico e viceversa, presenta aspetti di criticità, allorché sia integralmente applicato ai rapporti tra giudice ed arbitro. Infatti, tali ultimi rapporti sono ricondotti dal codice di rito non alla giurisdizione ma alla competenza. Inoltre, i due giudizi, pur alquanto diversi per ciò che attiene alle regole di svolgimento, hanno i medesimi caratteri e lo stesso oggetto: si tratta sempre di processi di accertamento, che dichiarano il modo di essere delle situazioni soggettive. Ben diverso discorso vale, invece, per il processo amministrativo e per quello civile, così differenti tra di loro per la struttura e per l‘oggetto: l’uno di tipo impugnatorio e volto al controllo del potere e del suo esercizio; l’altro di natura dichiarativa ed avente per oggetto direttamente i diritti sostanziali preesistenti al processo. In definitiva, appare non eludibile l’intervento del legislatore, che è chiamato a prevedere una disciplina ad hoc, sulla base delle peculiarità e delle caratteristiche sia dei due giudizi sia della questione che concerne l’individuazione del tribunale (pubblico o privato) cui spetta il potere di giudicare. 5. La sentenza della Corte Costituzionale ha introdotto nell’ordinamento, con operatività immediata, la regola che, nei rapporti tra giudice ed arbitro, è consentito riprendere il processo davanti all’ufficio la cui competenza sia stata riconosciuta, con salvezza degli effetti della domanda originaria. Da questo punto in avanti, però, si brancola nel buio, in quanto, sino a che non interverrà il legislatore, l’operatore deve ricavare in via inter(11) Così, ad esempio: quale sorte hanno nel giudizio che prosegue di fronte agli arbitri le domande proposte in via riconvenzionale o contro terzi chiamati, che riguardano pretese che non rientrano nella convenzione di arbitrato? 106 © Copyright - Giuffrè Editore pretativa le modalità tecniche attraverso le quali può essere conseguito tale risultato, balzando da una norma all’altra. Nell’auspicio che il Parlamento provveda rapidamente, nell’attesa, non si può sfuggire, tuttavia, ad una scelta tra i due paradigmi normativi: quello dell’art. 50 c.p.c. e quello degli artt. 59 l. 69/2009 e 11 c.p.a. Due sono i capisaldi da cui prendere le mosse: da un lato, l’estraneità e la diversità tra giudizio statale ed arbitrale sotto l’aspetto del rito applicabile; dall’altro lato, l’identità di oggetto, di struttura e di funzione tra i due processi, i quali, allo stesso modo, risolvono una lite insorta tra due soggetti, dichiarando l’esistenza o meno della situazione sostanziale controversa e dettando la regola di condotta per il futuro (12). Entrando ora nel particolare, la tecnica per riprendere la lite è quella della riproposizione della domanda; tale conclusione è imposta dalla radicale diversità di regole processuali nell’una e nell’altra sede (13). È necessario, cioè, instaurare un nuovo giudizio mediante un nuovo atto introduttivo, nel rispetto delle norme processuali previste per il rito applicabile (14). In tale modo, sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda originaria — del resto, oggi, la domanda proposta agli arbitri è in grado di produrre i medesimi effetti di quella introduttiva del processo statale — sempre che, ovviamente, il nuovo atto abbia lo stesso petitum sostanziale e processuale di quello invalidamente radicato davanti al tribunale incompetente. Il riferimento normativo è costituto dagli artt. 59 l. 69/2009 e 11 c.p.a., per cui il giudizio deve essere riproposto entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia (art. 59, comma 2, l. 69/2009 e art. 11, comma 2, c.p.a.). Se la tecnica è quella della riproposizione della domanda, si dovrebbe, poi, ritenere che essa possa essere introdotta soltanto dall’attore e non anche dalle altre parti, che debba essere conferito un nuovo mandato al legale e che l’atto debba essere notificato personalmente ai soggetti convenuti. Poiché i due giudizi presentano oggetti sostanziali omogenei, come uguali sono le tecniche di tutela (dichiarativa e cautelare) che vengono in campo, è da ritenere che le misure cautelari concesse dal primo giudice (12) La Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ha valorizzato quest’ultimo elemento, sostenendo che il giudizio degli arbitri è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione. (13) Così già BOVE, op. cit., § 5 ss., sulla base del rilievo che i rapporti tra giudice pubblico e privato sono riconducibili alla giurisdizione; in forza delle premesse accolte circa la portata della sentenza della Corte, invece, CONSOLO, op. cit., 1110 ss., ricorre allo schema della riassunzione ex art. 50 c.p.c. (14) Trova applicazione il comma 2 dell’art. 59 l. 69/2009, nella parte in cui dispone che “la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile”. 107 © Copyright - Giuffrè Editore conservino efficacia. Tale soluzione esce rafforzata dalla considerazione che, di regola e fatto salvo soltanto il caso della sospensione delle delibere impugnate (art. 35, comma 5, d.lgs. 5/2003), il potere cautelare appartiene al giudice dello stato, quantunque la controversia sia compromessa in arbitri. Da escludere, invece, che le preclusioni processuali eventualmente maturate nel primo procedimento valgano anche nel secondo, posto che talune attività nel giudizio arbitrale non possono addirittura essere compiute (ad esempio, proposizione di domande riconvenzionali o verso terzi, relative a diritti sostanziali non ricompresi nella convenzione) e che, ove operassero nel procedimento arbitrale le preclusioni intervenute in quello ordinario, le parti subirebbero, all’interno del primo, limitazioni ai propri poteri non stabilite con la convenzione. Le prove raccolte davanti al giudice (pubblico o privato) possono essere valutate per lo meno come argomenti di prova, a meno che le modalità di assunzione delle stesse non siano incompatibili con quelle prescritte dalle norme processuali del rito applicabile davanti all’ufficio ad quem; problema quest’ultimo che può porsi, specialmente, nel passaggio dal giudizio arbitrale a quello statale (art. 59, comma 5, l. 69/2009 e art. 11, comma 6, c.p.a.) (15). Infine, è necessario che sia previsto il vincolo del giudice al quale è riproposta la domanda rispetto alla pronuncia declinatoria della potestas iudicandi; per esso è incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza indicata. Ciò significa, però, che l’arbitro non potrà limitarsi a statuire che la controversia appartiene al giudice ordinario, ma dovrà anche stabilire quale sia l’ufficio competente; in modo corrispondente, l’eccezione d’incompetenza formulata in sede arbitrale, sarà considerata inammissibile se non sia indicato il tribunale pubblico ritenuto competente (16). A questo proposito, però, sorge un dubbio, non risolvibile in via interpretativa: fatto salvo il caso in cui la pronuncia provenga dalla Corte di Cassazione, alla quale il giudice designato non può in alcun modo sottrarsi, è consentito a quest’ultimo, ove vada di diverso avviso rispetto al tribunale remittente, sollevare d’ufficio il conflitto di fronte alla Suprema Corte? Poiché i rapporti tra arbitri e giudici sono assimilati alla competenza per territorio derogabile, adottando il criterio dell’art. 44 c.p.c., tale domanda dovrebbe avere risposta negativa, anche se l’opposta soluzione appare preferibile. Come è facile intendere, l’operatore è chiamato a compiere un vero (15) Si pensi, ad esempio, alle prove testimoniali che gli arbitri abbiano assunto con le modalità di cui all’art. 816-ter, comma 2, c.p.c. (16) Si applicano, dunque, in via analogica, gli artt. 59, commi 1 e 2, ed 11, comma 1, c.p.a. 108 © Copyright - Giuffrè Editore e proprio slalom, saltando da una norma all’altra, con il rischio elevatissimo di incorrere in una buca e di cadere a terra. Per quanto elevata sia la capacità dell’interprete di muoversi nei meandri degli istituti coinvolti nei fenomeni riconducibili in senso lato alla translatio iudicii, è pressoché impossibile fornire risposte anche soltanto relativamente sicure a questi interrogativi. Il pericolo che trovi applicazione il vecchio brocardo tot capita, tot sententiae è elevatissimo. L’intervento del legislatore deve essere immediato, per scongiurare che errori processuali causati dall’incertezza delle regole applicabili rendano difficile o addirittura impediscano alla parte di realizzare la conservazione degli effetti della domanda erroneamente proposta a giudice (pubblico o privato) sfornito del potere di giudicare in ordine alla controversia. SERGIO MENCHINI IV 1. L’idea della potenziale fungibilità dei mezzi per il risultato ha indotto la Consulta a dare corpo all’esigenza di non vanificare la protezione del soggetto che, esercitando il diritto di azione, incorre nella fin de non-recevoir dell’organo adito per un riscontrato difetto di competenza (in senso lato) nel rapporto giudice privato/giudice pubblico. Echeggiando la tematica della competenza, la decisione aggiunge peraltro un anello alla nota catena di eventi che va sotto il nome di translatio: dapprima le Sezioni Unite del 2007 con immediato feedback della Corte costituzionale; di seguito l’art. 59 l. n. 69/2009 e l’art. 11 c.p.a. La direzione della sentenza non può che trovare concordi gli interpreti, malgrado che, risolvendo un problema di fondo, essa ne apra altri, anche in considerazione del fatto che ormai translatio è diventata una sparkling word, buona a tutto (finanche all’impensabile: v. in proposito lo sproposito di Cass. S.U. n. 2312/2012). Ecco dunque il riconoscimento che un giudizio proveniente da arbitro è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione statuale: la Corte costituzionale emenda il codice di rito imponendo la possibilità del passaggio da una tutela all’altra, in una corrispondenza biunivoca che presuppone la reciprocità tra le due tutele. Si sa che questa reciprocità era stata negata dalla ordinanza della Corte di cassazione n. 22002/12 (ampiamente presa in considerazione dalla stessa Corte costituzionale) che, introducendo la possibilità della translatio, l’aveva però limitata al passaggio dal giudice agli arbitri, offrendo un facile bersaglio ai commentatori. Si può però ritenere che, in tutta la sua irragionevolezza, 109 © Copyright - Giuffrè Editore sia stata proprio questa pronuncia ad aver asfaltato la strada percorsa poi fluidamente dalla Consulta. Pur immersa in una curiosa logica autarchica volta a garantire alla sola giurisdizione (ordinaria) la possibilità di condonare l’errore nella scelta iniziale dell’organo di tutela, la Cassazione aveva eretto comunque un ponte tra due mondi che l’articolo 819-ter comma 2 c.p.c. sembrava rendere incomunicabili: una volta gettato il ponte appare palesemente irrazionale porre all’imbocco di uno dei lati un cartello di divieto di accesso. 2. Il secondo comma dell’art. 819-ter fu scritto per reagire alle defatiganti prassi domestiche, che — complice una malintesa ideologia “giurisdizionalistica” della Cassazione — rendevano lo svolgimento del giudizio arbitrale ancillare rispetto alla giurisdizione pubblica e lo esponevano al ricatto continuo della sospensione. Con il tema della sospensione la dinamica dell’art. 50 c.p.c. ha in realtà poco a che fare, ma il richiamo anche di tale articolo nel comma in discorso fu frutto della opacità del quadro, mancante all’epoca della possibilità di translatio tra organi eterogenei. In tale situazione il legislatore ammise il regolamento di competenza ma, prudentemente, solo rispetto alla pronuncia del giudice. Non solo quindi contribuì ad adombrare la logica monodirezionale a cui si è aggrappata la pronuncia della Cassazione, ma si sentì obbligato a non vincolarsi, attraverso la recezione della dinamica delle pronunce sulla competenza, ad una scelta sulla natura del rapporto tra procedimento arbitrale e procedimento giurisdizionale (se rapporto di competenza, di giurisdizione o di altro ancora). Le idee erano (e, beninteso, restano) ancora confuse sul piano classificatorio, un piano dove dominano ancora le preferenze tassonomiche degli interpreti. La successiva attuazione dell’idea della translatio (termine che continuo ad usare solo per comodità) ha alterato non poco il contesto. Il postulato dell’equivalenza di fondo — che non vuol dire identità — dei responsi di tutela dei diritti attingibili tramite la tecnica “domanda/organo giudicante/contraddittorio”, inibisce di penalizzare l’errore di chi sbaglia ad imboccare la via della tutela; tantopiù che la qualificazione come errore della scelta è spesso un posterius poco visibile ex ante, l’effetto del senno di poi, la conseguenza di decisioni interpretative difficili e, quindi, non obbligate a priori, imprevedibili in una certa misura. In un quadro siffatto non v’è alcuna ragione perché i rapporti tra giurisdizione pubblica e giurisdizione privata facciano eccezione. La sentenza della Consulta questo coglie e l’efficacia e la semplicità con cui lo mostra stanno ad indicare la naturalezza della scelta. 3. Il rapporto tra il tenore della dichiarazione di incostituzionalità e la struttura della norma considerata apre però problemi tecnici di vario 110 © Copyright - Giuffrè Editore momento. Che deve fare la parte a cui viene sbarra la via della tutela imboccata a favore dell’altra via? Si applicherà tout court l’art. 50 c.p.c. (riassunzione vera e propria nei termini dettati dall’articolo), ovvero si dovrà pensare alla riproposizione dell’azione con atto autonomo in luogo della ripresa della procedura falciata dalla fin de non-recevoir? La seconda soluzione sembra obbligata. Non ci si può far ingabbiare dal riferimento all’art. 50 c.p.c., riferimento imposto alla Corte, in considerazione del testo incriminato e del tenore delle rimessioni: il divieto di passaggio dall’una all’altra via fu formulato dal legislatore del 2006 con il richiamo a tale norma, onde il dispositivo della sentenza di accoglimento non può fare altro che esprimersi di conseguenza (“illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 c.p.c.”). La soluzione della riassunzione si scontra però frontalmente con la netta separazione del genus del procedimento di provenienza rispetto al genus del procedimento da adottare nella diversa dimensione giurisdizionale. La riassunzione del procedimento richiamata dall’art. 50 c.p.c. è il mezzo per una pura e semplice continuazione: ciò presuppone una identità procedimentale addirittura inconcepibile nel nostro caso, un caso in cui tanto le tecniche di introduzione della controversia, quanto quelle di gestione del procedimento sono totalmente diverse. Non si capisce come si possa parlare di continuazione: cos’è che continua? A quale soggetto si aggancia il predicato? La verità è che, parlando di translatio tra forme di tutela eterogenee (pur se unificate dal fine e dal rispetto di comuni principi) si ricorre ad un’immagine generica, meramente evocativa dell’esigenza di impedire che l’errore nella scelta dell’organo produca le conseguenze irreparabili connesse alla mancata sterilizzazione degli eventi successivi. Per soddisfare questa esigenza è sufficiente munire di retroattività la proposizione della domanda all’organo sbagliato in caso di tempestiva riproposizione della domanda all’organo corretto, senza dover immaginare l’impossibile, cioè la prosecuzione di iter procedimentali eterogenei, talmente eterogenei che il mero atto di impulso non è neppure immaginabile: per definizione gli atti di impulso possono solo rimettere in moto un procedimento sopito ma non chiuso, quindi idoneo alla riapertura aliunde. L’impulso non può quindi mai sostituire una nuova domanda doverosamente articolata nelle forme ad hoc imposte dalla regola di procedura concretamente applicabile. Il fatto che tale domanda veicoli la stessa cause of action su cui non si è potuto pronunciare il primo organo, non contraddice il fatto che il secondo organo deve essere investito da una autonoma domanda, confacente alla sua posizione e distinta rispetto a quella recapitata all’indirizzo sbagliato. 111 © Copyright - Giuffrè Editore 4. A ben guardare, comunque, il richiamo della Consulta all’art. 50 c.p.c. è temperato dal fatto che tanto l’art. 819-ter comma 2 quanto il dispositivo della sentenza parlano (non di applicazione diretta, ma) di applicazione di “regole corrispondenti alle previsioni” di tale articolo. Ciò agevola la possibilità di andare al nocciolo del problema che è quello di evitare la penalizzazione dell’attore che ha sbagliato strada, senza restare impaniati in impossibili meccanismi di riassunzione. E proprio il rapporto tra giurisdizione pubblica e giurisdizione privata mostra in maniera esemplare questa impossibilità. Di che riassunzione mai si potrà mai parlare quando, a seguito della declinatoria del tribunale, occorrerà costruire ex nihilo il procedimento arbitrale, a cominciare dalla nomina degli arbitri? Si veda in proposito l’art. 810 e si osservi la successione di atti: si può qualificare riassunzione la notifica dell’atto con cui la parte “rende nota all’altra l’arbitro o gli arbitri che essa nomina, con invito a procedere alla designazione dei propri”? Potrà mai considerarsi una vera riassunzione quel che avviene spesso (e legittimamente) nell’arbitrato amministrato, cioè il deposito della domanda presso la Camera arbitrale (in attuazione del relativo regolamento scelto dalle parti), deposito che fa le veci delle regole di introduzione della domanda arbitrale sancite dal codice di rito? E che dire dell’arbitrato societario dove l’attore deve adire una appointing authority, secondo modalità spesso prescritte dallo statuto, con atto talora solo genericamente identificativo della materia del contendere? Certo, per poter fruire del beneficio della retroattività occorre un certo grado di chiarezza sulla sostanziale identità della editio actionis rispetto alla prima, ma non si vede come una simile procedura possa assimilarsi alla riassunzione, termine tecnico a significato univoco (almeno fino ad una — non auspicabile — ridefinizione). La cosa diventa poi quasi umoristica se la si guarda dall’altra sponda. Si immagini la faccia del cancelliere presso il quale si vuol riassumere ... che cosa? Un procedimento che non risulta da nessuna parte, né presso il suo ufficio né presso alcun altro ufficio giudiziario? E ancora più stralunata si presenterebbe la richiesta nello scenario prossimo venturo del processo telematico, che si regge sulla conformità di ogni passo a protocolli rigidamente formalizzati, tra i quali è decisamente dubbia la reperibilità di files idonei a permettere il tipo di passaggio dalla dimensione della giurisdizione privata (“non-giurisdizione” per la burocrazia processuale) alla giurisdizione pubblica. Questione di moduli, obietterà qualcuno, ma il processo è anche (sempre di più, si direbbe) un fatto di moduli (cartacei o elettronici). La verità è che l’unica soluzione è quella, più modesta certo ma sola praticabile, di accontentarsi della mera copertura retroattiva degli effetti della prima domanda se, nei tre mesi successivi alla comunicazione del provvedimento di chiusura in rito del procedimento contenente la negazione della via pubblica prescelta a favore della via privata, l’attore (non 112 © Copyright - Giuffrè Editore l’altra parte, come sarebbe possibile se di riassunzione/prosecuzione si trattasse) compia formalmente l’atto di adizione della via privata secondo le regole legali proprie del tipo di arbitrato o dettate ad hoc dalla relativa convenzione. E, viceversa, se nei tre mesi dal lodo che dichiara l’impraticabilità della via privata, l’attore in arbitrato notifichi la citazione contenente — mutatis mutandis — l’azione già esercitata. Ovvero notifichi il ricorso al TAR se la via giurisdizionale da seguire è quella del processo davanti al giudice amministrativo. Termini congelati, ovviamente, dalla (sempre possibile) impugnazione del provvedimento di declinatoria, e riprendenti a decorrere dal passaggio in giudicato del provvedimento di conferma. 5. Detto questo, si può solo accennare ad altri problemi incombenti sul funzionamento del meccanismo. Problemi seri non dovrebbero sorgere rispetto alla presenza di provvedimenti cautelari (o di relativi procedimenti in corso). Il cambio dell’organo che decide il merito non altera la competenza del giudice statuale, rispetto alla quale è indifferente l’attribuzione della potestà decisoria all’uno o all’altro organo. Più incerto il tema della sopravvivenza della sospensiva di delibera assembleare direttamente proveniente dal collegio arbitrale in caso di arbitrato societario seguito da translatio al giudice statuale. Propenderei per la conservazione: concepibile, benché teorico per la scansione dei tempi, il reclamo, restano pur sempre al giudice statuale la possibilità di revoca, modifica e declaratoria di inefficacia. Posto che contro la declinatoria del giudice è ammesso il regolamento di competenza e che il suo mancato esperimento la rende definitiva e incontestabile, lo stesso dovrebbe dirsi del mancato esperimento dell’azione di nullità contro la declinatoria arbitrale. Ne segue che il diverso organo successivamente adito dovrebbe attenersi alla decisione senza possibilità di ribellione. Questo però collide tanto con la previsione dell’art. 59 l. 69/2009, che al suo terzo comma prevede l’esperibilità del regolamento di giurisdizione d’ufficio, quanto con lo stesso art. 50 c.p.c. di cui è appendice l’art. 45 sul c.d. conflitto di competenza: unica soluzione sarebbe (una volta per tutte) il riconoscimento del valore vincolante della decisione del primo organo, nella riconosciuta inapplicabilità diretta di ambedue le discipline. Non è facile raffigurarsi un consenso esteso su questa conclusione, ma la sensibilità della dottrina in tal senso appare grandemente accresciuta e la sua diffusione promettente. Da ultimo. Si può scommettere tranquillamente che il meccanismo propugnato dalla Corte costituzionale verrà inteso come avente a termine esclusivo di riferimento l’arbitrato rituale. Sarà questa linea a prevalere, ma per inerzia di pensiero più che per fondatezza intrinseca. La Corte 113 © Copyright - Giuffrè Editore pone certo al centro della sua motivazione la “fungibilità di risultati” ma, mi chiedo, forse la declinatoria proveniente dal giudice pubblico si cura di chiarire la natura dell’arbitrato che funge da presupposto processuale negativo? No di certo (e se lo facesse lascerebbe il tempo che trova non essendo certo questo l’elemento portante e vincolante). Ora, ammettiamo che l’attore abbia ottenuto un sequestro da parte del tribunale che si spoglia però del merito ritenendo valida ed efficace una convenzione d’arbitrato. è concepibile che, se tale convenzione indirizzi verso l’irritualità, egli, imboccando prontamente la via arbitrale, perda i benefici connessi alla domanda giudiziale e, con essi, lo stesso sequestro che la legge gli garantisce indipendentemente dalla ritualità o meno dell’arbitrato? La risposta positiva (che mi aspetto verrà ripetuta in coro) non ha senso. L’art. 808-ter procedimentalizza fortemente l’arbitrato irrituale, garantendo il contraddittorio e la pronuncia di un organo terzo che non ha meno autorità tra le parti rispetto a quella contemplata dall’art. 825 c.p.c. per il fatto che il suo eventuale annullamento deve provenire “dal giudice competente secondo le disposizioni del libro I”, invece che secondo il Capo V del Titolo VIII del codice di rito. Credo di aver dimostrato in altre occasioni i presupposti di questa conclusione; non mi illudo che possa prevalere su radicati pregiudizi. BRUNO SASSANI 114 © Copyright - Giuffrè Editore CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 10 ottobre 2011, n. 20741; FORTE Est.; Sectram Servicos Comerciais Para Trasportes s.a. (avv. Manfredi) Millennium Shield s.r.l. in liquidazione (avv. Flavio Barigelletti). Compromesso e clausola compromissoria - Interpretazione - Oggetto - « Controversie connesse all’esercizio dell’attività sociale » - Acquisto della qualità di socio - Attività dannosa eseguita prima dell’acquisto - Compromettibilità Fondamento - Fattispecie. La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie « connesse più in generale all’esercizio dell’attività sociale » deve ritenersi estesa ad una domanda risarcitoria derivante da attività svolta prima dell’ingresso nella compagine sociale da parte del socio, se i danni lamentati si sono verificati dopo l’acquisto di tale qualità e se, comunque, con la sua condotta anche anteriore, il socio abbia concorso ad impedire lo svolgimento dell’attività sociale, con comportamento violativo degli obblighi assunti con i patti parasociali. (Nella specie il socio, titolare dell’1% del capitale sociale, era rimasto inadempiente all’obbligo di riempire il 72% della capienza della nave, di proprietà della società, destinata a svolgere l’attività sociale di trasporto via mare di automezzi pesanti). CENNI DI FATTO. La società di diritto portoghese Sectram - Servicos Comerciais Para Trasportes s.a. acquisiva l’1% del capitale sociale appartenente nel residuo 99% alla O.T.C. Overseas Trading Consulting s.r.l. (da ora: O.T.C.) della Millennium Shield s.r.l. (d’ora in poi: Millennium), società costituita per realizzare l’indicato programma con una nave della società di cui era divenuta socia. La stessa società portoghese, che già forniva nel suo paese servizi di assistenza commerciale e amministrativa ad autotrasportatori, si era impegnata a riempire il 72% della capienza della nave della Millennium da utilizzare per l’attuazione del programma con automezzi di clientela portoghese, garantendo con l’adempimento di tale obbligo l’esecuzione del progetto da lei proposto e divenuto programma societario. Peraltro, essendo sin dall’inizio dell’attività sociale mancato il riempimento della nave con autoarticolati e automezzi di clienti portoghesi nella percentuale per la quale la Sectram s.a. si era impegnata (nei primi due viaggi i mezzi trasportati erano stati meno di dieci), il programma societario fatto proprio dalla Millennium era stato subito chiuso con gravi perdite e la società aveva notificato alla socia minoritaria il 22 maggio 2001 atto di accesso a giudizio arbitrale, con richiesta di condanna al risarcimento del danno. Non essendosi trovato tra le parti l’accordo sul nome dell’arbitro unico di cui alla clausola compromissoria dello statuto sociale, in conformità a questa, l’arbitro era stato nominato dal presidente dell’ordine dei commercialisti di Ancona e l’eccezione della Sectram di inammissibilità e improcedibilità del giudizio arbitrale era stata respinta nel lodo così come la sua domanda riconvenzionale di condanna dell’attrice al risarcimento del danno ad essa prodotto per avere imposto di iniziare la esecuzione del programma di trasporto in un periodo di scarso movimento delle merci e contro la volontà della socia minoritaria. 115 © Copyright - Giuffrè Editore Il lodo del 27 settembre 2001 aveva invece parzialmente accolto la domanda principale, condannando la convenuta al risarcimento del danno per il suo inadempimento causa unica della fine dell’attività della Millennium. Tale lodo è stato impugnato dinanzi alla Corte d’appello di Ancona dalla Sectram, che ha dedotto in via preliminare che la clausola compromissoria dell’art. 24 dello statuto sociale non comprendeva l’azione risarcitoria esercitata tra quelle compromettibili, per cui l’arbitro non aveva il potere di decidere la controversia; la causa inoltre era stata decisa senza applicare le norme sull’arbitrato internazionale del codice di rito italiano e nonostante il mancato accoglimento delle istanze istruttorie della impugnante. La Corte di merito ha rigettato l’eccezione già proposta nel giudizio arbitrale, di incompetenza dell’arbitro per la inapplicabilità oggettiva della clausola compromissoria essendo l’impugnante divenuta socia della Millennium, dopo che già si erano verificati i fatti a base dell’azione risarcitoria, per cui la domanda non era collegabile alla condizione di socia della società portoghese, ma alla mera connessione del rapporto di agenzia di essa con la società o l’altra socia O.T.C., al di fuori della stessa attività sociale. Con sentenza del 10 settembre 2005, la Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’impugnazione del lodo della Sectram, riconoscendo la competenza dell’arbitro sulla controversia considerata comunque connessa all’attività sociale, anche se il danno era derivato da attività precedente all’acquisto della qualità di socia della condannata, nessun rilievo avendo il fatto che si versava in una ipotesi di arbitrato internazionale, non avendo l’impugnante chiarito come in concreto tale carattere del giudizio arbitrale avesse inciso sulla validità del lodo, mancando nella impugnazione ogni accenno alla nullità di quest’ultimo per effetto della nazionalità portoghese della società impugnante, ai sensi dell’art. 838 c.p.c. nella versione ratione temporis applicabile. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1.1. Il primo motivo di ricorso di Sectram denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., n. 4 e art. 817 c.p.c., anche per motivazione contraddittoria, erronea e insufficiente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte di appello di Ancona ritenuto irrilevante che i fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria si fossero verificati prima dell’assunzione dalla ricorrente della qualità di socia di Millennium per l’1% del capitale, in quanto l’art. 24 dello statuto costituente clausola compromissoria, secondo il lodo, non impone la qualità di socio delle parti come presupposto necessario dell’azione da esercitare in sede arbitrale. La clausola recita infatti: « le controversie che dovessero insorgere tra società e ciascun socio, ovvero tra i soci medesimi, nonché tra gli eredi del socio defunto e gli altri soci e/o la società, connesse alla interpretazione e all’applicazione dell’atto costitutivo e/o più in generale, all’esercizio dell’attività sociale, verranno deferite alla decisione dell’arbitro unico ». Ad avviso della ricorrente Sectram, la Corte di merito ha erroneamente ritenuto equivalenti « l’attività sociale » di cui alla clausola che precede con « l’oggetto sociale », dovendosi limitare le controversie compromettibili a quelle relative alle impugnazioni delle delibere sociali o al trasferimento di quote sociali o alla esclusione di un socio, perché in tali casi è certa la loro connessione a dette attività societarie, che non comprendono ogni causa tra socio e società sul mero 116 © Copyright - Giuffrè Editore svolgimento delle attività di cui sopra come quella oggetto della presente causa. Nessuna previsione vera nell’art. 24 dello statuto sociale di un’azione risarcitoria per l’inadempimento da un socio di un obbligo assunto nei confronti di un altro socio, che non è qualificabile come controversia che attiene alla attività sociale, non avendo alla base l’interpretazione o applicazione dell’atto costitutivo né l’esercizio della attività sociale, anche a non considerare che, nella fattispecie, l’azione si è fondata su fatti anteriori all’acquisto della quota sociale da parte della ricorrente e ad inadempimenti di impegni assunti prima di acquisire la partecipazione alla società attrice. L’arbitro unico poteva giudicare solo di controversie che avessero la loro fonte nell’atto costitutivo della società e soltanto l’errata interpretazione della clausola ne ha esteso la portata ad un inadempimento da parte di un socio di obblighi non direttamente connessi a tale qualità. Afferma in replica la controricorrente che esattamente la Corte di merito ha rilevato che la qualità di socio non costituisce elemento qualificante delle azioni da esercitare in sede arbitrale, essendo previsto nella clausola compromissoria espressamente che tutte le cause connesse « più in generale, all’esercizio dell’attività sociale verranno deferite alla decisione dell’arbitro unico », per cui si è esattamente negata dalla Corte di merito la fondatezza della impugnazione del lodo per il profilo che precede dell’abuso della competenza arbitrale. 1.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 832, 833 e 834 c.p.c. nella versione vigente prima dei D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, perché si sarebbe dovuta applicare la disciplina dell’arbitrato internazionale per la forma della clausola compromissoria e in specie per la previsione specifica in essa delle norme applicabili dall’arbitro nella decisione di merito, che invece nel caso certamente mancava. Ad avviso della ricorrente, l’art. 24 dello statuto sociale non rispetta le previsioni dell’art. 833 c.c., avendo Sectram la sua sede in (Omissis), in quanto non si era stabilito quale delle normative nazionali delle parti in causa o comunitaria dovesse applicarsi alla fattispecie, essendo peraltro chiara l’esclusione del criterio equitativo della decisione, adottato invece nella liquidazione dei danni dall’arbitro che su di essi ha deciso senza prove e al di fuori di ogni previsione della equità stessa come criterio di decisione della causa nel compromesso, in violazione dell’art. 829 c.p.c., nn. 1 e 4, già richiamato nel primo motivo di ricorso. Ad avviso della controricorrente, non vi era violazione delle norme processuali in sede arbitrale, essendosi le stesse adottate senza opposizione della società portoghese che aveva accettato il contraddittorio nei limiti di quanto chiesto da controparte già in sede di giudizio arbitrale. 1.3. Si denuncia in terzo luogo la violazione dell’art. 829 c.p.c., per omessa e insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la ricorrente inutilmente denunciato nella sua impugnazione dinanzi alla Corte di merito la mancata prova del danno subito dalla controparte. L’arbitro ha accolto la domanda principale, violando i limiti della clausola, per avere fatto riferimento, nel liquidare il danno subito da Millennium, alle perdite di bilancio, al lucro cessante, al danno all’immagine e persino alle spese sostenute dalla società O.T.C, socia maggioritaria, cioè ai danni di un terzo e non della società attrice, per un accordo concluso prima dell’acquisto della quota minoritaria del capitale da Sectram. La ricorrente è stata condannata dal lodo per 117 © Copyright - Giuffrè Editore danni non provati e comunque subiti da un terzo estraneo alla causa (ad es. le spese sostenute da O.T.C, per l’acquisto del 99% delle quote della società attrice), in violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 828 c.p.c., n. 2, non essendosi tenute in alcuna considerazione — dall’arbitro e poi dalla Corte d’appello in sede di impugnazione — le richieste di prova di Sectram, così sottraendosi le dette due decisioni alla esigenza di dare ragione della condanna in danno della ricorrente, disposta senza valutare le prove chieste dalle parti. La controricorrente afferma che è risultato documentalmente l’inadempimento di Sectram, per non avere procurato a Millennium i clienti autotrasportatori portoghesi nella percentuale promessa, cioè in misura tale che, con i loro mezzi, potessero occupare il 72% della capienza della nave della società attrice, con conseguente insuccesso dei fini della impresa societaria dipeso solamente dalla condotta omissiva della ricorrente, che ha del resto proposto domanda riconvenzionale poi respinta dallo stesso arbitro comunque in rapporto alla medesima attività sociale. 1.4. In quarto luogo è dedotta violazione di legge e omessa e/o insufficiente motivazione del lodo sul rigetto della domanda riconvenzionale della ricorrente di condannare la Millennium a pagare Escudos portoghesi 104.460.616, da convertire in euro, non avendo la decisione dell’arbitro affermato la mancanza di prove a base della richiesta di tale condanna o l’assenza di un inadempimento nell’attività sociale della stessa società attrice. La domanda riconvenzionale decisa negativamente dall’arbitro, anche se Sectram non era socio, della società a l’epoca dei suoi impegni rimasti inadempiuti e posti a base dell’azione nel giudizio arbitrale, è stata respinta senza evidenziare tale specifica situazione nel lodo, con difetto di motivazione di questo sul punto, che si estende anche alla sentenza della Corte d’appello sulla impugnazione per nullità. 1.5. Si lamenta infine la violazione di legge in cui è incorsa la Corte territoriale per omessa motivazione sulla eccezione di difetto di valida procura al difensore della società appellata, avendo Sectram dedotto e provato che Millennium era stata posta in liquidazione con delibera dell’assemblea straordinaria della società impugnata, del 1 ottobre 2002. La stato di liquidazione comporta per la ricorrente la necessità che la procura al difensore sia rilasciata dal liquidatore e non consente di prorogare l’efficacia di quella sottoscritta dall’amministratore della società prima che fosse in stato liquidatorio, per cui nessun potere aveva l’originario amministratore della società in bonis di conferire valida procura, efficace e vincolante pure per la società già in fase di liquidazione, a tutela della quale solo il liquidatore poteva conferire ai difensori il potere di agire in giudizio. La controricorrente afferma che l’impugnazione del lodo è stata proposta alla Corte territoriale quando la s.r.l. Millennium non era ancora in liquidazione, per cui il mandato al difensore era stato correttamente conferito dall’amministratore in carica della società a quella data e nessuna invalidità inficiava la procura sulla quale era fondata l’impugnazione, correttamente decisa dalla sentenza oggetto di ricorso. La controricorrente richiama Cass. 26 marzo 1983 n. 2148 per la quale, provenendo la procura solo dalla società tramite i propri organi e quindi non dal legale rappresentante di essa come soggetto autonomo, il conferimento di poteri 118 © Copyright - Giuffrè Editore resta valido ed efficace anche dopo lo stato di liquidazione, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso che precede. 2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. E’ infatti da rigettare l’eccezione già proposta da Sectram in sede di giudizio arbitrale e con l’impugnazione alla Corte di appello relativa alla carenza di potere dell’arbitro di decidere la controversia relativa all’inadempimento del rapporto sorto dall’accordo che la ricorrente aveva concluso con l’altra socia O.T.C, titolare del 99% del capitale della società attrice per svolgere in Portogallo l’attività di agente della società. Anche se l’obbligo di procacciare clienti in Portogallo all’attrice fu assunto da Sectram prima di divenire socia, ciò non rileva per negare che la controversia fosse compromettibile, avendo l’inadempimento di tale impegno inciso negativamente sulla realizzazione dello scopo della Millennium; comunque la clausola compromissoria nell’atto costitutivo della società vincola anche soggetti che non siano soci, qualora abbiano acquisito tale qualità dopo l’approvazione dello statuto e del compromesso in esso inserito come incontestatamente accaduto nella fattispecie (Cass. 11 maggio 1982 n. 2945) e inoltre allorché, come si rileva nel merito, i danni si siano avuti successivamente all’acquisto della qualità di socio del convenuto che, con la sua condotta, ha concorso a impedire lo svolgimento dell’attività sociale, con comportamento violativo di obblighi assunti con patti parasociali. La controversia assoggettata alla decisione dell’arbitro sorge da una domanda della società Millennium contro la socia minoritaria Sectram e per il profilo soggettivo rientra tra quelle espressamente comprese nella lettera della clausola che prevede, come compromettibili, le cause tra « la società e il socio ». Oggettivamente la controversia si è esattamente ritenuto rientrare tra quelle dell’art. 24 dello statuto perché riguarda « l’esercizio dell’attività sociale », cioè il trasporto marittimo di automezzi e autoarticolati tra Portogallo e Italia, per il quale, ancor prima di divenire socia, Sectram si era impegnata ad assicurare clientela portoghese che coprisse almeno il 72% della capienza della nave dell’attrice destinata all’attività sociale. Anche a dare una lettura restrittiva della clausola compromissoria, in ragione della deroga alla giurisdizione ordinaria di natura comunque eccezionale (S.U. 28 luglio 1998 n. 7398), Sectram deduce che la condotta a lei imputata come fonte dei danni, cioè la mancata acquisizione della clientela in Portogallo, violerebbe un obbligo sorto prima dell’acquisizione da essa della qualità di socia, ma ciò non esclude la competenza arbitrale sulla controversia per gli effetti di tale condotta sulla realizzazione del programma sociale e le ragioni sopra indicate che rendono la causa compromettibile per la clausola di cui sopra. L’inadempimento causa petendi dell’azione di Millennium dinanzi all’arbitro non si è dedotto come effetto di un contratto fonte di un rapporto diverso da quello di società, quale sarebbe stato un contratto di agenzia da eseguire in favore dell’altra socia o della stessa società attrice, e quindi non osta alla estensione alla fattispecie della deroga alla giurisdizione ordinaria (Cass. 7 febbraio 2006 n. 2598), ove si affermi, come la Corte d’appello, con deduzione di certo logica e giuridicamente corretta, che nell’attività sociale erano da comprendere anche l’obbligo di Sectram e il suo inadempimento, tanto che la stessa convenuta in riconvenzione ha chiesto la condanna della attrice per avere preteso l’inizio dell’attività di trasporto cui ineriva il suo impegno inadempiuto, nel periodo meno adatto perché lo stesso avesse successo. E’ infondata la censura della ricorrente che denuncia un errore della 119 © Copyright - Giuffrè Editore Corte di merito per aver equiparato « oggetto » e « attività sociale »; infatti, ai sensi dell’art. 2463 c.c., comma 2, n. 3, nelle società a responsabilità limitata, l’atto costitutivo indica « l’attività che costituisce l’oggetto sociale » con evidente equipollenza dei due concetti, da cui si desume che il trasferimento via mare con la nave dell’attrice tra Portogallo e Italia di automezzi pesanti e autoarticolati, costituiva il programma comune venuto meno e rimasto inattuato a causa dell’inadempimento dalla ricorrente degli obblighi assunti anche quale socia, per cui la causa è stata correttamente ritenuta di competenza dell’arbitro. L’obbligo della ricorrente di procacciare clienti in Portogallo per occupare il 72% della capienza della nave utilizzata con mezzi di costoro, così dando esecuzione al programma sociale, trova la sua fonte nell’attività della società e non solo nell’accordo tra il socio al 99% del capitale della società e la Sectram, anteriore alla acquisizione della qualità di socia di questa, forse costitutivo di un rapporto di agenzia neppure prospettato come causa petendi della lite sia in sede di giudizio arbitrale che nell’impugnazione e nel ricorso. La violazione degli impegni della società portoghese si è correttamente esaminata dall’arbitro designato ai sensi dell’art. 24 dello statuto sociale, perché tali obblighi inadempiuti hanno inciso sull’oggetto sociale e come tali sono stati considerati valido contenuto delle controversie compromettibili, di cui correttamente ha deciso l’arbitro designato in conformità alla clausola compromissoria. Nessuna delle norme indicate nel primo motivo di ricorso risulta violata e la competenza dell’arbitro non può che riaffermarsi, con rigetto del primo motivo di ricorso. 2.2. In ordine al secondo e terzo motivo di ricorso gli stessi sono strettamente collegati in relazione alle censure sulle modalità di decisione del lodo e alle norme o principi in esso applicabili e comunque relativi a carenze di motivazione della sentenza della corte territoriale, sono entrambi infondati. Non si comprende, anche dopo il ricorso in questa sede, quale sia stata nel lodo la violazione delle norme sugli arbitrati internazionali dedotta dalla ricorrente come causa di nullità del lodo, in relazione agli artt. 833 e 834 c.p.c. nella versione vigente alla data della impugnazione e del ricorso, né la ragione per la quale la decisione dell’arbitro avrebbe dovuto ritenersi nulla in rapporto alle predette norme. Ad avviso di Sectram, le parti avrebbero dovuto concordare quali regole di diritto dovevano applicarsi nel giudizio arbitrale, in ragione delle discipline giuridiche diverse dei distinti paesi cui appartengono i due soci della società internazionale ovvero stabilire se nella fattispecie fosse applicabile la disciplina comunitaria, ma non risulta in ricorso quale di tali norme in concreto sia stata disattesa dall’arbitro e quindi dalla Corte di merito, con conseguente genericità del ricorso che, per tale profilo, è inammissibile. In assenza della previsione nella clausola della specifica normativa applicabile, non poteva che rilevare l’abrogato art. 834 c.p.c., che imponeva di applicare la legge « con la quale il rapporto è più strettamente collegato », che correttamente s’è individuato nel diritto interno italiano, cui faceva riferimento la società prima dell’ingresso in essa del socio straniero per una quota assolutamente minoritaria. La ricorrente non deduce una erronea applicazione di norme di diritto nel lodo ma denuncia, nel terzo motivo di ricorso, l’errata liquidazione equitativa dei danni per cui vi è stata la condanna, dovendosi a suo avviso determinare il dovuto in base ai tradizionali canoni probatori. In assenza di espresso divieto nella 120 © Copyright - Giuffrè Editore clausola, secondo la Corte d’appello, l’arbitro ha esattamente applicato nel lodo il diritto interno, liquidando in via equitativa i danni costituiti da perdite e spese erogate per attuare il programma societario di Millennium, tutte provate in via documentale e nel contraddittorio tra le parti, essendo la normativa italiana quella cui si riferiva la clausola prima ancora dell’acquisizione della quota sociale dalla società portoghese cui il compromesso era opponibile, nessuna obiezione essendosi sollevata sullo stesso con l’acquisto della partecipazione dalla società da Sectram. La Corte d’appello rileva che, nell’impugnazione, la natura internazionale dell’arbitrato non è dedotta come ragione di nullità del lodo, deciso con l’applicazione del diritto interno e tale ratio decidendi non è censurata nel ricorso, mancando, come già detto, la specifica indicazione delle norme di diritto portoghese o comunitarie violate nel giudizio arbitrale e nel lodo, con conseguente corretto rigetto per tale profilo dalla Corte territoriale dell’impugnazione per nullità (in tal senso Cass. 4 maggio 2000 n. 5583, per il diritto interno, e S.U. 14 giugno 2007 n. 13894, per il diritto comunitario). Non è dedotta dalla ricorrente violazione di alcuna delle norme inapplicabili agli arbitrati internazionali, ai sensi dell’art. 838 c.p.c. nella versione vigente all’epoca del ricorso, come l’art. 830 o l’art. 831 c.p.c., comma 2, anche essi oggi abrogati e, pure per tale profilo, il motivo di ricorso è da rigettare, non potendo la deduzione della liquidazione equitativa del danno ritenersi violativa di legge, avendo la Corte di appello affermato che la stessa è avvenuta in rapporto alla documentazione prodotta delle parti cioè su perdite dimostrate da documenti sufficienti a decidere la causa ai sensi dell’art. 2697 c.c.. Nessuna violazione vi è stata dell’art. 829 c.p.c., comma 2, anche a non considerare che la liquidazione equitativa del danno di cui all’art. 1226 c.c. non può confondersi con la decisione secondo equità dell’art. 114 c.p.c, esclusa di regola nell’arbitrato internazionale (Cass. 11 dicembre 2007 n. 25943). Il terzo motivo di ricorso denuncia pure difetti di motivazione del lodo stesso ed è, per tale profilo, inammissibile, non potendo rilevare in questa sede senza la indicazione dei fatti o delle circostanze controverse su cui la sentenza impugnata non s’è pronunciata, e senza chiarire la erroneità delle ragioni della sentenza per le quali si è respinta infondatamente la impugnazione del lodo per le pretese carenze motivazionali di questo. Tale conclusione assume rilievo peculiare in rapporto ai danni che la ricorrente afferma essersi liquidati in favore di Millennium, anche se subiti solo dalla socia O.T.C., circostanza di fatto che, dalla sentenza oggetto di ricorso non risulta essersi dedotta nel giudizio di merito, per cui, ai sensi dell’art. 366 c.p.c. anche nella versione anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, la prospettazione di tale circostanza per la prima volta in sede di legittimità è preclusa, non risultando comunque dalla impugnativa in questa sede in quale fase del giudizio di merito la questione fu sollevata. 2.3. In ordine al quarto motivo di ricorso che lamenta l’immotivato rigetto dal lodo della domanda riconvenzionale di risarcimento proposta da Sectram, la censura sembra colpire il lodo e non la sentenza della Corte territoriale, che ha rigettato l’impugnazione dello stesso. Il ricorso censura, comunque in modo generico e quindi non valutabile in questa sede, la soluzione della questione data dalla Corte territoriale, la quale ha ritenuto assorbito ogni problema sul rigetto della domanda riconvenzionale dall’accoglimento dell’azione risarcitorìa proposta 121 © Copyright - Giuffrè Editore in via principale incompatibile da solo sul piano logico con l’eventuale fondatezza della medesima azione in riconvenzione di Sectram; pertanto il quarto motivo di ricorso di questa è inammissibile. 3.4. Deve ritenersi inammissibile anche la censura di cui al quinto motivo di ricorso sul tacito rigetto dell’eccezione di Sectram, che aveva dedotto il venir meno della valida procura al difensore della società posta in liquidazione coatta successivamente alla impugnazione proposta alla Corte d’appello e nel corso del giudizio svoltosi dinanzi a quest’ultima. A tale motivo di ricorso replica la controricorrente con il richiamo ad una giurisprudenza (la già cit. Cass. n. 2148 del 1983), per la quale la fase di liquidazione comporta solo una modificazione meramente formale delle modalità di vita della società rimasta identica sul piano sostanziale, con conseguente permanere degli effetti della procura rilasciata dagli organi di essa prima della messa nel nuovo stato liquidatorio, anche per il periodo successivo a tale nuova situazione della vita societaria. Il motivo di ricorso è comunque inammissibile, risultando dal ricorso la sola circostanza che la liquidazione è stata decisa nell’assemblea straordinaria dell’1 ottobre 2002 della società, non emergendo peraltro se vi sia stata nel caso la cancellazione dal registro delle imprese della società e la relativa iscrizione in questo di tale vicenda che, con la novella dell’art. 2495 c.c., comma 2 di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4 avrebbe comportato l’estinzione di Millennium s.r.l. nel corso del giudizio di impugnazione, cioè a decorrere dal 1 gennaio 2004 (S.U. 22 febbraio 2010 n. 4060). Neppure viene chiarito in ricorso se vi è l’iscrizione nel registro delle imprese della nomina del liquidatore, che solo all’esito dell’adempimento di tale onere di pubblicità, acquisisce il potere di rilasciare procura in sostituzione dei preesistenti amministratori (Cass. 18 settembre 2003 n. 13746). In assenza di puntuali indicazioni dalla ricorrente sulle indicate circostanze essenziali per la decisione, il motivo di ricorso non è autosufficiente e deve dichiararsi quindi inammissibile, anche a non rilevare che la posizione di impugnata della Millennium, ove questa sia stata realmente cancellata dal registro delle imprese, avrebbe comportato, in base alla citata novella del 2003, dal 1 gennaio 2004, l’estinzione della precedente società con la fine di ogni operatività degli atti degli organi sociali che la procura avevano conferito e la conseguente improseguibilità del giudizio d’impugnazione di Sectram non più esercitatile nei confronti della controparte venuta meno. Tale dichiarazione di improseguibilità della impugnazione avrebbe concluso il giudizio, rendendo definitivo il lodo e la condanna, per cui non si comprende come tale soluzione possa soddisfare il concreto interesse della ricorrente, con inammissibilità conseguente anche per tale profilo del quinto motivo di ricorso. 4. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi e la ricorrente deve essere condannata a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo. 122 © Copyright - Giuffrè Editore Brevi note sull’ambito oggettivo e soggettivo della clausola compromissoria, nonché sulla sua interpretazione. 1. Il provvedimento in epigrafe affronta, grazie alla fattispecie concreta piuttosto singolare, il delicato profilo dei limiti oggettivi (ed al contempo soggettivi) della clausola compromissoria, anche alla luce delle possibili interpretazioni del patto arbitrale. Il caso sul quale la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi — rispetto al quale non si rinvengono precedenti in termini e che proprio per la peculiarità pare opportuno ricostruire — muove dai rapporti intercorsi fra una società portoghese, specializzata nel proprio paese nell’assistenza commerciale e amministrativa ad autotrasportatori, e una società italiana. La prima, infatti, proponeva alla seconda un progetto di attività imprenditoriali di trasporto via mare di automezzi pesanti fra Portogallo e Italia. La società italiana, con sede ad Ancona, interessata al suddetto progetto (già approvato dalle competenti autorità portoghesi, nonché dalla stessa Commissione europea), volto all’alleggerimento del traffico stradale in Europa a favore di quello marittimo, dopo lunghe trattative con la società straniera proponente, la quale si era impegnata a riempire per quasi due terzi la capienza di una nave italiana con automezzi di clientela portoghese, decideva di costituire una società ad hoc, per la realizzazione dell’indicato piano commerciale, che assurgeva a programma societario. La società portoghese diveniva quindi socia di minoranza della nuova società, la quale metteva a disposizione l’imbarcazione al fine della realizzazione degli accordi presi. Lo statuto sociale della neo costituita società conteneva una clausola compromissoria dal seguente tenore: « le controversie che dovessero insorgere tra società e ciascun socio, ovvero tra i soci medesimi, nonché tra gli eredi del socio defunto e gli altri soci e/o la società, connesse alla interpretazione e all’applicazione dell’atto costitutivo e/o più in generale, all’esercizio dell’attività sociale, verranno deferite alla decisione dell’arbitro unico ». Nonostante gli accordi, sin dall’inizio dell’attività sociale era mancato il riempimento della nave con autoarticolati e automezzi di clienti portoghesi nella percentuale pattuita. Per questo motivo la società aveva notificato alla socia minoritaria la domanda di arbitrato, con richiesta di condanna, ad una cospicua somma di denaro, a titolo di risarcimento del danno causato con l’inadempimento dell’impegno di acquisire clientela portoghese. La socia di minoranza si doleva, in via preliminare, dell’inammissibilità ed improcedibilità del procedimento arbitrale, sul rilievo dell’impossibilità di rimettere alla cognizione dell’arbitro ogni controversia comunque connessa all’attività sociale, come l’azione nella specie promossa, relativa a condotte della società portoghese tenute prima che la stessa divenisse socia. Essa tuttavia proponeva, a propria volta, domanda 123 © Copyright - Giuffrè Editore riconvenzionale di condanna dell’attrice al risarcimento del danno subito, per averle imposto di iniziare l’esecuzione del programma di trasporto in un periodo di scarso movimento delle merci e contro la propria volontà. Il lodo che accoglieva, sia pur in misura ridotta la domanda principale, veniva impugnato dinanzi alla Corte d’appello di Ancona dalla socia di minoranza, la quale ribadiva la propria tesi secondo cui la clausola compromissoria di cui all’art. 24 dello statuto sociale non comprendeva l’azione risarcitoria esercitata tra quelle compromettibili, per cui l’arbitro non aveva il potere di decidere la controversia. Essa sottolineava altresì, a sostegno delle proprie ragioni, di essere divenuta socia solo dopo che già si erano verificati i fatti a base dell’azione risarcitoria, per cui la domanda si poneva al di fuori dell’attività sociale, non essendo ricollegabile alla condizione di socia della società portoghese, ma — al limite — alla mera connessione del rapporto di agenzia con la prima società italiana con la quale aveva avuto contatti. La Corte d’appello rigettava l’impugnazione del lodo, riconoscendo la potestas iudicandi dell’arbitro sulla controversia. Avverso la predetta decisione, veniva proposto ricorso per Cassazione, sul rilievo che la Corte di merito aveva erroneamente interpretato la clausola compromissoria, ritenendo equivalenti « l’attività sociale » di cui alla predetta clausola con « l’oggetto sociale », dovendosi invece limitare le controversie compromettibili a quelle relative alle impugnazioni delle delibere sociali o al trasferimento di quote sociali o alla esclusione di un socio, le sole direttamente ricollegabili all’attività societaria. Al contrario — si sostiene — l’azione risarcitoria per l’inadempimento di un socio di un obbligo assunto nei confronti di un altro socio, non è qualificabile come controversia attinente all’attività sociale, non avendo alla base né l’interpretazione o l’applicazione dell’atto costitutivo né l’esercizio della attività sociale; senza dimenticare che, nel caso in esame, l’azione era fondata su fatti anteriori all’acquisto della quota sociale da parte della ricorrente nonché relativi ad inadempimenti di impegni assunti prima di acquisire la partecipazione alla società attrice. La Suprema Corte respinge il ricorso, riconoscendo la competenza dell’arbitro a decidere della controversia, trattandosi di domande fra la società e la socia minoritaria, rientranti, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo, nell’ambito di applicazione del patto arbitrale contenuto nello statuto. 2. Per valutare se la soluzione raggiunta dalla Cassazione sia o meno condivisibile pare necessario premettere un breve e generale inquadramento sui limiti che il patto arbitrale può incontrare. Come noto, vige in materia arbitrale il principio cardine della volontarietà delle parti: sono queste ultime che decidono di deferire agli arbitri 124 © Copyright - Giuffrè Editore (o all’arbitro unico) la decisione della lite, che può essere eventuale e futura nel caso di clausola compromissoria, concreta ed attuale nell’ipotesi di compromesso. E, di norma, sono sempre le parti che scelgono se il patto arbitrale sia destinato a comprendere o meno ogni possibile controversia relativa al contratto stipulato. Seguendo questo assunto di base, si potrebbe essere portati ad affermare che i limiti soggettivi della convenzione arbitrale sono facilmente individuabili: essi coincidono con i soggetti che hanno firmato l’accordo. Quanto, invece, alla sfera oggettiva della convenzione è sufficiente considerare le controversie che le parti hanno inteso rimettere in arbitrato, ferma ovviamente la loro compromettibilità. Basta tuttavia un minimo di esperienza e di conoscenza, dei principali problemi che la convenzione arbitrale pone, per comprendere l’ingenuità e, al contempo, l’erroneità della predetta osservazione. Infatti, come è stato sottolineato da chi si è occupato ex professo del tema in oggetto (1), se da un lato sottoscrivere il patto compromissorio non significa necessariamente assumere la qualità di parte (si pensi al caso del subappaltatore che sottoscriva il contratto di appalto senza assumere alcuna obbligazione scaturente dall’accordo, al mero fine di attestare l’avvenuta conoscenza del contratto pregiudiziale al proprio), dall’altro, in determinate situazioni, può essere ugualmente ritenuto parte del patto arbitrale un soggetto che non l’abbia materialmente sottoscritto. Del resto anche la prassi dell’arbitrato internazionale conosce, ed anzi si può dire ha formalmente riconosciuto in alcuni paesi, l’estensione degli effetti della clausola compromissoria a soggetti che non l’hanno firmata (i c.d. non signatory) (2). Ad esempio, in Francia a partire dal celebre caso Dow Chemical, deciso nel 1983 dalla Corte d’Appello di Parigi (3), si ritengono assogget(1) Il riferimento è all’ampio ed interessante studio monografico di ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, Milano, 2004, 207 e segg. (2) Sul tema cfr., senza alcuna pretesa di esaustività, DIMOLITSA, L’« extension » de la clause compromissoire à des non-signataires: rien de neuf, in ASA Bull., 2012, 516; GIARDINA, Gruppi di società e convenzioni arbitrali, in questa Rivista, 1993, 291; HANOTIAU, Consent to Arbitration: Do We Share a Common Vision?, in Arb. int., 2011, 539; HANOTIAU, Problems Raised by Complex Arbitrations Involving Multiple Contracts-Parties-Issues, An Analysis, in Journal of International Arbitration, 2001, 251 e segg.; HOSKING, Non-Signatories and International Arbitration in the United States: The Quest for Consent, in Arb. int., 2004, 289; PARK, Non-Signatories and International Contracts: an Arbitrator’s Dilemma, in Multiple Party Actions in International Arbitration, Oxford University Press, 2009, 1; YOUSSEF, The Limits Of Consent: the Right or Obligation to Arbitrate of Non-Signatories in Group of Companies, in Dossiers VII of the ICC Institute of Word Business Law, 2010, 71. (3) Cour d’Appel de Paris, 21 ottobre 1983, in Rev. arb., 1984, 98, con nota di CHAPELLE, nel quale i giudici di merito francesi ai fini dell’estensione degli effetti di una clausola compromissoria formalmente vincolante due sole società del gruppo ad altre società del gruppo partecipanti alla fase di esecuzione si sono basati, da un lato, su « usages conformes aux besoins du commerce international, notamment en présence d’un groupe de sociétés », dall’altro, sulla « réalité économique unique » fra tutte le società coinvolte. 125 © Copyright - Giuffrè Editore tati al vincolo compromissorio tutti i soggetti che, pur non avendo manifestato formalmente il consenso, hanno comunque preso parte all’affare, per essere intervenuti nelle trattative oppure nella fase esecutiva (4). La posizione d’oltralpe è stata altresì condivisa da altri ordinamenti, come la Svizzera (5), mentre è oggetto di discussione in Germania (6). Il nostro ordinamento (sotto questa prospettiva per tradizione più vicino a quello tedesco), pare invero piuttosto critico verso codeste forme di consenso implicito (o addirittura presunto) sulla base della natura formale del patto arbitrale; ciò nonostante possono venire in rilievo ai fini dell’estensione soggettiva del vincolo compromissorio gli istituti della rappresentanza apparente e, in materia di società, le ipotesi della società apparente, della società occulta, della simulazione, dell’interposizione fittizia di persona (7). Sempre sotto il profilo soggettivo nel nuovo arbitrato societario si è cercato di ampliare il più possibile « l’area dell’arbitrabilità »: la previsione contenuta nell’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, secondo cui la clausola (4) In dottrina cfr. HANOTIAU, L’arbitrage et les groupes de sociétés, in Gazette du Palais, Les Cahiers de l’arbitrage, 2002/2, 6. La posizione fatta propria con il caso Dow Chemical ha poi trovato seguito nella giurisprudenza più recente, la quale si è orientata nel senso che: « les effets de la clause compromissoire s’étendent aux parties directement impliquées dans l’exécution du contrat dès lors que leur situation et leur activité font présumer qu’elles avaient connaissance de l’existence et de la portée de cette clause afin que l’arbitre puisse être saisi de tous les aspects économiques et juridiques du litige ». Così Cour d’Appel de Paris, 7 dicembre 1994, in Rev. arb., 1996, 67, con nota di JARROSSON. Conf. Cour d’Appel de Paris, 30 novembre 1988, Cour d’Appel de Paris, 14 febbraio 1989, entrambe in Rev. arb., 1989, 691, con nota di TSCHANZ; Cour d’Appel de Paris, 11 gennaio 1990, in Rev. arb., 1992, 95, con nota di COHEN. Ancora la Cour d’Appel de Paris, 7 maggio 2009, in Rev. arb., 2009, 440 ha espressamente statuito che: « la clause compromissoire insérée dans un contrat international a une validité et une efficacité propres qui commandent d’en étendre l’application aux parties directement impliquées dans l’exécution du contrat ». Principio da ultimo fatto proprio anche dalla Corte di cassazione, nel caso Sté Alcaltel Business Systems et autre c/ Sté Amkor Technology et autre: Cass., 1re civ., 27 marzo 2007, in Rev. arb., 2007, 788, con nota di EL ADHAB. In argomento cfr. anche Cass., 1re civ., 7 novembre 2012, n 11-25.891, F-D, Sté Orthopaedic Hellas c/ Sté Amplitude, in Lexisnexis Jurisclausseur, secondo la quale: « L’effet de la clause d’arbitrage international contenue dans le contrat initial s’étend aux parties directement impliquées dans l’exécution du contrat. Tel est le cas d’une société grecque qui s’est substituée à une autre pour l’exécution d’un contrat de distribution en Grèce conclu avec une société française, en sorte que l’arrêt ayant annulé la sentence par laquelle l’arbitre désigné conformément à la clause contenue dans le contrat initial s’est reconnu compétent pour connaître des demandes introduites par les deux sociétés grecques contre la société française doit être cassé pour violation des articles 1502, 1º et 1504 du Code de procédure civile dans leur rédaction antérieure à celle issue du décret du 13 janvier 2011 ». (5) Tribunal arbitral Suisse, 16 ottobre 2003, parti X Société Anonyme Libanaise, Y Société Anonyme Libanaise, in Rev arb., 2004, 695, con nota di LEVY e STUCKI. (6) La dottrina tedesca è piuttosto critica sull’estensione della convenzione arbitrale nel quadro dei gruppi di società sulla base di un’accettazione presunta dell’arbitrato, sul rilievo del contrasto con § 1031 della ZPO, che impone la forma scritta per la validità della convenzione arbitrale, come pure con l’art. 101 Al. 1 della Costituzione tedesca, poiché priva ingiustificatamente le parti non firmatarie del loro diritto ad essere giudicate da un giudice statale. Sul punto, anche per ulteriori indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, si vedano MÜLLER, KEILMANN, Beteiligung am Schiedsverfahren wider Willen?, in SchiedsVZ, 2007, Heft 3, 113; BUSSE, Die Bindung Dritter an Schiedsvereinbarungen, in SchiedsVZ, 2005, Heft 3, 118. (7) Cfr. ancora ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 213 e segg. 126 © Copyright - Giuffrè Editore è vincolante per la società e per tutti i soci, opera infatti non solo rispetto a coloro che si trovano a far parte della compagine sociale al momento dell’approvazione della clausola compromissoria, ma anche rispetto ai soci nuovi, cioè quelli che succedono nella qualità di socio a seguito di atto inter vivos o mortis causa oppure che entrino, in virtù di un atto di adesione, in un momento successivo alla costituzione della società (8). Inoltre la clausola statutaria è, per legge, sempre nell’ottica di promuovere la via arbitrale, vincolante anche nei confronti di quei soggetti la cui qualità di socio è oggetto della controversia; il che impedisce al giudice statale di poter procedere de eadem re, finché l’accertamento della qualità in questione intervenga in sede arbitrale a sancire l’inopponibilità della clausola alla parte (9). Infine, occorre ricordare che esistono, nel nostro sistema, financo delle ipotesi in cui il patto compromissorio produce effetti ultra partes: così accade, ad esempio, per il creditore che agisce in surrogatoria (10), per il successore nel diritto di credito per effetto di surrogazione legale (11), nonché per il successore a titolo universale (12). 3. Per quanto concerne poi l’ambito oggettivo del patto arbitrale è sufficiente esaminare la copiosa giurisprudenza in argomento per rendersi conto di come sovente la questione della concreta individuazione delle liti, (8) Sulla vincolatività della clausola rispetto a questi nuovi soci cfr. ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale delle società dopo la riforma, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 945 e segg.; SASSANI-GUCCIARDI, Arbitrato societario, in Digesto disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, III, Torino, 2007, 10 e segg. (9) Così osserva AULETTA, Commento all’art. 34, in La riforma delle società, Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 343, il quale sottolinea altresì, alla nota 58, come « la disposizione circa il carattere vincolante dalla clausola statutaria « per tutti i soci » può assumere un significato particolare anche là dove, come nella società semplice, l’acquisto della qualità di socio può conseguire a un contegno concludente avulso dai requisiti di forma che soddisfano le caratteristiche del patto compromissorio sotto pena di nullità ». (10) In argomento, Cass., 25 maggio 1995, n. 5724, in Giur. it., 1996, I, 1, 1524, con nota adesiva di MURONI, L’ambito soggettivo di efficacia della clausola compromissoria e la sua opponibilità al creditore attore in surrogatoria, e Postilla di CONSOLO, Su arbitrato, azione surrogatoria e designazione degli arbitri, nonché in Corr. giur., 1995, 1373, con nota diversamente orientata di CECCHELLA, Limiti soggettivi di efficacia del patto compromissorio. Cfr. anche Trib. Rimini, 28 marzo 2003, in Giur. it., 2004, 1655, con nota di BARBIANI, La qualificazione della clausola compromissoria e i suoi limiti soggettivi di efficacia: il difficile cammino della nuova concezione negoziale dell’arbitrato rituale. (11) Si veda, ad esempio, Trib. Reggio Emilia, 24 maggio 1996, in Giust. civ., 1997, I, 2015, con nota di DI GARBO, Clausola arbitrale e surrogazione dell’assicuratore: un discutibile caso di improponibilità dell’azione ordinaria. (12) Secondo Cass., 27 luglio 1990, n. 7597, in questa Rivista, 1992, 269, con nota di FAZZALARI, Osservanza dovuta al patto compromissorio: quando il suo vincolo perdura dopo la dichiarazione di nullità del lodo, l’erede subentra al de cuis nel rapporto posto in essere con la stipulazione della clausola compromissoria, non così invece il legatario ex lege. Per App. Napoli, 7 luglio 1997, in questa Rivista, 1998, 286 la clausola compromissoria stipulata da una regione è vincolante per la Usl, la quale, in relazione a determinate attività, risulta essere successore a titolo universale del primo ente. La stessa soluzione è stata raggiunta, in caso di cessione d’azienda, da Cass., 28 marzo 2007, n. 7652, in Foro it., 2008, 3, I, 903. 127 © Copyright - Giuffrè Editore che le parti hanno inteso devolvere alla cognizione degli arbitri, sia tutt’altro che piana. In proposito si è detto che la determinazione dell’ambito oggettivo della clausola compromissoria — ossia l’individuazione delle controversie, nascenti dal contratto, che le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata, hanno inteso compromettere in arbitri — integra un problema la cui soluzione richiede l’indagine sulla determinazione della « comune intenzione delle parti » circa il contenuto oggettivo che le stesse hanno inteso dare alla clausola medesima. A tal fine occorre interpretare la clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici che il codice civile detta per l’interpretazione dei contratti agli artt. 1362 e segg. c.c., fra i quali un ruolo importante gioca il canone della buona fede (13). Qualora poi il « senso letterale delle parole » in essa utilizzate non conduca univocamente alla individuazione della comune volontà delle parti, deve valutarsi pure « il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto », e, in questo senso, darsi rilievo al comportamento tenuto dalle parti nel procedimento arbitrale, al fine di verificare la sussistenza di una inconciliabile incompatibilità tra un determinato comportamento, che sia univocamente volto al riconoscimento della « competenza » arbitrale, e la mera espressione della volontà di avvalersi dell’eccezione stessa (14). Si è altresì sottolineato come ove non risulti una espressa volontà, deve ritenersi che tutte le controversie riferibili a pretese, che hanno come « causa petendi » il contratto (della cui interpretazione, applicazione ed esecuzione si tratta), vanno ricomprese nell’ambito oggettivo di operatività della clausola compromissoria (15). Ancora: quando con una clausola compromissoria le parti deferiscono ad un collegio arbitrale le controversie relative all’applicazione o interpretazione di un contratto, cui la clausola accede, tale patto va interpretato in senso lato, se non c’è una volontà contraria, fino a ricomprendere ogni controversia relativa al contratto stesso, anche in merito alla sua esecuzione o al suo inadempimento (16), inclusa la domanda di risarcimento del danno da inadempimento, la quale, analogamente alla do(13) Per un quadro complessivo sull’applicabilità dei criteri di cui agli artt. 1362 e segg. c.c. ai fini dell’interpretazione della convenzione arbitrale si rinvia allo studio di OCCHIPINTI, La cognizione degli arbitri sui presupposti dell’arbitrato, Torino, 2011, 123 e segg. (14) In questi termini Cass., 21 settembre 2004, n. 18917, in questa Rivista, 2006, 1, 82, con nota di MOTTO, In tema di clausola compromissoria: forma, oggetto, rilevanza del comportamento delle parti. (15) Così Cass., 20 febbraio 1997, n. 1559, in Mass. Giust. civ., 1997, 280; Cass., 14 aprile 1994, n. 3504, in Giur. it., 1994, I, 1, 1264. (16) In questo senso Cass., 20 giugno 2011, n. 13531, in questa Rivista, 2012, 79, con nota di COMASTRI, Favor arbitrati e art. 808-quater c.p.c. 128 © Copyright - Giuffrè Editore manda di risoluzione, attiene alla fase esecutiva, implicando l’accertamento dell’inottemperanza delle parti alle obbligazioni assunte (17). Alla luce dei suindicati criteri si sono considerate incluse nell’ambito oggettivo di una clausola compromissoria anche le controversie derivanti da un accordo separato e successivo a quello contenente la clausola compromissoria, che si riferisca alle controversie dipendenti dal contratto, in quanto con tale espressione si intende la complessiva operazione economica (18). L’esame dei precedenti (sia arbitrali sia giudiziali) evidenzia dunque come la tendenza sia quella di estendere il più possibile l’ambito di applicazione oggettivo del patto arbitrale. Ebbene, il medesimo orientamento più favorevole alla giustizia privata si ritiene valga anche rispetto all’ambito oggettivo del nuovo arbitrato societario (19). Da ultimo, occorre considerare il disposto del nuovo art. 808 quater c.p.c., che introduce un preciso criterio metodologico nell’interpretazione delle clausole compromissorie (e, più in generale, di tutti i patti arbitrali): nel dubbio, la convenzione di arbitrato deve essere interpretata nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce (20). Tale disposizione sancisce dunque il seguente canone ermeneutico (17) Cass., 10 settembre 2012, n. 15068, in Mass. Giust. civ., 2012, 1101. (18) Coll. arbitrale, 31 ottobre 2003, in Foro pad., 2004, I, 143. (19) Cfr. SALVANESCHI, L’oggetto del nuovo arbitrato societario, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, III, Milano, 2005, 2221 s. Sul principio di elaborazione giurisprudenziale in base al quale ove non risulti una espressa volontà contraria, deve ritenersi che tutte le controversie riferibili a pretese che hanno come causa petendi il contratto vadano ricomprese nell’ambito oggettivo di operatività della clausola compromissoria, ad eccezione di quelle espressamente escluse si rinvia ancora, anche per ulteriori indicazioni, a SALVANESCHI, Ambito oggettivo della clausola compromissoria e dolo incidente, in Riv. dir. proc., 2001, 659. In generale per un ampio quadro sul profilo problematico dell’oggetto della controversia devolvibile in arbitrato societario e, in particolare, sulle specifiche ipotesi controverse del trasferimento di quote sociali e dei patti parasociali v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Arbitrato societario, in Arbitrati speciali, commentario diretto da Carpi, Bologna, 2008, 64 e segg. Sul punto, per un diverso ordine d’idee, cfr. CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1290. Sull’arbitrato societario e sui problemi che si pongono in relazione ai gruppi societari si v. anche BRIGUGLIO, Gruppi societarie e arbitrato, in Rassegna giuridica dell’energia elettrica, 2004, 725 e segg. (20) La dottrina osserva come la locuzione normativa « controversie che derivano dal contratto » sia più ampia di quella contenuta nell’art. 808 c.p.c. di controversie « nascenti dal contratto »: infatti la derivazione di una controversia può aversi anche da un contratto ormai spogliato degli effetti, mentre la nascita di una controversia da quel contratto ne presuppone la validità ed efficacia. Così NELA, Commento all’art. 808 quater c.p.c., in AA.VV., Le recenti riforme del processo civile, commentario diretto da Chiarloni, II, Bologna, 2007, 1648, il quale sottolinea altresì come l’innovazione sarebbe da ricondurre, secondo la Relazione illustrativa al decreto legislativo, a « ragioni di efficienza operativa e di apertura verso le procedure arbitrali », ovvero più semplicemente ad un favore verso l’arbitrato. In argomento si v., anche per ulteriori riferimenti, ZUCCONI GALLI FONSECA, Commento all’art. 808 quater c.p.c., in AA.VV., La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 102. 129 © Copyright - Giuffrè Editore teso a favorire l’arbitrato: il giudice deve ritenere comprese, nell’ambito della clausola, tutte le controversie che derivano dal contratto, salvo espressa e diversa volontà delle parti (21). 4. La cornice normativa e giurisprudenziale sin qui esaminata dimostra come, sotto il profilo soggettivo, non basti alla parte che si è vista notificare una domanda d’arbitrato eccepire di non aver materialmente sottoscritto la clausola arbitrale per ritenersi sciolta dal vincolo ed escludere, di conseguenza, la competenza degli arbitri a risolvere la lite; allo stesso modo, sotto il profilo oggettivo, non è sufficiente dolersi della mancata espressa enunciazione della controversia nella clausola arbitrale, dovendosi di contro dimostrare una precisa ed inequivocabile volontà (s’intende di entrambe le parti) di esclusione. A questo punto si può analizzare il caso di specie e agevolmente comprendere come la soluzione raggiunta dalla Cassazione appaia condivisibile sotto più punti di vista. L’obbligo assunto dalla società portoghese di procacciare clienti in Portogallo con la società italiana, trasfuso sin dall’inizio nei patti parasociali, era poi divenuto lo scopo stesso per la costituzione di una società ad hoc, della quale la società italiana deteneva la maggioranza del capitale sociale. Esso rappresentava dunque tanto l’elemento cardine del « programma », capace di determinare nei soci la decisione di unire le loro risorse, quanto lo scopo per la cui realizzazione le suddette risorse venivano destinate. Ne consegue che la violazione dell’obbligo in questione ha senz’altro inciso in via diretta ed immediata sul rapporto (da intendersi quale « attività sociale », come menzionata nella clausola compromissoria contenuta nello statuto) derivante dall’atto costitutivo, avendo impedito la realizzazione del programma societario. Già questo porta a ritenere che la lite, sul mancato riempimento della nave nella percentuale pattuita, rientrava nell’ambito applicativo del patto arbitrale, a nulla rilevando che l’impegno in questione fosse stato assunto della socia di minoranza prima di entrare nella compagine sociale. Del resto, come ben ha sottolineato la Suprema Corte nella sentenza in commento, l’inadempimento (causa petendi dell’azione proposta dinanzi all’arbitro) non è stato dedotto come effetto di un contratto, fonte di un rapporto diverso da quello di società, quale sarebbe stato un contratto di agenzia da eseguire in favore dell’altra socia o della stessa società attrice, bensì come effetto della mancata realizzazione dell’attività sociale. (21) Autorevole dottrina (CAPPONI, Arbitrato e giurisdizione, in Il Giusto processo, 2007, 52 s.) ha tuttavia segnalato i rischi collegati ad un’interpretazione troppo lata della norma in questione. 130 © Copyright - Giuffrè Editore Si consideri poi che ai sensi dell’art. 2463, 2 comma, n. 3 c.c., nelle società a responsabilità limitata, l’atto costitutivo indica « l’attività che costituisce l’oggetto sociale » con evidente coincidenza fra i due concetti: il trasferimento via mare con la nave tra Portogallo e Italia di automezzi pesanti e autoarticolati, costituiva il programma comune venuto meno e rimasto inattuato proprio a causa dell’inadempimento dalla socia di minoranza, per cui la causa è stata correttamente ritenuta di competenza dell’arbitro. Circoscrivere il concetto di attività sociale alle regole di funzionamento della società stessa è del tutto fuorviante. Occorre difatti che quelle medesime regole siano nel concreto riferite al motivo per le quali vengono scritte, vale a dire l’oggetto sociale. Le conclusioni prospettate trovano ulteriore conferma nelle disposizioni codicistiche dettate in tema di comportamento delle parti prima della conclusione del contratto e durante il suo svolgimento, anche ai fini della sua interpretazione. Il richiamo è, all’evidenza, al disposto degli artt. 1362, 2º comma, 1366, 1375 c.c. Il principio di correttezza e buona fede « richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore », come ben ci ricorda la Relazione ministeriale al codice civile. In proposito la giurisprudenza è pacifica nell’affermare che « la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico » (22). Ed ancora, si specifica: « l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, che, nell’ambito contrattuale, implica un obbligo di reciproca lealtà di condotta che deve presiedere sia all’esecuzione del contratto che alla sua formazione ed interpretazione, accompagnandolo, in definitiva, in ogni sua fase » (23). Si può ravvisare dunque nel sistema ideato dal legislatore del 1942, un’imprescindibile circolarità tra la buona fede, che deve accompagnare il comportamento delle parti in ogni momento (dai primi contatti fino (22) Così Cass., 4 maggio 2009, n. 10182, in Mass. Giust. Civ., 2009, 707. Cfr. anche Cass., 15 ottobre 2012, n. 17642, in De Jure. (23) In questi termini Cass., 5 marzo 2009, n. 5348, in Mass. Giust. Civ., 2009, 391. 131 © Copyright - Giuffrè Editore all’esecuzione del contratto) ed il principio di solidarietà sociale (o di cooperazione) che trova ancoraggio diretto nella nostra Carta Fondamentale, all’art. 2. Tali principi valgono altresì nelle fasi precedenti la stesura del contratto, al punto tale che già nelle trattative e nella formazione del contratto le parti devono comportarsi secondo buona fede (art. 1337 c.c.). Tutto ciò tutela un principio dell’affidamento nella correttezza altrui, che non può essere leso senza conseguenze. Anche sotto il profilo codicistico, dunque, non è accoglibile la tesi della società portoghese, poiché non è ipotizzabile un limite temporale (la conclusione del contratto, nella specie la costituzione della società) dopo il quale il comportamento delle parti debba essere improntato a maggior rigore o serietà. Avviata la trattativa, la buona fede deve essere immanente per l’intera durata del rapporto. Infine una considerazione processuale e una pratica. Le parti scelgono l’arbitrato quando sono alla ricerca di una soluzione più celere rispetto a quella statale. Orbene, proprio tale obiettivo può divenire uno strumento di lettura, in caso di incertezza, della volontà delle parti: pare infatti irrazionale, rispetto allo scopo prefissato, in assenza di specifiche delimitazioni, pensare che le parti abbiano inteso ripartire la competenza fra arbitro e giudice ordinario su controversie riferibili a pretese che hanno tutte come causa petendi il medesimo contratto. Rileva anche, come sottolineato nel precedente paragrafo, il comportamento processuale: la convenuta eccepisce l’inammissibilità dell’arbitrato e poi propone davanti all’arbitro una domanda riconvenzionale, con la quale richiede la condanna dell’attrice per avere preteso l’inizio dell’attività di trasporto (cui ineriva il suo impegno inadempiuto), nel periodo meno adatto perché lo stesso avesse successo. Ora, pure il suddetto comportamento sembra rilevante sul piano dell’interpretazione del contenuto della clausola compromissoria: la richiesta della parte al giudice privato di emettere una statuizione relativa al rapporto processuale dedotto in giudizio denota la volontà di rinuncia all’eccezione proposta. Senza dimenticare che, sotto il profilo pratico, il « frazionamento » del giudizio sul medesimo contratto fra due autorità giudicanti diverse può causare gravi problemi di coordinamento; problemi che, come si è detto, il legislatore con le ultime riforme ha inteso superare con la previsione della regola in dubio pro arbitrato. CHIARA SPACCAPELO 132 © Copyright - Giuffrè Editore CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 6 aprile 2012, n. 5634; CARNEVALE Pres.; RAGONESI Est.; CAPASSO P.M. (concl. diff.); Lentini (avv. Altavilla) c. Cooperativa Edilizia Simi 1977. Arbitrato - Lodo parziale - Riserva facoltativa d’impugnazione - Ammissibilità Esclusione. Arbitrato - Eccezione d’incompetenza - Lodo parziale di merito - Impugnazione immediata - Necessarietà. Nel procedimento arbitrale non trova applicazione l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione, attesa la mancanza dei presupposti pratici funzionali all’applicabilità di tale istituto, quali la comunicazione della sentenza parziale e la fissazione di un’udienza successiva al deposito della sentenza, entro la quale formulare la riserva. La pronuncia con cui gli arbitri rigettano un’eccezione d’incompetenza costituisce un lodo parziale di merito e, pertanto, ai sensi dell’art. 827, 3° comma, c.p.c., deve essere impugnata immediatamente. CENNI DI FATTO. — Sorta una controversia fra una società cooperativa e un professionista, questa viene devoluta alla cognizione di un collegio arbitrale. Con un primo lodo depositato il 4 luglio 2002, gli arbitri statuiscono unicamente sulla questione di competenza e dispongono la prosecuzione del giudizio. Con lodo definitivo del 4 novembre 2003, dichiarato esecutivo in data 22 dicembre 2003, gli arbitri condannano la società al pagamento di una somma di denaro in favore del professionista. Con atto di citazione notificato il 19 dicembre 2003, la società impugna per nullità entrambe le decisioni arbitrali dinanzi alla Corte d’appello di Catania. Si costituisce in giudizio il professionista, chiedendo il rigetto dell’impugnazione e proponendo impugnazione incidentale. La Corte d’appello dichiara con sentenza la nullità di entrambi i lodi. Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha affermato che il lodo parziale doveva essere impugnato unitamente a quello definitivo. Con il secondo ed il terzo motivo lamenta l’erroneità della sentenza laddove ha ritenuto che, nel caso di specie, vi sarebbero stati due diversi contratti, mentre, invece, si tratterebbe di un unico contratto stipulato nel 1982 e che questo non era stato estinto per dar luogo ad un nuovo contratto. Con il quarto motivo contesta la pronuncia sotto il profilo del vizio motivazionale laddove ha ritenuto l’inesistenza di un accordo compromissorio. Con il quinto motivo deduce che non ricorrevano le condizioni per proporre innanzi a questa Corte regolamento di competenza. Il primo motivo è fondato. Il lodo parziale in data 28.6.2002 ha deciso sulla « competenza » degli arbitri a decidere della controversia ritenendo la sussistenza di una valida clausola compromissoria. 133 © Copyright - Giuffrè Editore Tale decisione non è stata oggetto di immediata impugnazione, ma è stata gravata successivamente insieme al lodo definitivo del 16.10.2003. Il problema che si pone è se il lodo parziale doveva essere oggetto di immediata impugnazione oppure no. La Corte d’appello ha optato per tale seconda soluzione. La decisione deve ritenersi erronea. Va premesso che nel caso di specie deve applicarsi ratione temporis la normativa in tema di arbitrato conseguente alle modifiche al codice di procedura civile apportate dalla L. n. 25 del 1994, e che, secondo tale regime, il lodo parziale è impugnabile soltanto unitamente al lodo definitivo, non essendo utilizzabile, nel procedimento arbitrale, l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione (Cass., 7 febbraio 2007, n. 2715; Id., 3 febbraio 2006, n. 2444), attesa la mancanza, nell’indicato procedimento, dei presupposti pratici funzionali all’applicabilità dell’istituto predetto, quali la comunicazione della sentenza parziale da parte della cancelleria e la fissazione di un’udienza successiva al deposito di detta sentenza, utile a segnare il termine finale per la formulazione della riserva. (Cass., 22 febbraio 2002, n. 2566). Ciò premesso, va tuttavia rilevato che l’art. 827, comma 3, prevedeva, nel vigore della normativa applicabile al caso di specie, (e prevede tuttora) che « il lodo che decide parzialmente il merito della controversia è immediatamente impugnabile, ma il lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo », e che in relazione a tale norma questa Corte ha avuto modo di chiarire che « il termine « lodo parziale » esige di essere interpretato in comparazione con il concetto di sentenza non definitiva con riferimento all’art. 277 c.p.c., comma 2, art. 278 c.p.c. e art. 279 c.p.c., n. 4. Nel sistema del codice, sia le decisioni su questioni di giurisdizione o di competenza, sia le decisioni su questioni pregiudiziali attinenti al processo o su questioni preliminari di merito, sia le decisioni non esaurienti del merito, possono costituire materia di sentenze non definitive, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione ai nn. 1, 2, 3 della stessa disposizione, e la stessa caratterizzazione riveste la « condanna generica » di cui all’art. 278; tali sentenze, infatti, si qualificano come sentenze « non definitive » suscettibili di impugnazione immediata o differita ai sensi degli artt. 340 e 361 c.p.c. Nel procedimento arbitrale, nel quale la categoria delle questioni incidentali assume una sua autonomia rispetto al merito in funzione dell’esigenza della discriminazione tra le questioni suscettibili di decisione ad opera degli arbitri e questioni sottratte ratione materiae alla cognizione degli arbitri, l’impugnabilità immediata viene circoscritta, per volontà del legislatore della riforma, alle ipotesi di decisione non totale del merito, cioè alle ipotesi corrispondenti alla previsione dell’art. 279 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4: e di tale differenziazione sembra costituire espressione formale il mancato riferimento da parte del legislatore del 1994 alla nozione di non definitività » (Cass., 19 maggio 2000, n. 6522; v. anche Id., 7 febbraio 2007, n. 2715). A tale proposito si osserva in particolare che l’art. 279, comma 2, n. 4, stabilisce che il collegio pronuncia sentenza quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai nn. 1 (decisioni di questioni di giurisdizione o di competenza), 2 (decisioni di questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari 134 © Copyright - Giuffrè Editore di merito) e 3 (merito), non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’istruzione della causa. Nel caso di specie, dunque, al fine di valutare l’immediata impugnabilità o meno del lodo parziale che ha escluso la nullità ovvero l’inesistenza della clausola compromissoria, occorre valutare se questo rientra in una delle ipotesi previste dall’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c. La risposta non può che essere positiva dovendosi ritenere che il lodo parziale in esame, avendo riconosciuto il potere di decidere degli arbitri in virtù della esistenza di una clausola compromissoria intercorsa tra le parti, ha deciso una questione preliminare di merito ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c. in riferimento alla ipotesi di cui allo stesso art. 279, comma 2, n. 2. In questo senso la giurisprudenza di questa Corte, nel vigore della normativa arbitrale conseguente alla riforma introdotta dalla L. n. 25 del 1994, applicabile al caso di specie, aveva ritenuto pacifico il principio secondo cui, « gli arbitri, anche nell’arbitrato rituale, non svolgono comunque una forma sostitutiva della giurisdizione né sono qualificabili come organi giurisdizionali dello Stato per cui la questione relativa alla loro potestas iudicandi in ragione della esistenza di una clausola compromissoria attiene al merito e non alla giurisdizione o alla competenza in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria; ne deriva che, ancorché formulata nei termini di decisione di accoglimento o rigetto di un’eccezione d’incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di un’eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sé va riguardata come decisione pronunziata su questione preliminare di merito perché inerente alla validità o all’interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria » (Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527; Id., 27 maggio 2005, n. 11315; Id., 28 luglio 2004, n. 14234; Id., 30 dicembre 2003, n. 19865; Id., Sez. Un., 3 ottobre 2002, n. 14223; Id., 21 novembre 2006, n. 24681). Il motivo va pertanto accolto. Sulla questione quindi della esistenza nel caso di specie di una clausola arbitrale conferente agli arbitri la potestas iudicandi deve ritenersi formato il giudicato. Gli altri motivi restano assorbiti dovendo le questioni da essi poste essere rivalutate, alla luce della decisione assunta dalla presente sentenza, dalla Corte d’appello di Catania in sede di rinvio che, in diversa composizione, provvedere anche a liquidare le spese del presente giudizio. (Omissis). Sull’impugnazione del lodo dichiarativo della competenza arbitrale. 1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di cassazione si pronuncia sul regime d’impugnazione del lodo con il quale gli arbitri si siano limitati a rigettare un’eccezione di difetto di potestas judicandi senza 135 © Copyright - Giuffrè Editore decidere il merito della lite (1). La vicenda sottoposta alla cognizione dei giudici di legittimità trae origine da un procedimento arbitrale nel quale gli arbitri, con un primo lodo del 4 luglio 2002, avevano rigettato l’eccezione d’incompetenza sollevata da una delle parti, disponendo la prosecuzione del giudizio. Contro tale pronuncia non era stata intrapresa alcuna iniziativa (non sappiamo se, nel corso del procedimento, le parti avessero formulato una riserva d’impugnazione); il procedimento arbitrale era quindi proseguito con l’esame del merito della controversia ed era stato poi definito con lodo del 22 dicembre 2003. Entrambe le decisioni erano state impugnate dinanzi alla Corte d’appello di Catania, la quale ne aveva dichiarato la nullità. La sentenza veniva impugnata con ricorso per cassazione. Essa veniva censurata nella parte in cui i giudici catanesi, ritenendo tempestiva l’iniziativa intrapresa nei confronti della prima decisione, avevano ammesso l’impugnazione congiunta di entrambi i lodi. Al Supremo Collegio veniva dunque richiesto di stabilire se il lodo con cui gli arbitri avevano risolto positivamente la questione inerente alla loro competenza fosse o meno suscettibile di impugnazione immediata. Al quesito la Corte di cassazione dà una risposta positiva. Nella propria motivazione, i giudici di legittimità affermano, nell’ordine, che: a) il disposto dell’art. 827 c.p.c. rende inutilizzabile, nel procedimento arbitrale, l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione; b) il lodo con cui gli arbitri decidono una questione di merito deve essere qualificato come lodo parziale; c) la questione relativa alla sussistenza della potestas judicandi arbitrale è questione sostanziale e pertanto il lodo che la decide deve essere considerato come lodo parziale di merito. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte di cassazione accoglie il ricorso, rilevando come il primo lodo dovesse essere impugnato immediatamente e non già insieme al lodo definitivo e, pertanto, che all’epoca in cui era stata proposta l’impugnazione per nullità, la statuizione sulla competenza arbitrale era ormai passata in giudicato. 2. Nel proprio iter argomentativo la Corte di cassazione muove da una premessa, ossia la non configurabilità, nel procedimento apud arbitros, dell’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione (sub a). Sul punto, la pronuncia si pone in continuità con l’orientamento giurispru(1) La pronuncia segue, di poche settimane, la sentenza n. 4790 del 26 marzo 2012 (consultabile in Juris data), con cui la stessa Sezione, chiamata a pronunciarsi sul medesimo quesito, è pervenuta a una conclusione diametralmente opposta, qualificando il lodo dichiarativo della competenza arbitrale come un lodo non definitivo su questione inerente all’ammissibilità della domanda, impugnabile solo unitamente al lodo definitivo. Nel medesimo senso, più recentemente, si è espressa anche la Corte d’appello di Roma, con la sentenza dell’11 aprile 2013, edita in questa Rivista, 2013, 963, con nota di MARINUCCI, Note sul contrasto fra lodo non definitivo e lodo definitivo nel giudizio di impugnazione per nullità. 136 © Copyright - Giuffrè Editore denziale sviluppatosi all’indomani dell’intervento riformatore del 1994, secondo il quale la distinzione operata dall’art. 827 c.p.c. (come novellato dalla riforma) fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo su questione avrebbe reso tale istituto inammissibile in sede arbitrale (2). Secondo questo orientamento, il lodo non definitivo su questione, non essendo suscettibile di impugnazione immediata, sarebbe stato censurabile solo unitamente al lodo definitivo e senza la necessità di alcuna riserva, mentre il lodo parziale di merito avrebbe dovuto ritenersi impugnabile immediatamente, essendo irrilevante la riserva d’impugnazione eventualmente formulata nel corso del procedimento (3). (2) Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit.; Id., 3 febbraio 2006, n. 2444, in Rep. Giur. it., 2006, voce « Arbitrato », n. 143; Id., 22 febbraio 2002, n. 2566, in questa Rivista, 2002, 691, con nota di BOCCIOLETTI, Note sul divieto d’impugnazione immediata del lodo parziale. Prima della legge n. 25 del 1994, la giurisprudenza, pur riconoscendo l’ammissibilità dei lodi parziali su domande e dei lodi non definitivi su questioni, li riteneva entrambi impugnabili solo unitamente alla pronuncia definitiva (Cass., Sez. Un., 2 maggio 1997, n. 3829, in Foro it., 1997, I, 1751; Id., Sez. Un., 9 giugno 1986, n. 3835, in Foro it., 1986, I, 1525 con nota senza titolo di BARONE; Id., 12 luglio 1979, n. 4020, in Giur. it., 1980, I, 1, 1695, con nota di LEVONI, La controversa impugnabilità della sentenza arbitrale non definitiva). Tale orientamento era il frutto, da un lato, del principio di indivisibilità del lodo, il cui addentellato normativo era ravvisato nell’art. 830 c.p.c. (che, nella sua originaria formulazione, prevedeva che la Corte d’appello, nell’accogliere l’impugnazione per nullità, dovesse dichiarare la « nullità del giudizio e della sentenza »); dall’altro, della convinzione che l’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione, introdotto con la riforma del 1950, non trovasse applicazione in sede arbitrale. L’unica eccezione a questa regola era rappresentata dall’ipotesi in cui oggetto d’arbitrato fossero più controversie relative a rapporti giuridici distinti e autonomi, le cui decisioni, proprio in quanto definitive, dovevano ritenersi immediatamente impugnabili (Id., 28 giugno 1994, n. 6206, in Giust. civ., 1995, I, 462). In questo contesto si inserì la novella del 1994, con cui il legislatore, dopo aver infranto il dogma dell’indivisibilità del lodo, introdusse, all’art. 827 c.p.c., la distinzione fra « lodo che decide parzialmente il merito », immediatamente impugnabile, e « lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale », impugnabile solo unitamente al lodo definitivo, prevedendo, all’art. 820 c.p.c., la possibilità per gli arbitri che avessero pronunciato un « lodo non definitivo » di prorogare, per una sola volta e per non più di centottanta giorni, il termine per la decisione finale. Sull’argomento CIPRIANI, Sentenze non definitive e diritto di impugnare (a proposito dell’art. 827 c.p.c.), in questa Rivista, 1999, 225 ss. e RUFFINI, La divisibilità del giudizio arbitrale, ibid., 431 ss.; più recentemente, v. i contributi di DALFINO, Lodi non definitivi su questioni preliminari di merito, in AA. VV., Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 303 ss. e di RUFFINI, BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c., in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di Massimo V. BENEDETTELLI, Claudio CONSOLO e Luca RADICATI DI BROZOLO, Padova, 2010, 321 ss. (3) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, Padova, 2000, 166 e 168; RUFFINI, op. ult. cit., 440; MONTESANO, Sui lodi parziali di merito, in questa Rivista, 1994, 252; TARZIA, Sub art. 19 l. 5 gennaio 1994, n. 25, in Legge 5 gennaio 1994, n. 25, a cura di Giuseppe TARZIA, Riccardo LUZZATTO ed Edoardo Flavio RICCI, Padova, 1995, 156. In senso contrario, per l’ammissibilità del differimento dell’impugnazione anche rispetto ai lodi parziali di merito non definitivi, v. FAZZALARI, La riforma dell’arbitrato, in questa Rivista, 1994, 10; ID., Sub art. 827 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Antonio BRIGUGLIO, Elio FAZZALARI e Roberto MARENGO, Milano, 1994, 194 e 195; LUISO, Le impugnazioni del lodo dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 20. Di opinione ancora diversa CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi non definitivi della nuova disciplina dell’arbitrato, ibid., 41, 42 e 56, secondo il quale l’art. 827 c.p.c. si sarebbe limitato a prevedere come meramente facoltativa la proposizione dell’impugnazione immediata avverso tali lodi, garantendo la possibilità di procrastinare la loro l’impugnazione senza la necessità di formulare alcuna riserva; così pure LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e 137 © Copyright - Giuffrè Editore Con il provvedimento in esame, la Corte conferma l’orientamento in parola, individuandone il fondamento nella mancanza, nel procedimento arbitrale, « dei presupposti pratici funzionali all’applicabilità dell’istituto predetto (quello della riserva, n.d.r.), quali la comunicazione della sentenza parziale da parte della cancelleria e la fissazione di un’udienza successiva al deposito di detta sentenza, utile a segnare il termine finale per la formulazione della riserva » (4). Invero, tale affermazione non appare pienamente condivisibile, dal momento che, più che da ostacoli di carattere pratico (5), l’applicazione dell’istituto della riserva d’impugnazione sembra impedita dalla regola in forza della quale tutti i provvedimenti giurisdizionali sono immediatamente impugnabili; regola a cui, in virtù del disposto degli artt. 340 e 361 c.p.c., si sottraggono soltanto l’appello e il ricorso per cassazione (6). Tale orientamento sembra destinato a trovare una conferma anche nell’attuale contesto normativo. Il legislatore del 2006 si è infatti astenuto dall’intervenire sul terzo comma dell’art. 827 c.p.c. e anzi ha inserito una norma di tenore analogo nella disciplina del ricorso per cassazione (7). Pertanto, in assenza di una disposizione di segno opposto, l’alternativa l’esperienza, Milano, 1999, 153. Recentemente, questi rilievi sono stati ripresi da VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 3ª ed., Torino, 2010, 187 e 188, secondo il quale, contrariamente all’intenzione del legislatore, la formulazione dell’art. 827 c.p.c. parrebbe esprimere una mera facoltà e non un obbligo. In senso contrario v. però CIPRIANI, op. ult. cit., 240, il quale rileva che, in caso di cumulo oggettivo di domande o di litisconsorzio facoltativo, la domanda sulla quale sia pronunciato un lodo parziale è una domanda che, se proposta autonomamente in un giudizio ad hoc, sarebbe decisa con un lodo definitivo immediatamente impugnabile, sicché non sarebbe corretto consentire alla parte soccombente di sfruttare la presenza di altre domande per posticipare l’impugnazione. (4) In tal senso Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit.; Id., 28 agosto 1995, n. 9028, in Rep. Giur. it., 1995, voce « Arbitrato », n. 147 e Id., Sez. Un., 9 giugno 1986, n. 3835, cit., 1525. (5) I quali non sembrano insormontabili, essendo sufficiente — in ipotesi — che in seguito alla comunicazione del lodo ed entro il termine d’impugnazione (breve o lungo, a seconda che la decisione sia notificata) la parte soccombente porti a conoscenza dell’altra, con ogni mezzo idoneo, la propria volontà di differire l’impugnazione del lodo; cfr. FAZZALARI, op. loc. ult. cit. e LUISO, op. ult. cit., 22. Critico sul punto è VERDE, op. loc. ult. cit., ad avviso del quale ciò si tradurrebbe nell’imposizione di un onere (e in una conseguente decadenza) non previsto dalla legge. (6) Cfr. Cass., 22 febbraio 2002, n. 2566, cit.; in dottrina, CIPRIANI, op. loc. ult. cit. In assenza di una previsione di tenore identico a quelle contenute nelle norme di cui al testo, l’applicazione analogica di queste ultime all’arbitrato avrebbe potuto giustificarsi solo assimilando l’impugnazione per nullità a uno dei due mezzi d’impugnazione (PUNZI, op. ult. cit., 167); soluzione, questa, difficilmente percorribile nel contesto successivo alla novella del 1994, nel quale il giudizio d’impugnazione del lodo era considerato come un giudizio in unico grado avente ad oggetto la validità di un atto negoziale (Id., 1 luglio 2004, n. 12031, in Giust. civ., 2005, I, 2098; in dottrina, TARZIA, op. loc. ult. cit.). (7) L’art. 360, 3º comma, c.p.c. (introdotto ex novo dal d.lgs. n. 40 del 2006) esclude infatti l’immediata ricorribilità per cassazione delle « sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente il giudizio », prevedendo che « il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio »; sul punto BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio MENCHINI, Padova, 2010, 452. 138 © Copyright - Giuffrè Editore continua ad essere fra il lodo non definitivo su questione, la cui impugnazione è automaticamente differita (8), e il lodo parziale di merito, la cui immediata impugnazione non ammette riserve (9). 3. Compiuta tale premessa, la Corte si sofferma poi sulla nozione di « lodo che decide parzialmente il merito della controversia » (sub b). Nel contesto successivo alla novella del 1994, tale nozione, al pari di quella di « lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale », va individuata sulla base del combinato disposto dell’art. 827, 3º comma, c.p.c. e dell’art. 816, ult. comma, c.p.c. (applicabile ratione temporis), a mente del quale, fatta eccezione per l’ipotesi di cui all’art. 819 c.p.c., « su tutte le questioni » che si fossero presentate « nel corso del procedimento » gli arbitri avrebbero dovuto provvedere « con ordinanza non soggetta a deposito e revocabile ». Per la quasi totalità degli interpreti, il disposto dell’art. 827 c.p.c. confermava la distinzione fra i provvedimenti di carattere istruttorio o ordinatorio, i quali avrebbero dovuto essere resi con l’ordinanza revocabile di cui all’art. 816 c.p.c., e i provvedimenti resi su domande, su questioni pregiudiziali di rito e su questioni preliminari di merito (cioè quei provvedimenti con cui fossero state decise questioni idonee, anche astrattamente, a definire il giudizio, fra i quali rientrava la pronuncia sull’eccezione d’incompetenza (10)), i quali avrebbero richiesto inderogabilmente la forma del lodo (11). E alla distinzione operata dal terzo (8) Fermo restando che, nell’ipotesi in cui al lodo su questione faccia seguito un lodo parziale non definitivo, la prima pronuncia deve essere necessariamente impugnata unitamente alla seconda; cfr. CALIFANO, Le vicende del lodo: impugnazione e correzione, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Giovanni Verde, Torino, 2005, 480 e 481 e, più recentemente, PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, 2ª ed., Padova, 2012, 504. (9) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 503; ID., Il processo civile. Sistema e problematiche, III, 2ª ed., Torino, 2010, 224; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, 3ª ed., Padova, 2012, 526; COMOGLIO, Lodo parziale e lodo non definitivo dopo l’ultima riforma, in Riv. dir. proc., 2009, 610 ss. e 615 e, sia pur dubitativamente, VERDE, op. loc. ult. cit. Per l’applicazione dell’istituto della riserva d’impugnazione v. invece ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato. Titolo VIII libro IV codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a cura di Federico CARPI, 2ª ed., Bologna 2007, 667 ss. Ora, non v’è dubbio che l’ultima riforma abbia apportato un contributo non secondario al processo di « giurisdizionalizzazione » dell’arbitrato rituale; tuttavia, anche nel novellato contesto normativo sembra difficile assimilare pienamente l’impugnazione per nullità del lodo all’appello o al ricorso per cassazione. Del resto, a fronte del dibattito dottrinale sull’argomento (cfr. nota 3), il legislatore del 2006 avrebbe ben potuto intervenire sulla materia ed estendere l’istituto della riserva d’impugnazione al giudizio arbitrale; il fatto che egli abbia lasciato inalterato l’art. 827 c.p.c. è un dato che non può essere trascurato. (10) Cfr. ACONE, Arbitrato e competenza, in questa Rivista, 1996, 243; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, 3ª ed., Milano, 1988, 544; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3ª ed., Napoli, 1964, 835. Per il carattere decisorio del provvedimento reso su tale eccezione v. la risalente Cass., Sez. Un., 19 luglio 1957, n. 3050, in Giust. civ., 1957, I, 1460, in motivazione. (11) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 71; TARZIA, op. ult. cit., 155; RUFFINI, op. ult. cit., 439. Secondo CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 39, la riprova di tale distinzione sarebbe stata rinvenibile nella diversità di formulazione fra gli artt. 816 e 827 c.p.c.: 139 © Copyright - Giuffrè Editore comma dell’art. 827 c.p.c. fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo su questione sarebbe corrisposta la distinzione fra domanda e questione, nel senso che la prima qualifica avrebbe dovuto essere riferita ai lodi con cui gli arbitri avessero deciso una o più domande o uno o più capi di domanda (dunque a lodi attributivi di un bene della vita, produttivi di effetti giuridici nella sfera giuridica dei litiganti e idonei ad essere portati in esecuzione nei confronti della parte soccombente (12)), mentre la seconda sarebbe stata attribuibile alle pronunce con cui gli arbitri avessero risolto in senso non ostativo alla prosecuzione del giudizio una o più questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito (ossia a lodi la cui emanazione, pur non esaurendo il potere decisorio degli arbitri rispetto alla controversia, avrebbe loro impedito loro di « ripensare » quanto deciso (13)) (14). Nella nozione di lodo parziale di merito sarebbero quindi ricadute le pronunce rese ai sensi degli artt. 277, 2º comma e la prima norma, nel riferirsi alle questioni postesi nel corso « del procedimento », conteneva, infatti, un implicito riferimento alla fase istruttoria, mentre la seconda, nel prevedere la forma del lodo in relazione alle questioni insorte « nel giudizio arbitrale », presupponeva il passaggio alla fase di decisione. Così anche ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a cura di Federico CARPI, Bologna, 2001, 538 e RASCIO, La decisione, in Diritto dell’arbitrato a cura di Giovanni VERDE, Torino, 2005, 403, 404 e 405, secondo il quale la non fungibilità fra ordinanza e lodo non definitivo sarebbe stata suffragata dal tenore dello stesso art. 816 c.p.c., che, vietando il ricorso all’ordinanza per le questioni pregiudiziali non compromettibili, escludeva tale forma proprio con riferimento a questioni idonee, per eccellenza, a definire il giudizio. Tale circostanza, secondo l’A., avrebbe circoscritto l’ambito di applicazione delle ordinanze ex art. 816 c.p.c. alle sole questioni che non fossero state idonee, neppure astrattamente, a chiudere il procedimento. Sul punto anche CIPRIANI, op. ult. cit., 248 e 249. In senso difforme v. però LA CHINA, op. ult. cit., 140 e 141, per il quale il grado di stabilità della decisione conseguente all’adozione del lodo o dell’ordinanza sarebbe dipeso unicamente della volontà degli arbitri (cioè da una loro valutazione di opportunità) e non già dal tipo di questione risolta, nonché CAVALLINI, Questioni preliminari di merito e lodo non definitivo nelle riforma dell’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1995, 1151, per il quale sarebbe stata invece determinante la volontà delle parti, nel senso che gli arbitri avrebbero dovuto risolvere ogni questione adottando la forma dell’ordinanza revocabile, salvo che le parti non li avessero autorizzati, ai sensi dell’art. 816, 2º comma, c.p.c., a decidere con lodo interlocutorio. (12) LUISO, op. ult. cit., 20; CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 41; ID., Le vicende del lodo: impugnazione e correzione, cit., 468; RASCIO, op. ult. cit., 401. (13) Tali lodi sono infatti vincolanti nella prosieguo del giudizio arbitrale, nel senso che con il lodo parziale o il lodo definitivo che vengano resi successivamente gli arbitri non possono disattendere la loro precedente statuizione; cfr. LUISO, op. ult. cit., 13; ID., Intorno agli effetti dei lodi non definitivi o parzialmente definitivi (nota ad Arbitro unico Vercelli, 20 febbraio 1997), in questa Rivista, 1998, 594; CAVALLINI, op. ult. cit., 1159 e, da ultimo, DALFINO, op. ult. cit., 318. Inoltre, laddove essi non siano impugnati unitamente alla pronuncia definitiva (o laddove l’impugnazione venga rigettata), il giudice, quand’anche pronunci la nullità del lodo definitivo per vizi suoi propri, non potrebbe compiere un nuovo esame delle questioni decise con la pronuncia non definitiva, la cui efficacia conformativa rimane estesa anche all’eventuale fase rescissoria; cfr. RUFFINI, op. ult. cit., 443 e, più recentemente, ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670. (14) FAZZALARI, op. loc. ult. cit.; PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 72; LUISO, Le impugnazioni del lodo, cit., 18; CIPRIANI, op. ult. cit., 239; RUFFINI, op. ult. cit., 437; RASCIO, op. ult. cit., 402; CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 40; ID., Le vicende del lodo: impugnazione e correzione, cit., 468. 140 © Copyright - Giuffrè Editore 279, 2º comma, n. 5, c.p.c. (15), mentre nella nozione di lodo non definitivo su questioni quelle riconducibili all’art. 279, 2º comma, n. 4, c.p.c. (16). Nel provvedimento che qui si annota, la Corte di cassazione si discosta da tale orientamento. Richiamandosi ad alcuni propri precedenti, il Supremo Collegio afferma, infatti, che « nel procedimento arbitrale ... l’impugnabilità immediata viene circoscritta, per volontà del legislatore della riforma, alle ipotesi di decisione non totale del merito, cioè alle ipotesi corrispondenti alla previsione dell’art. 279 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4 ». Nella nozione di lodo parziale di merito vengono quindi ricondotte non solo le pronunce rese ai sensi degli artt. 277, 2º comma e 279, 2º comma, n. 5, c.p.c. (ossia le decisioni su domande oggettivamente o soggettivamente connesse), ma anche le decisioni rese ai sensi dell’art. 279, 2º comma, n. 4, c.p.c., più precisamente quelle aventi ad oggetto « questioni preliminari di merito » di cui all’art. 279, 2º comma, n. 2, c.p.c.; decisioni che, se rese in sede ordinaria, sarebbero sottoposte al regime delle pronunce non definitive (17). Tale conclusione appare come il portato della formulazione dell’art. 827 c.p.c., che, nel riferirsi alle decisioni parziali di merito, sembrerebbe non consentire alcuna distinzione fra lodo su domanda e lodo su questione. La decisione in commento evidenzia una sensibile differenza rispetto alla disciplina del processo ordinario, nella quale il regime dell’impugnazione della sentenza non definitiva prescinde dal suo contenuto (18); (15) E ciò indipendentemente dal provvedimento di liquidazione delle spese e di separazione del giudizio che gli arbitri avessero emesso contestualmente alla decisione: nessuna distinzione sarebbe stata infatti configurabile fra lodi parziali non definitivi e lodi parziali definitivi; cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 73 e 74; MONTESANO, op. ult. cit., 249 e, dopo l’ultima riforma, ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 660 e 661. Ai fini dell’impugnazione, il lodo parziale di merito non sarebbe stato diverso, quindi, dal lodo con cui gli arbitri avessero deciso una o più domande non connesse fra loro benché rientranti nella medesima convezione arbitrale, il quale è di norma considerato come pronuncia definitiva (Cass., 18 aprile 2000, n. 4992, in Rep. Giur. it., 2000, voce « Arbitrato », n. 166). Ciò contrariamente a quanto accade in sede ordinaria, dove le sentenze parziali vengono qualificate come definitive o non definitive a seconda che il giudice disponga la separazione delle cause e provveda alla liquidazione delle spese; cfr. Id., Sez. Un., 1 marzo 1990, n. 1577, in Foro it., 1990, I, 836. Sul punto v. COMOGLIO, op. ult. cit., 607 e 608. (16) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 74; LUISO, Le impugnazioni del lodo, cit., 18; CALIFANO, Il sistema d’impugnazione dei lodi, cit., 40 e 41; RASCIO, op. loc. ult. cit. (17) Ad esempio, il lodo con cui gli arbitri rigettino un’eccezione di prescrizione. In giurisprudenza v. Cass., 7 febbraio 2007, n. 2715, in questa Rivista, 2007, 581, con nota di OCCHIPINTI, La cassazione conferma i propri orientamenti in tema di impugnazione del lodo per nullità e Id., 16 maggio 2000, n. 6522, in Giur. it., 2001, 254. In dottrina, sia pur limitatamente alle eccezioni di merito in senso proprio, la tesi è sostenuta da MONTESANO, op. ult. cit., 250 e 253, da TARZIA, op. loc. ult. cit. e da LA CHINA, op. loc. ult. cit. Contra v. gli autori citati alla nota 14 e, in particolare, RASCIO, op. loc. ult. cit., per il quale il tenore letterale dell’art. 827 c.p.c. non legittimerebbe alcuna distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato, posto che entrambi i tipi di eccezione danno origine a questioni astrattamente idonee a definire il giudizio. (18) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 656. Come ricordato poc’anzi (cfr. nota 15), nel giudizio ordinario il regime d’impugnazione delle decisioni 141 © Copyright - Giuffrè Editore differenza le cui ragioni dovrebbero ricercarsi, ad avviso della Corte, nel « mancato riferimento da parte del legislatore del 1994 alla nozione di non definitività » (19). Pur nella sua (apparentemente maggiore) aderenza al dettato normativo (20), essa non presenta alcuna utilità: essa non risponde alla necessità di salvaguardare la posizione della parte soccombente sulla questione preliminare dal momento che, contrariamente al caso del lodo su domanda, non vi è alcun rischio che la decisione venga messa in esecuzione (21); inoltre, essa paga un prezzo molto alto in termini di economia processuale, posto che, stante l’inammissibilità della riserva d’impugnazione, ogni decisione su questione preliminare di merito deve essere impugnata immediatamente, a prescindere da una concreta soccombenza della parte che tale questione abbia sollevato (22). Si è già detto che la formulazione dell’art. 827 c.p.c. è rimasta inalterata anche dopo l’ultimo intervento riformatore (23); è però mutata la disciplina delle ordinanze, prima contenuta all’art. 816 c.p.c. e oggi trasfusa nell’ultimo comma del nuovo art. 816 bis c.p.c. Il legislatore del 2006 ha infatti modificato la vecchia disposizione, prevedendo che su tutte le questioni che si presentano nel corso del procedimento gli arbitri provvedono con ordinanza revocabile non soggetta a deposito « se non ritengono di provvedere con lodo non definitivo ». Il tenore della norma sembrerebbe rimettere agli arbitri ogni valutazione in ordine all’opportunità di adottare la forma del lodo piuttosto che quella dell’ordinanza; per la dottrina maggioritaria, con questa disposizione il legislatore avrebbe infatti sancito la piena fungibilità di queste due forme rispetto alle decisioni sulle questioni pregiudiziali di rito e sulle preliminari di merito (24). parziali dipende dal provvedimento di separazione delle cause e di liquidazione delle spese; circostanza, questa, che è invece irrilevante in sede arbitrale. (19) In tal senso già Cass., 7 febbraio 2007, n. 2715, cit. (20) Secondo LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa Rivista, 1996, 677 e RUFFINI, op. ult. cit., 443, imponendo l’immediata impugnazione del lodo su questione preliminare di merito, si finisce però per costringere la Corte d’appello a « cimentarsi » su di una controversia che, proprio per la sua natura, in sede giurisdizionale non potrebbe essere dedotta in via autonoma. (21) LUISO, Le impugnazioni del lodo, cit., 19 e RASCIO, op. loc. ult. cit. (22) PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 75; così pure RUFFINI, op. ult. cit., 437, nt. 21. Sul punto v. anche MONTESANO, op. ult. cit., 253. (23) Il che ha indotto gli interpreti a confermare il proprio pregresso orientamento in ordine alla distinzione fra lodo parziale di merito e lodo non definitivo su questioni (v. nota 14); cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 387 e ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 659 e 662; più recentemente MARINUCCI, Note sul contrasto, cit., 970. (24) Cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 386; ID., Il processo civile, cit., 212; VERDE, op. ult. cit., 148; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, 4º ed., Milano, 2011, 232; ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658; BOCCAGNA, op. ult. cit., 452 e 453; GHIRGA, Sub art. 816 bis c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio MENCHINI, Padova, 2010, 212, secondo la quale la discrezionalità degli arbitri troverebbe comunque un limite nella regolamentazione imposta dalle parti ai sensi del medesimo art. 816 bis c.p.c. 142 © Copyright - Giuffrè Editore Non mancano, tuttavia, coloro i quali, anche dopo la riforma, continuano a ritenere che la scelta fra lodo e ordinanza dipenda dalla natura della questione decisa e che, pertanto, tutte le questioni astrattamente idonee a definire il giudizio vadano decise con la forma del lodo (25). Stante all’ampia nozione di lodo parziale adottata dalla Corte di cassazione, è di tutta evidenza che l’opzione per l’una o per l’altra interpretazione rileva non solo sotto il profilo dell’impugnazione del provvedimento (26), ma anche sotto il profilo della sua stabilità nel prosieguo del giudizio (27). (25) COMOGLIO, op. ult. cit., 609, per il quale anche nel novellato contesto l’ordinanza conserverebbe natura di provvedimento ordinatorio, e G.F. RICCI, Sub art. 816 bis c.p.c., in Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile - artt. 806 - 840, a cura di Federico CARPI, Bologna, 2007, 405 ss., secondo cui la forma dell’ordinanza revocabile mal si concilierebbe con la risoluzione di questioni « di per sé idonee a chiudere il giudizio e quindi destinate ad una stabilità ». In senso conforme anche DALFINO, op. ult. cit., 315 e 316, ad avviso del quale contro la tesi maggioritaria militerebbe il combinato disposto del nuovo art. 816 bis c.p.c. e dell’art. 827 c.p.c., la cui formulazione è rimasta invariata. Secondo l’A., con l’inciso « se non ritengono di provvedere con lodo non definitivo » il legislatore non avrebbe fatto altro che sancire il potere degli arbitri di scegliere se risolvere immediatamente la questione (di rito o di merito) con lodo non definitivo oppure rinviarne la decisione insieme al lodo definitivo (ma per la sussistenza di un simile potere anche prima della riforma v. LUISO, Intorno agli effetti dei lodi non definitivi, cit., 595 ss.), con la conseguenza che, una volta optato per la prima alternativa, nessuna discrezionalità residuerebbe in capo agli arbitri, i quali sarebbero vincolati all’emanazione di un lodo non definitivo; così anche TOTA, Sub art. 816 bis c.p.c., in Commentario alle riforma del processo civile, a cura di Antonio BRIGUGLIO e Bruno CAPPONI, III, 2º tomo, Padova, 2009, 707 ss. Critico in proposito PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 387, secondo il quale la formulazione dell’art. 816 bis, ult. comma, c.p.c. non lascerebbe spazio a interpretazioni di segno diverso. (26) Sia pur limitatamente a quello reso su questioni preliminari di merito, essendo il lodo non definitivo su pregiudiziali di rito impugnabile solo unitamente al lodo definitivo. Peraltro, come rileva BOCCAGNA, op. loc. ult. cit., laddove si opti per la piena fungibilità fra lodo e ordinanza, sarebbe necessario stabilire se il lodo sia scomponibile in tante parti quante sono le questioni esaminate dagli arbitri; ciò al fine di capire se, onde evitare il passaggio in giudicato di tutta la decisione, la parte soccombente sia comunque onerata dall’impugnare ogni singola pronuncia su questione, anche se resa con ordinanza (in tal senso RUFFINI, op. ult. cit., 443 e 444), oppure se la minima unità strutturale in grado di dar vita ad un autonomo potere (e quindi ad un onere) d’impugnazione sia sempre e solo il lodo (CONSOLO, op. ult. cit., 540). In tal caso, infatti, la Corte d’appello potrebbe riesaminare le questioni tutte le volte in cui esse siano decise con semplice ordinanza, essendo il riesame precluso solo laddove su di esse sia pronunciato un lodo e questo non sia impugnato. (27) Come rilevato da autorevole dottrina (PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 504), il legislatore dell’ultima riforma ha mancato di regolare la sorte del lodo non definitivo su questione nel caso in cui il procedimento arbitrale non giunga a una pronuncia definitiva o parziale. Secondo un orientamento consolidato, i lodi non definitivi su questioni sarebbero incapaci di sopravvivere all’“estinzione” del giudizio arbitrale, essendo sforniti di quell’efficacia panprocessuale che tradizionalmente è attribuita alle sentenze su questioni; ciò in ragione dell’impossibilità di esperire contro di essi l’impugnazione immediata e dell’assenza di norme eccezionali quali gli artt. 310 c.p.c. e 129 disp. att. c.p.c. (in argomento v. MONTESANO, op. ult. cit., 251 e CAVALLINI, op. ult. cit., 1157 ss. e 1159). Ora, se si dovesse dare continuità a tale orientamento (cfr. ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670), la scelta fra la forma del lodo e quella dell’ordinanza esplicherebbe i propri effetti esclusivamente in ambito endoprocedimentale, rilevando solo ai fini della (im)possibilità per gli arbitri di ritornare sulla questione già decisa. Se invece si accedesse all’opinione, prospettata all’indomani della recente riforma, secondo la quale il lodo non definitivo avrebbe gli stessi effetti 143 © Copyright - Giuffrè Editore 4. Precisata la nozione di lodo parziale di merito, i giudici di legittimità si domandano se la pronuncia con cui gli arbitri abbiano deciso solo l’eccezione d’incompetenza possa rientrare nella previsione di cui all’art. 279, 2º comma, n. 4, c.p.c. (sub c). La risposta al quesito non può che essere positiva, dal momento che — afferma il Supremo Collegio — la questione inerente alla sussistenza della potestas judicandi arbitrale deve essere qualificata come questione preliminare di merito. Tale affermazione è frutto dell’orientamento consolidatosi in seguito alla riforma del 1994, allorquando la Corte di cassazione, dopo aver a lungo considerato l’eccezione in parola come eccezione di natura processuale (28), attribuì all’istituto arbitrale un carattere tout court negoziale e prese a considerare l’exceptio compromissi come eccezione di natura sostanziale (29). Indipendentemente dalla condivisibilità di questo assunto (30), è evidente che se la questione di « competenza » integra in realtà una questione preliminare di merito (31), allora anche il lodo che la decide deve essere considerato a tutti gli effetti come un lodo di merito e — stante l’ampia nozione di lodo parziale adottata dalla Corte — esso deve ritenersi impugnabile immediatamente ai sensi dell’art. 827, 3º conformativi previsti per le sentenze non definitive (in tal senso DALFINO, op. ult. cit., 321), la scelta fra la forma del lodo e quella dell’ordinanza sarebbe chiaramente foriera di ben più rilevanti conseguenze. (28) Riconducendo i rapporti fra arbitrato e processo ordinario alla categoria della competenza; cfr. Cass., 15 settembre 2000, n. 12175, in Giur. it., 2001, I, 1, 2035, con nota di NELA, Arbitrato rituale e regolamento necessario di competenza; Id., 8 febbraio 1999, n. 1079, in Foro it., 2000, I, 2308, con nota di DE SANTIS, In tema di rapporti tra giudice ordinario e arbitri; Id., 23 gennaio 1990, n. 354, in questa Rivista, 1991, 79, con nota di MIRABELLI, Regolamento o ricorso per cassazione per incompetenza dell’arbitro; Id., 27 luglio 1957, n. 3167, in Riv. dir. proc., 1958, 244, con nota di COLESANTI, Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri; Id., Sez. Un., 9 maggio 1956, n. 1505, in Foro it., 1956, I, 847, con nota di ANDRIOLI, Procedura arbitrale e regolamento di giurisdizione. (29) Aderendo così alla tesi sostenuta da una parte della dottrina (per tutti PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2000, 142). In tal senso Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527, in questa Rivista, 2000, 699, con nota di FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla « natura » dell’arbitrato rituale; in Riv. dir. proc., 2001, 254, con nota di E.F. RICCI, La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite. Nello stesso senso v. le successive Id., Sez. Un., 5 dicembre 2000, n. 1251, in Corr. giur., 2001, 1448, con nota di CONSOLO e MURONI, L’eccezione di arbitrato rituale come eccezione « di merito » e la supposta inammissibilità del regolamento di competenza; Id., 1 febbraio 2001, n. 1403, in Giur. it., 2001, I, 1, 2035, con nota di NELA, Arbitrato rituale, cit.; Id., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9289, in questa Rivista, 2002, 511, con nota di BRIGUGLIO, Le Sezioni Unite ed il regime della eccezione fondata su accordo compromissorio e in Giust. civ., 2003, 717, con nota di PUNZI, Natura dell’arbitrato e regolamento di competenza e, infine, Id., 5 gennaio 2007, n. 35, in Riv. dir. proc., 2007, 1293, con nota di E. F. RICCI, La Cassazione si pronuncia ancora sulla convenzione di arbitrato rituale: tra l’attaccamento a vecchi schemi e qualche incertezza concettuale. (30) Sul punto, si vedano gli scritti di E.F. RICCI, fra cui La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo, cit., 259 ss.; La never ending story della natura negoziale del lodo: ora la Cassazione risponde alle critiche, in Riv. dir. proc., 2003, 557 ss.; La Cassazione si pronuncia ancora sulla convezione di arbitrato rituale, cit., 1294 ss. (31) In questi termini Cass., 21 novembre 2006, n. 24681, in Rep. Giur. it., 2006, voce « Arbitrato », n. 88 e Id., 28 luglio 2004, n. 14234, in Mass. Giur. it., 2004, 1118 e 1119, entrambe citate nella motivazione. 144 © Copyright - Giuffrè Editore comma, c.p.c. (32). Donde la tardività, nel caso di specie, dell’impugnazione proposta nei confronti del primo lodo ed il conseguente passaggio in « giudicato » della decisione resa sull’eccezione d’incompetenza. Su questo punto, non possiamo non dare evidenza di quanto statuito dalla sentenza n. 4790 del 26 marzo 2012, con cui la stessa Sezione, qualificando la questione inerente alla sussistenza della potestas judicandi arbitrale come questione pregiudiziale attinente all’ammissibilità della domanda, ha opinato nel senso della impugnabilità del lodo dichiarativo della competenza arbitrale solo unitamente al lodo definitivo (33). A fronte (32) Nel medesimo senso, sia pur con riferimento ad una vicenda parzialmente diversa, App. Milano, 9 giugno 1998, in questa Rivista, 2000, con nota di DANOVI, Lodi non definitivi e limiti soggettivi di efficacia del patto compromissorio. Non sembra, invece invocabile Cass., Sez. Un., 19 luglio 1957, n. 2050, cit., 1460, con cui i giudici di legittimità avevano ritenuto suscettibile di impugnazione immediata il lodo con cui gli arbitri si erano dichiarati competenti a conoscere della domanda proposta in via principale, disponendo la sospensione del procedimento a fronte di un’eccezione di nullità di un brevetto. Tale ultimo precedente risulta infatti emesso all’indomani della novella del 1950, in un momento in cui parte della dottrina e della giurisprudenza di merito avevano ritenuto che, di fronte all’intervento riformatore, la regola dell’impugnabilità immediata delle sentenze dovesse trovare applicazione anche in sede arbitrale. Come noto, tale orientamento è stato poi sconfessato dalla Corte di cassazione nelle celebre sentenza n. 4020 del 12 luglio 1979, con cui la Corte, argomentando sulla base dell’inapplicabilità all’arbitrato degli artt. 340 e 361 c.p.c., confermò l’operatività in sede arbitrale del principio di concentrazione delle impugnazioni e dunque l’inammissibilità dell’impugnazione immediata nei confronti dei lodi parziali; cfr. Id., 12 luglio 1979, n. 4020, cit., 1707 e 1708. (33) Cass., 26 marzo 2012, n. 4790, cit. La fattispecie era pressoché identica a quella decisa nel provvedimento in esame. Anche in questo caso, infatti, il collegio arbitrale aveva reso un primo lodo con cui si era dichiarato regolarmente costituito nonché competente a conoscere la controversia, al quale era seguita la decisione sul merito della lite ed entrambe le decisioni erano state impugnate congiuntamente dinanzi alla Corte d’appello. Va tuttavia precisato che, dall’esame della motivazione, non è chiaro se la conclusione cui pervengono i giudici di legittimità sia il frutto della natura processuale attribuita alla questione di competenza, piuttosto che di una rimeditazione della nozione di lodo su questione e di lodo parziale (su cui ci siamo intrattenuti poc’anzi), anche se il richiamo alle categoria dell’ammissibilità e della procedibilità induce a privilegiare la prima lettura. Nello stesso senso e sempre con riferimento alla disciplina anteriore alla riforma del 2006, v. App. Roma, 11 aprile 2013, cit. Da segnalare anche Cass., 19 agosto 2004, n. 16205, in Arch. giur. oo. pp., 2004, 265. Questa pronuncia trae origine da una fattispecie nella quale gli arbitri avevano reso un lodo con cui avevano rigettato l’eccezione di nullità della clausola compromissoria e, al contempo, pronunciato la risoluzione del contratto sul quale era sorta la controversia. Per la Corte di cassazione, tale decisione costituiva un lodo parziale di merito (in forza del capo risolutorio), con la conseguenza che, data l’impossibilità di scindere in momenti diversi l’impugnazione di un unico provvedimento (sull’impugnazione dei lodi a contenuto “misto” v. COMOGLIO, op. ult. cit., 614), essa avrebbe dovuto ritenersi impugnabile immediatamente anche nella parte con cui gli arbitri avevano rigettato l’eccezione d’incompetenza. Nella propria motivazione, la Corte ha però specificato che detto lodo non sarebbe stato suscettibile di impugnazione immediata laddove si fosse limitato a rigettare l’eccezione di nullità, dal momento che, in tal caso, esso non avrebbe inciso sul merito della lite. Per l’inammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti del lodo dichiarativo della competenza arbitrale v. anche Cass., 9 agosto 1983, n. 5311, in Rass. avv. Stato, 1983, I, 702, la cui motivazione risulta però fondata sul principio di indivisibilità del lodo (cfr. nota 2). In dottrina la natura non definitiva del lodo dichiarativo della competenza arbitrale è sostenuta da TARZIA, op. loc. ult. cit. 145 © Copyright - Giuffrè Editore di tale contrasto, non resta che auspicare un intervento risolutore da parte delle Sezioni Unite, nella speranza che il Supremo Collegio colga l’occasione per fare chiarezza sul punto anche con riferimento alla situazione attuale, tenendo conto cioè delle significative novità introdotte con il d.lgs. n. 40 del 2006 (sulle quali ritorneremo infra). In attesa di tale intervento, riteniamo opportuno compire un’ulteriore riflessione, che ci è indotta dal passaggio della motivazione in cui la Corte fa riferimento alla formazione del « giudicato ». Invero, è probabile che, nell’utilizzare tale termine, i giudici di legittimità abbiano inteso riferirsi al giudicato formale, volendo significare soltanto la sopravvenuta insindacabilità, nell’ambito di quel giudizio, della decisione arbitrale relativa alla questione di competenza; del resto, è noto come la Corte di cassazione abbia da sempre ritenuto che la statuizione sull’eccezione d’incompetenza non possa costituire un capo autonomo della decisione (emessa dagli arbitri o dal giudice ordinario) e che, pertanto, essa non sia idonea ad acquisire l’autorità della cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c. (34). Si consideri inoltre che, nonostante il diverso avviso della dottrina (35), tale orientamento, tradizionalmente fondato sul carattere processuale attribuito all’exceptio compromissi e su un’interpretazione rigorosa del principio di Kompetenz-Kompetenz, non è parso subire significativi mutamenti nemmeno all’indomani del revirement del 2000 (36). Tuttavia, laddove si condivida l’opinione secondo la quale l’eccezione con cui si contesta la competenza arbitrale avrebbe natura sostanziale, sarebbe necessario verificare se detta eccezione dia origine ad una semplice questione preliminare o a una vera e propria questione pregiudiziale (37). (34) Cass., 28 marzo 1991, n. 3361, in Giur. it., 1992, I, 1, 552, con nota senza titolo di FADEL; Id., 27 maggio 1961, in Giur. it., 1961, I, 1, 884, con nota senza titolo di COLESANTI, e in Giust. civ., 1961, I, 1836, con nota di SAMMARCO, Trasmigrazione del processo dall’arbitro al giudice ordinario; Id., 27 luglio 1957, in Riv. dir. proc., 1958, 247 e 258, con nota di COLESANTI, Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri. (35) Fra i molti LUISO, Ancora sui rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 1997, 525, BOVE, Rapporti tra arbitro e giudice statale, ivi, 1999, 420 e, sia pur de jure condendo, CONSOLO, Litispendenza e connessione fra arbitrato e giudizio ordinario (evoluzione e problemi irrisolti), ivi, 1998, 672. (36) Si veda, infatti, Cass., 8 giugno 2007, n. 13508, in Rep. Giur. it., 2007, voce « Arbitrato », 75, nella quale la Corte ha affermato che « la mancata impugnazione della pronuncia sulla competenza dà luogo soltanto ad un giudicato formale che preclude la riproposizione della questione davanti al giudice dello stesso processo, ma non fa stato in un diverso processo promosso dalle parti dinanzi a un giudice diverso e, meno che mai, nel giudizio arbitrale, che non costituisce prosecuzione del giudizio instaurato dinanzi al giudice incompetente ... ». (37) Per comodità del lettore, ricordiamo che per questione pregiudiziale di merito s’intende la questione dalla cui definizione dipende la decisione della causa. Si tratta di una questione dotata di intrinseca autonomia, suscettibile di divenire causa autonoma (come tale azionabile anche in un separato giudizio), che ha ad oggetto un rapporto giuridico sostanziale diverso da quello principale, dalla cui esistenza dipende l’esistenza di quest’ultimo e la cui inesistenza rende superfluo l’esame degli altri elementi della fattispecie; e che, ai sensi dell’art. 146 © Copyright - Giuffrè Editore Ora, è innegabile che la questione inerente alla sussistenza della potestas arbitrale sia dotata di una propria autonomia rispetto al rapporto sostanziale cui accede il patto compromissorio: essa, infatti, riguarda un autonomo « bene della vita » (38) (l’arbitrabilità della lite) e non può essere ridotta a mero elemento costitutivo del rapporto principale; con la conseguenza che, laddove ci si muova nell’ambito delle questioni sostanziali, parrebbe corretto riconoscerle il rango di questione pregiudiziale di merito. Così opinando, la relativa statuizione potrebbe assurgere a capo autonomo della decisione (o a decisione parziale) ed esplicare un’efficacia conformativa in tutti gli eventuali successivi giudizi (arbitrali e ordinari) in cui la questione fosse eventualmente riproposta. Ovviamente, ipotizzando di ricondurre la fattispecie in esame alla previsione di cui all’art. 34 c.p.c., si dovrebbe concludere che, in difetto di una norma che imponga una decisione della questione con efficacia di giudicato, essa possa conseguire solo alla formulazione di una domanda di accertamento incidentale (39). Aderendo a questa ricostruzione, anche la sentenza resa della Corte di cassazione potrebbe ritenersi corretta, sia pur in forza di una diversa ratio: in questo modo, infatti, la decisione sull’eccezione d’incompetenza dovrebbe — in ipotesi — essere considerata non già come una semplice decisione su questione preliminare, bensì come una decisione su questione pregiudiziale trasformata in causa, la quale, al pari di ogni altra decisione su domanda, sarebbe immediatamente impugnabile ai sensi dell’art. 827, 3º comma, c.p.c. (40). 5. La ricostruzione sopra ipotizzata deve però essere verificata alla luce della disciplina positiva; disciplina di cui, come noto, il nostro codice di procedura civile è rimasto a lungo privo e che è stata introdotta solo in occasione dell’ultimo intervento riformatore. Questo breve scritto non ci consente di affrontare diffusamente il tema della natura dell’eccezione con cui si contesta la potestas judicandi degli arbitri e di trattare ex professo il 34 c.p.c., può essere trasformata in causa pregiudiziale (ed essere quindi decisa con efficacia di giudicato) in forza di una previsione di legge o di una domanda di parte. La questione preliminare di merito consiste, invece, in una questione anch’essa idonea a definire il giudizio, ma riguardante un elemento costitutivo della fattispecie e, soprattutto, insuscettibile di un autonomo giudizio. Inoltre, mentre la sentenza non definitiva su questione pregiudiziale è idonea alla formazione della cosa giudicata (a condizione che la questione sia stata trasformata in causa) e, anche in caso di estinzione del giudizio, fa stato fra le parti ai sensi dell’art. 2909 c.c., la sentenza non definitiva su questione preliminare di merito è dotata solo della c.d. efficacia panprocessuale, nel senso che essa vale solo nei successivi giudizi fra le parti aventi ad oggetto la medesima controversia; cfr. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli, 2006, 195. Su questi temi si rinvia a GARBAGNATI, Questioni preliminari di merito e questioni pregiudiziali, in Riv. dir. proc., 1976, 257 ss. Sul punto v. anche COMOGLIO, op. ult. cit., 602 ss. e DALFINO, op. ult. cit., 310 ss. (38) CONSOLO, Litispendenza e connessione, cit. (39) BOVE, op. ult. cit., 421. (40) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 670 e 672. 147 © Copyright - Giuffrè Editore problema legato all’efficacia della pronuncia sul patto compromissorio (41). Qui ci limitiamo a osservare soltanto che le modifiche apportate all’art. 817 c.p.c., unitamente alla novellazione dell’art. 819 ter c.p.c., hanno indotto molti interpreti a ritenere che la questione inerente alla sussistenza di un valido patto compromissorio sia oggi restituita all’ambito delle questioni processuali, ancorché rimanga poi dubbio se essa vada qualificata come questione di giurisdizione, di competenza o di ammissibilità della domanda. Il che dovrebbe indurre a confermare il pregresso orientamento giurisprudenziale circa la presunta inefficacia della pronuncia sul patto compromissorio al di fuori del giudizio in cui questa venga resa (42), ad opinare nel senso che essa possa essere emessa indifferentemente con la forma dell’ordinanza o con quella del lodo e, infine, a ritenere che, ove resa sotto forma di lodo, essa possa essere impugnata solo unitamente alla pronuncia definitiva (43). Sennonché, a fianco delle disposizioni volte a rafforzare il carattere processuale della questione in parola ve ne sono altre di segno opposto, che sembrano invece attribuirle il rango di autonomo bene della vita (44); intendiamo riferirci alla disposizione contenuta nell’art. 819 ter, ult. comma, c.p.c., che, ammettendo la proposizione di domande aventi ad (41) Sul punto v. BOCCAGNA, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di Massimo BENEDETTELLI, Claudio CONSOLO e Luca Radicati di BROZOLO, Padova, 2010, 255 ss. e 276 ss.; ACONE, Arbitrato e translatio iudicii: un parere eretico, in AA. VV., Sull’arbitrato, cit., 1 ss.; RUFFINI, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Sergio MENCHINI, Padova, 2010, 281 ss. e 364 ss.; PELLEGRINELLI, Sub art. 817 c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Antonio BRIGUGLIO e Bruno CAPPONI, III, 2º tomo, Padova, 2009, 817; CAPPONI, Sub art. 819 ter c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Antonio BRIGUGLIO e Bruno CAPPONI, III, 2º tomo, Padova, 2009, 873; ID., Modestino Acone, la competenza e l’arbitrato, in Il giusto processo civile, 2009, 391; G.F. RICCI, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Arbitrato. Commento al titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile — artt. 806 — 840, a cura di Federico CARPI, Bologna, 2007, 467 ss. e 500 ss.; LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 776; NELA, Sub artt. 817 e 819 ter c.p.c., in Le recenti riforme del processo civile, a cura di Sergio CHIARLONI, 2º tomo, Bologna, 2006, 1768 ss. e 1809 ss.; BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 361; ID., Ricadute sulla disciplina dell’arbitrato della legge n. 69/2009, in AA. VV., Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 81 ss.; IZZO, Appunti sull’eccezione di compromesso e sulla sentenza che la decide, in AA. VV., Sull’arbitrato, cit., 451 ss. Più di recente v. PUNZI, Disegno sistematico, cit., I, 2012, 155 ss. e MENCHINI, Il controllo e la tutela della convenzione arbitrale, in questa Rivista, 2013, 363 ss. (42) In tal senso CAPPONI, Sub art. 819 ter c.p.c., in Commentario alle riforme, cit., 880; NELA, Sub art. 817 c.p.c., in Le recenti riforme, cit., 1771; G.F. RICCI, Sub art. 819 ter c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 506 ss., i quali, argomentando sulla base del carattere processuale attribuito alla questione in parola e del principio di Kompetenz-Kompetenz di cui all’art. 817 c.p.c. (principio che del resto si pone in perfetta sintonia con la soluzione delle “vie parallele” adottata dal legislatore all’art. 819 ter c.p.c.), ritengono che l’accertamento compiuto dagli arbitri o dal giudice ordinario in ordine alla propria competenza non sia in grado di esplicare effetti al di fuori della sede in cui viene reso. (43) Così DE ZANETTI, Il lodo, in AA.VV., Arbitrato, a cura di Bonelli Erede Pappalardo, Milano, 2012, 191, nonché MARINUCCI, op. ult. cit., 967. (44) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658. 148 © Copyright - Giuffrè Editore oggetto la questione inerente alla sussistenza della potestas arbitrale (45), sembrerebbe legittimare l’idea che detta questione possa essere decisa con efficacia di giudicato anche quando sorga nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il rapporto giuridico sostanziale (46). Valorizzando questi elementi, dovrebbe ritenersi che la pronuncia sull’eccezione d’incompetenza richieda inderogabilmente la forma del lodo (47) e che essa costituisca una decisione parziale, come tale impugnabile immediatamente (48). Di fronte alla non univocità del dettato normativo, questa seconda opzione sembrerebbe preferibile dal momento che, pur gravando la parte soccombente dell’onere di proporre impugnazione immediata, essa è (45) La norma, nell’escludere che in pendenza del giudizio arbitrale possano essere proposte domande giudiziali aventi ad oggetto l’invalidità o l’inefficacia della convenzione d’arbitrato, è stata interpretata a contrario nel senso che, prima di tale momento, la proposizione di simili domande sarebbe ammissibile; cfr. LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., 776; BOVE, Ancora sui rapporti, cit., 361. Tale lettura ha trovato riscontro nella giurisprudenza di legittimità; cfr. Cass., 4 agosto 2011, n. 1709, in Foro it., 2012, 1143. In senso contrario v. però NELA, Sub art. 819 ter c.p.c., in Le recenti riforme, cit., 1821. (46) PUNZI, Il processo civile, cit., 212; LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., 783; RUFFINI, Sub art. 817 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 285. Ulteriori argomenti in favore del carattere autonomo della questione vengono tratti dal disposto dell’art. 817, 1º comma, c.p.c., a mente del quale, in caso di contestazione sulla validità, il contenuto o l’ampiezza della convenzione arbitrale, « gli arbitri decidono sulla propria competenza », nonché dalla disposizione contenuta nell’art. 830, 3º comma, c.p.c., che, nel disciplinare il passaggio alla fase rescindente a quella rescissoria del giudizio d’impugnazione, prevede che « quando la corte d’appello non decide nel merito, alla controversia si applica la convenzione d’arbitrato, salvo che la nullità dipenda dalla sua invalidità ». Fra coloro i quali ipotizzano che la decisione sul patto compromissorio possa conseguire l’autorità propria del giudicato, si discute, tuttavia, se una simile efficacia possa discendere solo dalla proposizione di una domanda di accertamento incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c. (MENCHINI, op. ult. cit., 372 e IZZO, op. ult. cit., 460 ss.) o anche alla proposizione di una mera eccezione (LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, cit., il quale invoca la teoria dell’antecedente logico necessario). In senso contrario MARINUCCI, op. loc. ult. cit., secondo la quale, in sede arbitrale, la questione inerente alla competenza del giudice privato manterrebbe inalterato il proprio carattere processuale. (47) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 658. D’altro canto, opinando nel senso dell’ammissibilità dell’ordinanza ex art. 816 bis c.p.c. si determinerebbe una forte discrasia rispetto al giudizio ordinario, dove, stante l’immutata formulazione dell’art. 819 ter c.p.c., la questione di competenza continua a dover essere decisa con la forma della sentenza; sarebbe infatti piuttosto singolare che sulla medesima questione il giudice ordinario sia tenuto ad adottare il provvedimento decisorio per eccellenza, mentre gli arbitri possano emettere addirittura un provvedimento revocabile. (48) ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 662. Del resto, se la ratio del divieto di impugnazione immediata per il lodo non definitivo su questioni è quella di evitare di impegnare la Corte d’appello su questioni che, da sole, non sarebbero suscettibili di accertamento davanti all’autorità giudiziaria (LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, cit., 677) e se le controversie sulla validità e sull’ampiezza della clausola compromissoria possono costituire oggetto di autonomo accertamento in sede giurisdizionale (cfr. art. 819 ter, ult. comma, c.p.c.), allora non vi sarebbe motivo per escludere che il lodo reso su di esse possa essere immediatamente impugnato. Naturalmente, qualora si opini nel senso che il giudicato possa formarsi soltanto in presenza di un’esplicita domanda di parte (IZZO, op. loc. ult. cit.), ragionevolmente l’impugnazione dovrà essere proposta immediatamente solo laddove tale domanda sia stata effettivamente formulata; in caso contrario, stante la cennata distinzione fra lodo su domande e lodo su questioni (cfr. note 14 e 23), la pronuncia dovrebbe ritenersi impugnabile solo unitamente alla decisione definitiva. 149 © Copyright - Giuffrè Editore l’unica in grado di assicurare alle parti una decisione “tombale” sulla questione di competenza. D’altronde, l’unica possibilità di risparmiare alle parti un simile incombente risiederebbe nell’estensione al procedimento arbitrale dell’istituto della riserva facoltativa d’impugnazione. 6. L’immediata impugnabilità della decisione resa sulla questione di competenza impone, infine, una breve riflessione sul coordinamento fra il giudizio d’impugnazione del lodo e il procedimento arbitrale (che, come nel caso di specie, prosegua con l’esame del merito della controversia). La prima conseguenza dell’emanazione di un lodo non definitivo su questione o di un lodo parziale è l’automatica proroga del termine per la pronuncia della decisione finale di ulteriori centottanta giorni (49). Si tratta, naturalmente, di uno strumento inadeguato; per cui, al fine di garantire un coordinamento fra le due sedi, non sembrano esservi alternative a una sospensione concordata del procedimento arbitrale in attesa della definizione della questione di competenza (50). Ove, invece, il procedimento arbitrale prosegua, l’accoglimento dell’impugnazione del lodo parziale determinerà, ai sensi dell’art. 336, 2º comma, c.p.c., la caducazione del lodo definitivo che sia stato nel frattempo pronunciato (51). E dal momento che la legge n. 353/1990 ha espunto dall’art. 336 c.p.c. il riferimento al passaggio in giudicato della sentenza, l’effetto espansivo esterno si produrrà immediatamente, in seguito al deposito della sentenza resa dalla Corte d’appello (52); con la conseguenza che, qualora tale sentenza sia a sua volta impugnata dinanzi alla Corte di cassazione e l’impugnazione venga accolta, non si potrà fare altro che riaprire il procedimento davanti agli arbitri (53). Laddove, invece — per ipotesi — il lodo sia (49) Il legislatore della riforma ha infatti modificato l’art. 820 c.p.c., rendendo automatica la proroga del termine per la pronuncia del lodo definitivo ed estendendo la previsione anche al caso in cui venga reso un « lodo parziale ». (50) TARZIA, op. ult. cit., 157 e 158. Non sembra invece possibile applicare analogicamente il disposto dell’art. 279, 4º comma, c.p.c. Tale norma, infatti, potrebbe essere trasposta nel procedimento arbitrale solo in presenza di un’esplicita indicazione delle parti; cfr. PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 2012, 502; ZUCCONI GALLI FONSECA, Sub art. 827 c.p.c., in Arbitrato, cit., 2007, 665 e 666. (51) PUNZI, Disegno sistematico, cit., 2012, II, 503; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze, cit., 527; così già TARZIA, op. loc. ult. cit. e MONTESANO, op. loc. ult. cit. Il lodo definitivo sarà dunque travolto per effetto della dichiarazione di nullità del lodo parziale anche laddove il primo non sia stato impugnato e sia nel frattempo divenuto incontrovertibile. (52) TEDOLDI, Sub art. 336 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, a cura di Claudio CONSOLO, 4ª ed., 2010, 524. (53) Con riferimento al procedimento ordinario v. CONSOLO, Sub art. 336 c.p.c., in Commentario alla riforma del processo civile, a cura di Claudio CONSOLO, Francesco Paolo LUISO e Bruno SASSANI, Milano, 1996, 358. 150 © Copyright - Giuffrè Editore annullato prima della conclusione del giudizio arbitrale, gli arbitri dovranno conformarsi alla statuizione della Corte d’appello e respingere la domanda, prendendo atto della propria incompetenza (54). ENRICO DEBERNARDI (54) RUFFINI, BOCCAGNA, Sub art. 827 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, a cura di Claudio CONSOLO, 4ª ed., 2010, 1193. 151 © Copyright - Giuffrè Editore © Copyright - Giuffrè Editore CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 14 maggio 2012 n. 7450; CARNEVALE Pres.; FORTE Est.; Sorrentino P.M. — Comune di Savoca c. Natoli Alfredo. Mancata tempestiva nomina dell’arbitro di parte - Nomina giudiziale dell’arbitro, ai sensi dell’art. 810, comma 2, c.p.c. - Rispetto delle qualifiche convenzionalmente pattuite dalle parti - Ricusazione ex art. 815, comma 1, n. 1, c.p.c. Impugnazione per nullità del lodo emesso dal collegio arbitrale. Il presidente del tribunale, nel designare l’arbitro, non tempestivamente nominato dalle parti ai sensi degli artt. 810 e 811 c.p.c., non è vincolato al rispetto delle categorie professionali previste nella convenzione arbitrale. Quest’ultima vincola solo le parti, ex art. 1372 c.c., e non può estendere i propri effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe, nell’inerzia delle parti, l’autorità giudiziaria, il cui intervento non è, dunque, soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata, ma si attua con la discrezionalità tipica del magistrato. CENNI DI FATTO. — La sentenza in epigrafe muove da una controversia insorta tra il Comune di Savoca e Tizio, al quale è conferito l’incarico di uno studio geologico dell’area limitrofa alla Chiesa della SS. Immacolata, oggetto di lavori di ristrutturazione. In seguito al rifiuto del Comune di pagare il conto finale dei lavori presentato da Tizio, quest’ultimo avvia un giudizio arbitrale, in conformità all’art. 16 del disciplinare di incarico, nominando il proprio arbitro. Nell’inerzia del Comune in merito alla nomina dell’arbitro di parte, Tizio, ai sensi dell’art. 810, comma 2, c.p.c., chiede al Presidente del Tribunale di Messina di provvedere alla nomina dell’arbitro di parte. Il collegio formato dall’arbitro nominato da Tizio e dai due arbitri nominati dal Presidente del Tribunale di Messina (l’arbitro di parte e il presidente del collegio arbitrale) pronuncia il lodo, riconoscendo il credito di Tizio e condannando il Comune di Savoca al pagamento della somma richiesta. Il lodo così pronunciato viene impugnato, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., dal Comune di Savoca, in particolare, per l’errata composizione del collegio arbitrale, il mancato rispetto dei termini di costituzione e lesione del diritto di difesa, ex art. 816 bis c.p.c. La Corte d’Appello competente rigetta l’impugnazione del lodo (con la sentenza del 18 gennaio 2006, n. 22), condannando il Comune. MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis) 3.1. Il primo motivo di ricorso è infondato e da rigettare. In ordine al provvedimento del Presidente del tribunale di designazione dell’arbitro non nominato tempestivamente dal Comune di Savoca al di fuori delle categorie professionali previste nella clausola compromissoria, l’atto di nomina è censurato per avere individuato il componente del collegio privo della qualifica che avrebbe dovuto avere secondo la clausola arbitrale. (Omissis). Peraltro la previsione limitativa dell’autonomia del Comune di Savoca contenuta nel compromesso, con la individuazione delle categorie di avvocato dello Stato o di componente dell’ufficio legislativo e legale della Regione siciliana con la qualifica di avvocato per l’arbitro che esso doveva nominare, non può estendere i suoi effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe il Presidente del tribunale nell’inerzia delle parti. Non avendo l’ente locale provveduto alla nomina ad esso 153 © Copyright - Giuffrè Editore spettante nel termine di venti giorni di cui all’art. 810 c.p.c. (sia prima che dopo la riforma dell’arbitrato del 2006), su istanza della parte più diligente, il Presidente del tribunale deve procedere alla nomina del secondo arbitro come sancito dalla legge e può quindi discostarsi dalle previsioni della clausola compromissoria che vincola solo i suoi autori (art. 1372 c.c.). Una volta che la nomina avviene a cura del Presidente per non avere la parte interessata provveduto nei termini di legge alla designazione, l’intervento sollecitato del presidente del tribunale per procedere a nominare il secondo arbitro, non è soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata ma si attua con la discrezionalità del magistrato, che opera secondo legge nell’esercizio dei suoi poteri e senza vincoli di mandato. Si è già rilevato come il termine di venti giorni dall’invito a nominare il proprio arbitro dopo la notifica della designazione dell’altra parte che non vi ha provveduto, non è perentorio (Cass. 2 dicembre 2005 n. 26257), tanto che l’inadempiente può provvedere anche dopo tale termine e finché alla nuova nomina non ha provveduto il presidente del tribunale, il quale esercita un suo potere, sostituendo, in base alla legge, la volontà della parte rimasta inerte nella nomina, che quindi non è più quella di cui alla clausola arbitrale. Il presidente del tribunale non da attuazione al compromesso ma nomina l’arbitro nell’esercizio di suoi poteri giudiziari con provvedimento di volontaria giurisdizione non decisorio e neppure impugnabile (Cass. 18 maggio 2007 n. 11665, 19 gennaio 2006 n. 101, 6 giugno 2003 n. 9143). L’intervento del presidente del tribunale supera la volontà delle parti che non vi abbiano provveduto e può aversi anche quando la nomina non sia stata accettata (così Cass. 21 luglio 2010 n. 17114); anche quando sia prevista nella convenzione d’arbitrato la categoria professionale dei soggetti tra cui nominare l’arbitro, il potere del magistrato non è limitato dalla volontà delle parti espressa nella clausola, potendo designare come arbitri anche soggetti al di fuori delle categorie indicate nella clausola (così la già citata Cass. n. 15290 del 2001, cui fanno riferimento entrambe le parti). Resta quindi assorbito per irrilevanza ogni rilievo delle norme sull’interpretazione del compromesso, cui fa riferimento il primo motivo di ricorso, dovendo il presidente del tribunale esercitare il suo potere solo nei limiti della legge. La designazione, con ordinanza del presidente del tribunale, del componente del collegio arbitrale scelto al di fuori delle categorie indicate nel compromesso, non incide sulla valida e regolare costituzione del collegio, che è pienamente legittimo quando alla nomina provveda l’autorità giudiziaria, nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge e non in mera sostituzione delle volontà delle parti. Il presidente del tribunale non è soggetto ai limiti convenzionali che vincolano le parti, quando provvede alla nomina di arbitri, nei casi previsti dagli artt. 810 e 811 c.p.c., in entrambe le versioni, anteriore e successiva al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. In ordine poi alla mancata concessione dei termini al ricorrente, per consentirgli di indicare le ragioni per contestare la validità della nomina degli arbitri operata dal giudice e comunque per svolgere, nell’ambito di un corretto contraddittorio, le sue difese, il primo motivo di ricorso è privo di autosufficienza e quindi inammissibile. (Omissis). La pretesa nullità della comunicazione del nome del terzo arbitro all’avv. Biondo, che ancora non era costituito difensore del comune nel giudizio arbitrale, in mancanza di deduzioni che rendano invalida detta nomina dell’arbitro, resta superata dalla integrità del contraddittorio instaurato dinanzi al collegio arbitrale (Cass. 14 febbraio 2007 n. 3269, 6 154 © Copyright - Giuffrè Editore settembre 2006 n. 19129 e S.U. 3 marzo 2003 n. 3075). Non risulta dal ricorso in che modo si siano violati i termini a difesa o il principio del contraddittorio nel giudizio arbitrale e correttamente si è respinta la impugnazione per nullità del lodo per tali profili. (Omissis). 3.2. In ordine al secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, non risulta adeguatamente censurata l’affermazione, a pag. 8 della sentenza della Corte di merito, per la quale “per le opere geognostiche e per le competenze tecniche complessive il comune aveva a disposizione la somma complessiva di L. 519.253.929”, assai maggiore di quella poi in concreto erogata per tali prestazioni. Secondo il comune, (pag. 14 del ricorso), per la Delib. giunta n. 147 del 1993, al professionista si doveva corrispondere “la somma stabilita dalla tariffa per le prestazioni professionali dei geologi e, comunque, pari a quella prevista, per tale scopo nel relativo progetto”, precisandosi che si doveva liquidare “l’onorario spettante dalle tariffe professionali, la cui spesa verrà affrontata, con gli appositi fondi previsti nel finanziamento dell’opera e inclusi nel progetto”. Allo stesso onorario determinato in base alla tariffa approvata con D.M. 18 novembre 1971 fa riferimento anche l’art. 8 del disciplinare, anche se il successivo art. 11 prevede che il corrispettivo da versare al professionista è quello di cui al progetto, nella misura concretamente erogata al dr. Natoli nel 1994. (Omissis). Il secondo motivo di ricorso è quindi infondato, non potendo applicarsi nella fattispecie il D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35 che regola i soli debiti fuori bilancio, per cui resta legittimato l’ente locale a pagare al dr. Natoli quanto dovuto e liquidato in base alle tariffe professionali, cui si è fatto espresso riferimento sia nella delibera di incarico che nel disciplinare, atti in cui il richiamo alle somme previste allo scopo in progetto sembra riportato subordinatamente all’applicazione delle tariffe, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso. In rapporto alle carenze motivazionali denunciate nel terzo motivo di ricorso. (Omissis). Nell’incarico e nel disciplinare, le tariffe professionali sono specificamente richiamate, e la loro applicazione è giustificata in sentenza in ragione delle Delibere di incarico e del disciplinare, come affermato nella sentenza adeguatamente e correttamente motivata su tale punto, con infondatezza conseguente del terzo motivo di ricorso. Dato il corretto pagamento del compenso in conformità al contratto e poiché la somma pretesa non era maggiore dei fondi disponibili iscritti in bilancio a copertura del debito, deve negarsi non solo qualsiasi incertezza motivazionale sul punto ma pure la dedotta violazione dell’art. 2233 c.c., con conseguente infondatezza, oltre che del terzo, anche del quarto motivo del ricorso. (Omissis). La nomina degli arbitri: capacità e qualifiche tra autonomia privata e poteri discrezionali dell’autorità giudiziaria. 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione esamina la natura della nomina giudiziale dell’arbitro, ai sensi dell’art. 810, comma 2, 155 © Copyright - Giuffrè Editore c.p.c., e quanto incida (o possa incidere) sull’autonomia privata il potere (discrezionale) dell’autorità giudiziaria. In via preliminare pare opportuno chiarire che « la scelta dell’arbitro è forse il momento più delicato dello svolgimento del procedimento arbitrale: si tratta, infatti, di designare il giudice della controversia » (1). La nomina degli arbitri costituisce uno degli atti maggiormente espressivi dell’autonomia negoziale delle parti (2). Come noto, il fondamento dell’arbitrato deve rinvenirsi nella natura privatistica del giudizio e nella, consequenziale, matrice genetica del potere degli arbitri di decidere la controversia altrui. L’arbitro deriva il proprio potere di ius dicere direttamente dalla volontà delle parti: riceve il proprio incarico giudiziario dalla parte, la quale confiderà di essersi assicurata, per tale via, un « judge of his choice », un giudice attento e predisposto alle proprie argomentazioni. La matrice volontaria della nomina del giudice privato rende la costituzione dell’organo giudicante il momento fondante l’istituto arbitrale (3). Nella prassi ciascuna parte nomina un arbitro mediante una dichiarazione unilaterale di volontà, che non richiede alcuna accettazione da parte degli altri litiganti, e un terzo arbitro viene scelto di comune accordo dai due arbitri nominati. Il Tribunale arbitrale risulta, in queste ipotesi, formato da un arbitro che non è scelto da alcuna parte e due arbitri che sono scelti ciascuno da una sola parte. Ciascuna parte tenderà a designare come arbitro una persona che conosce, verso la quale nutre rispetto e stima, e a cui è legato da un vincolo (1) BENATTI, Una conversazione sui criteri di nomina dell’arbitro, in Corr. Giur., 2006, 6, 880. L’A. evidenzia che nella disciplina dell’arbitrato convivono norme di ordine pubblico e regole che sono espressioni dell’autonomia privata. (2) Autorevole dottrina ha precisato che lo stesso « ricorso all’arbitrato è, negli ordinamenti democratici, la necessaria e insopprimibile conseguenza del riconoscimento dell’autonomia privata », VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 4. In generale sul tema si v. AA.VV. Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, a cura di Carpi, Milano, 2006. (3) Come è stato osservato da CARPI, Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, in Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, cit., 13 « La scelta e nomina dell’arbitro è il momento della gelosa esplicazione della volontà delle parti ». L’analisi efficace sull’importanza della formazione dell’organo giudicante nell’istituto dell’arbitrato, si rinviene nella dottrina anglosassone: EASTWOOD, A real danger of confusion? The English Law Relating to Bias in Arbitrators, in questa Rivista, 2001, vol. 17, n. 3, 292. Secondo l’A., in particolare: « There are two intrinsic difficulties in selecting an arbitrator which themselves may threaten the integrity of the process. First, the method by which each party chooses one member of a three-member tribunal may cast doubt on the indipendence and impartiality of the nominee. Further, and paradoxally, the very factors which may most recommend an individual as an appropriete arbitrator (familiarity with a particolar industry, or knowledge of a specialist legal or technical area) may also leave him most vulnerable to a suspicion of bias ». 156 © Copyright - Giuffrè Editore fiduciario. Le relazioni, i legami e i rapporti con le parti (4) sono il presupposto della nomina stessa degli arbitri di parte, ma possono anche rappresentare un elemento perturbatore dell’equidistanza (5) che ogni (4) Ovviamente i legami tra arbitri e parti devono tenere conto delle ipotesi di ricusazione previste dall’art. 815 c.p.c. La disposizione stabilisce che il giudice privato può essere ricusato in primis se ha un interesse nella causa. Tale motivo di ricusazione si riferisce al brocardo latino per cui nemo iudex in rem propriam e comprende due forme di interesse: diretto e indiretto (DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Padova, 1991, 84 ss.). La nozione di interesse diretto è molto discussa, talvolta si è ricondotta all’interesse del giudice quale parte formale del processo; altre volte all’interesse di cui all’art. 100 c.p.c., altre ancora all’interesse che legittima l’intervento ai sensi dell’art. 105 c.p.c. In termini generali si può affermare che quando dalla decisione deriva necessariamente un vantaggio o un danno per il giudice saremo nel campo dell’interesse diretto, laddove, invece, il nesso tra la decisione e il vantaggio o danno per il giudice è un nesso di semplice probabilità, l’interesse è indiretto (SATTA, voce Astensione e ricusazione del giudice (dir. Proc. civ.), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, III, 203; LA CHINA, Giudice (astensione e ricusazione) voce, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 30; DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice statale, cit., 102). L’arbitro può essere ricusato se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti, o di alcuno dei difensori. I legami affettivi e di sangue che legano il giudice privato ad una delle parti, al loro rappresentante legale o ad alcuno dei difensori determinano la presunzione che l’arbitro terrà una condotta parziale. L’arbitro può essere inoltre ricusato se egli o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale, o con alcuno dei suoi difensori. Sebbene l’espressione causa pendente indichi una controversia e un procedimento instauratosi prima dell’arbitrato, la giurisprudenza considera ricusabile il giudice privato anche quando la lite inizi durante il procedimento arbitrale (Cfr. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, Milano, 1923, 486). È possibile la ricusazione anche ove sussista: un legame lavorativo; altri rapporti di natura patrimoniale o associativa; un legame di tutela o curatela. La prima ipotesi riguarda i rapporti di lavoro subordinato o di consulenza a carattere continuativo o di prestazione d’opera retribuita che intercorrono tra il giudice privato e uno dei litiganti o società da questo controllate, il soggetto che le controlla o società sottoposte a comune controllo. La seconda ipotesi considera ricusabile l’arbitro quando ricorrono altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza. La norma è formulata in modo molto generico ed è foriera di molteplici interpretazioni. Il termine associazione va riferito ad ogni tipo di aggregazione tra soggetti finalizzato al raggiungimento di scopi o interessi comuni (CONSOLO, Imparzialità degli arbitri. Ricusazione, in questa Rivista, 2005, 703 ss.). Infine ove l’arbitro abbia prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o deposto come testimone può essere ricusato (Cfr. SEGRÉ, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, Commentario del c.p.c., diretto da Allorio, Torino, 1973, 637; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1982, 423). (5) Tradizionalmente (RUBINO SAMMARTANO, Diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 484 s.), si ritiene che l’imparzialità si componga di tre distinti sottovalori: l’indipendenza, la neutralità e l’imparzialità strictu sensu intesa. L’indipendenza consiste nell’assenza di relazioni, precedenti o attuali, dell’arbitro con una delle parti. Si tratta, dunque, di una nozione specifica che presuppone la non dipendenza di natura economica, professionale o psicologica del giudice privato dalle parti o dai difensori delle stesse. La neutralità si concretizza in un atteggiamento psicologico o intellettuale di estraneità su un piano generale, nei confronti della più ampia categoria di cui la controversia fa parte e non in relazione alla specifica situazione in questione (RICCIARDI, La scelta degli arbitri e la costituzione del collegio arbitrale: deontologia e prassi, in questa Rivista, 1992, 804 ss.). L’imparzialità in senso stretto è un requisito soggettivo dell’arbitro presuppone che il suo « animo » sia privo di pregiudizi nei confronti di una delle parti (BERNINI, Quale arbitrato?, Convegno AIA, L’arbitrato: un servizio per l’impresa, Torino, 10 ottobre 1991). L’indipendenza e la neutralità sono requisiti preventivi volti a garantire l’imparzialità, sono cioè dei cd. valori-mezzo (BRIGUGLIO, Epigramma sulla ricusazione degli arbitri (con due note a piè di pagina), in Giur. it., 2004, 460), solo l’imparzialità è il valore finale. Il carattere soggettivo dell’imparzialità e la relativa difficoltà di individuare prevenzioni o pregiudizi 157 © Copyright - Giuffrè Editore giudicante dovrebbe avere nei confronti di tutti i litiganti. Le parti, infatti, nella designazione cercheranno inevitabilmente di scegliere come arbitri persone predisposte alle proprie argomentazioni e vicine alle proprie domande e che nella decisione della lite manifestino tale inclinazione. Ago della bilancia dovrebbe essere il presidente del collegio arbitrale cui rimettere la decisione concreta della lite e da cui dipenderebbe la buona conduzione dell’intera procedura (6). La nomina dell’arbitro (7) costituisce, quindi, esercizio di un diritto della parte, poiché solo attraverso la libera scelta del giudice privato è garantito il principio di ordine pubblico della imparzialità degli arbitri e la consensualità in genere dell’istituto. Tuttavia la nomina dell’arbitro costituisce al contempo un obbligo della parte (8), considerato che solo attraverso il negozio corrispondente può essere attuato il rapporto obbligatorio costituito dal contratto d’arbitrato. A tale obbligo corrisponde il diritto dell’altra parte di pretendere che il proprio contraddittore manifesti la sua volontà di nomina. Il rilievo dell’adempimento di tale obbligo è palesato nell’art. 810 c.p.c. ove l’ordinamento disciplina una tutela specifica rappresentata dalla nomina giudiziale del Presidente del Tribunale, che decide senza formalità. 2. Le regole iuris dettate per la costituzione del tribunale arbitrale appaiono orientate da due direttrici: per un verso assicurano alle parti, in modo paritario, piena libertà nella scelta del giudice privato; per altro verso garantiscono l’effettiva esecuzione del contratto di arbitrato attraverso la nomina giudiziale dell’arbitro in caso di inerzia di alcuna delle parti. L’esigenza di autonomia delle parti, di libertà nella scelta e nella formazione del tribunale arbitrale, trova un limite nella necessità che il dell’arbitro riguardo la lite determinano, però, la necessità di trovare e disciplinare indici, circostanze, rapporti in presenza dei quali presumere la parzialità dell’organo giudicante. Le autorità statuali predispongono a tal fine rimedi quali la ricusazione, l’impugnazione del lodo e il duty of disclosure. Ma questi non sono che « tentativi di « giuridificare » la deontologia dell’arbitro » (PICARDI, Vent’anni di rivista dell’arbitrato nel ricordo di Elio Fazzalari, Atti del convegno tenutosi in Roma, il 2 dicembre 2011). Nessuno dei rimedi predisposti come presidio dell’imparzialità del giudice privato è effettivamente idoneo ad assicurarla, in quanto l’assenza di prevenzioni e pregiudizi riguardo alla singola lite rimane necessariamente affidata al corredo etico del singolo arbitro. (6) Cfr. RONCO, Dialogo sulla ricusazione degli arbitri, in Giur. it., 2003, 1975. (7) Si veda GIOVANNUCCI ORLANDI, Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, 139 ss.; LAUDISA, Arbitrato rituale e libero: ragioni del distinguere, in questa Rivista, 1998, 217. (8) In questo senso CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 136 ss., ove l’A. precisa che all’obbligo della parte di nominare l’arbitro corrisponde il diritto dell’altra a pretendere che il contraddittore manifesti la volontà di nomina. Nell’eventualità di inadempimento possono seguire la risoluzione per inadempimento del contratto (Cass. 9 novembre 1985, n. 5499, in Giust. Civ., 1986, I, 2887 con nota di Cecchella) oppure un’azione di adempimento contrattuale volta ad ottenere l’effetto dell’adempimento. La disciplina dell’arbitrato in aggiunta a queste forme di tutela offre una « speciale azione di tutela specifica, costituita dalla nomina giudiziale ». 158 © Copyright - Giuffrè Editore procedimento arbitrale abbia avvio e che non venga impedito il funzionamento dell’istituto da tattiche dilatorie delle parti. Sembra quindi utile esaminare anzitutto le regole a tutela dell’autonomia privata e quelle a presidio dell’effettività della convenzione arbitrale. L’autonomia privata si manifesta, in particolare, nella facoltà riconosciuta alle parti della convenzione arbitrale di individuare liberamente le persone che dovranno rivestire il ruolo di giudicare la lite e le modalità di formazione del tribunale arbitrale. Cosicché il legislatore non stabilisce espressamente i requisiti o le qualifiche che devono possedere i soggetti per rivestire il ruolo di arbitro: l’unico limite (9), imposto ex lege, è previsto dall’art. 812 c.p.c. Prima della riforma introdotta con il d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, il codice di procedura civile italiano stabiliva che « gli arbitri possono essere sia cittadini italiani sia stranieri ». La capacità degli stranieri di rivestire il ruolo di arbitro era stata introdotta solo nel 1983 nell’ordinamento giuridico italiano, che così si allineava alle convenzioni internazionali. La norma, tuttavia, non includeva, né escludeva gli apolidi. Si riteneva possibile nel silenzio della legge che questi ultimi potessero diventare arbitri, dato che la ratio della nuova norma era di eliminare un divieto, non introdurne di nuovi (10). Venivano espressamente individuate alcune incapacità specifiche all’assolvimento della funzione arbitrale, così non potevano esercitare tale funzione i minori, i falliti, gli interdetti, gli inabilitati e gli interdetti dai (9) Sembra interessante il confronto con l’ordinamento giuridico spagnolo che in origine richiedeva per la valida assunzione dell’incarico di decidere una controversia il titolo di avvocato. La disposizione è stata oggetto poi di modifica ad opera della legge n. 11 del 20 maggio 2011. Alle parti è riconosciuta la libertà di scegliere i requisiti degli arbitri e dunque di prescrivere o meno che abbiano un particolare titolo professionale, ma si considera necessario, nel silenzio dei privati, non più la qualifica di « abogado en ejercicio », bensì quella di «jurista». Il nuovo testo dell’articolo 15 Ley Arbitraje 60/2003 richiede per tutti gli arbitrati di diritto, in relazione ai quali le parti non abbiano previsto alcunché, la condizione di giurista dell’arbitro se unico e di almeno uno degli arbitri nel caso di collegio formato da tre o più soggetti. In questo modo il legislatore spagnolo aumenta la rosa dei professionisti che possono svolgere il ruolo di arbitro, includendovi notai, professori universitari o anche gli stessi magistrati in pensione. Il ricorso al termine « jurista » molto generico, crea notevoli dubbi e lascia spazio a criteri e interpretazioni molteplici. L’intento del legislatore di sottrarre alla categoria degli avvocati un ruolo esclusivo nelle procedure arbitrali e garantirne la partecipazione anche ad altri professionisti ha come inconveniente l’incertezza sul significato da attribuire alla disposizione. L’indeterminatezza della « condición de jurista » garantisce però nuovi e più ampi spazi all’autonomia delle parti che nelle convenzioni arbitrali non saranno più tenute a scegliere organi giudicanti all’interno della stringente categoria degli avvocati. Cfr. PÉEREZ CONESA, Reforma de la Ley de Arbitraje introducida por la Ley 11/2011, de 20 de mayo, in Aranzadi Civil-Mercantil, num. 5/2011, parte Comentario, Editorial Aranzadi, SA, Pamplona, 2011, 1117. (10) In tal senso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, I, 2000, 308; CARPI, Gli aspetti processuali della riforma dell’arbitrato, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1984, 51 ss. 159 © Copyright - Giuffrè Editore pubblici uffici. L’elenco si riteneva tassativo, pertanto il divieto era limitato ai casi espressamente elencati (11). Il legislatore del 2006 ha semplificato la disciplina, stabilendo, all’art. 812 c.p.c., che « non può essere arbitro chi è privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire » (12). Venuta meno l’elencazione tassativa dei casi di incapacità arbitrale, si deve fare riferimento alla disciplina sostanziale delle limitazioni della capacità di agire. Secondo una parte della dottrina (13), non possono essere nominati arbitri gli interdetti e gli inabilitati, ma in astratto potrebbero esserlo i beneficiari di amministrazione di sostegno, ove la loro limitazione o infermità non sia inerente alla fase intellettiva. Il divieto di diventare arbitri è escluso per i falliti (14), in quanto la dichiarazione di fallimento non determina più la perdita della capacità di agire da parte del fallito, ma dovrebbe permanere per chi sia stato interdetto dai pubblici uffici, limitatamente al periodo della interdizione (15). Discusso è se tale ruolo possa essere ricoperto da una persona giuridica (16). (11) Si veda Cass., 8 agosto 1989, n. 3637, in Arch. Civ., 1990, 583. (12) La differenza tra vecchio e nuovo testo dell’art. 812 c.p.c. si rinviene già nella rubrica: intitolata oggi « Incapacità di essere arbitro », mentre in passato « Capacità ad essere arbitro ». Il senso del cambiamento è individuato nel proporre in modo esplicito la capacità arbitrale come regola generale, la incapacità come eccezione, con la conseguente applicabilità ad essa del criterio interpretativo dell’art. 14 delle Preleggi. Cfr. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., 82. (13) MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, Torino, 2009, 397. Di contrario avviso altra parte della dottrina che ritiene che il nuovo testo dell’art. 812 c.p.c. impedisca di rivestire il ruolo di arbitro a tutti cloro i quali sono anche solo parzialmente privi della capacità di agire e quindi anche ai beneficiari di amministrazione di sostegno e ai minori emancipati. Così PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 504. (14) Il divieto di assumere l’ufficio di arbitro per i falliti era stato introdotto nel vecchio testo dell’art. 812, comma 2, c.p.c. ma assente nel codice del 1865. Il divieto era interpretato in modo tassativo, di modo che non poteva ritenersi estensibile agli imprenditori ammessi al concordato preventivo o all’amministrazione controllata (PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit. 504 ss.; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1971, 260). (15) La nomina dell’arbitro incapace è nulla, ma non lo è invece il compromesso, e si considera come tamquam non esset, ove la parte avente diritto non provveda alla nomina di un sostituto, la controparte potrà chiedere la nomina giudiziale dell’arbitro mancante. Se la nullità non è rilevata dalle parti, né dagli arbitri il lodo emesso sarà impugnabile ai sensi del n. 3 dell’art. 829 c.p.c. VERDE, Gli arbitri, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino, 2000, 13. (16) La questione della deferibilità ad una persona giuridica del ruolo di arbitro è dibattuta anche in altri ordinamenti europei. La legge arbitrale spagnola espressamente stabilisce che possono essere arbitri solo le persone natural nel pieno esercizio dei diritti civili. Tale ruolo non può essere rivestito da persone giuridiche. La designazione di una persona giuridica secondo la dottrina maggioritaria deve intendersi riferita al rappresentante legale della stessa. Diversamente una simile previsione determinerebbe la nullità della convenzione arbitrale, nonché l’impugnabilità del lodo per violazione di una norma imperativa, ai sensi dell’art. 41, n. 4, Ley Arbitraje. Alle stesse conclusioni interpretative in assenza di una disposizione di legge ad hoc, giunge altresì la dottrina tedesca, secondo cui la nomina di una persona giuridica si deve intendere rivolta al rappresentante legale della stessa. Il nuovo codice di procedura civile francese limita la scelta degli arbitri alle persone fisiche, ma espressamente disciplina le 160 © Copyright - Giuffrè Editore L’orientamento maggioritario in dottrina ritiene che la funzione di giudicare debba essere necessariamente svolta da una persona fisica. Le funzioni di arbitro sono legate all’intuitus personae, che esiste solo in relazione alle persone fisiche. Inoltre, l’attività di giudizio che i giudici privati svolgono presuppone necessariamente una serie di operazioni intellettuali proprie di una persona fisica. Pertanto, discussi sono gli effetti della nomina di una persona giuridica in qualità di arbitro. Secondo un orientamento dottrinale tale nomina deve intendersi finalizzata ad individuare per relationem il rappresentante legale pro tempore della persona giuridica (17). Altra tesi (18), al contrario, considera necessario, caso per caso, interpretare la volontà delle parti al fine di individuare la persona dell’arbitro all’interno della struttura organizzativa dell’ente di riferimento. Parte della dottrina (19) considera, invece, possibile la designazione di persone giuridiche in qualità di arbitri, in assenza di un espresso divieto legislativo. Dunque la disciplina codicistica della capacità dell’arbitro non preclude la possibilità astratta che rivesta il ruolo di arbitro un soggetto privo di cultura, sino a giungere al caso limite dell’analfabeta (20). La tutela dell’autonomia negoziale delle parti, che in questa fase del procedimento arbitrale impera, fa si che alle parti venga riconosciuta non solo la possibilità di nominare arbitri persone analfabete, ma anche la facoltà di determinare ex ante le qualifiche che gli arbitri devono avere per rivestire tale ruolo e decidere la controversia tra loro insorta (art. 815, comma 1, n. 1, c.p.c.). Il termine « qualifiche » sembra riferirsi a qualità tecniche, specialistiche o personali oggettivamente riscontrabili. Nel disposto dell’art. 815 conseguenze dell’eventuale nomina nella convenzione arbitrale di una persona giuridica. Il secondo comma dell’art. 1450 n.c.p.c. prevede che ove venga nominata come arbitro una personne morale, quest’ultima provvederà all’organizzazione dell’arbitrato stesso. Nessuna specifica qualifica o capacità è richiesta dal legislatore inglese per l’assunzione del ruolo di arbitro, che, nel caso di incapacità fisica o mentale del giudice privato, attribuisce alle parti il potere di rimuoverlo. (17) Cfr. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 79; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 746. (18) Cass. 30 giugno 1969, n. 2395, in Rep. Foro it., 1969, voce Arbitrato, 63 ss. (19) CUSA, La società di arbitrato amministrato, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2007, 779 ss. (20) Come ben chiarito da PUNZI, L’arbitro: modalità di nomina, criteri di selezione, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 645 ss., il problema non è quello di verificare se l’arbitro sia o meno analfabeta o quale sia il suo livello culturale, bensì se sia o meno in condizione di giudicare e decidere una determinata controversia. Un arbitro privo di qualsiasi titolo di studio potrebbe essere perfettamente capace di giudicare e decidere una controversia, secondo il criterio fissato dalle parti, come potrebbe essere il caso in cui le parti abbiano demandato agli arbitri il compito di decidere secondo equità. Al contrario un arbitro fornito di adeguato titolo di studio potrebbe essere del tutto incapace di giudicare secondo diritto. Si veda in proposito Cass., 7 giugno 1989, n. 2765, in Giust. Civ., 1989, I, 2345, ove le parti avevano nominato un collegio arbitrale formato da ingegneri, dunque tutti laureati, ma incapaci di decidere la controversia secondo diritto. 161 © Copyright - Giuffrè Editore c.p.c. non si dovrebbero ritenere ricomprese invece « qualità » dell’arbitro quali l’imparzialità, l’indipendenza o la fairness di giudizio, da considerarsi qualità necessarie e intrinseche « al compito di giudicare l’altrui contesa, e (che) si estende(ono), quindi, tanto al giudice statale quanto all’arbitro, prima ed a prescindere dall’imposizione normativa (21) ». I contraenti possono dunque determinare le condizioni che gli arbitri devono soddisfare per l’assunzione dell’incarico: condizioni che di regola si riferiscono alle « capacità » dell’arbitro, nel senso di abilità, competenza ed esperienza. I giudici statali devono avere conseguito la laurea in giurisprudenza e aver superato un concorso pubblico per divenire magistrati. Ciò non vale per gli arbitri, che sono scelti dalle parti e possono essere anche nongiuristi. La competenza degli arbitri in materia di diritto non è dunque così certa come quella dei giudici, ragion per cui il legislatore affida alle stesse parti il compito di stabilire le competenze specifiche dei giudici privati. 3. A presidio della volontà negoziale delle parti, il legislatore della riforma del 2006 ha introdotto la mancanza « delle qualifiche espressamente convenute dalle parti » tra le cause di ricusazione dell’arbitro. Come noto, il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ha inciso in modo significativo sul testo dell’art. 815 c.p.c., in tema di ricusazione degli arbitri. Il capo II del titolo VIII del libro IV è rubricato « Degli arbitri » ed è stato riformato ad opera dell’art. 26 del citato decreto legislativo. L’art. 815 c.p.c. si compone di due parti: la prima contiene i motivi di ricusazione; la seconda ne disciplina il procedimento. Prima della riforma del 2006 i motivi di ricusazione non erano enunciati in modo espresso, ma con un rinvio ai casi previsti dall’art. 51 c.p.c. per i giudici statali (22). Al contrario il testo legislativo vigente elenca in modo espresso le cause di ricusazione, che corrispondono, però, in gran parte a quelle previste dall’art. 51 (23) c.p.c., se pur opportunamente integrate e modificate. (21) FAZZALARI, L’etica dell’arbitrato, in questa Rivista, 1992, 2. (22) Il rinvio operato dal legislatore all’art. 51 c.p.c. è stato definito « pigrizia intellettuale » da VERDE, Gli arbitri, in Diritto dell’arbitrato, Torino, 2000, 155. Infatti « l’arbitro non è un giudice dello Stato, non è equiparabile a un giudice dello Stato e neppure un suo ausiliario; egli è un privato al quale le parti hanno affidato il compito di rendere giustizia su diritti controversi di cui possono disporre. » ID., La posizione dell’arbitro dopo l’ultima riforma, in questa Rivista, 1997, 475. (23) Il rinvio alle ipotesi di ricusazione dei giudici statali aveva sollevato dubbi sulla ricusabilità degli arbitri anche per « gravi ragioni di convenienza », di cui al secondo comma dell’art. 51 c.p.c. Sull’interpretazione del rinvio all’art. 51 c.p.c. si erano distinti due orientamenti. Un orientamento più restrittivo, riteneva che il rinvio contenuto nell’art. 815 c.p.c. riguardasse solo le ipotesi di ricusazione del giudice statale e quindi le ipotesi di astensione obbligatoria di cui all’art. 52 c.p.c. Cfr. BRIGUGLIO, Commento all’art. 815 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, Briguglio - Fazzalari - Marengo, Milano, 1994, 90. Secondo altre voci dottrinali, al contrario, le peculiarità del giudizio arbitrale e le modalità di nomina del giudice privato inducevano ad un’estensione delle cause di ricusazione arbitrali rispetto a quelle 162 © Copyright - Giuffrè Editore L’attuale formulazione della norma per casistica presenta profili critici considerato che le ipotesi di ricusabilità dell’arbitro elencate risultano « da un lato troppo analitiche e, al tempo stesso, inevitabilmente generiche e, dall’altro lato, rischiano di lasciar fuori ipotesi più rilevanti (24) ». Una delle principali novità della novella del 2006 è contenuta nel primo numero, del comma 1, dell’art. 815 c.p.c., ove si chiarisce che l’arbitro può essere ricusato se manca delle qualifiche convenute dalle parti. Tale ipotesi di ricusazione arbitrale, a differenza delle altre divisate dall’art. 815 c.p.c., non è volta a tutelare e garantire l’imparzialità e l’indipendenza del collegio arbitrale, bensì ad assicurare la capacità dell’arbitro rispetto alla lite. Le ipotesi di ricusazione tassativamente elencate nell’art. 815 c.p.c. attengono alla garanzia dell’imparzialità o dell’indipendenza, ma non assicurano la competenza o l’esperienza dell’arbitro: la ricusazione è il tipico strumento a presidio dello « iudex suspecuts », non di « iudex inhabilis ». Il primo comma dell’art. 815, al n. 1, c.p.c. è, invece, finalizzato proprio ad assicurare che l’organo giudicante presenti i requisiti di competenza considerati essenziali dalle parti in lite. La citata disposizione svolge la funzione di garantire che l’organo giudicante corrisponda a quanto scelto dalle parti e che venga, in definitiva, rispettata la matrice volontaristica dell’arbitrato. Tale ratio consente di equiparare l’ipotesi in cui le parti abbiano espressamente concordato le qualifiche arbitrali, a quella in cui le parti abbiano espressamente escluso che l’organo giudicante abbia talune qualifiche (25). La disposizione così interpretata ben si sarebbe relazionata al novellato art. 812 c.p.c., che individua « la capacità legale di agire » quale requisito unico di capacità dell’arbitro, con la conseguenza che la mancanza di una qualifica voluta dalle parti avrebbe inciso sulla capacità di essere arbitro. Il legislatore nazionale al contrario ha ritenuto opportuno tutelare l’autonomia negoziale delle parti, manifestata nella richiesta di qualifiche espresse dell’arbitro, attraverso un istituto, la ricusazione, integralmente rimesso alla stessa volontà delle parti. giudiziali. Un argomento a sostegno di tale tesi veniva ravvisato anche nel dato letterale dell’art. 815 c.p.c. che non distingueva tra astensione e ricusazione giudiziale ma si limitava a rinviare al disposto dell’art. 51 c.p.c. In tal senso CONSOLO, La ricusazione dell’arbitro, in questa Rivista, 1998, 20; SALVANESCHI, Sull’imparzialità dell’arbitro, in Riv. dir. proc., 2004, 415. (24) VERDE, Bastava solo inserire una norma sui rapporti tra giudici e arbitri, in Guida al diritto, 2006, f. 8, 82. (25) In tal senso in particolare BERGAMINI, Sub art. 815, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Briguglio - Capponi, Padova, 2009, vol. III, tomo II, 657 ss. 163 © Copyright - Giuffrè Editore La scelta nazionale è in realtà in linea con gli ordinamenti stranieri: l’assenza delle qualifiche pattuite dalle parti è considerata causa di ricusazione dell’arbitro anche nell’ordinamento giuridico tedesco dal par. 1036 (26), secondo comma, ZPO (27) e in quello spagnolo all’art. 17 Ley de Arbitraje (28), per il legislatore inglese è motivo di removal dell’arbitro, secondo la section 24 Arbitration Act del 1996 (29). Il legislatore francese non disciplina espressamente la violazione delle qualifiche convenute dalle parti per la nomina dell’arbitro, ma il vizio, opportunamente rilevato alla prima udienza di discussione successiva alla scoperta dello stesso, potrebbe trasformarsi in motivo di impugnazione del lodo, ai sensi dell’art. 1492, n. 2, n.c.p.c. (26) Il par. 1036 ZPO dispone che: « (1) Eine Person, der ein Schiedsrichteramt angetragen wird, hat alle Umstände offen zu legen, die Zweifel an ihrer Unparteilichkeit oder Unabhängigkeit wecken können. Ein Schiedsrichter ist auch nach seiner Bestellung bis zum Ende des schiedsrichterlichen Verfahrens verpflichtet, solche Umstände den Parteien unverzüglich offen zu legen, wenn er sie ihnen nicht schon vorher mitgeteilt hat.(2) Ein Schiedsrichter kann nur abgelehnt werden, wenn Umstände vorliegen, die berechtigte Zweifel an seiner Unparteilichkeit oder Unabhängigkeit aufkommen lassen, oder wenn er die zwischen den Parteien vereinbarten Voraussetzungen nicht erfüllt. Eine Partei kann einen Schiedsrichter, den sie bestellt oder an dessen Bestellung sie mitgewirkt hat, nur aus Gründen ablehnen, die ihr erst nach der Bestellung bekannt geworden sind ». Dunque le parti, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, possono stabilire nella convenzione d’arbitrato che il giudice privato possegga determinate caratteristiche o qualifiche. Secondo un’autorevole Dottrina la nomina di un soggetto che non abbia tali requisiti è inefficace (HENN, Schiedsverfahrensrecht, Heidelberg, 2000, 68). (27) La legge tedesca prevede che un arbitro può essere ricusato solo quando sussistono elementi che fanno sorgere dubbi giustificati sulla sua imparzialità o indipendenza oppure quando non soddisfa i requisiti fissati dalle parti (par. 1036, comma 2, ZPO). La disposizione si rivolge esclusivamente gli arbitri e non interessa soggetti diversi. In particolare non sussiste la possibilità di ricusare i soggetti che sono chiamati a nominare gli arbitri. La convenzione arbitrale potrebbe, ad esempio, avere rimesso a una determinata autorità il potere di nominare gli arbitri: tale persona non può essere ricusata; mentre ben potrà essere successivamente ricusata la persona nominata. In tal senso SANGIOVANNI, La ricusazione dell’arbitro nella legge e nella giurisprudenza tedesche, in Riv. Dir. Proc., 2010, f. 4, 891 ss.; GEIMER, Commento al § 1036, in Zöller (a cura di), Zivilprozessordnung, Köln, 2009, 2604. (28) L’art. 17 della Ley de Arbitraje n. 60 del 2003 è rubricato « Motivos de abstención y recusación » prevede espressamente che « Todo árbitro debe ser y permanecer durante el arbitraje independiente e imparcial. En todo caso, no podrá mantener con las partes relación personal, profesional o comercial. 2. La persona propuesta para ser árbitro deberá revelar todas las circunstancias que puedan dar lugar a dudas justificadas sobre su imparcialidad e independencia. El árbitro, a partir de su nombramiento, revelará a las partes sin demora cualquier circunstancia sobrevenida. En cualquier momento del arbitraje cualquiera de las partes podrá pedir a los árbitros la aclaración de sus relaciones con algunas de las otras partes. 3. Un árbitro sólo podrá ser recusado si concurren en él circunstancias que den lugar a dudas justificadas sobre su imparcialidad o independencia, o si no posee las cualificaciones convenidas por las partes. Una parte sólo podrá recusar al árbitro nombrado por ella, o en cuyo nombramiento haya participado, por causas de las que haya tenido conocimiento después de su designación. 4. Salvo acuerdo en contrario de las partes, el árbitro no podrá haber intervenido como mediador en el mismo conflicto entre éstas ». (29) La section 24 dell’Arbitration Act del 1996 prevede, in particolare, che: « (1) A party to arbitral proceedings may (upon notice to the other parties, to the arbitrator concerned and to any other arbitrator) apply to the court to remove an arbitrator on any of the following grounds — (a) that circumstances exist that give rise to justifiable doubts as to his impartiality; (b) that he does not possess the qualifications required by the arbitration agreement; (...) ». 164 © Copyright - Giuffrè Editore 4. Come abbiamo anticipato, l’autonomia privata nella nomina dell’arbitro e nella costituzione del tribunale arbitrale trova il suo limite nell’effettività dell’esecuzione del contratto di arbitrato. Il legislatore italiano non si limita a riconoscere ai privati la libertà di formare l’organo giudicante, ma detta le regole da applicare nell’ipotesi in cui l’inerzia di alcune delle parti dell’arbitrato impedisca il corretto funzionamento dell’istituto. L’art. 810 c.p.c. (30) prevede, pertanto, un meccanismo di nomina degli arbitri sostitutivo della volontà delle parti, operante nelle ipotesi di inadempimento, nel termine di venti giorni dalla notifica della nomina, di una delle parti della convenzione di arbitrato. Ormai la giurisprudenza è orientata a considerare l’art. 810 c.p.c. norma suppletiva (31), come tale applicabile tutte le volte in cui le parti non abbiano espressamente disciplinato nella convezione arbitrale l’ipotesi della propria inerzia. La nomina giudiziale sostitutiva (32) è espressamente estesa all’omissione della nomina da parte di un terzo a ciò esplicitamente demandato (art. 810, comma 4, c.p.c.). La disposizione richiamata prevede che la parte che ha notificato (30) Nel vigore della disciplina dell’arbitrato antecedente alla l. n. 25/1994, e, in particolare, ai sensi dell’art. 809 c.p.c., la convenzione di arbitrato doveva contenere a pena di nullità la nomina degli arbitri oppure l’indicazione del loro numero e delle modalità di nomina. In presenza di tale dettato normativo, autorevole Dottrina faceva discendere dal mancato accordo delle parti l’inefficacia della convenzione arbitrale e riteneva necessaria un’interpretazione restrittiva dell’art. 810 c.p.c. In particolare, si tendeva ad escludere che Presidente del tribunale potesse nominare l’arbitro unico ove la convenzione di arbitrato prevedesse la designazione su accordo delle parti, perché « l’accordo delle parti sulla nomina dell’unico arbitro è un elemento essenziale del patto compromissorio ed il raggiungimento dell’accordo è condizione della sua efficacia ». In tal senso, VECCHIONE, Clausola compromissoria apparente e nomina dell’arbitro unico nel dissenso fra le parti, in Giur. it., 1954, I, 1, 478. (31) L’art. 810 c.p.c. è da ritenersi una disposizione suppletiva. Le norme suppletive fanno parte del genus delle norme relative e devono intendersi come le norme « che provvedono a colmare le lacune lasciate dalle parti nella disciplina da loro stesse dettata », mentre quelle dispositive, anche esse parte del genus norme relative, « entrano in applicazione soltanto nell’ipotesi in cui manchi una disciplina delle parti ». IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, 88 ss. (32) La Corte di Cassazione ha, inoltre, considerato applicabile l’art. 810 c.p.c. anche alle ipotesi arbitrato irrituale, nella sentenza a sezioni unite n. 3189, del 3 luglio 1989 (in Giust. Civ., 1990, 1, 178, con nota di CICCOTTI, Esigenza di effettiva tutela dei diritti ed estensione dello strumento analogico: note minime a margine di una importante sentenza delle sezioni unite in materia di arbitrato), ove si chiarisce che l’art. 810 c.p.c. (ai sensi del quale, ove una parte non provveda alla nomina dell’arbitro, consente all’altra di rivolgersi al Presidente del tribunale, onde ottenere in via surrogatoria tale nomina, ancorché dettato con riferimento all’arbitrato rituale) deve ritenersi applicabile in via analogica all’arbitrato libero od irrituale. Ciò in considerazione sia della somiglianza strutturale e funzionale dei due istituti; sia dell’ammissibilità di un intervento di volontaria giurisdizione anche per supplire a un’inerzia di tipo negoziale; sia soprattutto dell’esigenza di assicurare l’attuazione del compromesso e quindi di conservare gli effetti del contratto. Ciò si giustifica anche in quanto il rispetto del vinculum iuris, nei limiti in cui esso può realizzarsi alla stregua della disciplina positiva e dei principi fondamentali dell’ordinamento, è valore giuridico la cui diretta attuazione va senz’altro perseguita e sarebbe aberrante premiare il contraente che, pur essendosi impegnato con il compromesso all’arbitrato irrituale divenga inadempiente, o a maggior ragione punire entrambi i contraenti per un fatto estraneo alla loro volontà. 165 © Copyright - Giuffrè Editore l’invito all’altra parte e, se la nomina spetta ad un terzo, qualsiasi delle parti, trascorso invano il termine di venti giorni previsto dal secondo comma dell’art. 810 c.p.c., può proporre ricorso al Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato o, se le parti non hanno determinato la sede dell’arbitrato, al Presidente del Tribunale del luogo ove è stata stipulata la convenzione arbitrale o, infine, se tale luogo è all’estero al Presidente del Tribunale di Roma (33). L’iniziativa, nella nomina giudiziale sostitutiva, è ovviamente della parte non inadempiente e non può essere promossa d’ufficio (34). La ratio sottesa all’art. 810 c.p.c. consiste nell’impedire la « paralisi » del giudizio arbitrale per mancata nomina degli arbitri (35). Si tratta quindi di un intervento sostitutivo del Presidente del Tribunale previsto a garanzia dell’attuazione del principio di conservazione del patto compromisso- (33) Il Presidente adito è tenuto a provvedere alla nomina giudiziale sostituiva dell’arbitro, salvo che la convenzione arbitrale non sia inesistente o non preveda espressamente un arbitrato estero. Il provvedimento assume la forma del decreto, salvo che non sia instaurato il contraddittorio tra le parti, ipotesi nella quale il provvedimento assume la forma dell’ordinanza. Il Presidente del Tribunale incaricato della nomina sostitutiva dell’arbitro, secondo la lettera originaria, con il contraddittorio solo eventuale delle parti decideva con ordinanza non impugnabile. La legittimità costituzionale della soluzione (in virtù degli artt. 24 e 111 Cost.) dipendeva dalla natura del procedimento, se contenzioso o meno. L’incertezza sull’impugnabilità dell’ordinanza si è palesata in giurisprudenza che in alcuni casi ha negato in assoluto l’impugnabilità (Cass. 27 luglio 1957, in Giust. civ., 1957, I, 2098 e Foro it., 1957, I, c. 1618); in altri ha ammesso un reclamo camerale innanzi alla corte di appello (App. Torino 15 gennaio 1951, in Giur. it., 1952, I, 2, c. 40; App. Milano 7 novembre 1955, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 259), in altri ancora una revocabilità da parte dello stesso giudice che ha pronunciato (App. Milano 16 gennaio 1956, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 259; Trib. S. Maria Capua V. 15 dicembre 1953, in Riv. avv. Stato, 1954, 154), sino alla impugnabilità in Cassazione (Cass. 2 giugno 1983, n. 495. In senso contrario, Cass. 11 febbraio 1998, n. 1413, in Foro it., 1998, I, c. 740; Cass. 14 aprile 1994, n. 3513, in questa Rivista, 1994, 703). Stessa incertezza si riscontra in dottrina. Secondo un orientamento dottrinale (GHIRGA, in Tarzia, Luzzatto e E.F. Ricci, La legge 25 gennaio 1994, n. 25, Padova, 1995, 48 ss.) infatti, la sostituzione giudiziale della nomina integra un provvedimento costitutivo della volontà mancante della parte, fondato su di un inadempimento contrattuale e necessita quindi di un accertamento della esistenza del contratto d’arbitrato e dell’inadempimento ad esso (quanto all’obbligo di nominare l’arbitro) di una parte. La discrezionalità del giudice nel disporre la convocazione dell’altra parte e la non impugnabilità, che certamente era indice di inappellabilità e di non reclamabilità in sede camerale, ma non di inimpugnabilità in sede di legittimità, mediante ricorso straordinario era considerata assolutamente discutibile. L’orientamento maggioritario in dottrina è di contrario tenore, ritenendo che della validità del contratto d’arbitrato dovranno e potranno trattare solo gli arbitri, e concludendo nel senso della natura non decisoria del provvedimento emesso dal Presidente del tribunale ai sensi dell’art. 810 c.p.c. Cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 392; VERDE, Il diritto dell’arbitrato, Torino, 2005, 76; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2, Milano, 1971, 254. (34) In tal senso Cass. 6 maggio 1953, n. 1242, in Giust. civ., 1953, I, 1516. Né può essere promossa dagli arbitri nominati, Cass. 19 luglio 1957, n. 3028, in Mass. Foro it., 1957, 592, v. Arbitrato. (35) Cfr. BRIGUGLIO, sub art. 810, in Briguglio, Fazzalari, Marengo, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994, 39; CECCHELLA , L’arbitrato, Torino 1991, 122; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, cit., 81 ss. 166 © Copyright - Giuffrè Editore rio e ispirato al favor arbitrati, volto a supplire a carenze delle parti (36). Tale ratio ha influenzato il dibattito relativo alla natura del termine di venti giorni previsto dall’art. 810 c.p.c. La giurisprudenza di legittimità è orientata a considerare il termine di venti giorni, previsto dall’art. 810, primo comma, c.p.c., per la nomina dell’arbitro ad opera della parte che ha ricevuto il relativo invito, come un termine non perentorio. L’art. 152, comma 2, c.p.c. prevede, infatti, che “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”. In assenza, dunque, di un’espressa previsione legislativa, il termine di venti giorni, di cui all’art. 810 c.p.c., deve considerarsi meramente ordinatorio e non perentorio. Ne consegue che la parte inadempiente può provvedere alla nomina anche successivamente alla scadenza di tale termine, e sino a quando non sia intervenuta la nomina ad opera del Presidente del Tribunale su richiesta della controparte, ai sensi del secondo comma del richiamato art. 810 c.p.c. Il collegio composto dall’arbitro nominato in via sostitutiva dal Presidente del Tribunale in presenza di precedente — ancorché tardiva — nomina notificata dalla parte interessata alla controparte, la quale ha l’onere di informare della nomina sopraggiunta il Presidente del Tribunale da essa adito, deve considerarsi costituito in modo irregolare (e, conseguentemente, il lodo pronunciato deve ritenersi nullo) (37). 5. La sentenza in epigrafe suggerisce un approfondimento sulla questione (38) relativa alla necessità che l’arbitro nominato dal Presidente (36) Cfr. VERDE, Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 1997, 81; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 359. (37) Cass., 2 dicembre 2005, n. 26257, in Giur. It., 2006, 7, 1463, con nota di SANGIOVANNI, Sulla natura del termine per la notificazione da parte del convenuto delle generalità dell’arbitro ex art. 810 c.p.c. (e sull’obbligo della Corte di cassazione di motivare le proprie sentenze). Nella citata sentenza, la Cassazione afferma che « la disciplina dettata dall’art. 810 c.p.c. non impone la notificazione né la comunicazione all’altra parte, che non ha provveduto alla nomina nel termine di venti giorni, del ricorso al presidente del tribunale per la nomina dell’arbitro in sostituzione. Tale parte, quindi, non è posta in grado di sapere se, a seguito della propria inadempienza, l’altra parte abbia proposto ricorso (...) non vi è ostacolo a ritenere (...) che permanga in capo alla parte il potere, integrativo del compromesso (della clausola compromissoria), di nominare il proprio arbitro pur dopo la scadenza del termine di venti giorni previsto dall’art. 810, comma primo, c.p.c. ». (38) Il problema dei limiti del potere di intervento del Presidente del tribunale in relazione alla nomina degli arbitri e alla costituzione del tribunale arbitrale era stato in origine sollevato in merito alla nomina dei componenti mancanti dei collegi arbitrali in materie di opere pubbliche. Si veda ALIBRANDI, L’art. 810 c.p.c. e la composizione del collegio arbitrale negli appalti di opere pubbliche, in Riv. Giur. Edil., 1968, I, 742 ss. La questione si riferiva all’allora vigente art. 45 del Capitolato generale di appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici approvato con d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 che attribuiva alle parti il potere di nomina di due arbitri. La composizione del collegio era disciplinata in modo dettagliato con l’indicazione delle professionalità e competenze richieste alle persone per assumere il ruolo di arbitro e si consentiva il rinvio all’art. 810 c.p.c. per le ipotesi di inerzia delle parti. Sollevata la questione del potere del Presidente del tribunale in sede di nomina sostituiva degli arbitri si 167 © Copyright - Giuffrè Editore del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., possegga le qualifiche espressamente convenute dalle parti nella convenzione e alla possibilità in caso di mancanza delle qualifiche, che lo stesso arbitro venga ricusato (39), ai sensi dell’art. 815, comma 1, c.p.c. o il lodo pronunciato sia impugnato per nullità. La Corte di Cassazione considera pienamente legittimo il provvedimento del Presidente del Tribunale che, ai sensi degli artt. 810 e 811 c.p.c., proceda alla designazione dell’arbitro, non nominato tempestivamente da una delle parti, al di fuori delle categorie professionali previste nel contratto d’arbitrato. La convenzione arbitrale produce effetti vincolanti esclusivamente tra le parti e non può estendere i suoi effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe, nell’inerzia delle parti, l’autorità giudiziaria. L’intervento sostitutivo del Presidente del Tribunale non è soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata, vincolante solo per gli autori degli atti che ne costituiscono esercizio a norma dell’art. 1372 c.c., ma si attua con la discrezionalità tipica del magistrato, che opera secondo legge nell’esercizio dei suoi poteri e senza vincoli di mandato. sono distinte due opinioni. Alcune voci hanno escluso limitazioni al potere discrezionale dell’autorità giudiziaria, in quanto il potere trova la sua fonte direttamente nella legge e non soffre limitazioni che non siano imposte dalla legge stessa (Lodo 10 luglio 1967, Riv. Giur. Edil., 1968, I, 742-743). Altre invece hanno ritenuto che la concreta determinazione del Presidente del tribunale debba ritenersi vincolata alla volontà delle parti. L’ordinanza del Presidente ha carattere sostitutivo di un’attività manchevole delle parti, e anche se in modo mediato deve essere a tale volontà collegata, nel senso che al giudice viene attribuito il potere di porre in essere l’atto occorrente per perfezionare la fattispecie; ma l’atto in quanto destinato a prendere il posto di una manifestazione di volontà privata non potrà avere altro contenuto imperativo che quello risultante dalla determinazione autonoma delle parti. Dunque, quando l’indicazione dell’arbitro fosse predeterminato in qualche modo il contenuto dell’ordinanza non potrebbe discostarsi da quello del precetto dell’autonomia privata. (39) La sentenza della Corte di Cassazione in epigrafe deriva dall’impugnazione per nullità del lodo emesso dal collegio arbitrale ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 2 c.p.c. Dalla sentenza non si evince in modo nitido se effettivamente la parte ricorrente aveva dedotto il vizio nella formazione del tribunale arbitrale nel corso del procedimento, come prescritto dall’art. 829 c.p.c. Infatti anche a voler considerare l’ordinanza del Presidente del tribunale viziata e, conseguentemente, il lodo censurabile ex art. 829, comma 1, n. 2 c.p.c., l’impugnazione potrebbe ugualmente essere rigettata in applicazione del novellato art. 829, comma 2, c.p.c., ai sensi del quale la parte che ha rinunciato a un motivo di impugnazione « non può per questo motivo impugnare il lodo ». In effetti, la parte la quale davvero non voglia rinunciare a nominare l’arbitro può, anche dopo la presentazione del ricorso al Presidente del tribunale, accordarsi per la designazione prima che a ciò provveda il Presidente del tribunale (la Cassazione ha deciso nel senso della validità della nomina effettuata in pendenza del giudizio instaurato con il ricorso al Presidente del tribunale ex art. 810 c.p.c. Cfr. sul punto Cass. 2 dicembre 2005, n. 26257, in Giur. it., 2006, 1463). Si potrebbe, pertanto, argomentare che la parte che, anche in seguito alla presentazione del ricorso al tribunale, non si attivi per la nomina dell’arbitro abbia rinunciato all’impugnazione del lodo per violazione delle norme relative alla nomina degli arbitri. Sul punto MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma. Motivi ed esito, Milano, 2009, 238 ss.; ID., Sulla nomina giudiziale del terzo arbitro in caso di mancato accordo tra le parti, in Riv. dir. proc., 2010, 703 ss.; BERGAMINI, sub art. 810, in Briguglio - Capponi (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, volume III, tomo II, Padova, 2007, 590. 168 © Copyright - Giuffrè Editore Il Presidente del Tribunale non attua il compromesso e non dà esecuzione a quanto ivi previsto, ma nomina l’arbitro nell’esercizio dei propri poteri giudiziari con un provvedimento di volontaria giurisdizione non decisorio e neppure impugnabile (40). Il potere sostitutivo dell’autorità giudiziaria supera la volontà delle parti espressa nella convenzione arbitrale. L’orientamento seguito dalla Cassazione nella sentenza in epigrafe non è affatto isolato (41). In una nota sentenza le sezioni unite della Corte di Cassazione (42) hanno chiarito che le parti nella convenzione arbitrale possono stabilire liberamente le qualifiche, le professionalità o le competenze che devono avere gli arbitri per poter ricoprire tale carica. Tuttavia la determinazione delle qualifiche operata dalle parti non vincola l’autorità giudiziaria eventualmente chiamata a nominare un arbitro quando risulti essere contra legem. All’autorità giudiziaria spetta il potere-dovere di verificare se, rispetto alla categoria indicata, sussistano cause d’incompatibilità e, nell’ipotesi in cui le parti non abbiano previsto modalità sostitutive ai sensi dell’art. 811 c.p.c., il rinvio operato da tale norma all’art. 810 implica che l’autorità giudiziaria provveda comunque alla nomina dell’arbitro al di fuori della categoria indicata. Non è esigibile che il giudice faccia luogo alla nomina dell’arbitro in modo non conforme alla legge o comunque secondo modalità che possano viziare l’atto di nomina stesso. Ne consegue che nell’attribuzione normativa del potere di nomina in sostituzione delle parti deve ritenersi compreso il potere di provvedere anche in via diretta alla nomina di soggetto non appartenente alla categoria indicata (in assenza di diverse disposizioni del compromesso o della clausola compromissoria), quando l’indicazione delle parti circa la categoria nel cui ambito operare la scelta non possa aver seguito a causa di ragioni ostative. Difatti per poter affermare che il Presidente del Tribunale sia tenuto al rispetto delle clausole e delle condizioni preventivamente predisposte dalle parti nella convenzione arbitrale si dovrebbe considerare l’attività del Presidente ai sensi dell’art. 810, comma 2, c.p.c. come un’attività meramente sostitutiva di un’attività negoziale predeterminata nel suo (40) In questo senso Cass. 18 maggio 2007, n. 11665, in Rep. Foro it., 2007, voce Arbitrato, n. 136. (41) In senso conforme Cass. 21 luglio 2010, n. 17114, in Mass. Foro it., 2010, 783, v. Arbitrato. (42) Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, in Rep. Foro it., 2001, voce Arbitrato, n. 175 ove, la clausola compromissoria prevedeva la nomina di un magistrato, il Presidente aveva valutato di non poter scegliere un magistrato in servizio essendo tale scelta in contrasto con le disposizioni del C.S.M. ed aveva proceduto alla nomina dell’arbitro al di fuori di tale categoria; la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto validamente costituito il collegio arbitrale. 169 © Copyright - Giuffrè Editore contenuto (43). Al contrario la disposizione sopra citata attribuisce al Presidente un potere di nomina dell’arbitro con carattere sostitutivo dell’inerzia delle parti (o meglio di un’attività negoziale manchevole delle parti) ma non predetermina il contenuto dell’attività negoziale manchevole né direttamente, né indirettamente. Solo ove un precetto normativo imponesse al Presidente di determinare la scelta dell’arbitro tra appartenenti a determinate categorie si potrebbe dire il Presidente vincolato a tale dictum. L’attività sostitutiva del Presidente non sarà però vincolata alle previsioni limitative relative alle qualità degli arbitri contenute nel contratto di arbitrato. Secondo un orientamento dottrinale, la ricusabilità dell’arbitro nominato dall’autorità giudiziaria competente sarebbe anche ostacolata dalla circostanza che la ricusazione sarebbe disposta dalla stessa autorità che ha provveduto alla nomina dell’arbitro ricusando (44). In tal senso si domanderebbe allo stesso organo che ha provveduto alla nomina dell’arbitro di verificare la correttezza della nomina, la presenza dei requisiti e delle necessarie competenze dell’arbitro: in altre parole si domanderebbe al giudice di verificare l’atto che egli stesso ha pronunciato. 6. Alle argomentazioni addotte dalla Corte di Cassazione a sostegno della validità della nomina giudiziale dell’arbitro sprovvisto delle qualifiche richieste dalle parti si potrebbe obiettare che la nomina dell’arbitro ad opera del Presidente del Tribunale ha una natura sostitutiva: sopperisce cioè ad un’attività mancante di rigore rimessa alla volontà delle parti. Così considerato il potere giudiziale di nomina dell’arbitro, si potrebbe affermare che il Presidente chiamato a sostituirsi alla volontà delle parti è tenuto a rispettare i requisiti validamente concordati dalle parti e che alle parti è riconosciuto il potere di ricusare l’arbitro di matrice giudiziale privo delle richieste qualifiche. (43) In tal senso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 596 ss.; ALIBRANDI, L’art. 810 c.p.c. e la composizione del collegio arbitrale negli appalti delle opere pubbliche, in Riv. Giur. Edil., 1968, I, 742 ss. (44) In questo senso RUFFINI - POLINARI, Sub articolo 815, in Codice di procedura civile Commentato, a cura di Consolo - Luiso, Milano, 2007, 5832. Questa difficoltà potrebbe essere superata se della ricusazione venisse incaricato un sostituto diverso da quello che ha provveduto alla nomina dell’arbitro ricusando (così GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815 Ricusazione degli arbitri, in Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, 293). In realtà la problematica richiama la necessità che la decisione sulla ricusazione arbitrale venga rimessa ad un organo giudicante assolutamente imparziale, anche apparentemente, ma è superata in altri ordinamenti europei meno timorosi come la Spagna che considera competenti a decidere sulla ricusazione gli stessi arbitri. La Ley de Arbitraye 60/2003 attribuisce la competenza a decidere sull’istanza di ricusazione agli stessi arbitri, ove la controparte non accetti la ricusazione e l’arbitro non rinunci all’incarico. Nella Exposición de Motivos de la Ley de Arbitraye 60/2003 si riconosce che oltre al criterio legale predisposto consistente nell’attribuire la competenza dell’istanza di ricusazione agli stessi arbitri, potevano essere astrattamente previste altre alternative che avrebbero maggiormente garantito l’imparzialità, ma che allo stesso tempo potevano incentivare tattiche dilatorie ad opera delle parti. 170 © Copyright - Giuffrè Editore Unico limite all’autonomia privata si dovrebbe riconoscere nell’ipotesi in cui i requisiti pattiziamente convenuti possano determinare un vizio della nomina. In tal caso, infatti, non si potrebbe consentire di piegare lo strumento giudiziario ad un risultato contra legem (45). Ammettendo per ipotesi che il Presidente del Tribunale nell’esercizio della funzione prevista dall’art. 810 c.p.c. sia tenuto a rispettare la volontà espressa dalle parti nella convenzione arbitrale resterebbe da interrogarsi sui rimedi esperibili avverso la nomina giudiziale che violi il patto arbitrale e l’autonomia dei privati. La questione giuridica della impugnabilità del provvedimento giudiziale di nomina dell’arbitrato è stata oggetto di dubbi, in dottrina come in giurisprudenza (46). Prima della recente riforma arbitrale il provvedimento assumeva la forma dell’ordinanza non impugnabile e non avendo contenuto decisorio se ne escludeva sia la reclamabilità ai sensi dell’art. 739 c.p.c. sia la impugnabilità per Cassazione con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. A seguito della eliminazione del riferimento alla non impugnabilità dell’ordinanza non dovrebbero residuare dubbi sull’assoggettabilità a reclamo dell’ordinanza presidenziale (47). Ciò considerato, la dottrina non è concorde sugli strumenti utilizzabili per impugnare il provvedimento presidenziale che violi la volontà delle parti espressa nel patto compromissorio. Secondo autorevoli autori (48) il provvedimento di nomina giudiziale non potrebbe essere impugnato con lo strumento della ricusazione, bensì sarebbe soggetto esclusivamente a reclamo ai sensi dell’art. 739 c.p.c. Con tale rimedio le parti potrebbero lamentare la mancanza nell’arbitro nominato dall’autorità giudiziaria delle qualifiche convenute espressamente da loro stesse. Altri Autori (49) ritengono invece che ove il Presidente del Tribunale nomini arbitro un soggetto che manchi delle caratteristiche volute dalle parti queste avrebbero a disposizione tre rimedi: proporre reclamo avverso l’ordinanza di nomina ex art. 739 c.p.c.; contestare all’arbitro interessato il difetto dei requisiti richiesti al fine di provocarne le dimissioni ed (45) In tal senso Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, in Giur. It., 2002, 1275. (46) Sul tema si v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 589 ss.; VALENTI, Sulle modalità di sostituzione degli arbitri e sui rimedi avverso i provvedimenti presidenziali di sostituzione, in questa Rivista, 2003, 841 ss. (47) Il provvedimento qualunque ne sia la forma, decreto o ordinanza, finisce col rientrare tra quelli di volontaria giurisdizione ed è quindi reclamabile. Cfr. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 78. (48) Così RUFFINI - POLINARI, sub art. 815, in Codice di procedura civile commentato, diretto da Consolo, Milano, 2010, 1775. (49) In tal senso GIOVANNUCCI ORLANDI, in A.A.V.V. Arbitrato a cura di Carpi, Bologna, 2007, 293. 171 © Copyright - Giuffrè Editore evitare un lodo impugnabile ai sensi dell’art. 829, comma 2, n. 2, c.p.c.; presentare un’istanza di ricusazione dell’arbitro nominato dal Presidente del Tribunale. 7. Sembra, quindi, che dall’interpretazione dell’art. 810 c.p.c. possa pervenirsi a tre risultati ermeneutici. Secondo una prima lettura, ispirata al principio dell’autonomia (che potremmo indicare come tesi dell’autonomia), i criteri e le qualifiche stabilite nella convenzione arbitrale dalle parti vincolano anche il terzo (privato o giudice) chiamato a nominare l’arbitro. In mancanza delle qualifiche espressamente convenute dalle parti, il provvedimento di nomina dovrebbe dirsi viziato e reclamabile e l’arbitro nominato potrebbe essere ricusato. Una diversa lettura, che per brevità diremo dell’eteronomia, si fonda sul principio della relatività degli effetti del contratto, di cui all’art. 1372 c.c. Secondo tale tesi dell’eteronomia, il giudice non è tenuto a rispettare la volontà negoziale delle parti, che produce i suoi effetti solo inter partes, ma non vincola i terzi e tanto meno il giudice. La nomina giudiziale dell’arbitro carente delle qualifiche stabilite dalle parti nella convenzione arbitrale sarebbe valida e l’arbitro, così nominato, non ricusabile. Alle letture citate e descritte nei paragrafi precedenti sembra potersi aggiungere una tesi intermedia. La tesi muove dalla distinzione tra: modalità di nomina e selezione degli arbitri, da un lato, e status soggettivo dell’arbitro, dall’altro. La modalità di nomina dell’arbitro si esaurisce nel procedimento scelto dalle parti o imposto dalla legge per la selezione del giudice della lite. Il procedimento di nomina giudiziale è affidato dall’art. 810 c.p.c. in via esclusiva al Presidente del Tribunale, il quale vi provvederà in modo autonomo, attenendosi alle regole imposte per i procedimenti in camera di consiglio. Lo status soggettivo dell’arbitro comprende le qualifiche, qualità e competenze individuate dalle parti. La determinazione di tale elemento è e resta nella piena disponibilità delle parti della convenzione di arbitrato. Si dovrebbero, dunque, distinguere due ambiti. La modalità di nomina resterebbe esclusiva competenza del giudice, sulla quale le scelte delle parti non potrebbe incidere. Lo status, al contrario, potrebbe essere deciso dalle parti, ma non potrebbe essere modificato dal Presidente del Tribunale. Seguendo tale tesi, il Presidente del Tribunale che nomini l’arbitro, rispettando le norme di cui agli artt. 737 c.p.c., ma discostandosi dallo status prescelto dalle parti, emanerebbe un provvedimento valido e non reclamabile, almeno per violazione della volontà della parti. Alle parti spetterebbe, però, il potere di ricusare l’arbitro validamente 172 © Copyright - Giuffrè Editore nominato dal giudice ma non dotato delle qualifiche convenzionalmente stabilite, ai sensi dell’art. 815, n. 1, c.p.c. La ricostruzione avrebbe il pregio di garantire il rispetto dell’autonomia privata e al contempo la discrezionalità del giudice, ma si sostanzia comunque in una limitazione alla discrezionalità del magistrato e sembra essere espressione della tesi dell’autonomia. La giurisprudenza di legittimità (50) ha, infatti, chiarito che l’intervento del Presidente non può dar vita ad una nomina viziata. Il Presidente è cioè tenuto ad emettere un provvedimento di nomina dell’arbitro non solo valido ma anche efficace, che sia cioè in grado di produrre gli effetti per cui è pronunciato, ossia costituire un organo giudicante che decida una lite. In questo modo, invece, il Presidente del Tribunale finirebbe con il nominare un arbitro, consapevolmente, ricusabile in quanto privo delle qualifiche previste dalle parti. Le letture dell’art. 810 c.p.c. sembrano necessariamente ridursi a due. L’autonomia dei privati vincola l’operato del giudice o è dallo stesso superata. Non sembra possibile distinguere tra modalità di nomina e status essendo entrambi oggetto della libera determinazione delle parti. La scelta è un concetto di secondo grado presupponendo necessariamente un oggetto sul quale la stessa si deve esercitare. Nel caso in esame, l’oggetto della scelta è la categoria delle persone nominabili come arbitri. Le parti possono decidere di autolimitare la categoria prescrivendo delle qualifiche, ma la limitazione non potrà vincolare l’autorità giudiziaria adita. Per il Presidente la categoria delle persone nominabili non è ristretta al campo individuato dalle parti, ma coincide con il « chiunque » ed è, quindi, comprensiva di tutte le persone fisiche dotate della capacità legale di agire. Tale limitazione, intanto, vincola il Presidente, in quanto espressamente imposta dalla legge e, precisamente, dall’art. 812 c.p.c. 8. Sebbene in un istituto di matrice privatistica come l’arbitrato, la limitazione dell’autonomia privata teorizzata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe appaia significativa, la tesi può essere variamente argomentata. L’intervento del giudice in sede di volontaria giurisdizione (51), pre(50) Cass. 4 dicembre 2001, n. 15290, cit. nt. 42. (51) In questa sede non si può dare conto delle perplessità dottrinali sulla nozione stessa di volontaria giurisdizione e sui procedimenti che ivi vanno ricompresi. Si tratta, come noto, dei procedimenti disciplinati dagli artt. 737 ss. c.p.c. che si concludono con decreto o talvolta con ordinanza. La funzione di tali procedimenti consiste nell’esercizio di un controllo preventivo delle determinazioni dei privati affinché risultino conformi alla legge. La volontaria giurisdizione rappresenterebbe il dominio della discrezionalità giudiziaria. Cfr. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, VII ed., Padova, 1994, 523 ss. 173 © Copyright - Giuffrè Editore visto dall’art. 810, comma secondo, c.p.c., non rappresenta certamente un unicum nell’ordinamento, basti pensare in modo non esaustivo alla scelta del beneficiario di un legato fra le persone o gli enti indicati dal testatore (art. 631, u.c., c.c.), o alla scelta nelle obbligazioni alternative (art. 1287, u.c., c.c.), o alla determinazione del prezzo nell’ipotesi prevista dall’art. 1473 c.c. Il riferimento a un’attività sostitutiva e integrativa del giudice, in caso di inerzia o di volontà contraria di una parte alla nomina di un arbitro secondo il meccanismo previsto dalla clausola compromissoria, non è quindi una fattispecie isolata nell’ordinamento giuridico. Dal punto di vista sostanziale, il potere di intervento del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., come interpretato dalla sentenza in epigrafe, sembrerebbe doversi inquadrare tra le fonti di eterodeterminazione (52) del contratto (53). (52) « In definitiva, con l’eterointegrazione (o, come più semplicemente si dirà da ora in poi, con l’integrazione) si allude a forme di intervento sul contratto che vanno al di là del pur ampio svolgimento della logica della dichiarazione e che, quindi, si aggiungono all’attività delle parti nella costruzione del definitivo regolamento contrattuale. » RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004, 9. (53) Come noto la convenzione d’arbitrato è un contratto che ha ad oggetto il diritto dei singoli di far decidere le proprie controversie da privati. Talvolta si è avvicinato il patto compromissorio al pactum de foro prorogando, ma quest’ultimo ha un oggetto esclusivamente processuale, il patto compromissorio « riguarda lo stesso modo di essere della tutela e, talvolta, i criteri di giudizio adoperabili, così che deve escludersi che abbia rilievo solo processuale ». Si ritiene preferibile considerare la convenzione alla stregua di un contratto nominato (artt. 806 ss. c.p.c.) il cui oggetto consiste nella controversia da decidere e la causa è il farla decidere da terzi. VERDE, La convenzione di arbitrato, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino, 2005, 71 ss. Dalla convenzione di arbitrato nasce il « potere-onere di nominare o far nominare l’arbitro o gli arbitri ». La nomina dell’arbitro è dunque un atto diverso dal contratto di arbitro che si pone come una proposta che deve, o può, essere accettata dal destinatario per iscritto (ai sensi dell’art. 813, comma 1, c.p.c.). Dopo l’accettazione degli arbitri nasce con le parti un rapporto contrattuale in forza del quale i primi assumono l’impegno di decidere la controversia e i secondi di corrispondere loro il corrispettivo. Tale rapporto contrattuale è stato qualificato come mandato, come contratto d’opera (ai sensi dell’art. 2222 c.c.), come un negozio misto, che risulterebbe dalla combinazione tra mandato e contratto d’opera. Sembra preferibile considerare il contratto fra le parti e gli arbitri alla stregua di un contratto nominato disciplinato nei suoi caratteri essenziali dagli artt. 806 ss. c.p.c. Cfr. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 67 ss. Rilevante è anche il rapporto che si instaura tra l’accordo compromissorio e il contratto di arbitrato, tra parti ed arbitri. Si distingue così tra collegamento genetico e funzionale e tra collegamento volontario e necessario (NARDI, Frode alla legge e collegamento negoziale, Milano, 2006, 48; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000). Il collegamento genetico ricorre quando un negozio esercita un’azione vincolativa o meno sulla formazione di altro o di altri negozi; pertanto, in tal caso, l’influenza che un negozio spiega sull’altro si esaurisce nel processo di formazione dei negozi stessi. Il collegamento, invece, si definisce funzionale quando l’influenza che un negozio esercita sull’altro opera sullo svolgimento e sul funzionamento del rapporto, che da tale negozio nasce (GASPERONI, Collegamento e connessione tra negozi, in Riv. dir. comm., 1955, I, 357). In dottrina, poi, emerge la necessità di distinguere le ipotesi in cui il collegamento deriva direttamente ed indispensabilmente dalla legge (collegamento necessario), da quelle in cui la fonte del collegamento risiede nella volontà dei contraenti (collegamento volontario) (RAPPAZZO, Il collegamento negoziale nella società per azioni, Milano, 2008, 20). La dottrina distingue inoltre tra collegamento unilaterale e collegamento bilaterale (C.M. BIANCA, 174 © Copyright - Giuffrè Editore Il problema di fondo che pone l’art. 810 c.p.c. sembra riguardare, quindi, l’ambito di estensione dell’autonomia privata e, più in particolare, se questa si estenda fino alla determinazione dei concreti effetti giuridici derivanti da un determinato atto o, al contrario, se la produzione di effetti giuridici costituisca una prerogativa dell’ordinamento giuridico (54). Sul punto la Relazione al Codice civile, a commento dell’art. 1372 c.c., afferma il principio « secondo cui la volontà privata non può creare in modo indipendente effetti giuridici » (55). Diritto civile, III, Il contratto, cit., 483). Nella prima ipotesi, la sorte di un rapporto si ripercuote sull’altro ma non viceversa; nella seconda, la sorte di ciascun rapporto è legata alla sorte dell’altro (ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e efficacia della clausola compromissoria: il leasing e le altre storie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 1094). Il rapporto esistente tra contratto di arbitrato e accordo compromissorio potrebbe essere interpretato quale nesso di interdipendenza funzionale e necessaria. Il primo profilo si giustificherebbe in funzione del risultato pratico a cui tende il coordinamento e la combinazione di entrambi i negozi: infatti, accordo compromissorio e contratto di arbitrato sono diretti al medesimo risultato finale, costituito dalla conclusione del procedimento arbitrale (MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008, 16). Il contratto di arbitrato sarebbe accessorio rispetto all’accordo compromissorio. In particolare, si tratterebbe di accessorietà bilaterale; quindi, non solo le vicende del negozio principale si ripercuotono su quello accessorio, ma, in senso contrario, anche il primo subisce l’influenza del secondo. Tuttavia come osservato da autorevole dottrina (IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, IV edizione, cit., 19-21), il legislatore talvolta costruisce fattispecie di contratto che contengono, tra i propri elementi di fatto, gli effetti prodotti da altri negozi; in questi casi, non si pone un problema di collegamento, ma viene in rilievo la necessità che la situazione iniziale, su cui si innestano gli effetti del negozio, sia interamente venuta ad esistenza. Seguendo, quindi, tale impostazione il rapporto tra i due negozi si esaurisce nel fatto che il contratto di arbitrato reca tra i suoi presupposti un valido ed efficace accordo compromissorio; quest’ultimo si pone quindi come un elemento fattuale della più ampia fattispecie « contratto di arbitrato ». Il rapporto parti-arbitri sarebbe del tutto autonomo dalla convenzione arbitrale (in tal senso v. MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, cit., 20). (54) Su questa problematica si possono riscontrare diverse teorie. La pandettistica tedesca, nell’ottica del Willensdogma, parte dall’idea che la volontà dell’uomo, manifestatasi all’esterno, possa realizzare effetti giuridici conformi al suo contenuto; in questo senso, VON SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. da Scialoja, Torino, 1888-1891, III, 123 ss.; WINDSCHEID, Diritto delle pandette, trad. a cura di Fadda e Bensa, Torino, 1930, 202. Un’idea conforme a quest’ultima è sostenuta anche da STOLFI, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, secondo il quale sarebbe la volontà dei privati a dar vita agli effetti giuridici. Si veda, a questo proposito, anche GIORGIANNI, Volontà (dir. priv.), in Enc. Dir., XLVI, Milano, 1993, 7. Un’impostazione diversa e ampiamente sostenuta in dottrina, nega ai privati la competenza a produrre l’effetto giuridico in quanto la creazione degli effetti giuridici sarebbe riservata esclusivamente alla legge. Come riferisce CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1988, 47, « gli effetti giuridici sono la risposta dell’ordinamento all’atto di autonomia privata, conseguente alla sua valutazione »; mentre le parti possono liberamente determinare il contenuto contrattuale, l’identificazione e la produzione degli effetti giuridici sarebbe riservata all’esclusiva competenza della legge. In questo senso, anche BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1943, 82. Cfr. sul tema IRTI, Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991, 27 ss.; ID., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., 93 ss.; MARANI, La simulazione negli atti unilaterali, Padova, 1971, 117 ss. Di particolare interesse è anche la prospettiva esaminata da SCIALOJA, Negozi giuridici, Roma, 1933, 36. (55) Relazione del Guardasigilli al Codice civile, n. 627, la quale continua « Questo principio afferma l’immanente e perenne soggezione della volontà individuale al comando della legge. E se ne intende la necessità, in base alla considerazione che il riconoscimento della giuridicità si fonda sulla valutazione dell’utilità generale degli effetti che ne derivano; il compito 175 © Copyright - Giuffrè Editore L’art. 1374 c.c. (56) indica, in modo espresso, il generale principio di corrispondenza tra contenuto dell’atto e contenuto degli effetti giuridici (57), cioè, ferma restando la distinzione tra contenuto dell’atto ed effetti giuridici prodotti dall’atto stesso (58), le modificazioni delle situazioni di diritto, conseguenti ad un atto di autonomia privata, sono conformi a quelle espresse dalle parti con l’atto di autonomia privata stesso. Partendo dal dato normativo e in base alle premesse indicate si possono effettuare alcune considerazioni. In base all’art. 1374 c.c. e all’art. 1322 c.c., le parti possono determinare il contenuto contrattuale di un determinato atto e il « contratto obbliga le parti », in primis, « a quanto è nel medesimo espresso » (59). I privati sono liberi di stabilire un determinato regolamento contrattuale e, quindi, di scegliere uno schema e di determinarne e specificarne il contenuto nei limiti indicati dalla norma, ma « lo schema prescelto e gli effetti specificati sono offerti dal legislatore » (60). È, quindi, il legislatore a indicare e a predisporre gli effetti giuridici, « la norma è...il “motore” degli effetti » (61). di fare questa valutazione non può attribuirsi al singolo senza porre l’uniformità a cui deve ispirarsi, senza cioè far luogo ad una relatività di giudizi che scompone disordinatamente gli scopi della pluralità organizzata ». (56) Attribuisce a tale norma una funzione sostanzialmente interpretativa, FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 286 ss.; ID., La « cultura » del contratto e le strutture del mercato, in Riv. dir. comm., 1997, I, 867 s. (57) IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Torino, 1974, 93, secondo il quale tale norma « enuncia, nella sua elementare semplicità, il principio dell’autonomia privata, che, sul piano tecnico, non è altro dalla corrispondenza tra contenuto dell’atto e contenuto degli effetti giuridici », richiamando l’art. 1322, comma primo, c.c. (58) Il concetto di contenuto del contratto e il suo rapporto con gli effetti giuridici è piuttosto complesso. Alcune dottrine utilizzano l’art. 1322 c.c. come punto di partenza per definire il contenuto come « precetto dell’autonomia privata » comprensivo quindi di tutte e solo le determinazioni dettate dagli autori stessi per regolare i propri interessi; in questo modo, si esclude dalla nozione di contenuto tutto ciò che non costituisce esplicazione dell’autonomia privata delle parti. In questo senso BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 156. Altri autori utilizzano una nozione di contenuto molto più estesa intesa come il complesso di elementi che concorrono a formare la fattispecie contrattuale, anche se estranei all’autonomia contrattuale: CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, Padova, 1984, 216; ALLARA, La teoria generale del contratto, Torino, 1955, 82. In una prospettiva autonoma e diversa si pone RODOTÀ, Le fonti d’integrazione del contratto, Milano, 1969, 78, il quale, indicando la nozione di regolamento contrattuale, pone l’accento sul confluire di varie fonti nella determinazione delle regole che disciplinano l’assetto di interessi tra le parti del contratto: l’attività delle parti, la determinazione legale, la determinazione ad opera del giudice. Così Cass., 22 aprile 2000, n. 5286, in Foro it., 2000, I, 2180. (59) Le parti, stipulando il contratto, mirano alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto (ex art. 1321 c.c.); esse esternano una volontà ed un atto di autodeterminazione contrattuale con lo specifico intento di produrre un risultato, un effetto, e, in questo senso, le parti e l’autonomia privata sono spesso indicate in dottrina come fonti di produzione di effetti giuridici. C.M. BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto, Milano, 2000, 318. (60) IRTI, La scuola di Messina in un libro sui fatti giuridici, Prefazione a Pugliatti (1945), rev. e agg. a cura di Falzea, Milano, 1996, VI. (61) AA. VV., Dieci lezioni introduttive a un corso di diritto privato, Torino, 2006, 125 s., dove si osserva che l’effetto giuridico è una « creazione esclusiva della norma, mentre il fatto, 176 © Copyright - Giuffrè Editore Gli effetti giuridici possono non coincidere in concreto con il contenuto dell’atto di autonomia privata. La produzione degli effetti giuridici è subordinata ai limiti e ai requisiti di legge e, in questo senso, diverse sono le modalità con cui il legislatore o, più in generale, l’ordinamento giuridico limita e vincola l’autonomia privata, non solo in negativo, cioè con la mera imposizione di divieti, ma anche in positivo, sostituendo la propria valutazione a quella posta in essere dalle parti (62). Questo è il fenomeno dell’eteronomia (63) o dell’eterodeterminazione, da intendersi come il potere di determinare dall’esterno i rapporti tra i privati (64). Emblematica è, a questo proposito, la disciplina dell’art. 1339 c.c. (65), che introduce un meccanismo sostitutivo di clausole contrattuali con delle clausole imposte dal legislatore, nonché la previsione dell’art. 1374 c.c. che, dopo avere individuato il generale principio di corrispondenza tra contenuto del contratto e contenuto degli effetti, aggiunge che il contratto obbliga le parti « ...anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità ». L’intervento del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., seppur con delle differenze, sembra, quindi, avvicinarsi alle ipotesi previste dagli artt. 1339 e 1374 c.c. (66) e volto all’integrazione di un elemento del contenuto negoziale nell’interesse di tutte le parti della convenzione arbitrale: al giudice viene infatti richiesto di intervenire con un provvedimento che sostituisca un’attività negoziale manchevole delle parti. Vero è che la legge (ossia l’art. 815 c.p.c.) attribuisce alle parti la facoltà di scegliere le qualifiche dell’arbitro e la stessa legge riconosce due strumenti di tutela a presidio della loro volontà (ricusazione e impugnaanche quando consiste in manifestazioni di volontà, si risolve tutto in se stesso e non in una supposta attitudine, attuale o potenziale, a determinare l’effetto. Il fatto, pertanto, nasce neutro: la sua giuridicità, che, in sostanza, coincide con la sua effettività è un portato della norma ». (62) Il legislatore, nel momento in cui interviene in un dato settore della realtà sociale, pone in essere una valutazione di opportunità politica sulla meritevolezza di tutela di un dato interesse in rapporto ad un altro. Un’analisi delle varie modalità in cui può concretizzarsi tale intervento è realizzata da CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, cit., 134 ss. (63) Come espressamente rilevato da ORLANDI, Autonomia privata e autorità indipendenti, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti: la metamorfosi del contratto, a cura di Gitti, Bologna, 2006, 275 ss, l’eteronomia costituisce un fenomeno « correlato e complementare » a quello di autonomia, nel senso che i due concetti si « delimitano a vicenda, dove finisce la sfera di autonomia inizia quella dell’eteronomia, e viceversa ». (64) Si parla a questo proposito di fonti o regole eteronome, in grado di negare, quindi, la simmetria fra volontà e risultato giuridico. M. CONFORTINI, Problemi generali del contratto attraverso la locazione, cit., 134 ss.; SACCO, La parte generale del diritto civile. 1. Il fatto, l’atto il negozio, in Tratt. dir. civ., diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 2005, 128; GIORGIANNI, La crisi del contratto nella società contemporanea, in Riv. dir. agr., 1972, I, 385 ss.; ORLANDI, Autonomia privata e autorità indipendenti, cit., 273 ss. (65) Da questa norma sorge una serie alquanto complessa ed articolata di problematiche che non possono essere affrontate in questa breve nota. (66) In tal senso STESURI, Gli arbitri. Mandato, responsabilità e funzioni, Milano, 2001, 16. 177 © Copyright - Giuffrè Editore zione per nullità), introducendo quindi un vincolo al rispetto dell’autonomia delle parti — quanto meno indirettamente tutelato dallo stesso art. 815 c.p.c. —, tuttavia, il potere-dovere di intervento dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., è, e resta, discrezionale. La discrezionalità del giudice civile non è del tutto libera, presenta senz’altro dei limiti. Il giudice, infatti: deve operare in conformità alla legge (67), ai sensi dell’art. 101 Cost.; è vincolato al dovere di imparzialità, nei riguardi delle parti e degli interessi dedotti in giudizio (68); è tenuto all’obbligo di motivare il provvedimento pronunciato (69), ai sensi dell’art. 111 Cost. Nessuna norma sembra vincolare però il Presidente del Tribunale al rispetto delle clausole concordate tra le parti. D’altra parte, esaminando alcune delle ipotesi in cui il legislatore attribuisce all’autorità giudiziaria il dovere di intervento e di integrazione del contenuto negoziale di un atto privato, si evince che i limiti alla discrezionalità giudiziaria (70) devono essere normativamente imposti: è la legge a vincolare il giudice, e non le parti. Basti pensare all’ipotesi della nomina dell’amministratore di sostegno (67) Il dovere di operare in conformità alla legge oltre ad essere espressamente imposto al giudice dall’art. 101 della Costituzione, deriva dal collegamento tra il giudice e la sovranità popolare. Cosicché il vincolo che promana dalla legge si impone al giudice anche quale presidio al rispetto che deve alla comunità sovrana. Cfr. MARENGO , La discrezionalità del giudice civile, op. cit., 63 ss. (68) L’imparzialità del giudice deve essere intesa non solo come estraneità riguardo agli interessi dedotti in giudizio, ma anche come rispetto della parità dei litiganti. Il giudice deve garantire la piena equidistanza dagli interessi cui le situazioni sostanziali dedotte in giudizio in concreto possono ricondursi. Sul tema v. FAZZALARI, La imparzialità del giudice, in Studi in memoria di Furno, Milano, 1973, 336 ss. (69) La ratio dell’art. 111 Cost. consiste nel facilitare il controllo, in fatto e in diritto, del provvedimento, coincidente con l’obbligo, in concreto, di dar conto delle ragioni che hanno condotto all’adozione del provvedimento. L’obbligo di motivazione sussiste anche quando l’attività imposta dalla norma sia discrezionale, in quanto il giudice con la motivazione deve dar conto anche del corretto uso dei criteri oggettivi di riferimento all’osservanza dei quali è tenuto. Cfr. TARUFFO, La motivazione della sentenza, Padova, 1975, 407; CECCHERINI, Il principio generale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e l’informatica giuridica, in Giust. Civ., 1989, II, 54 ss. (70) Il dibattito relativo alla nozione di discrezionalità è sorto principalmente nel campo del diritto amministrativo, ove è approdato alla considerazione che l’attività dell’organo pubblico è caratterizzata dal limite interno costituito dagli interessi pubblici, dalla comparazione degli interessi pubblici e privati rilevanti nel caso concreto e dalla sindacabilità dei relativi provvedimenti. Il vincolo dell’interesse pubblico rappresenterebbe quindi il discrimen tra discrezionalità e autonomia privata (BARONE, Discrezionalità (diritto amministrativo), in Enc. Giur., vol. XI, Roma, 1989; ZANOBINI, Autonomia pubblica e privata, in Scritti giuridici in onore di Carnelutti, vol. VI, Padova, 1950, 185 ss.). Con riguardo alla discrezionalità del giudice civile occorre considerare che l’attività del giudice è composta da doveri: tutti gli atti del giudice sono disciplinati dalle relative norme come doverosi, in quanto l’organo pubblico deve sempre assolvere al compito per cui è preposto. Si parla quindi di « dovere discrezionale » (MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, Torino, 1996, 59 ss.) intendendosi che l’organo pubblico ha margini di scelta quanto al contenuto della condotta da tenere, ma pur sempre nell’ambito dell’esercizio di uno specifico dovere. 178 © Copyright - Giuffrè Editore di cui all’art. 404 c.c. (71). Il potere di nomina riconosciuto all’autorità giudiziaria non è libero, ma vincolato anche alla volontà della parte incapace (che può disporre in prospettiva della propria incapacità). In tale ipotesi, il limite al potere giudiziario trova sempre la sua fonte nella legge: è la legge a stabilire i criteri per la nomina dell’amministratore di sostegno, ed è sempre la legge a stabilire, come criterio di scelta dell’amministratore, la volontà delle parti (art. 408 c.c.). Non sembra potersi pervenire a diversa conclusione dall’esame dell’art. 1349 c.c. (72). Il primo comma della disposizione attribuisce al giudice il potere di determinare la prestazione dedotta nel contratto indicandone tuttavia i presupposti e i limiti. Infatti, ai sensi della norma citata, l’autorità giudiziaria può intervenire solo nel caso in cui la determinazione del terzo arbitratore sia stata manifestamente iniqua o erronea o sia del tutto (71) Nella fattispecie l’intervento giudiziario non sopperisce a un’inerzia delle parti. (72) L’art. 1349 c.c. non potrebbe neppure essere applicato in via analogica all’ipotesi di nomina sostitutiva dell’arbitro ad opera del Presidente del tribunale. L’art. 810 c.p.c. disciplina in modo esaustivo il potere di intervento dell’autorità giudiziaria, stabilendo che al verificarsi dell’inerzia di una delle parti il Presidente sarà tenuto a nominare un arbitro attraverso un procedimento camerale. Nel caso in esame mancherebbe il presupposto per il ricorso allo strumento dell’analogia ossia la lacuna. Ciò che « si indica come lacuna tecnica è, o una lacuna nel senso originario della parola, cioè una differenza fra diritto positivo e diritto desiderato, oppure è quell’indeterminatezza che risulta dal carattere schematico della norma » (KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 2000, 127, con trad. di Treves). La distinzione tra alcuna ideologica e reale corrisponde alla distinzione tra « lacune proprie e improprie ». Ove « la lacuna propria è una lacuna del sistema o dentro il sistema; la lacuna impropria deriva dal confronto del sistema reale con un sistema ideale ». In un sistema caratterizzato dalla presenza di norme particolari inclusive, ossia di norme che regolano determinati casi e norma generale esclusiva, « cioè dalla regola che esclude (per questo esclusiva) tutti i comportamenti (per questo generale) che non rientrano in quello previsto dalla norma particolare », non vi posso essere lacune improprie. Il caso non regolato rientra nella norma generale esclusiva (così BOBBIO, Teoria generale del diritto, Torino, 1993, 238 - 273). Così definita la lacuna, l’art. 810 c.p.c. non sembra una disposizione lacunosa. Con quest’ultima il legislatore ha affidato all’autorità giudiziaria il compito di scegliere l’arbitro, non nominato dalla parte, secondo modalità tipiche dei procedimenti camerali. La scelta del giudice, e di qualsiasi terzo, è una scelta libera che non può essere vincolata alla determinazione contrattuale di altre parti (secondo il generale principio sancito dall’art. 1372 c.c.) e comprende ovviamente non solo l’individuazione della persona dell’arbitro ma anche il suo status (quindi le qualifiche e competenze). Mancherebbe inoltre l’identità di ratio tra l’ipotesi disciplinata, ossia l’art. 1349 c.c., e l’ipotesi, asseritamente non disciplinata, ossia l’art. 810 c.p.c. Infatti, il cosidetto arbitraggio presuppone il conferimento di un mandato, avente ad oggetto una prestazione professionale, al terzo che, accettato l’incarico, si atterrà alle istruzioni impartite, vincolato dal contratto di mandato e dalle legge che prescrive il ricorso al criterio dell’equo apprezzamento nello svolgimento dell’incarico. Anche quando il giudice interviene, perché l’arbitratore non ha provveduto o ha malamente provveduto, il suo incarico è vincolto ex lege al rispetto dell’« equo apprezzamento » (da intendersi, mi pare, in senso soggettivo). L’attività svolta dall’arbitratore, terzo o giudice, consiste, inoltre, nella determinazione della prestazione dedotta in contratto. Al contrario il potere di nomina attribuito al Presidente del Tribunale deriva direttamente dalla legge e dalla legge è disciplinato. Le parti non possono vincolarne l’operato, in quanto la legge conferisce al Presidente un potere libero, salvo non sia diversamente previsto. L’incarico inoltre che il Presidente è chiamato a svolgere consiste nella scelta del giudice di una lite. 179 © Copyright - Giuffrè Editore mancata e solo quando risulti che le parti non vollero rimettersi al suo mero arbitrio. In queste ipotesi è il legislatore a predeterminare il criterio di giudizio al quale l’autorità giudiziaria dovrà attenersi nella determinazione dell’oggetto del contratto: ossia l’equo apprezzamento. Il limite alla discrezionalità giudiziaria è normativamente previsto ed è rappresentato dal criterio da seguire nella determinazione della prestazione. Infatti nell’ipotesi in cui le parti rimettano la determinazione dell’oggetto del contratto al « mero arbitrio » del terzo, l’intervento del giudice non è consentito e il contratto è nullo (73). Sembra quindi che, quando il legislatore ritenga opportuno vincolare la discrezionalità giudiziaria all’autonomia privata, lo disponga espressamente: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Condividendo l’interpretazione della Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe, risulta necessario considerare il potere sostitutivo del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., come un potere discrezionale, autonomo e non vincolato alla volontà delle parti. L’autonomia delle parti, manifestata nella scelta delle qualifiche e delle competenze dell’arbitro nominando, incontra il suo limite nel potere sostitutivo dell’autorità giudiziaria, che supera la volontà delle parti e ne è del tutto libero. Un vincolo alla discrezionalità giudiziaria nell’esercizio del potere riconosciuto dall’art. 810 c.p.c. si potrebbe realizzare solo con un’espressa previsione normativa che sottoponga il potere del giudice alla volontà delle parti della convenzione arbitrale. Ne consegue che, ove il precetto dell’art. 810 c.p.c. non venga integrato o modificato da altro precetto normativo che imponga al Presidente di effettuare la scelta dell’arbitro tra appartenenti a una data categoria o lo vincoli alla scelta effettuata dalle parti nella convenzione arbitrale, l’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria non sarà limitato dalle previsioni contrattuali aventi ad oggetto le qualifiche dell’arbitro. 9. A tenore della sentenza della Corte di Cassazione, quindi, l’autonomia delle parti (74) incontra un limite nel decisum giudiziale, le parti (73) Il secondo comma dell’art. 1349 c.c. stabilisce, infatti, che se manca la determinazione del terzo e le parti non si accordano per sostituirlo il contratto è nullo e il giudice non può intervenire. Questa conclusione si giustifica tenendo conto che le parti hanno voluto affidarsi al mero arbitrio di una terza persona evidentemente riponendo particolare fiducia nella risposta di questa e per la volontà di regolare il loro rapporto prescindendo da quella che potrebbe essere la normale equità. Cfr. NATOLI, Significato e limiti dell’intervento del giudice nella determinazione della cosa e del prezzo (1947), in Diritti fondamentali e categorie generali. Scritti di Ugo Natoli, Milano, 1993, 836-837. (74) Sulla evoluzione del concetto di autonomia negoziale cfr. ALPA, Autonomia delle parti e libertà contrattuale, oggi, in Riv. critica dir. priv., 2008, vol. 26, 571 ss., secondo l’A.: « Al principio di libertà contrattuale si affidano così due ruoli tra loro in conflitto: da un lato, si 180 © Copyright - Giuffrè Editore non sarebbero più libere nemmeno di accordarsi sulle qualifiche degli arbitri in caso di inerzia. L’inerzia delle parti determinerebbe una sostituzione ad nutum della volontà delle stesse con quella dell’autorità giudiziaria; volontà, quest’ultima, libera, non costretta a sottostare ai limiti della convenzione arbitrale e vincolata solo dalla discrezionalità giudiziale. Questa rigorosa interpretazione della « libera » discrezionalità giudiziaria, condivisa nella sentenza in epigrafe, dovrebbe però tenere conto che la funzione che il Presidente del Tribunale è chiamato a svolgere, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., consiste nell’« indirizzo e nell’integrazione dell’attività dei privati » (75). Allo svolgimento della funzione in oggetto, l’autorità giudiziaria dovrebbe procedere mediante la comparazione, in concreto, dell’interesse fissato dalla norma (ossia la garanzia dell’effettività della convenzione arbitrale) con gli altri interessi sui quali l’atto è destinato a incidere (e tra i quali l’interesse delle parti, entrambe, a vedere decisa la controversia da un giudice privato munito delle qualifiche pattuite). La scelta dei requisiti del giudice della controversia è un interesse delle parti dal quale il provvedimento del Presidente del Tribunale non sembra dover o poter prescindere, se non quantomeno in presenza di un’adeguata motivazione (76) che rappresenti le ragioni della scelta delvorrebbe costruire sul contratto l’unico sistema (libero e sovranazionale) di regolazione dei rapporti tra i privati, tendendosi a considerare il contratto come un semplice « affare tra privati », preclusivo di ogni integrazione, valutazione, controllo proveniente dall’esterno; in questo senso libertà contrattuale, cioè libertà per i contraenti di effettuare qualsiasi scelta essi desiderino, purché sia condivisa, coincide perfettamente con l’autonomia, cioè con la legge privata, delle parti; dall’altro si vorrebbe affidare al contratto compiti di giustizia correttiva e distributiva, di protezione della persona, di efficiente allocazione delle risorse che un tempo spettavano esclusivamente al legislatore, e quindi la libertà contrattuale, in questo senso intesa come libertà « dal contratto come strumento vincolante della parte più debole, si allontana dalla autonomia, in quanto il contratto è integrato, valutato, controllato ab externo ». (...) Insomma, le espressioni « libertà contrattuale » e « autonomia delle parti » debbono essere contestualizzate, per poterne comprendere adeguatamente il significato; che è — inevitabilmente — un significato relativo. E’ un significato che deve essere ricostruito anche alla luce delle tradizioni che hanno solcato la cultura giuridica nel corso dei tempi, sicché, nella prospettiva di una armonizzazione del diritto privato europeo, appare molto difficile il compito di quanti si sono proposti di redigere testi che raccolgono una terminologia univoca, una armatura concettuale adattabile a tutte le vicende, principi generali e astratti formulati a mo’ di regole di un « codice » ». (75) MARENGO, La discrezionalità del giudice civile, op. cit., 292. (76) Il provvedimento pronunciato dal Presidente dovrebbe rientrare nell’alveo della volontaria giurisdizione. Ivi, come noto, l’atto conclusivo del procedimento camerale ha forma di decreto motivato, salvo che la legge disponga diversamente (ex art. 737 c.p.c.): ed è questa clausola legale di riserva uno dei poli normativi da cui si diramano, a scioglimento di essa, le serie di norme in deroga che danno vita ai modelli camerali atipici. Cfr. MALTESE, I procedimenti in camera di consiglio: profili generali, in Riv. dir. civ., 1997, n. 4, 565 ss. In ogni caso il provvedimento con cui si pronuncia l’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 810 c.p.c. dovrebbe essere almeno succintamente motivato in ossequio all’art. 111 Costituzione: Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Il generico contenuto della citata disposizione ne determina l’applicazione anche ai provvedimenti di volontaria giurisdizione. 181 © Copyright - Giuffrè Editore l’arbitro e dell’interesse prevalente che si è ritenuto di perseguire con il provvedimento di nomina (77). RITA TUCCILLO (77) Sembra quindi che il provvedimento dell’autorità giudiziaria che nomini l’arbitro discostandosi dalla volontà delle parti espressa nella convenzione arbitrale e non motivi tale scelta potrebbe essere reclamato dalla parte interessata per carenza di motivazione. 182 © Copyright - Giuffrè Editore CORTE D’APPELLO DI MILANO, Sez. I civile, ordinanza 12 marzo 2013; SODANO Pres., FIECCONI Est.; Ruggero (avv. Favalli, Tona) c. Advisorfin S.r.l. ora Deloitte Financial Advisory S.r.l. (avv. Rescigno). Lodo rituale - Impugnazione per nullità - Applicabilità dell’art. 348-bis c.p.c. Plurime ragioni d’inammissibilità - Esclusione. Qualora il convenuto con l’impugnazione per nullità del lodo abbia dedotto fondatamente plurime ragioni di inammissibilità, è impedita, formalmente e letteralmente, la definizione attraverso l’ordinanza prevista dall’art. 348-bis c.p.c. CENNI DI FATTO. — Con atto di citazione notificato alla parte appellata in data 9 novembre 2012, l’odierno appellante chiede la dichiarazione di nullità del lodo arbitrale rituale sottoscritto il 16 settembre 2011, come da richieste di cui in atti. All’appello è seguita la costituzione della parte appellata nei termini rituali mediante separata comparsa con la quale sono state rassegnate le conclusioni di cui in atti. Nella comparsa di risposta la parte appellata chiede preliminarmente che la Corte valuti l’ammissibilità dell’appello ai sensi della nuova disciplina introdotta con l’art. 348-bis c.p.c. La parte impugnante si oppone deducendo l’inammissibilità di detta procedura all’impugnazione di lodo arbitrale rituale. MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1) La norma di cui all’art. 348-bis c.p.c. dispone che “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”, aggiungendo che “il primo comma non si applica quando: a) l’appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all’articolo 70, primo comma; b) l’appello è proposto a norma dell’articolo 702-quater”. 2) L’articolo 828 c.p.c. dispone che l’impugnazione per nullità del lodo si propone davanti alla corte d’appello nel cui distretto ha avuto sede l’arbitrato. La norma dunque disciplina il principale mezzo di impugnazione esperibile contro il lodo rituale, ossia l’impugnazione per nullità. 3) Occorre dunque valutare se la richiamata disciplina del filtro dell’appello sia applicabile al procedimento d’impugnazione di lodo rituale pur in assenza di una formale esclusione di detta possibilità. 4) La Corte ritiene che, nel caso di specie, prevale la considerazione che dall’appellato sono state dedotte plurime ragioni d’inammissibilità dell’impugnazione per nullità del lodo che, formalmente e letteralmente, paiono impedire che la questione sia definita nel merito con ordinanza d’inammissibilità di cui all’art. 348-bis c.p.c., non prevista nel caso di pronuncia d’inammissibilità dell’impugnazione. P.Q.M. — la Corte d’appello di Milano, sezione prima civile, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 12 marzo 2013: rigetta l’istanza di pronuncia d’ordinanza d’inammissibilità dell’impugnazione ex art. 348 bis c.p.c.; ritenendo la controversia matura per la decisione, rinvia all’udienza del 31.3.2015. 183 © Copyright - Giuffrè Editore Sulla applicabilità del filtro all’impugnazione del lodo arbitrale rituale 1. Premessa. — 2. La nuova veste della « inammissibilità ». — 3. Segue: la natura dell’impugnazione per nullità quale fattore ostativo? — 4. Segue: anche l’impugnazione del lodo arbitrale rituale in Cassazione? — 5. Il precedente storico. — 6. La prima pronunzia sul tema. — 7. Epilogo. 1. Forse a causa di un difetto di coordinamento, gli artt. 348-bis ed 828 c.p.c. nulla dispongono quanto all’applicazione del nuovo sistema del filtro (1) al giudizio d’impugnazione per nullità del lodo arbitrale. La relazione di accompagnamento al d.l. 22 giugno 2012 n. 83, con il quale è stato introdotto questo nuovo modulo decisorio, si riferisce infatti unicamente all’appello avverso i provvedimenti resi dal giudice di primo grado. Tutto lascerebbe intendere, quindi, dal giudice statale, escludendo così in apicibus l’operare del filtro in caso di impugnazione del lodo rituale (2). Sennonché, il problema sembra annidarsi nel fatto che se è vero che l’impugnazione per nullità rappresenta un rimedio ordinario sui generis per censurare i vizi propri di un singolare tipo di provvedimento (3), è altrettanto vero che si tratta comunque di un giudizio che si celebra dinanzi alla corte d’appello e al quale si ritengono perciò applicabili, quanto meno in linea di massima, le regole che debbono osservarsi nel giudizio di secondo grado. Di qui il (ragionevole) dubbio che l’impugnazione ex artt. 828 ss. c.p.c. non possa essere sottratta a priori alle nuove regole che disciplinano il giudizio d’appello, ma che, piuttosto, la sua eventuale incompatibilità con il meccanismo operativo del filtro debba essere prima vagliata sulla scorta di indici di sistema. 2. Conviene innanzitutto ricordare che la struttura del filtro in appello prevede, come è a tutti noto, che, fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità, l’appello è dichiarato inammissibile (con ordinanza succintamente motivata ex art. 348-ter c.p.c.) dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di accoglimento, secondo quanto dispone l’art. 348-bis, comma 1, c.p.c. (4). (1) Introdotto, attraverso i nuovi artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante « Misure urgenti per la crescita del Paese » e convertito (con modificazioni) nella legge 7 agosto 2012, n. 134. (2) Lo nota anche PANZAROLA, Commento all’art. 348-bis c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile: dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di MARTINO e PANZAROLA, Torino, 2013, 626, nota 7. (3) V. per tutti VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato2, Torino, 2006, 163, ove si legge che quella contemplata dall’art. 829 c.p.c. rappresenta « un’impugnazione processuale sui generis da modellare secondo la disciplina dell’appello, là dove la stessa sia compatibile con le peculiarità del rimedio o non sia espressamente derogata ». V. anche infra, testo e note 18 e 22. (4) Nel giudizio ordinario, peraltro, la disciplina del filtro non trova applicazione, per espressa previsione, in due ipotesi: 1) quando l’appello è proposto relativamente ad una delle 184 © Copyright - Giuffrè Editore Ed è altrettanto noto come il metodo prescelto per selezionare ex ante — ossia in via preliminare rispetto alla trattazione dell’appello — le impugnazioni meritevoli di essere trattate e decise celi, in realtà, sotto la forma di una valutazione di rito un giudizio (prognostico) che attiene invece al merito dell’impugnazione proposta (5). Quindi, come è stato prontamente fatto notare dalla dottrina, quel che il nuovo meccanismo mette in mostra è null’altro che una sovrapposizione del piano dei vizi formali con quello del merito dell’impugnazione (6), giacché l’oggetto della discussione non riguarda certamente l’esistenza di un vizio formale che correda il gravame dalla sua fase genetica o, se si preferisce, la carenza di un presupposto processuale apprezzabile ai fini del valido esercizio del potere d’impugnazione (7); viceversa, quel che, dopo i controlli di rito ex art. 342 c.p.c., assume rilevanza ai fini del superamento del vaglio preventivo ex art. 348-bis c.p.c. concerne esclusivamente la fondatezza, più o meno manifesta, dell’impugnazione nel merito (8), tale cioè da rendere necessaria o no la sua decisione (con sentenza) (9). Ciò premesso — e pare questo un dato da tenere ben presente in riferimento all’impugnazione per nullità del lodo rituale — per effetto del cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, a norma dell’art. 70, comma 1, c.p.c.; 2) quando l’appello riguarda cause svolte secondo il rito sommario di cognizione, a norma degli artt. 702-bis ss. c.p.c. (art. 348-bis, comma 2, c.p.c.). Viceversa, il nuovo meccanismo ha il suo spazio applicativo nel rito laburistico, come chiaramente dispone l’art. 436-bis c.p.c., e in quello locatizio, stante l’espresso richiamo che l’art. 447-bis c.p.c. opera all’art. 436-bis, nonché in caso di appello proposto avverso le sentenze del giudice di pace e di impugnazione delle sentenze non definitive: v. BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, in Giusto proc. civ., 2013, 341. (5) V. per tutti BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 338; BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in Riv. dir. proc., 2013, 578. (6) Senza considerare che un giudizio prognostico basato sulla « ragionevole » probabilità di accoglimento del gravame rischia di tradursi, nei fatti, in una « impressione » del giudicante (così SASSANI, Alla difficile ricerca di un « diritto » per il processo civile, in www.judicium.it), o di sfociare comunque in una pronunzia di inammissibilità allorquando una probabilità di accoglimento esista, ma al giudice appaia non « ragionevole » (così CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it, § 6; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 342). (7) Analogamente a quanto era accaduto, relativamente al filtro nel giudizio di cassazione, con l’introduzione dell’art. 360-bis c.p.c. ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69. Sul problema v. per tutti GRAZIOSI, Riflessioni in ordine sparso sulla riforma del giudizio in Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 40 s. (8) Su questo aspetto la dottrina è compatta: v. MONTELEONE, Appendice di aggiornamento al manuale di diritto processuale civile, VI ed., Padova, 2012, 3; COSTANTINO, La riforma dell’appello, in Giusto proc. civ., 2013, 29; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 338; CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di « svaporamento », in Corr. giur., 2012, 1135; SCARSELLI, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it., 2012, V, 287 s.; CAVALLINI, Verso una giustizia « processuale »: il tradimento della tradizione, in Riv. dir. proc., 2013, 325; R. POLI, Il nuovo giudizio di appello, ibid., 132; IMPAGNATIELLO, Pessime nuove in tema di appello e ricorso in Cassazione, in Giusto proc. civ., 2012, 749; COMASTRI, Note sulla recente riforma della cassazione e dell’appello, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 702. (9) Sulle prime applicazioni del filtro in appello, v. le osservazioni di COSTANTINO, in Foro it., 2013, I, 969; PANZAROLA, Le prime applicazioni del c.d. filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2013, 715 ss. 185 © Copyright - Giuffrè Editore nuovo modulo decisorio le inammissibilità che possono colpire l’appello sono plurime, ancorché endemicamente difformi tra loro. Vi è, infatti, una (prima) inammissibilità che riguarda il rito e che si sostanzia, a norma dell’art. 342 c.p.c., nel mancato rispetto dell’assolvimento degli oneri imposti all’appellante nella redazione dell’atto introduttivo (10) e che, in ragione di ciò si riallaccia alla carenza, nella fase genetica dell’impugnazione, di caratteri squisitamente formali. Vi è, poi, un altro genere d’inammissibilità, che è quella che attiene, per l’appunto, ad una previsione di (in)fondatezza nel merito del gravame e che viene dichiarata ai sensi del nuovo art. 348-bis c.p.c. solo quando non sussistono altre cause d’inammissibilità, per così dire, più classiche (11). In ragione di questa profonda divergenza esistente tra le cause che possono oggi condurre alla chiusura in rito del giudizio d’appello, il legislatore ha diversificato la forma del provvedimento, disponendo che l’inammissibilità vada dichiarata con sentenza quando l’appello è inficiato da un vizio di formacontenuto e con ordinanza succintamente motivata (e quindi in modo teoricamente più semplificato) quando non ha una ragionevole probabilità di accoglimento. È da credere, peraltro, che il diverso statuto normativo trovi la sua precipua ragion d’essere nella deroga all’effetto sostitutivo tipico della pronunzia d’appello, con annessa reviviscenza di quella sentenza di primo grado, che diviene così direttamente ricorribile per cassazione ex art. 360 c.p.c. Ma all’interprete non può sfuggire che, per come la si è congegnata, la novità è così spuria che neppure è facile trovarle un qualche precedente cui apparentarla (12). E se il sistema de quo già si palesa come una tecnica che sporge rispetto alla normale dinamica del giudizio d’appello (13), farne un mo(10) Sulle modifiche che hanno interessato l’art. 342 c.p.c. e sulla sua « somiglianza » con l’esperienza del Berufungsbegründung di cui al § 520, Abs. 3º , nn. 1) e 2), ZPO, v. VERDE, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it, § 1; COSTANTINO, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del « filtro », in www.treccani.it/magazine/diritto, par. 3; CAPONI, L’appello nel sistema delle impugnazioni civili (note di comparazione anglo-tedesca), in Riv. dir. proc., 2009, 631 ss.; TEDOLDI, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella « iconoclastica » del 2012, id., 2013, 149 ss. (11) In sostanza, per poter essere trattato e deciso, il gravame deve oggi superare un doppio esame, il cui scopo è, però, profondamente diverso, riguardando l’uno il rito, l’altro il merito. Sul punto v. diffusamente CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in www.judicium.it, § 4, il quale ben pone in risalto la differenza strutturale tra i due filtri: mentre per applicare l’art. 348-bis, comma 1, il giudice deve compiere una attività, seppur minima, di apprezzamento sulla fondatezza dei motivi, nel caso dell’art. 342 è tenuto semplicemente a riscontrare la rispondenza, in concreto, dell’appello rispetto alla fattispecie legale richiesta dalla disposizione. (12) V. per tutti CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello, cit. (13) Giacché, oltretutto, il sistema del filtro presuppone (recte impone) un doppio studio del fascicolo, tenuto conto che ex art. 348-bis c.p.c. il giudice dell’impugnazione deve dichiarare l’inammissibilità del gravame privo di ragionevole probabilità di accoglimento prima di intraprenderne la trattazione ex art. 350 c.p.c.: v. MONTELEONE, Il processo civile in mano al governo 186 © Copyright - Giuffrè Editore dello che tagli orizzontalmente l’impugnazione per nullità e, per tutta coerenza, la revocazione del lodo arbitrale rituale finisce per sottendere una sua qualificazione come regola. Il che, vista la pluralità di ragioni che militano a favore di una sua lettura in termini di eccezione, è tutto da verificare, come subito si avrà modo di evidenziare. 3. Un primo fattore che fa stonare l’ipotesi di una operatività del filtro in relazione all’impugnazione per nullità potrebbe essere ravvisato nella natura di siffatto giudizio. Difatti, pur trattandosi di un rimedio (ordinario), l’impugnazione per nullità del lodo rituale viene solitamente ricostruita dalla dottrina alla stregua di un’impugnazione di secondo grado a natura mista, per mutuare i suoi tratti essenziali in parte dal ricorso per cassazione ed in parte dall’appello (14). Peraltro, la novella del 2006, pur avendo chiarito che al lodo arbitrale rituale compete, indipendentemente dall’exequatur, la medesima efficacia imperativa che pertiene alla sentenza del giudice statale, non è stata comunque decisiva per sopire il dibattito relativo alla natura del rimedio de quo (15). Tuttavia — ed è questa una notazione condivisa in dottrina — l’attribuzione all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale di una funzione affine all’appello civile (16), se per un verso finisce col trascurare le dei tecnici, in www.judicium.it, 2; BALENA, Le novità relative all’appello, cit., 374. Sul grado di approfondimento che il giudice deve riservare al materiale di causa per valutare la ragionevole probabilità di accoglimento del gravame, v. MAFFEIS, L’esame, molto approfondito dell’appello, ai fini del filtro, in Il filtro dell’appello, a cura di MAFFEIS, RAINERI, MANIACI e TEDOLDI, Torino, 2013, spec. 3 ss. Peraltro, come si è prontamente fatto notare, il nuovo congegno processuale fa sì che la decisione dei gravami meritevoli di accoglimento venga posticipata rispetto a quelli egualmente ineccepibili in punto di rito, ma che non presentano identiche prospettive di accoglimento: v. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima « riforma urgente »: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it, § 3; PANZAROLA, Commento all’art. 348-bis c.p.c., in Commentario alle riforme del processo civile, cit., 631; R. POLI, Il nuovo giudizio di appello, cit., 133. (14) Essendo un’impugnazione sì a motivi limitati, ma che assomma in sé fase rescindente e fase rescissoria: v. per tutti PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile5, Napoli, rist. 2010, 773 s. V. inoltre CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi3, Padova, 2012, 528, per il quale l’analogia prevalente è con il ricorso per cassazione. In questo senso, in giurisprudenza, v. Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, in Foro it., Rep. 2007, voce Arbitrato n. 186; Cass. 3 febbraio 2006, n. 2444, id., Rep., 2006, voce cit., n. 183. (15) Benché, a seguito dell’introduzione dell’art. 824-bis c.p.c., avvenuta per l’appunto ad opera del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, non dovrebbero più residuare dubbi circa l’inquadramento di tale rimedio tra le impugnazioni processuali. Cfr. CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze, cit., 528; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005, I, 79 ss.; ID., Commento all’art. 828 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Padova, 2010, 454 s., testo e nota 1; MARINUCCI, L’impugnazione del lodo dopo la riforma, Milano, 2009, 4 ss., ove ulteriori indicazioni. (16) In realtà, su questo punto, la giurisprudenza non è costante. Vi sono, infatti, alcune pronunzie nelle quali la suprema Corte dà per scontato che debbano applicarsi le regole che governano il giudizio di secondo grado (cfr., ad es., fra le più recenti, Cass. 4 giugno 2012, n. 8919, in Foro it., Rep., 2012, voce Arbitrato n. 199; Cass. 1º marzo 2012, n. 3229, ibid., voce cit., 187 © Copyright - Giuffrè Editore differenze concretamente sussistenti tra i due rimedi (17), d’altro canto induce però a ritenere che a siffatto rimedio debbano egualmente applicarsi, ovviamente nei limiti della compatibilità, le regole proprie che governano il giudizio d’appello (18). Perciò, nell’attuale cornice normativa di riferimento, l’impugnazione per nullità del lodo rituale si configura come un rimedio processuale (19); e, in quanto tale, utilizzabile per censurare tanto gli errores in procedendo quanto gli errores in iudicando in iure laddove le parti lo abbiano previsto ex art. 829, comma 3, c.p.c. (20). Di talché, questo rimedio, pur non costituendo un comune appello avverso la pronunzia degli arbitri, essendo limitato all’accertamento dei vizi previsti dall’art. 829 c.p.c. dedotti con il mezzo di gravame (senza cioè rivalutare il merito della decisione), finisce per essere in qualche misura assimilabile ad un procedimento giurisdizionale nel quale, in difetto di indicazioni contrarie, non possono che valere le norme processuali ordinarie, ossia le norme dettate per le impugnazioni delle sentenze (21). Il tutto, però, come più su accennato, rigorosamente nei limiti della compatibilità con la disciplina specifica delle impugnazioni (22); formula, questa, che il legislatore non a caso utilizza quando due situazioni, pur avendo la medesima natura, mostrano delle differenze che orientano selettivamente il novero delle disposizioni in concreto applicabili (23). L’impugnazione per nullità del lodo, infatti, mima ma non è un n. 200; Cass. 23 aprile 2008, n. 10576, id., Rep., 2008, voce cit., n. 117; Cass. 10 agosto 2007, n. 17631, id., Rep., 2007, voce cit., n. 190), cui se ne affiancano altre che mettono invece in evidenza le differenze esistenti fra i due rimedi (v., ad es., Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, cit.; Cass. 3 febbraio 2006, n. 2444, cit.; Cass. 13 aprile 2005, n. 7702, in questa Rivista, 2006, 309, con nota di G. SANTAGADA, Sulla legittimazione degli arbitri a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza di annullamento del lodo tardivo; Cass. 1º luglio 2004, n. 12031, in Giust. civ., 2005, I, 3098; Cass. 22 febbraio 2002, n. 2566, in questa Rivista, 2002, con nota di BOCCIOLETTI, Note sul divieto d’impugnazione immediata del lodo parziale). (17) Differenze che, al contrario, paiono tutt’altro che trascurabili: basti pensare al fatto che l’impugnazione per nullità è a critica vincolata; che non ammette la censurabilità dei giudizi di fatto; e che esclude una pronunzia sostitutiva allorquando l’annullamento del lodo sia avvenuto per le ipotesi di cui ai nn. 1), 2), 3), 4) e 10) dell’art. 829, comma 1, c.p.c. Sul punto v. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile2, Bari, 2012, III, 344. (18) V. per tutti PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, II, 180, per il quale l’impugnazione per nullità, pur non essendo un giudizio di secondo grado, è comunque soggetta alle norme che regolano lo svolgimento del giudizio dinanzi al giudice adito e, quindi, indirettamente almeno ad alcune delle regole che disciplinano l’appello. (19) Sulla correlazione tra la natura dell’impugnazione per nullità e gli effetti che codesto rimedio tende a rimuovere, v. diffusamente BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, spec. 212 ss. (20) Cfr. BALENA, Istituzioni, cit., III, 343 s. (21) V., tra le più recenti, Cass. 1º marzo 2012, n. 3229, in Foro it., Rep. 2012, voce Arbitrato n. 200. (22) Oppure con « le residue peculiarità del lodo »: così BALENA, Istituzioni, cit., III, 342. Nello stesso senso v. BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 580; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 197 s. (23) V. per tutti IRTI, Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, I, 559 ss. 188 © Copyright - Giuffrè Editore appello (24): ed il fatto che nel corso del tempo sia stata progressivamente assimilata ad un vero e proprio gravame, funge da fattore che spiega l’estensione alla stessa di alcune disposizioni codicistiche previste in materia di impugnazioni (ad es. artt. 329, comma 2 (25); 331-335 (26); 336, comma 1 (27); 344 (28)), senza che questo possa però esimere l’interprete dallo scandagliare le ragioni che fondano la sua esclusione dalla nuova modalità decisoria del giudizio di secondo grado. Ragioni nelle quali si radica per l’appunto quel distinguo che giustifica l’esclusione del blocco delle nuove norme previste per l’appello. 4. Difatti, l’elemento che mostra come proprio non regga l’idea di ritenere il sistema del filtro applicabile all’impugnazione per nullità è dato, come si è più su accennato, dalla deroga che quel sistema ha apportato all’effetto sostitutivo tipico del giudizio di secondo grado. Si è altresì ricordato che tale deroga si giustifica con la volontà di consentire la reviviscenza della pronunzia di primo grado, che a seguito del nuovo modulo decisorio diviene perciò (direttamente) censurabile in sede di legittimità. Stando così le cose, ove si ammettesse l’operare del filtro all’impugnazione per nullità, si dovrebbe pure riconoscere che in caso di inammissibilità dichiarata ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. la conseguenza diretta ed immediata sarebbe quella di dovere considerare il lodo ricorribile per cassazione. Il che appare però, almeno allo stato attuale delle cose, un assurdo sistematico per almeno due ordini di motivi. Il primo. Di là da ogni querelle relativa alla natura del lodo, quel che in questa sede preme rilevare è che l’impugnazione per nullità si configura comun(24) (25) V., ad es., Cass. 8 giugno 2007, n. 13511, in Foro it., Rep., 2008, voce Arbitrato n. 116. V. BALENA, Istituzioni, cit., III, 342; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, 136 s. (26) Così già ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile2, Napoli, 1947, III, 574, per il quale in sede di impugnazione per nullità devono applicarsi anche altre disposizioni del c.p.c., come l’art. 328, sulla decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defunta, e l’art. 338, sugli effetti dell’estinzione del giudizio d’impugnazione. (27) V. LUISO, Le impugnazioni dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 29; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze, cit., 540; RUFFINI, La divisibilità del lodo arbitrale, Padova, 1993, 283 ss.; BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, 132 ss. Viceversa, per ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato2, a cura di CARPI, Bologna, 2007, 792, non v’è la necessità di ricorrere ad una applicazione analogica dell’art. 336, comma 1, c.p.c., in quanto l’art. 830, comma 1, contiene già « una regolamentazione specifica dell’effetto espansivo interno della sentenza emessa a seguito dell’impugnativa per nullità, salva[ndo] dalla scure della nullità le parti « scindibili » da quella annullata ». (28) V. FAZZALARI, in BRIGUGLIO - FAZZALARI - MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994, 200 s.; PUNZI, Disegno sistematico, cit., II, 179; RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, in questa Rivista, 1995, 647 ss.; ID., Intervento principale del terzo nel giudizio di impugnazione per nullità della sentenza arbitrale, in Giur. merito, 1992, 317 ss. 189 © Copyright - Giuffrè Editore que alla stregua di una impugnazione a critica vincolata, atteso che può essere esperita solo se il vizio da cui risulta inficiato il lodo rientra nella griglia dei vizi predisposta dall’art. 829 c.p.c. In altre e più semplici parole, l’art. 829 c.p.c. formalizza una verifica di legittimità del lodo: l’estensione a questo rimedio del meccanismo del filtro potrebbe perciò avere un senso se e nella misura in cui la nuova disciplina coniasse un diverso modulo decisorio, specificamente vocato a sindacare la giustezza in sé del lodo arbitrale rituale, al pari di come è per l’appello. Se non fosse che il disposto dell’art. 829 c.p.c. obbedisce ad una ratio che impinge su motivi di legittimità, rendendo, rebus sic stantibus, del tutto incoerente una siffatta opzione interpretativa. Per conseguenza, nell’attuale contesto, il filtro avrebbe tutto il sapore di un doppione, carente di una qualsiasi giustificazione razionale, giacché la nuova veste impugnatoria postula uno schema ancipite avente ad oggetto, paradossalmente, dei vizi che, almeno in larga parte, risulterebbero sovrapponibili gli uni agli altri. Naturalmente, si può argomentare anche in senso contrario: ma, per farlo, come si è puntualmente osservato, occorre muovere dalla premessa di un art. 348-bis c.p.c. che rende l’impugnazione per nullità del lodo per certi versi « più agevolmente “filtrabile” » rispetto ad altri gravami (29). Il che, come si è subito fatto notare, implica, però, il conio di una singolare impugnazione del lodo dinanzi alla Cassazione; soluzione, questa, come subito si avrà modo di vedere, che non è certo fuor di luogo bollare come « extravagante » (30). A ciò si aggiunga, quale elemento a fortiori, che mentre l’appello è un gravame avente natura sostitutiva, l’impugnazione per nullità del lodo è, viceversa, un rimedio di tipo prevalentemente rescindente (31). Di talché, si ha un’alterità tale tra i due rimedi da non consentire estensioni di sorta della nuova disciplina all’impugnazione per nullità. Il secondo. A questo punto, siccome tout se tient, logica allora vuole — come appena anticipato — che si ammetta pure una impugnazione del lodo dinanzi alla suprema Corte per motivi di legittimità; motivi, come si è appena visto, che risulterebbero peraltro solo in parte sovrapponibili a quelli contemplati dall’art. 829 c.p.c. Come si è scritto, è questa infatti una via di fuga obbligata, in quanto prevista dall’art. 348-ter c.p.c. ogniqualvolta il gravame venga dichiarato inammissibile a norma dell’art. 348-bis c.p.c. (32). (29) Così BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581. (30) BRIGUGLIO, op. loc. cit. (31) Per una completa disamina delle ipotesi nelle quali al giudizio rescindente non segue quello rescissorio, v. LUISO, Diritto processuale civile6, V, Milano, 2011, 203 s. (32) V. ancora BRIGUGLIO, op. cit., 581. 190 © Copyright - Giuffrè Editore Se, però, come la dottrina non ha mancato di avvertire in relazione all’appello, la soluzione di una revivivescenza del provvedimento impugnato al fine di consentirne la sua ricorribilità è del tutto inedita nel panorama processuale italiano (33), a fortiori l’idea di un controllo di legittimità del lodo in Cassazione appare, almeno nella realtà odierna, una tecnica difficilmente praticabile. Oltretutto, l’effetto collaterale (ma non per questo certamente secondario) che discenderebbe da siffatta scelta sarebbe quello di un aggravio del carico di lavoro della suprema Corte (34): incremento che quest’ultima, con ogni probabilità, sarebbe ben poco propensa ad assecondare. Peraltro, in questo ideale catalogo di perplessità al decampare applicativo dei nuovi artt. 348-bis ss. c.p.c., segue l’ulteriore rilievo che l’estensione della suddetta disciplina non potrebbe fermarsi all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale rituale, ma dovrebbe estendersi anche al caso della revocazione (straordinaria (35)) del lodo di cui all’art. 831 c.p.c. Questa infatti, si celebra pur sempre dinanzi alla corte d’appello (competente per l’impugnazione per nullità) (36) e, non foss’altro per una esigenza di coerenza logica, avrebbe ben poco senso sostenere che il giudizio di revocazione vada esente dal nuovo modulo decisorio. Sennonché, proprio per l’alto tasso di vischiosità già insito nel sistema del filtro, sarebbe consigliabile un self-restraint dell’interprete, onde evitare il moltiplicarsi di inutili concettualismi. 5. Residua l’argomento storico, considerando che nel vigore del c.p.c. del 1865 il ricorso per cassazione contro le sentenze degli arbitri affette da errori di diritto era espressamente riconosciuto (art. 31 c.p.c. 1865) (37). Orbene, il fatto è che la previsione generale dell’art. 31 conosceva tre eccezioni: due di queste — la rinunzia espressa delle parti ad avvalersi del ricorso e l’autorizzazione conferita agli arbitri a pronunziare in qualità di amichevoli compositori — non possono attualmente avere un peso specifico dirimente, mentre la terza — nel caso la sentenza degli arbitri fosse impugnata con l’azione di nullità, ossia con il rimedio speciale stabilito (33) V. per tutti MONTELEONE, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, cit., 2. (34) Così, a proposito dell’appello civile, v. PROTO PISANI, I processi a cognizione piena in Italia dal 1940 al 2012, in Foro it., 2012, V, 338; CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, cit., § 3; DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima « riforma urgente », cit., § 2.1.; IMPAGNATIELLO, Pessime nuove in tema di appello, cit., 753. Con specifico riferimento all’impugnazione per nullità del lodo rituale v. BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581. (35) Sui dubbi di costituzionalità derivanti dall’esclusione della revocazione ordinaria dall’impugnazione per nullità del lodo rituale v., da ultimo, BOCCAGNA, Commento all’art. 831 c.p.c., in La nuova disciplina, cit., 476. (36) V. per tutti LUISO, Diritto processuale, cit., 205. (37) V. per tutti MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano5, rist., I, Torino, 1931, 728 ss. 191 © Copyright - Giuffrè Editore dall’art. 32 c.p.c. 1865 (38) — questo peso, viceversa, lo ha e non sembra neppure trascurabile. Per effetto dell’attuale art. 829 c.p.c. si è infatti assistito ad una sorta di « generalizzazione » del rimedio dell’impugnazione per nullità (39), che senz’altro costituisce oggi lo strumento « specificamente previsto per il lodo » (40). Perciò, riesumare la ricorribilità in Cassazione del lodo per il tramite del sistema del filtro avrebbe il significato di contravvenire ad una regola logica prima ancora che giuridica, in quanto oggetto del giudizio di legittimità diverrebbe per l’appunto il lodo e non già la sentenza della corte d’appello senza, peraltro, quell’omisso medio che il codice previgente contemplava (41). 6. Per il vero, neanche sembra tanto probante il riferimento all’ordinanza ambrosiana in epigrafe, a quanto consta l’unica al momento ad essersi espressa circa l’applicabilità degli artt. 348-bis ss. c.p.c. all’impugnazione del lodo arbitrale rituale. Per quanto, infatti, la genericità dell’enunciato della corte meneghina, secondo cui i plurimi profili d’inammissibilità dell’impugnazione dedotti dall’appellato « paiono impedire che la questione sia definita nel merito con ordinanza » (42), si presti a dire che, almeno in linea generale, non è stata esclusa in radice una possibile applicazione del filtro anche in materia arbitrale (43), l’impressione è che l’ordinanza nel suo tenore generale non debba venire enfatizzata. Non viene infatti affermata una generale applicabilità o, al contrario, un generico esonero del sistema del filtro all’impugnazione per nullità, (38) A tenore dell’art. 32 c.p.c. 1865, la sentenza arbitrale, nonostante qualunque rinunzia, poteva essere impugnata per nullità nelle seguenti ipotesi: 1) qualora fosse stata pronunziata su un compromesso nullo o scaduto, oppure fuori dei limiti del compromesso; 2) laddove non avesse pronunziato sopra tutti gli oggetti del compromesso o contenesse disposizioni contraddittorie; 3) quando fosse stata pronunziata da chi non poteva essere nominato arbitro, oppure da arbitri non autorizzati a decidere in assenza di altri; 4) per inosservanza delle prescrizioni imposte dagli artt. 21 e 22, relativi ai requisiti di forma-contenuto della sentenza arbitrale; 5) per inosservanza nel procedimento delle forme richieste nei giudizi a pena di nullità, ogniqualvolta queste forme fossero state specificamente indicate nell’atto di compromesso. (39) Per una puntuale disamina storica, anche diacronica, dell’azione di nullità contemplata dal c.p.c. 1865, v. amplius BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità, cit., I, 7 ss. (40) Così LUISO, Diritto processuale, cit., 205. (41) Attualmente, infatti, la giurisprudenza di legittimità esclude un diretto apprezzamento della pronuncia arbitrale in Cassazione, potendo esaminare (soltanto) la decisione emessa nel giudizio di impugnazione: v., ad es., Cass. 12 agosto 2010, n. 18644, in Giust. civ., 2010, I, 2762; Cass. 8 giugno 2007, n. 13511, in Foro it., Rep. 2007, voce Arbitrato n. 119; Cass. 3 maggio 2007, n. 10209, ibid., voce cit., n. 202; Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, ibid., voce cit., n. 36; Cass. 6 novembre 2006, n. 23670, ibid., voce Contratti pubblici n. 1496. (42) Così App. Milano, 12 marzo 2013 (ord.). (43) V. AUTELITANO - UCCELLA, Impugnazione di lodo arbitrale e filtro in appello, in Il filtro dell’appello, cit., 88. 192 © Copyright - Giuffrè Editore quanto piuttosto una soluzione che, in assenza di una formale esclusione di questa possibilità, senz’altro privilegia il profilo pragmatico (44). Quel che infatti l’ordinanza in oggetto statuisce è che le varie ragioni di (tradizionale) inammissibilità dell’impugnazione per nullità del lodo agiscono, vuoi da un punto di vista formale vuoi da un punto di vista letterale, da fattore ostativo a che l’impugnazione venga definita nel merito con ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. Ma è questa una considerazione che ben si attaglia alla disciplina del filtro in generale, cioè quella inerente all’appello, e a fortiori non può non valere per l’impugnazione per nullità: le eventuali cause d’inammissibilità che inficiano il gravame valgono senz’altro ad escludere l’operare del nuovo art. 348-bis. Peraltro, il tenore letterale della disposizione è univoco al riguardo, laddove statuisce che il nuovo modulo decisorio si applica solo allorquando il giudicante non debba procedere (con sentenza) ad una declaratoria delle ipotesi ordinarie di inammissibilità e dunque quando il gravame abbia superato, in concreto, tutti i consueti controlli di rito (45). Nulla di più. Da qui, però, a dedurne che la disciplina del filtro possa estendersi de plano all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale rituale il passo è lungo e, probabilmente, neanche auspicabile (46). 7. Come si può notare, la sequenza delle obiezioni all’estensione del regime del filtro all’impugnazione per nullità del lodo rituale è fitta e ciascuna sembra avere una valenza sistematica spiccata e, perciò, difficilmente superabile. A questo punto, il nodo sul quale interrogarsi diviene però un altro. Per quale ragione, pur in difetto di una espressa previsione in tal senso, si dovrebbe estendere in via interpretativa il nuovo modulo decisorio all’impugnazione per nullità del lodo arbitrale rituale? Detto in altro modo, di là da quelle che potrebbero essere le utilità (poche) e le disutilità (tante) sottese ad una siffatta estensione, c’è un qualche dato testuale che potrebbe fungere da addentellato formale? Ebbene, per quanto prima facie possa sembrare una disposizione spuria, il pensiero corre senz’altro a quella contenuta nell’art. 48, comma 1, d.l. 83/2012, ove è statuito che, nei giudizi arbitrali per la risoluzione di controversie relative a lavori pubblici, forniture o servizi, « il lodo è impugnabile davanti alla Corte d’appello, oltre che per motivi di nullità, anche per la violazione delle regole di diritto relative al merito della (44) Così anche AUTELITANO - UCCELLA, op. loc. cit. (45) V. supra, § 2. (46) Secondo BRIGUGLIO, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni, cit., 581, ove si propenda per la soluzione opposta, una trasposizione del controllo di legittimità del lodo in Cassazione, con le dovute limitazioni, potrebbe giovare all’arbitrato, senza comportare un sensibile aggravio del carico di lavoro di quest’ultima. 193 © Copyright - Giuffrè Editore controversia ». Ovviamente il senso della norma, con la quale si è voluto generalizzare un regime processuale che già era previsto per le controversie derivanti dalla sola esecuzione dei su citati contratti (art. 5 d. lgs. 20 marzo 2010, n. 53), non andrebbe enfatizzato. Pur tuttavia, è innegabile che l’art. 48 d.l. 83/2012 ha finito con l’ampliare il raggio delle ipotesi per le quali è consentito rivolgersi alla corte d’appello, coniando, accanto al catalogo dei motivi di nullità, una seconda classe di casi — le regole di diritto relative al merito della controversia — per così dire a compasso allargato (47). E, in quest’ottica, la disposizione, nella misura in cui attribuisce al giudice ad quem la possibilità di un riesame a maglie più larghe rispetto a quella tipica dei lodi rituali, potrebbe indurre a pensare che non sia del tutto peregrino estendere il modulo decisorio di cui all’art. 348-bis c.p.c. all’impugnazione di questa categoria di lodi. Quale sia l’effetto, però, è evidente: in un ventaglio di situazioni si finirebbe per assistere ad una sostanziale equivalenza tra sentenza di primo grado e lodo, che poi non potrebbe non determinare a sua volta una parità di trattamento anche sul regime processuale della relativa impugnazione. Dopo di che, viene facile domandarsi: per quale ragione, trattandosi di provvedimenti pressoché isoformi, il filtro dovrebbe valere per la prima ma non anche per il secondo? Indubbiamente, pensare che il sistema del filtro possa operare per l’impugnazione del lodo sui contratti aventi ad oggetto lavori pubblici, non invece ad es. per quella avverso un lodo reso dall’arbitro unico in tema di validità delle delibere assembleari di società di capitali (48) è — a dir poco — sorprendente. Certo, la possibilità di estendere il sindacato sugli errori di giudizio commessi dagli arbitri non è di per sé sinonimo di una perfetta assimilazione dell’impugnazione per (47) Difatti, ai sensi dell’art. 48, comma 2, d.l. 83/2012, « la disposizione di cui al comma 1 si applica anche ai giudizi arbitrali per i quali non sia scaduto il termine per l’impugnazione davanti alla Corte d’appello alla data di entrata in vigore del presente decreto ». Quindi, una applicazione immediata della disposizione, che finisce con il rendere l’interrogativo sollevato nel testo ancora più stringente. (48) Proprio come nel caso sottoposto all’attenzione della corte d’appello di Milano. Peraltro, in materia di arbitrato societario, l’art. 36 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 — da considerarsi tutt’ora vigente in quanto lex specialis, destinata perciò a sopravvivere pur a seguito dell’abrogazione del rito societario ad opera della l. 69/2009 (v. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile2, Torino, 2012, II, 183) — dispone che l’impugnativa delle delibere assembleari può essere sempre devoluta alla cognizione degli arbitri, i quali, indipendentemente da ogni contraria pattuizione delle parti, devono decidere secondo diritto e con lodo impugnabile anche per violazione di legge. In argomento v. BOCCAGNA, Commento all’art. 36, in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO E RADICATI DI BROZOLO, Padova, 2010, 418 ss.; MAJORANO, Commento all’art. 36, in I procedimenti in materia commerciale, a cura di COSTANTINO, Padova, 2005, 803 s.; AUTELITANO - UCCELLA, Impugnazione di lodo arbitrale, cit., 90, per i quali disposizioni come quella dell’art. 36 d. lgs. 5/2003, volte a garantire un’ampia e completa possibilità di riesame da parte del giudice dell’impugnazione, risulterebbero oggi incompatibili con una decisione di merito sommaria. 194 © Copyright - Giuffrè Editore nullità all’appello (49). Però, il dubbio che l’art. 48, comma 1, si presti, in qualche maniera, ad intorbidire la questione, persiste. E tuttavia, a quale funzione può mai rispondere una estensione all’impugnazione per nullità del lodo quel che già per l’appello ordinario sembra scaturito dalla Zauberkiste del legislatore? L’impressione, allora, è che, allo stato, il quesito rimanga insolubile. Sarà probabilmente la prassi ad orientare per il futuro il ragionamento dell’interprete. SIMONA CAPORUSSO (49) Soprattutto se tiene conto del fatto che l’impugnazione per nullità per violazione delle regole di diritto relative al merito è sempre ammessa nelle controversie di lavoro ex art. 409 c.p.c. (art. 829, comma 4, n. 1) c.p.c.). 195 © Copyright - Giuffrè Editore © Copyright - Giuffrè Editore GIURISPRUDENZA ARBITRALE I) ITALIANA Lodi annotati COLLEGIO ARBITRALE (Aponte Pres., Di Nanni, Rascio), nella controversia tra Società X s.n.c. e Comune Y; lodo reso in Napoli il 20 giugno 2013. Arbitrato - Parziale versamento anticipato spese prevedibili - Versamento anticipato del compenso del segretario del Collegio oltre il termine fissato dagli arbitri - Conseguenze. Il versamento anticipato ad opera delle parti entro il termine fissato dagli arbitri dei soli esborsi a carico del segretario del Collegio arbitrale per far fronte - in esecuzione del suo incarico - a pagamenti per bolli, notifiche etc. deve considerarsi parzialmente satisfattivo delle spese « di segreteria » e non può, quindi, ritenersi idoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori prescritti dall’art. 816-septies c.p.c. Costituisce un dato pacifico nella giurisprudenza di legittimità, che nell’ambito delle cosiddette « spese prevedibili » rientra anche la remunerazione al segretario per la prestazione della sua attività, ritenuta necessaria dagli arbitri per la realizzazione del processo arbitrale. Nessun effetto sanante può essere conferito al tardivo pagamento effettuato dalle parti a titolo di acconto sul compenso del segretario del collegio arbitrale, non essendo i contraddittori più vincolati alla convenzione di arbitrato dal dì della scadenza del termine fissato dagli arbitri per il versamento anticipato delle spese prevedibili. MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 14. Il presente procedimento è stato introdotto (...) dalla s.n.c. X con rito arbitrale, in applicazione della clausola compromissoria contenuta nell’art. 8 del contratto stipulato in data 03/07/2006 (rep. 963/1) — ai sensi dell’art. 45-bis del codice della navigazione — tra il Comune Y e la Società X s.n.c. Clausola il cui testo così di seguito recita: « ogni controversia che potesse insorgere tra le parti in ordine alla esecuzione, interpretazione, validità ed efficacia del presente contratto, dovrà essere risolta mediante giudizio arbitrale, affidato a tre arbitri di cui i primi due nominati da ciascuna delle parti ed il terzo con funzioni di Presidente, scelto di comune consenso entro il termine di 15 giorni dalla notifica dell’atto di ingresso arbitrale che una parte farà all’altra; in mancanza o in caso di disaccordo, il terzo arbitro verrà designato dal Presidente del Tribunale di 197 © Copyright - Giuffrè Editore Ischia. Gli Arbitri decideranno la controversia in maniera irrituale e secondo equità, con pronuncia inappellabile ». 15. L’ufficio Arbitrale si è ritualmente costituito secondo le regole previste nella citata clausola compromissoria, ponendo in essere attività procedimentali in formale osservanza delle disposizioni di cui agli art. 813, 816, 816-bis 1º e 3º comma c.p.c. come dianzi riferito. Gli Arbitri — nominati rispettivamente dalla Società attrice e dal convenuto Comune nelle persone del Prof. Avv. Carlo Di Nanni e del Prof. Avv. Nicola Rascio, nonché dal Presidente del Tribunale di Napoli nella persona dell’Avv. Aldo Aponte — accettate le rispettive nomine in data 26/02/2013, si sono contestualmente costituiti in Collegio procedendo quindi: alla designazione della sede arbitrale; all’impianto dell’ufficio di segreteria; all’assegnazione dei termini per lo svolgimento del contraddittorio; alla fissazione dell’udienza di comparizione delle parti ai fini del tentativo di bonario componimento della lite e, in caso di esito negativo di tale esperimento, per la trattazione e per l’eventuale discussione orale. 16. Il procedimento si è svolto nel rispetto delle regole sancite dalla legge processuale. Va ricordato che l’art. 816-bis attribuisce agli arbitri il potere di regolare lo svolgimento della procedura nella quale sono chiamati a decidere, laddove — come nella fattispecie di che trattasi — le parti non abbiano stabilito nella convenzione arbitrale o anteriormente all’inizio del giudizio, con atto scritto, le regole del procedimento. L’unico limite a tale potestà consiste — come categoricamente sancito nell’ultima parte del comma 1 di detto articolo — che, in ogni caso, deve essere garantito l’esercizio del contraddittorio, con concessione alle parti di ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa. Nel caso concreto, tali criteri sono stati puntualmente osservati dal Collegio che, subito dopo essersi costituito, con le modalità innanzi indicate, con suoi provvedimenti dispose — ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio tra le parti — regole da seguire nel corso della procedura con cadenze temporali, tali da consentire alle parti stesse: di esporre i rispettivi assunti; di conoscere le prove documentali prodotte da ciascuna di esse; di presentare memorie, repliche e di venire a cognizione, in tempo utile, di istanze e richieste avverse. 17. Pregiudizialmente richiamando quanto evidenziato nel verbale di causa del 30 aprile 2013, in merito agli adempimenti richiesti alle parti per acconti sui compensi agli Arbitri e sulle spese da affrontare nel corso del giudizio — così come contemplato nelle citate ordinanze nn. 1 e 2, non compiutamente eseguite dai contraddittori entro i termini ivi fissati — il Collegio deve farsi carico di decidere sulla proseguibilità o meno del presente processo, rispondendo su tale punto, anche alle eccezioni formulate in proposito dal convenuto. 17.1. Occorre premettere che non può trovare accoglimento la richiesta della Società attrice (avanzata, per la prima volta, nel corso della udienza del 30/04/2013), e finalizzata ad ottenere proroga di ulteriori giorni quindici del termine — già scaduto il precedente 22 aprile — per consentirle di provvedere al pagamento dell’acconto per la remunerazione dell’opera professionale affidata dagli Arbitri all’Avv. Farina, in qualità di Segretario. Resta preclusa, ben vero, ai sensi dell’art. 154 c.p.c., la invocata prorogabilità, subordinata al mancato decorso del termine ordinatorio, già precedentemente fissato. 198 © Copyright - Giuffrè Editore Presupposto di prorogabilità carente nella specie, poiché l’istanza in parola seguì di otto giorni la intervenuta scadenza della data già precedentemente fissata dal Collegio con l’ordinanza n. 2 del 27/03/2013. Né vale comunque opporre (come esplicitato dalla difesa della Società nella stessa udienza del 30/04) che quella data del 22 aprile non integrava « un termine decadenziale per ottemperare al pagamento dei compensi e delle spese di segreteria ». Costituisce regola del nostro sistema giuridico il principio secondo cui alla decadenza legale resti affiancata (oltre quella negoziale) la decadenza giudiziale che, in casi determinati, la legge consente al giudice di stabilire. Evenienza quest’ultima sussistente nella fattispecie in esame, caratterizzata da fissazione di un previsto termine da parte degli Arbitri con l’ordinanza n. 2, ove venne fatto specifico richiamo agli effetti che, in caso di inottemperanza ai prescritti adempimenti ivi indicati, si sarebbero verificati ai sensi dell’art. 816-septies c.p.c. (in linea con il disposto del 1º comma dell’art. 152 c.p.c.). 18. Tanto premesso, passando ad esaminare le articolate difese dei partecipi al giudizio sulla prospettata questione di proseguibilità del processo, devesi rilevare che nel dibattito, seguito alla concessione di termini per la redazione di memorie difensive e di replica sull’argomento — ai fini dell’osservanza delle regole sul contraddittorio — le parti sono pervenute a discordanti conclusioni. 18.1. Nella memoria depositata il 13/05/2013, i legali del Comune (...) sostengono: che, non essendo stato adempiuto — entro i tempi fissati nelle ordinanze collegiali — all’integrale pagamento degli acconti per spese, si sarebbe verificata — al di là di ogni ragionevole dubbio — l’estinzione dell’accordo compromissorio che aveva dato origine al procedimento arbitrale di che trattasi. A tal riguardo non dovendo trascurarsi di considerare che, in base a precise regole di diritto, la remunerazione per il lavoro commissionato al Segretario (« per la redazione degli atti e dei verbali del giudizio, per la custodia degli stessi, per le comunicazioni e notificazioni alle parti ed ai loro procuratori, per le attestazioni relative al deposito ed allo scambio delle produzioni etc. ») integra a tutti gli effetti « spesa », non identificabile né rientrante nei « compensi e negli onorari spettanti agli arbitri ». 19. La difesa della Società (...), di contro, nella memoria depositata il successivo 15/05/2013, oppone: — che il convenuto Comune — sollecitato con l’ordinanza n. 2, al pagamento degli acconti per compensi e spese, come specificato nell’ordinanza n. 1 — era rimasto del tutto inadempiente, onde la propria cliente aveva provveduto a pagare, entro il termine assegnato dagli Arbitri, le spese vive di segreteria nella misura di euro 500,00, così come testualmente indicato nei provvedimenti collegiali; — che tale cifra per « spese » di segreteria trovava riscontro nell’enunciato degli Arbitri, riferibile — secondo il suo testuale tenore — ai soli esborsi incombenti sul Segretario per « notifiche, bolli sull’emanando lodo in duplice copia etc. »; — che sulla base di una tale interpretazione letterale del provvedimento, doveva considerarsi superato ogni problema in discussione sulla proseguibilità del procedimento, non potendo annoverarsi tra le « spese », indicate nel dettato della richiamata norma processuale sulla disciplina del procedimento arbitrale, anche i « compensi » spettanti ai componenti dell’ufficio Arbitrale, compreso il Segretario nominato dagli Arbitri; 199 © Copyright - Giuffrè Editore — che, ad ogni buon fine, nel medesimo giorno del deposito di quella memoria (15/05/2013), la Società (...) aveva accreditato sul conto corrente del Segretario Avv. Farina altro bonifico per un ammontare di euro 2.116,80 a titolo di anticipo « compenso » (in conformità delle menzionate ordinanze arbitrali) con i correlativi oneri fiscali; — che essa Società si riservava di corrispondere ulteriori versamenti per anticipazioni sui compensi agli Arbitri (così come, poi, eseguito in data 30/05/2013 a mezzo assegni circolari). 20. Prendendo atto di quanto precede, il Collegio, come sopra costituito, a maggioranza dei suoi componenti — stante il dissenso dell’Arbitro Prof. Avv. Carlo Di Nanni, come di seguito motivato con nota aggiunta al presente Lodo — ritiene di non poter condividere il ragionamento dianzi sviluppato dalla società attrice. Nella trattazione che segue sull’argomento in esame deve intendersi perciò sottintesa la citata locuzione « maggioritaria » in aggiunta alla voce « Collegio », correlata alla composizione numerica di quest’Organo decidente. Ciò posto, mette conto rilevare, sulla scorta delle precedenti esposizioni, che entro il citato termine stabilito da questi Arbitri nella ordinanza n. 1, la parte istante — per difficoltà economiche rappresentate dal suo difensore con lettera raccomandata (a mano) del 27/03/2013 — non potette ottemperare (neppure parzialmente) alla corresponsione degli acconti sui compensi e sulle spese di segreteria (comprensive queste ultime — come di seguito sarà precisato — della remunerazione al Segretario). Cosicché questi Arbitri, in pari data 27 marzo, con ordinanza n. 2, stante la regola della solidarietà delle parti sull’obbligo al pagamento delle spese e degli onorari ex art. 814 c.p.c., posero a carico del convenuto Comune di far fronte all’adempimento in discorso, in sostituzione della controparte. All’uopo provvedendo con l’ordinanza n. 2: con fissazione di un nuovo termine al 22/04/2013 per assolvere a tale incombente; subordinando la prosecuzione del processo alla puntuale osservanza di tale prescrizione, « fermo restando l’effetto automatico previsto dall’ultimo comma dell’art. 816-septies c.p.c. » qualora (...) non si fosse « ottemperato a detta anticipazione da alcuna di dette parti ». Alla scadenza fissata, con quest’ultimo provvedimento, il Comune Y è rimasto inadempiente, mentre la Società X si è limitata a corrispondere all’Avv. Farina la somma di euro 500,00, prevista sia pur esplicitamente nell’ordinanza n. 1 per « spese », palesemente però riferibili — ad avviso di questo Collegio — ai soli esborsi a carico di esso Segretario per far fronte — in esecuzione del suo incarico — a pagamenti per bolli, notifiche etc. (come riconosciuto dalla stessa parte istante nella citata memoria difensiva del 15 maggio). Tale adempimento della società attrice deve considerarsi parzialmente satisfattivo delle spese « di segreteria » e non può, quindi, ritenersi idoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori prescritti dalla ripetuta norma processuale in tema di arbitrato. Costituisce un dato pacifico nella giurisprudenza di legittimità, che nell’ambito delle cosiddette « spese prevedibili » rientra anche la remunerazione al Segretario per la prestazione della sua attività, ritenuta necessaria dagli Arbitri per la realizzazione del processo arbitrale. È questo un principio ripetutamente affermato dalla Suprema Corte (Cass. nn. 14182/2004; 10141/2004), secondo cui nell’arbitrato convenzionale il Segretario 200 © Copyright - Giuffrè Editore del Collegio Arbitrale è direttamente nominato dai componenti del Collegio medesimo, in ragione di una loro soggettiva valutazione sulla necessità di avvalersi di un ausiliario per l’espletamento delle attività certificativa, esecutiva ed organizzativa, funzionalmente collegate con quelle del Collegio; sicché è con costoro che si instaura un rapporto di prestazione d’opera intellettuale del tutto estraneo alle parti litiganti. In quest’ottica, il compenso dovuto al Segretario deve essere inquadrato quale passività correlata allo svolgimento dell’attività degli arbitri e va riconosciuto quale esborso di « spesa » affrontato o da affrontare dai componenti del Collegio per il funzionamento dell’Ufficio Arbitrale e, quindi, per lo svolgimento del processo. Una spesa, quindi, inquadrabile tra quelle « prevedibili », discendenti dal lavoro di segreteria svolto in forza di un rapporto di prestazione d’opera estraneo alle parti litiganti. Talché gli unici soggetti contrattualmente obbligati alla remunerazione nei confronti del Segretario sono gli Arbitri, con esposizione di « spesa » a loro carico, che va anticipata o rimborsata dalle parti in causa e che va, quindi, riconosciuta tra quelle di cui all’enunciato dettato dell’art. 816-septies c.p.c. Principi questi di diritto e di giurisprudenza di legittimità, che non potevano essere ignorati dalle parti in causa, assistite da legali di indiscussa competenza professionale e di cospicua esperienza giudiziaria. Nella fattispecie in esame, pertanto, non avendo esse parti adempiuto — entro il termine del 22/04/2013, fissato con l’ordinanza n. 2 — al pagamento della prevista spesa per la remunerazione dell’opera commessa al Segretario Avv. Farina, è da quella data che deve intendersi divenuto improseguibile (ai sensi del citato art. 816-septies) il procedimento arbitrale, non essendo più vincolate le medesime alla convenzione trasfusa nella clausola compromissoria richiamata nell’atto di accesso alla controversia, oggetto del presente procedimento. Né alcun effetto sanante può essere conferito al tardivo pagamento effettuato il 13/05/2013 dalla Società X all’Avv. Farina a titolo di acconto sul suo compenso, non essendo più vincolati essi contraddittori alla convenzione di arbitrato dal dì della scadenza del detto termine al 22/04/2013. (Omissis). Alcune riflessioni in merito all’art. 816-septies c.p.c. 1. La decisione in esame è particolarmente importante perché rappresenta una delle prime pronunce in ordine alla portata, operatività ed effetti dell’art. 816-septies c.p.c. Sebbene rimasto in ombra nella decisione che si annota, attenta a dichiarare l’improcedibilità del giudizio per il venire meno del vincolo compromissorio delle parti, si ritiene di dover fin da subito evidenziare come la norma, inserita nel codice di rito dalla novella del 2006, si ponga l’obiettivo di risolvere due differenti questioni di ordine pratico: quella della legittimità della rinuncia degli arbitri all’incarico, nonché quella dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, perseguita attraverso 201 © Copyright - Giuffrè Editore la previsione di una nuova ipotesi di cessazione dell’efficacia dell’accordo arbitrale (1). Segnatamente, l’art. 816-septies c.p.c. è strutturato in modo tale da consentire l’effetto finale ovvero la liberazione delle parti dal vincolo compromissorio al verificarsi di determinati presupposti quali, in particolare, la subordinazione ad opera degli arbitri della prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle « spese prevedibili », la loro determinazione « salvo diverso accordo » del « la misura dell’anticipazione a carico di ciascuna parte », nonché l’assenza, nel caso in cui la parte onerata non presti « l’anticipazione richiestale », dell’operare della solidarietà dell’altra parte diretta ad « anticipare la totalità delle spese ». Vediamo dunque innanzitutto se, nel caso presentatosi all’attenzione della decisione del Collegio arbitrale che si annota, si siano verificati gli indicati presupposti di applicazione della disposizione in oggetto (2). 2. In estrema sintesi, la questione di fatto si articola nei seguenti termini. In applicazione della clausola compromissoria contenuta nel contratto intercorso tra un Comune ed una Società in nome collettivo si costituiva, in seguito all’accettazione della nomina, Collegio arbitrale che, dopo aver nominato il segretario, provvedeva a pronunciare un’ordinanza per ottenere l’anticipazione delle spese nonché dei compensi di arbitri e segretario. Il mancato totale versamento nel termine stabilito dagli arbitri dei compensi e delle spese di procedura induceva il Collegio ad affrontare la questione relativa alla prosecuzione del giudizio. Più in particolare, il Tribunale arbitrale, dopo aver pronunciato una prima ordinanza con cui disponeva la totalità delle anticipazioni a carico della Società, stante il suo inadempimento, ne pronunciava una seconda con cui, fissando il termine di adempimento, segnalava alle parti le conseguenze previste dall’art. 816-septies c.p.c. discendenti dalla mancata erogazione anticipata delle spese prevedibili. Allo scadere del termine previsto dagli arbitri nella seconda ordinanza, la Società versava la somma corrispondente ai soli esborsi a carico del segretario, ma non al suo compenso, per il cui pagamento chiedeva, alla successiva udienza, ulteriore termine, provvedendo al saldo in un momento successivo ancorché anteriore alla pronuncia del lodo. Da quanto esposto appare chiaramente la presenza nel caso in esame dei presupposti di applicazione dell’art. 816-septies c.p.c. Ed infatti, men(1) Invero, l’inefficacia della convenzione di arbitrato, ex art. 816-septies, ultimo comma, c.p.c., come espressamente statuito, riguarda non già le ulteriori eventuali liti future, quanto piuttosto solamente la singola controversia che ha dato origine al procedimento in cui il versamento delle anticipazioni non è stato regolarmente eseguito. (2) Tale evento è stato messo in dubbio dalla nota di dissenso aggiunta al lodo che si commenta, pronunciato non già all’unanimità, ma a maggioranza dei membri del Collegio. 202 © Copyright - Giuffrè Editore tre il richiamo nella seconda ordinanza alla disposizione di cui all’art. 816-septies c.p.c. è indubbiamente idoneo a manifestare la volontà degli arbitri di subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili, la loro ripartizione tra le parti è correttamente prevista nella prima ordinanza del Collegio. Se dalla previsione normativa della possibilità di diverso accordo dei compromittenti, della determinazione, ad opera degli arbitri, della misura dell’anticipazione, gravante su ciascuna parte, nonché della facoltà concessa alla controparte di chi non ha prestato l’anticipazione richiesta di pagare la totalità delle spese prevedibili, si può, infatti, chiaramente evincere come questa, a differenza dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento del compenso degli arbitri, non sostanzi un’obbligazione solidale, quanto piuttosto un’obbligazione parziaria, ciò non significa, però, anche che la distribuzione pro-quota debba avvenire in parti uguali, potendo gli arbitri — come nel caso in esame — anche disporre a carico di uno solo dei contendenti l’intero versamento delle anticipazioni. Ciò, purché ovviamente sia rispettato il criterio di ragionevolezza (3), non necessariamente assente — come invece, pur in assenza di specifici rilievi evidenziato nella nota di dissenso aggiunta al lodo — nel provvisorio accollo in capo ad uno solo dei contendenti della totalità delle anticipazioni. Inoltre, il versamento ad opera delle parti, nel termine indicato dagli arbitri, dei soli esborsi a carico del segretario veniva considerato dal Collegio parzialmente satisfattivo delle spese processuali e conseguentemente inidoneo a paralizzare gli effetti sanzionatori dell’art. 816-septies c.p.c., in quanto l’attuazione dell’arbitrato era di fatto resa impossibile dal mancato funzionamento della solidarietà tra le parti in relazione al versamento anticipato dei costi della giustizia privata. 3. Il Collegio ha, dunque, nel caso in esame affrontato la questione, centrale nell’interpretazione dell’art. 816-septies c.p.c., relativa all’individuazione dell’oggetto dell’anticipazione, posto che la norma espressamente si riferisce alle « spese prevedibili ». Nel vigore della previgente disciplina, pur in assenza di una disposizione analoga all’art. 816-septies c.p.c., se solida era la prassi (4) secondo (3) Sulla ragionevolezza della distribuzione tra le parti del peso delle anticipazioni v. MALAVASI, Il procedimento arbitrale, a cura di BONELLI EREDE PAPPALARDO, Milano, 2012, 100. (4) V.: BRIGUGLIO-FAZZALARI-MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario, Milano, 1994, 80; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 403; VERDE, Diritto dell’arbitrato rituale, in AA.VV. a cura di VERDE, Torino, 1997, 90. Da ultimo ricordano questa prassi COMASTRI-MOTTO, Sub art. 816-septies c.p.c., in AA. VV. La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura MENCHINI, Padova, 2010, 273. Contra LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano, 1995, 62, secondo cui gli arbitri avrebbero diritto al rimborso delle spese, così come al compenso, solo al momento della 203 © Copyright - Giuffrè Editore cui — salvo diversa volontà o usi contrari — agli arbitri spettasse il diritto di ottenere l’anticipazione delle spese il cui mancato versamento si riteneva rappresentare, ex art. 813, comma 2, c.p.c., un giustificato motivo di rinuncia all’incarico, diverse erano le opinioni espresse in ordine alla legittimità della loro rinuncia nel caso di mancato versamento anticipato degli onorari (5). Sebbene l’art. 816-septies c.p.c., riprendendo l’orientamento maggioritario della dottrina ed invalso nella prassi, abbia fugato ogni dubbio in ordine alla legittimità della rinuncia degli arbitri che non abbiano, nel termine indicato, ottenuto il versamento anticipato delle spese da sostenere per l’esecuzione dell’incarico conferitogli (6), nulla ha invece espressamente statuito in merito alla legittimità della loro rinuncia nel caso in cui le parti si siano astenute dal pagargli anticipatamente gli onorari (7). In proposito si sono, pertanto, consolidati diversi orientamenti (8). Ed infatti, accanto a quanti (9) ritengono che gli arbitri possano subordinare conclusione dell’attività. Per la legittimità della rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di mancata corresponsione degli acconti v. in giurisprudenza: Cass., 21 marzo 1969, n. 899, in Foro it. Rep., 1969, voce Arbitrato, 93. (5) Invero alla base dei diversi orientamenti della dottrina in ordine alla legittima rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di mancato versamento anticipato degli onorari si poneva il diverso inquadramento del contratto parti-arbitri in termini di contratto di mandato o locatio operis. Più in particolare, se una parte della dottrina (RIVA SANSEVERINO, Sub art. 2234 c.c., in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1963, 238; CAMPAGNOLA, Il compenso degli arbitri nella più recente giurisprudenza: qualificazione giuridica e quantificazione, in questa Rivista, 1993, 550 ss., spec. 555; ORLANDI, Diritti degli arbitri, in Commentario Arbitrato, a cura di F. CARPI, Bologna, 2000, 193), inquadrando il contratto parti-arbitri nel contratto di mandato, mentre, ex art. 1719 c.c., non aveva nessun problema a riconoscere legittima la rinuncia degli arbitri all’incarico nel caso di mancata anticipazione delle spese vive, ponendosi, invece, qualche dubbio solo in relazione all’omesso versamento anticipato dell’onorario, una diversa opinione riteneva di contro legittima la rinuncia anche in tale ultima ipotesi. Così BERNARDINI, Il diritto dell’arbitrato, Bari, 1998, 65, nonché in giurisprudenza Cass., 21 marzo 1969, n. 899, che, inquadrando il contratto parti-arbitri nella locatio operis, riconoscevano, stante l’applicazione dell’art. 2234 c.c., al prestatore d’opera il diritto di ottenere l’anticipazione non solo delle spese occorrenti al compimento dell’opera, ma anche della corresponsione, secondo gli usi, degli acconti sul compenso, ammettendone, in caso d’inadempimento del cliente, la legittima rinuncia all’incarico. (6) Occorre peraltro sottolineare come il problema in ordine alla legittimità della rinuncia degli arbitri per mancata anticipazione del compenso si presentasse solo in riferimento all’arbitrato ad hoc, dal momento che la quasi totalità dei regolamenti delle Camere arbitrali, già prima della novella del 2006, prevedeva, a maggior garanzia del diritto di credito dell’Istituzione e degli arbitri, che il mancato deposito, ad opera delle parti, delle somme richieste come anticipo rappresentasse un giusto motivo di sospensione del termine per la pronuncia del lodo ovvero d’interruzione della stessa procedura arbitrale. (7) In verità nella relazione illustrativa alla riforma del codice di rito in materia di arbitrato si è espressamente previsto come la disposizione di cui all’art. 816-septies c.p.c. si riferisca solo all’anticipazione delle spese e non anche degli onorari spettanti agli arbitri. (8) L’incertezza circa il contenuto delle anticipazioni costituisce, invero, una problematica di notevole rilievo, posto che l’assenza di un giustificato motivo di rinuncia all’incarico espone gli arbitri all’azione di responsabilità di cui all’art. 813-ter c.p.c. (9) In tal senso v.: VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, II ed., Torino, 2006, 83; RAMPAZZI, Commento breve al codice di procedura civile, a cura di CARPI-TARUFFO, Padova, 2006, 2204; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2013, 94. 204 © Copyright - Giuffrè Editore la prosecuzione del procedimento non solo al versamento delle spese, ma anche dell’acconto sugli onorari, si è posta l’opinione di chi (10), non avendo gli arbitri, per la determinazione degli onorari, alcun potere di vincolare i contendenti (11), posto che, ex art. 814, comma 2, c.p.c., la loro liquidazione « non è vincolante per le parti se esse non l’accettano », allo stesso modo ritiene che questi non avrebbero il potere di rinunciare all’incarico in seguito all’omesso versamento delle anticipazioni sui compensi unilateralmente predisposti (12). In altri e più precisi termini, secondo l’interpretazione da ultimo proposta la distinzione tra spese e compensi sarebbe rinvenibile nello stesso art. 814 c.p.c. che, riconoscendo agli arbitri il diritto al rimborso delle spese ed al pagamento dell’onorario per l’opera prestata, implicitamente contrapporrebbe la remunerazione della prestazione intellettuale, vincolante per le parti solo ove accettata, al rimborso delle spese materialmente sostenute, a cui queste sarebbero sempre, a prescindere da esplicita accettazione, obbligate. Di tale ultimo avviso sembra essere anche la decisione in commento che, sebbene nulla esprima in ordine al rapporto parti-arbitri, ricollega, invece, le conseguenze sanzionatorie dell’art. 816-septies, ultimo comma, c.p.c. alla mancata corresponsione delle sole spese prevedibili necessarie al funzionamento dell’arbitrato, ricomprendendo tra queste però anche il compenso spettante al segretario del Collegio (13). 4. Più in particolare nella decisione che si annota si specifica che nell’arbitrato ad hoc il segretario, lungi dall’essere normativamente previsto (14), origina da una prassi applicativa che ne ammette la nomina (10) Cfr. LUISO, in LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006, 295; G.F. RICCI, Anticipazione delle spese, in Arbitrato Commentario, diretto da CARPI, Bologna, 2007, 464. (11) In tal senso v. per tutti Cass., 23 giugno 2008, n. 17034, in Giust. civ. Mass., 2008, 6, 1011, secondo cui « l’art. 814 c.p.c. configura un meccanismo contrattuale di determinazione del compenso spettante agli arbitri, scandito dall’autoliquidazione, effettuata dagli stessi arbitri, avente valore di proposta contrattuale che, per vincolare le parti del giudizio, deve da queste essere accettata e che non è revocabile liberamente dai proponenti, ma rimane ferma sinché, in difetto di accettazione, ad essa succeda la determinazione giudiziale su richiesta degli stessi arbitri, onde acquisire un titolo (non contrattuale ma) giurisdizionale e quindi imperativo ed esecutivo ». (12) Invero, ci si chiede se la presenza di un accordo sui compensi tra arbitri e parti potrebbe comportare un superamento dell’indicata ricostruzione, posto che, in tal caso, le parti sarebbero contrattualmente vincolate al pagamento del compenso che, liquidato in via pattizia, non dovrebbe essere oggetto di successiva liquidazione da parte del Presidente del Tribunale. (13) Nel ricomprendere tra le spese del procedimento arbitrale anche le spettanze del segretario si esprimono anche i regolamenti arbitrali. V., per tutti, l’art. 31, comma 2, Regolamento di arbitrato A.I.A. 2012, secondo cui « la Corte, tenendo conto della Tariffa dei servizi arbitrali e di ogni altro elemento utile, determina gli onorari e le spese degli arbitri (incluse le spettanze dell’eventuale segretario), nonché i diritti amministrativi dell’A.I.A., come pure l’onorario e le spese del consulente nominato dal tribunale arbitrale e infine, ove del caso, le spese legali ragionevolmente sostenute dalle parti per la loro difesa ». (14) La figura del segretario del Collegio è espressamente regolata solo agli artt. 241 e ss. D. lgs. n. 163/2006 e successive modifiche, nonché negli arbitrati amministrati sia interni che 205 © Copyright - Giuffrè Editore direttamente ad opera degli arbitri in ragione della loro soggettiva valutazione circa la necessità di avvalersi di un ausiliario per l’espletamento di attività funzionali al procedimento quali, in particolare, la tenuta del fascicolo d’ufficio, la verbalizzazione delle udienze, la trasmissione delle ordinanze rese fuori udienza, la raccolta e l’archiviazione dei documenti, l’estrazione di copie etc. Da ciò, a detta del Collegio, discenderebbe che il rapporto, instaurato tra arbitri e segretario, del tutto estraneo ai litiganti, integra un onere su di loro gravante solo indirettamente, dal momento che gli unici soggetti contrattualmente obbligati alla sua remunerazione sono gli arbitri (15). In quest’ottica il compenso dovuto al segretario non può che essere inquadrato tra le passività correlate allo svolgimento dell’arbitrato, ovvero tra gli esborsi di spesa che i componenti il Collegio devono affrontare per il regolare funzionamento dell’ufficio arbitrale. La ricostruzione proposta nel lodo in commento è, peraltro, avvalorata anche dalla giurisprudenza che, nel respingere la domanda di liquidazione dell’onorario ex art. 814 c.p.c., proposta dal segretario (16), statuisce la necessità che a liquidarne il compenso siano gli arbitri (17), con l’avvertimento che, ove tale liquidazione non sia accettata dalle parti, occorra, alla stregua di ogni altra spesa relativa al procedimento, su domanda degli arbitri, chiederne la congruità al Presidente del Tribunale (18). In altri e più precisi termini, è sempre a causa dell’assenza di un rapporto giuridico contrattuale tra segretario e parti che la giurisprudenza nega al segretario la legittimazione attiva alla liquidazione del compenso di cui all’art. 814 c.p.c., consentendo tale richiesta, congiuntamente a quella di liquidazione del loro onorario, solo agli arbitri (19). Con ciò, internazionali. V. in tale ultimo senso: ALLOTTI, Spese di arbitrato, in BRIGUGLIO-SALVANESCHI, Regolamento di arbitrato della Camera di Commercio internazionale, Milano, 2005, 524. (15) Cass., 28 luglio 2004, n. 14182, in Mass. Giur. it., 2004. (16) Sul punto v. Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, in Corr. Giur., 2004, 874 e in Foro it., 2005, I, 782, con nt. CAPONI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di procedimento di liquidazione delle spese e dell’onorario arbitrali (art. 814 c.p.c.), secondo cui « l’importo della spesa del segretario, costituente esborso affrontato per il funzionamento del Collegio (e riconoscibile nei limiti in cui esso sia ritenuto necessario), può essere liquidato soltanto agli arbitri, e non direttamente al segretario ». Conforme Trib. Roma, 12 settembre 1995, in Giur. Merito, 1996, 682. (17) Cass., 22 aprile 1994, n. 3839, in questa Rivista, 1995, 75, con nt. BRIGUGLIO, Questioni varie in tema di liquidazione delle spettanza arbitrali.; Cass., 8 settembre 2004, n. 18058, in questa Rivista, 2005, 83 con nt. AULETTA, La tutela giurisdizionale dei diritti del segretario dell’arbitrato. (18) Cfr. Cass., 27 maggio 1984, n. 4722, in Arch. Giur. oo. pp., 1987, 1325; Cass., 22 aprile 1994, n. 3839, cit., 75. (19) Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, cit. e in dottrina BIANCHI, L’arbitrato nelle controversie societarie, Padova, 2001, 233. 206 © Copyright - Giuffrè Editore annoverando chiaramente il compenso spettante al segretario tra le spese di funzionamento dell’arbitrato (20). Nessun legittimo dubbio può, invece, sollevare quell’orientamento giurisprudenziale che, in considerazione del fatto che sono gli arbitri a scegliere di nominare il segretario, condiziona l’accoglimento della domanda, nonché la determinazione dell’entità del compenso, alla valutazione discrezionale del Presidente del Tribunale circa l’effettiva utilità dell’opera prestata dallo stesso ausiliario per il funzionamento dell’arbitrato (21). Ed infatti, la congruità delle spese di segreteria, alla stregua di ogni altra spesa sostenuta per il funzionamento del giudizio privato, quando non accettata dalle parti, deve essere avallata dal Presidente del Tribunale. Concludendo, se unitamente all’onorario vengono liquidate anche le spese necessarie al funzionamento dell’arbitrato ovvero le spese debitamente documentate, sostenute dagli arbitri per l’adempimento della loro prestazione, nel cui ambito deve essere ricompreso anche l’eventuale compenso dovuto al segretario (22), la mancata anticipazione di quest’ultimo, entro il termine indicato, non potrà che sostanziare la presenza di uno dei presupposti di applicazione dell’art. 816-septies c.p.c. (23), ovvero del mancato versamento delle parti delle « spese prevedibili ». (20) Cass. 8 settembre 2004 n. 18061, in Giust. civ. Mass., 2004, 9, afferma infatti che: « la quantificazione del compenso spettante al segretario del Collegio arbitrale è riservata all’apprezzamento del giudice del merito che provvede alla liquidazione del compenso degli arbitri ai sensi dell’art. 814, c.p.c., in quanto è riferibile alle spese che le parti sono tenute a rimborsare agli arbitri ». (21) Cass., 26 maggio 2004, n. 10141, cit.; Cass., 27 maggio 1987, n. 4722, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc. 5; Cass., 22 aprile 1994, n. 3839, cit. (22) Analogo discorso si ritiene debba essere fatto nel caso in cui gli arbitri si avvalgano dell’opera di un consulente tecnico d’ufficio, anche se sul punto la giurisprudenza non è univoca. Se, infatti, a volte si afferma (Trib. Roma, 2 maggio 1995, in Gius, 1995, 1415) che la richiesta di pagamento delle spese e dell’onorario, inviata dal CTU alle parti dell’arbitrato, implica l’accettazione per facta concludentia della liquidazione dell’onorario operata dagli arbitri, facendo in tal modo intendere che la spesa per il consulente tecnico è trattata alla stregua di ogni altra spesa del procedimento arbitrale e che, quindi, tra parti e consulente non si instauri alcun diretto rapporto contrattuale, altre volte, rilevando che il « professionista ha diritto al pagamento delle spese e dell’onorario verso le parti del giudizio » (Trib. Roma, 2 maggio 1995, cit.), si fa, di contro, intendere che tra parti e consulente si instauri un rapporto contrattuale diretto. Partendo da tale ultima considerazione la dottrina (ORLANDI, Diritti degli arbitri, in Arbitrato Commentario, a cura di CARPI, cit., 197) ha, poi, avanzato l’idea che il professionista possa agire direttamente nei confronti delle parti, sia utilizzando il procedimento per ingiunzione sia instaurando un processo ordinario di cognizione. Invero, VIGORITI, L’onorario degli arbitri, in questa Rivista, 2005, 189 ss., spec. 192, nega al CTU la possibilità di utilizzare lo speciale procedimento di cui all’art. 814 c.p.c., anche se la sua nomina sia avvenuta con il consenso delle parti o addirittura su loro esplicita richiesta. La prassi, sia nell’arbitrato amministrato che in quello ad hoc, imponendo alle parti la liquidazione anticipata delle spese di consulenza (ORLANDI, Diritti degli arbitri, in Arbitrato Commentario, a cura di CARPI, cit.,196-197), ha semplificato e superato ogni dubbio in ordine all’inquadramento di tali spese tra le passività correlate allo svolgimento dell’arbitrato. (23) Di diverso avviso appare l’arbitro dissenziente secondo cui il Collegio arbitrale indicando, nell’ordinanza anticipi, come spese solo gli esborsi di segreteria, avrebbe configurato 207 © Copyright - Giuffrè Editore Definito, dunque, il contenuto dell’anticipazione, non resta a tal punto che capire se il suo adempimento tardivo, avvenuto nel caso specie in un momento successivo alla scadenza del termine indicato dagli arbitri ancorché anteriore alla pronuncia del lodo, possa in qualche modo produrre effetti sananti. Per fare ciò, occorre però partire da una spiegazione teorica del particolare rapporto tra accordo compromissorio e contratto parti-arbitri introdotto dalla disposizione in oggetto, capace di fugare ogni dubbio in ordine alla qualificazione del versamento anticipato delle spese prevedibili in termini di presupposto processuale necessario al proseguimento del giudizio ovvero di giusto motivo di rinuncia all’incarico arbitrale cui consegue l’effetto estintivo, ex lege, del patto compromissorio. 5. Come a tutti noto alla base del fenomeno arbitrale si pongono due fattispecie contrattuali: la convenzione di arbitrato stipulata dalle parti per la risoluzione del conflitto e il contratto che le parti stipulano con gli arbitri incaricandoli, dietro pagamento di un corrispettivo, della pronuncia del lodo (24). Tali contratti, sebbene distinti ed autonomi, sono invero tendenzialmente tra loro collegati nel senso che solo le vicende del contratto principale (convenzione di arbitrato) sono idonee ad incidere il contratto accessorio (contratto parti-arbitri), mentre non è possibile il contrario. Il collegamento contrattuale esistente tra convenzione di arbitrato e contratto parti-arbitri è, in altre parole, normalmente un collegamento unilaterale (25), dal momento che solo le vicende relative al mancato perfezionamento della convenzione di arbitrato o il suo successivo venire meno sono idonee a travolgere il contratto parti-arbitri, ma non viceversa. Ed infatti, anche nel particolare caso in cui l’attribuzione del giudizio ad un certo arbitro, direttamente nominato nella convenzione di arbitrato, sia elemento essenziale della deroga alla giurisdizione statale, per cui, l’impossibilità di attribuire a quella data persona la decisione della controversia, comporti la caducazione, non solo del contratto parti-arbitri, ma anche dello stesso accordo sulla scelta della via arbitrale (26), non si è di fronte ad un collegamento negoziale bilaterale tale per cui le vicende il compenso del segretario alla stregua di quello degli arbitri quale pagamento a carico delle parti. (24) La netta separazione, cronologica oltre che sostanziale, tra i due contratti, è stata messa in luce, tra i primi, da CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo italiano, Roma, 1951, 70. (25) Due negozi si dicono collegati quando mantengono la propria individualità e il fatto dell’unione in un unico atto, diretta alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, non tocca la disciplina dei singoli negozi. Sul collegamento negoziale v. in dottrina: SCHIZZEROTTO, Il collegamento negoziale, Napoli, 1983; DEL PRATO, I regolamenti privati, Milano, 1988. (26) V. BOVE, L’estinzione del patto compromissorio, in questa Rivista, 1998, 681, spec. 697. 208 © Copyright - Giuffrè Editore estintive del negozio accessorio influiscano su quelle del negozio principale (27). In tale ultima situazione si è, invero, semplicemente di fronte alla mancata realizzazione di un fatto determinante la validità e l’efficacia tanto dell’accordo arbitrale che del contratto parti-arbitri. Coerentemente a quanto sinora indicato, ovvero, all’inidoneità delle vicende relative al contratto parti-arbitri d’incidere sulla scelta della via arbitrale si è espressa quell’idea della dottrina (28) secondo cui, nel caso in esame, l’estinzione dell’accordo compromissorio non conseguirebbe al puro e semplice fatto-inadempimento delle parti del versamento degli anticipi nel termine fissato dagli arbitri, quanto piuttosto al verificarsi di altra fattispecie estintiva dello stesso accordo compromissorio (29). Ciò chiaramente avverrebbe, non già in presenza di ogni mancato versamento delle anticipazioni, ma solo quando da tale fatto possa desumersi « o che le parti abbiano voluto concordemente liberarsi da quella scelta oppure che ci si trovi in una situazione che rende ormai impossibile il raggiungimento dello scopo del patto compromissorio » (30). Situazione quest’ultima — secondo l’opinione in parola — legata alla sopravvenuta impossibilità di uno dei contendenti, a causa di un peggioramento della propria situazione economica, di sostenere i costi del giudizio arbitrale. Il mancato accollo ad opera della controparte della totalità delle anticipazioni comporterebbe, dunque, nella situazione da ultimo descritta, la riviviscenza della giustizia statale per l’impossibilità di raggiungere lo scopo dell’accordo arbitrale. Se tale ricostruzione è perfettamente rispettosa del principio, proprio delle codificazioni moderne, dell’autonomia ed indipendenza della scelta della via arbitrale dalle vicende relative il rapporto parti-arbitri, secondo chi scrive, questa non rappresenterebbe, però, in considerazione soprattutto del suo scopo, la volontà del legislatore del 2006 (31). Quest’ultimo, con il prevedere come conseguenza del mancato ver(27) Il reciproco collegamento tra due negozi crea in tutti i casi una specie di dipendenza tale che le vicende del rapporto principale si riflettono necessariamente anche sul rapporto accessorio. Accanto, però, al collegamento negoziale unilaterale, si pone il collegamento bilaterale, per il quale il brocardo simul stabunt, simul cadent perde ogni rilievo. Per un’analisi delle diverse forme di collegamento, sia per ciò che concerne la struttura sia per quanto riguarda gli effetti, v. MESSINEO, Contratto collegato, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 52 ss.; ORLANDO, CASCIO - ARGIROFFI, Contratti misti e contratti collegati, in Enc. Treccani, IX, Roma, 1988, 1 s.; DI SABATO, Unità e pluralità di negozi (contributo al collegamento negoziale), in Riv. Dir. Civ. 1959, I, 428. (28) BOVE, La giustizia privata, cit., 65 ss. (29) Più in generale sull’analisi delle diverse ipotesi di estinzione della convenzione di arbitrato v. BOVE , L’estinzione del patto compromissorio, cit., 681. (30) Sono parole di BOVE, La giustizia privata, cit., 66. (31) Occorre peraltro sottolineare come nel caso in esame anche l’accoglimento della tesi da ultimo riportata non sposti i termini della questione. E difatti, è, nel lodo, espressamente indicato come la Società abbia, con lettera raccomandata recapitata a mani al Collegio dal suo legale, rappresentato la presenza di difficoltà economiche tali da impedirgli il versamento, anche solo parziale, non solo degli acconti relativi ai compensi degli arbitri, ma anche delle spese della procedura. 209 © Copyright - Giuffrè Editore samento delle anticipazioni nel termine indicato dagli arbitri l’inoperatività della convenzione di arbitrato, ne avrebbe, invece, voluto introdurre nell’ordinamento una nuova peculiare ipotesi di cessazione dell’efficacia che, indipendente dalla causa del ricorso alla giustizia privata, sarebbe, invece, legata alle vicende estintive del contratto parti-arbitri. Ed infatti, diversamente, non avrebbe ancorato lo scioglimento del vincolo compromissorio delle parti alla volontà degli arbitri di subordinare il procedimento al versamento anticipato delle spese del giudizio. Se il legislatore, in altri e più precisi termini, in deroga a quello che normalmente sembra essere il legame esistente tra convenzione di arbitrato e contratto parti-arbitri, ha voluto introdurre nel sistema un’ipotesi in cui le vicende relative al rapporto tra giudici e contendenti si estendano allo stesso accordo compromissorio, il mancato versamento degli anticipi, lungi dal costituire una sorta di presupposto processuale necessario alla prosecuzione dell’arbitrato, non può che sostanziare il motivo legittimante la rinuncia degli arbitri all’incarico. Rinuncia a cui consegue, con l’obiettivo ad un tempo di sanzionare il comportamento dei contendenti e di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, automaticamente, ex lege, la cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato (32). 6. Scopo della disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 816septies c.p.c. è, infatti, consentire alle parti di agire di fronte al giudice ordinario, senza che sia possibile, in detta sede, fondatamente eccepire la presenza di una convenzione arbitrale ostativa alla pronuncia di merito. In altri e più precisi termini, la norma de quo tende a superare l’empasse che si potrebbe verificare nel caso in cui una parte, dopo aver bloccato lo svolgimento del procedimento arbitrale, proposta domanda di fronte al giudice ordinario, sollevi, in detta sede, l’exceptio compromissi, impedendo, con gravi conseguenze sull’effettività della tutela giurisdizionale, anche il processo di fronte al giudice ordinario (33). (32) Tale effetto della norma in parola veniva visto con sfavore dai primi commentatori della riforma: Cfr. BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 66; RUFFINI, Patto compromissorio, in questa Rivista, 2005, 711 ss., spec. 724; BERNARDINI, Ancora una riforma dell’arbitrato in Italia, in Dir. Comm. Int., 2006, 277. (33) Al fine di evitare la carenza dell’effettività della tutela giurisdizionale, pur in assenza di una disposizione normativa analoga all’art. 816-septies c.p.c., il BGH, con sentenza del 14 settembre 2000, n. 33, in NJW, 2000, 3720, ha dichiarato infondata l’eccezione di patto compromissorio proposta dal convenuto nel procedimento di fronte al giudice statale, quando a causa del mancato versamento degli anticipi non sia stata possibile la risoluzione della controversia ad opera dei giudici privati, essendo, in tal caso, il patto compromissorio divenuto inattuabile (die Schiedsvereinbarung sei undurchführbar). Più in particolare, secondo i giudici tedeschi, ciò si verificherebbe non già in presenza del puro e semplice mancato versamento degli anticipi, quanto piuttosto di una giusta causa ovvero dell’impossibilità oggettiva, ancorché sopravvenuta, di una o di entrambe le parti di sostenere i costi della giustizia privata. 210 © Copyright - Giuffrè Editore Se quello indicato è lo scopo sotteso alla previsione dell’estinzione del vincolo compromissorio, invero — come indicato — l’operatività dell’ultimo comma dell’art. 816-septies c.p.c. è, però, ancorata alla volontà degli arbitri di subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato dei costi del giudizio, posto che la stessa consegue alla loro legittima rinuncia all’incarico conferitogli. E difatti, come espresso anche in una delle prime pronunce sul tema (34), l’art. 816-septies c.p.c. è indubbiamente posto « a tutela degli arbitri e non delle parti », di guisa che, ove i primi non subordinino la prosecuzione del procedimento al versamento delle anticipazioni e, dunque, non rappresentino la volontà di esercitare il potere di rinunciare all’incarico conferito, il fatto-mancato versamento degli anticipi ad opera delle parti di per sé non produrrebbe alcun effetto estintivo della convenzione di arbitrato (35), conseguente solo alla rinuncia, per i motivi anzidetti, degli arbitri all’incarico. Se è, dunque, nella libera disponibilità degli arbitri subordinare la prosecuzione del giudizio al versamento anticipato delle spese prevedibili entro un determinato termine, il mancato verificarsi dell’evento comporta, invece, l’automatica cessazione dell’efficacia, per rinuncia, del contratto parti-arbitri, che, a sua volta produce l’estinzione, ex lege, della convenzione di arbitrato. Con ciò impedendo, dunque, efficacia sanante ad ogni tardivo adempimento. Pertanto, giustamente nel caso di specie il Collegio ha ritenuto il tardivo versamento da parte della Società dell’acconto sui compensi del segretario incapace di produrre effetti sananti. Ed infatti, l’estinzione del contratto parti-arbitri e, conseguentemente, dell’accordo compromissorio si era già verificata dal dì fissato dagli arbitri quale momento ultimo per il versamento anticipato delle spese prevedibili (36). 7. Quanto sin qui indicato conduce a disconoscere in capo agli (34) Collegio Arbitrale (lodo), 3 luglio 2008, in PQM, 2008, 3, 134. (35) Ed infatti, come affermato nella decisione citata nella nota precedente « diversamente argomentando si dovrebbe giungere all’aberrante conclusione che per una parte sarebbe sufficiente, per liberarsi delle conseguenze negative emerse nel corso del giudizio arbitrale, non provvedere al versamento delle somme indicate per svincolarsi dalla clausola arbitrale (...) ». (36) Non appare invece accoglibile la motivazione addotta nel lodo, secondo cui l’incapacità sanante dell’adempimento tardivo sarebbe stata conseguenza della perentorietà del termine di adempimento che, peraltro, come giustamente indicato nella nota di dissenso aggiunta al lodo, era già stato oggetto di proroga. Inoltre, chi scrive ritiene di nessun pregio anche l’idea espressa nella nota aggiunta al lodo che si annota secondo cui il mancato versamento, nel termine fissato, delle spese prevedibili configurerebbe « soltanto un ulteriore legittimo motivo di rinunzia ai sensi dell’art. 816-sexies co. 2 c.p.c. », tale che il suo realizzarsi non comporterebbe l’automatica rinuncia degli arbitri all’incarico, perché non tiene conto del fatto che al momento dell’adempimento la vincolatività sia del contratto parti-arbitri che della convenzione di arbitrato era già venuta meno. 211 © Copyright - Giuffrè Editore arbitri — anche in presenza dell’eccezione di parte (37) — il potere di statuire in ordine alla cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato. Più in particolare, se l’estinzione della convenzione di arbitrato sostanzia un effetto automatico, ex lege, della legittima rinuncia all’incarico, questa non potrà essere dichiarata dagli arbitri che dovranno limitarsi, piuttosto, a liberarsi dal vincolo assunto nei confronti delle parti con l’accettazione dell’incarico. Ed infatti, anche in presenza di eccezione di parte, mancherebbe negli arbitri il potere di pronunciarsi in ordine alla validità ed efficacia dell’accordo compromissorio a causa del venire meno, per il realizzarsi della loro rinuncia, dello stesso contratto parti-arbitri. Tale ricostruzione è coerente con lo scopo dell’ultimo comma dell’art. 816-septies c.p.c.: se questo si sostanzia nel garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, evitando ostacoli alla proposizione della domanda in sede ordinaria, allora può realizzarsi anche ove la dichiarazione della cessazione dell’efficacia della convenzione di arbitrato, con riguardo alla lite che ha dato origine al procedimento in cui le parti non hanno provveduto al versamento anticipato delle spese, sia effettuata in altro diverso procedimento. Segnatamente, si ritiene che questa possa essere dichiarata nell’ambito tanto del giudizio ordinario, in cui sia eccepita la presenza del patto compromissorio, che del nuovo procedimento arbitrale, instaurato sulla base dello stesso accordo estinto per il verificarsi, nel precedente giudizio arbitrale, dei presupposti di applicazione dell’art. 816-septies c.p.c. e sempre che sia stata proposta eccezione di parte relativa alla sua validità ed efficacia. Di diverso avviso sembra, invece, essere il Tribunale arbitrale nel caso in esame: questo non si è limitato a rinunciare all’incarico conferitogli, ma — in presenza dell’eccezione di parte circa il venire meno della propria potestas iudicandi — ha scelto di pronunciare un lodo dichiarativo dell’impossibilità di proseguire il giudizio, a causa del venire meno del vincolo delle parti « alla convenzione trasfusa nella clausola compromissoria richiamata nell’atto di accesso alla controversia, oggetto del procedimento » (38). Con ciò forse proponendo una diversa interpretazione della norma in oggetto ovvero interpretando il fatto-mancato versamento delle (37) È altresì chiaro come, in assenza di qualsivoglia eccezione di parte, manchi negli arbitri il potere di pronunciarsi in ordine alla validità ed efficacia dell’accordo compromissorio. Ciò in perfetta conformità all’espressa previsione dell’art. 817 c.p.c. che, lungi dal riconoscere ai giudici privati poteri ufficiosi in ordine alla propria potestas iudicandi, li subordina alla contestazione, nel corso del giudizio, ad opera delle parti della validità, del contenuto o dell’ampiezza della convenzione di arbitrato. (38) In ordine all’efficacia della statuizione relativa allo scioglimento del patto compromissorio per il giudice statale, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione di patto compromissorio, ovvero per l’arbitro successivamente adito sulla base di quella stessa convenzione di arbitrato, v., per tutti: LUISO, Rapporti tra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 773, spec. 785; BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 361 ss. 212 © Copyright - Giuffrè Editore anticipazioni nel termine come costituente esso stesso — indipendentemente cioè dal venire meno del rapporto parti-arbitri — causa di scioglimento del patto compromissorio. Conseguentemente, in quest’ottica, al verificarsi del fatto-mancato versamento degli anticipi si realizzerebbe in ogni caso, ovvero, anche in assenza della rinuncia degli arbitri all’incarico, il venir meno dell’accordo compromissorio. Una tale interpretazione appare, invero, a chi scrive, però, non solo contrastare con la lettera delle legge, posto che l’ultimo comma della disposizione in oggetto non può che essere letto alla luce del suo primo comma, ma anche essere immotivatamente diretta ad attribuire agli arbitri la facoltà di scegliere, al verificarsi del mancato versamento delle anticipazioni, di rinunciare o meno all’incarico assunto con l’accettazione della nomina. Ed infatti, solo ove si riconoscesse in capo agli arbitri, al realizzarsi dell’evento, la facoltà di non rinunciare all’incarico, questi potrebbero pronunciare — chiaramente in presenza dell’eccezione di parte — lodo dichiarativo dell’improseguibilità del giudizio per il venire meno del patto compromissorio. Tuttavia, l’attribuzione agli arbitri di tale facoltà non sarebbe priva di conseguenze, posto che alla pronuncia del lodo conseguirebbe la possibilità, non solo di ottenere la liquidazione presidenziale dei compensi di cui all’art. 814 c.p.c. (39), ma anche di rendere più difficoltosa l’eventuale azione di responsabilità proposta nei loro confronti. Ed infatti, se nel caso di rinuncia all’incarico questa può essere proposta senza ostacoli, ove gli arbitri abbiano pronunciato un lodo, la sua proposizione è, invece, ai sensi dell’art. 813-ter, comma 4, c.p.c., subordinata all’« accoglimento dell’impugnazione con sentenza passata in giudicato e per i motivi per cui l’impugnazione è stata proposta ». FRANCESCA TIZI (39) Presupposto per attivare lo speciale procedimento camerale, che consente agli arbitri di ottenere in tempi assai ridotti un provvedimento immediatamente esecutivo, è, infatti, secondo la giurisprudenza, la risoluzione della controversia con la pronuncia del lodo. Cfr.: Cass., 6 marzo 1998, n. 2494, in questa Rivista, 1998, 707; Cass., 17 ottobre 1996, n. 9074, in Giust. Civ., 1997, I, 964; Cass., 14 marzo 1996, n. 2124, in Riv. Trim. App., 1996, 706. Nel caso in cui il procedimento si concluda senza la pronuncia del lodo, gli arbitri possono, invece, servirsi del procedimento di cognizione ordinario. In altri termini, a questi non si nega il diritto al compenso per l’opera prestata, ma solo il diritto di servirsi dello speciale strumento tutela di cui all’art. 814, comma 2, c.p.c. Cfr.: Cass., 3 aprile 1995, n. 3907; Cass., 7 aprile 2006, n. 8222, in Giur. It. Mass., 2006; Cass., 31 marzo 2006, n. 7623, in Giur. it. Mass., 2006. Peraltro, secondo Cass., 26 agosto 2002, n. 12536, in Giust. Civ., 2003, 1039, con nt. RUFFINI, Equivoci sulla determinazione giudiziale delle spese e degli onorari degli arbitri che si siano limitati a risolvere questioni di competenza o di ammissibilità del procedimento arbitrale, anche nel caso di pronuncia di un lodo non definitivo su questione pregiudiziale, gli arbitri non potrebbero chiedere la liquidazione giudiziale dei compenso ex art. 814, comma 2, c.p.c. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che, là dove non sia pronunciato lodo definitivo, manchino al Presidente del Tribunale gli elementi necessari di valutazione per la determinazione del compenso spettante agli arbitri. 213 © Copyright - Giuffrè Editore © Copyright - Giuffrè Editore RASSEGNE E COMMENTI Arbitrato e accordi di ristrutturazione dei debiti: una convivenza possibile? (*) TOMASO GALLETTO 1. Premessa. L’oggetto della presente indagine riguarda la possibilità (e, in subordine, l’opportunità) del ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione delle controversie nell’ambito degli accordi finalizzati alla risoluzione negoziata delle crisi di impresa. Lo spunto per una riflessione sul tema nasce dalla constatazione che nella prassi gli accordi di ristrutturazione dei debiti che hanno interessato importanti imprese, anche quotate, non contengono convenzioni arbitrali per la risoluzione delle controversie che possano insorgere successivamente alla omologazione di tali accordi da parte della autorità giudiziaria. A fronte di tale constatazione è ragionevole interrogarsi sulle ragioni del mancato ricorso allo strumento arbitrale. Più precisamente il quesito riguarda l’individuazione di possibili ragioni di ontologica incompatibilità dello strumento arbitrale rispetto alla risoluzione negoziale della crisi di impresa e, nell’ipotesi in cui si possa ritenere insussistente tale incompatibilità, i motivi che inducono le parti a non derogare, in ipotesi di controversie, alla competenza dell’autorità giudiziaria. È invero opinione diffusa che lo strumento arbitrale, connotato da flessibilità e libertà di forme, rappresenta una alternativa maggiormente competitiva rispetto al processo proprio con riferimento alla risoluzione di controversie che riguardino l’attività della impresa. Il disfavore per l’opzione arbitrale nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti dell’impresa, desumibile dalla prassi che non prevede inserimento di convenzioni d’arbitrato in tali accordi, rappresenta quindi una anomalia le cui ragioni meritano di essere approfondite. (*) Testo della relazione, con l’aggiunta di un corredo essenziale di note, presentata al Seminario organizzato dalla Camera Arbitrale di Milano il 3 luglio 2013 sul tema « L’Arbitrato ai tempi della crisi. Giustizia arbitrale, crisi d’impresa, riduzione di costi e tempi delle controversie ». 215 © Copyright - Giuffrè Editore In questa prospettiva risulta necessario, sia pure nei limiti imposti dal presente lavoro, un inquadramento della natura e degli effetti degli accordi finalizzati alla risoluzione negoziata delle crisi d’impresa. 2. Autonomia privata e regolazione della insolvenza. In Italia, la disciplina dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale (e solo di questi) attraverso l’apertura di procedure concorsuali aventi natura conservativa (amministrazione controllata e concordato preventivo) o liquidatoria (fallimento e liquidazione coatta amministrativa, quest’ultima applicabile alle sole imprese indicate dalla legge in ragione degli interessi pubblicistici coinvolti) è rimasta saldamente ancorata, per oltre 60 anni, alle disposizioni del R.D. 267/1942 (la « legge fallimentare »). Nel corso dei decenni diverse autorevoli ipotesi di riforma della legge fallimentare si sono susseguite nel tentativo di adeguare la disciplina concorsuale alla mutata realtà economica e sociale, ma nessuna di esse è stata trasformata in un testo legislativo. Soltanto con riferimento alle grandi imprese è stata introdotta, nel 1979, una specifica procedura concorsuale (l’amministrazione straordinaria) che ha trovato peraltro una disciplina sistematica soltanto nel 1999 (con il D.lg.vo n. 270/99) con integrazioni con riferimento alle « grandissime imprese » nel 2004 (c.d. « Decreto Marzano ») e, in epoca più prossima, con la speciale disciplina della insolvenza del vettore aereo ALITALIA (Legge 27 ottobre 2008, n. 166). Per il resto si è mantenuto l’impianto della legge fallimentare del 1942, interpolato con le modificazioni conseguenti ai ripetuti pronunciamenti della Corte Costituzionale che hanno inciso in senso garantista, coerente con la Costituzione del 1948, sull’assetto autoritario dell’originario dettato normativo. Sulla spinta degli enti esponenziali dell’economia reale (banche, associazioni di imprese) il legislatore è stato costretto ad intervenire nella materia dell’insolvenza confrontandosi con il profondamente mutato contesto socioeconomico attuale, che non trovava più risposte efficienti nella legge fallimentare del 1942. Si è così giunti ad una prima riforma nel 2006 (con il D.lg.vo 5/2006) alla quale hanno fatto seguito una (limitata) correzione nel 2007, nonché successivi interventi — specialmente con riferimento alle questioni qui esaminate — nel 2010, nel 2012 e da ultimo con il recentissimo decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013. Nell’ambito della riforma è scomparsa una procedura concorsuale c.d. minore (l’amministrazione controllata), è stato profondamente modificato il concordato preventivo (reso più flessibile) e sono stati introdotti strumenti alternativi di risoluzione delle crisi aziendali (accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento) ritenuti più confacenti alle esigenze del mercato, anche alla luce delle esperienze di altri ordinamenti. 216 © Copyright - Giuffrè Editore Non è possibile in questa sede approfondire il contenuto della riforma al di là dei limiti segnati dagli argomenti specificamente esaminati. Un dato, peraltro, prevale su tutti e connota l’intervento riformatore: adeguandosi alla visione fatta propria dagli ordinamenti ad economia avanzata la gestione dell’insolvenza non è più considerata strumento di controllo dell’estinzione dell’impresa e di distribuzione del residuo attivo ai creditori, ma una fase (patologica) della vita dell’impresa, alla quale, nei limiti del possibile, deve essere concessa la possibilità di una « nuova partenza » (« new start » secondo l’impostazione tipica degli U.S.A.) nell’interesse dei creditori e del mercato. La gestione negoziata delle situazioni di « crisi » aziendale, siano esse potenzialmente destinate a sfociare nell’insolvenza o già ascrivibili alla fattispecie « insolvenza » di cui all’art. 5 legge fall., costituisce — non solo in Italia — la nuova frontiera del diritto concorsuale. Sulla base della diffusa constatazione che la procedura fallimentare, pervasa dall’intervento della giurisdizione, mortifica le (residue) opportunità di ripresa dell’attività imprenditoriale e costituisce al contempo — in ragione della sua eccessiva durata — un ostacolo alla competitività, il legislatore della riforma del 2006 ha ridisegnato la procedura di concordato preventivo ed ha altresì individuato nuovi strumenti idonei a gestire la crisi dell’impresa ed alternativi alla procedura fallimentare. L’obiettivo dichiarato della riforma è stato quello di ricondurre — per quanto possibile — la gestione della crisi d’impresa nell’ambito dell’autonomia privata, riducendo correlativamente gli spazi di intervento pubblicistico, attraverso la giurisdizione (1). Si è trattato di un lungo percorso che ha preso le mosse dalla constatazione di una diffusa prassi che a partire dagli anni ’80 del secolo scorso aveva individuato negli accordi con il sistema bancario lo strumento privilegiato per la soluzione negoziata della crisi di imprese di notevoli dimensioni, e nel contempo aveva evidenziato diffuse criticità principalmente addebitabili alla mancanza di un quadro di riferimento normativo idoneo a scongiurare il rischio, in caso di insuccesso del piano di risanamento, di rilevanti conseguenze penali (ricorso abusivo al credito, distrazione) e civili (revocatoria di atti disposizione patrimoniale). Ma il più grande ostacolo che si contrapponeva alla percorribilità di accordi finalizzati a rimuovere lo stato di insolvenza di una impresa era costituito dalla diffusa opinione che predicava l’indisponibilità dell’insolvenza. Per la verità a partire dagli anni ’90 del secolo scorso il fronte compatto (1) Per un’analisi della riforma e delle sue linee essenziali v. JORIO, « Le linee generali della riforma ... riformata », in « Il fallimento ... atto terzo: primi spunti di dottrina e giurisprudenza », a cura di PANZANI, 2008, 13. MINUTOLI, « L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito » in « Il Fallimento », 2008, 1047. 217 © Copyright - Giuffrè Editore che negava la possibilità di una rimozione dello stato di insolvenza attraverso strumenti negoziali si era incrinato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (2). La riforma, accentuando la « privatizzazione » della gestione della crisi d’impresa attraverso il negoziato tra il debitore e i creditori ( anche una parte di essi) finalizzato a ricercare la migliore soluzione possibile del dissesto, consente — secondo la maggioranza degli interpreti — di ritenere superata la questione della (presunta) indisponibilità dell’insolvenza, anche se non mancano autorevoli inviti a considerare con prudenza la materia, che si presta a possibili distorsioni a danno della par condicio creditorum (3). In questa prospettiva il dibattito si sposta su un altro piano, quello dei limiti dell’autonomia privata in una materia che in re ipsa coinvolge rilevanti profili di ordine pubblico economico e dei confini da assegnare all’intervento dell’autorità giudiziaria. Il principale strumento che il legislatore offre all’autonomia privata per giungere ad una composizione negoziale dell’insolvenza è rappresentato dagli « Accordi di ristrutturazione dei debiti » disciplinati dagli articoli da 182-bis a 182-quinquies della legge fallimentare. La disciplina legislativa, peraltro, è frammentaria e riguarda quasi esclusivamente l’aspetto procedimentale; nulla è previsto in ordine alla natura giuridica dell’accordo, alle conseguenze dell’inadempimento anche parziale, all’ammissibilità di azioni di annullamento per vizi di volontà e, più in generale, alla riferibilità a tali accordi della disciplina civilistica. 3. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: natura ed effetti. La dottrina prevalente ritiene che gli accordi abbiano natura essenzialmente privatistica, nonostante il necessario decreto di omologazione (elemento di natura pubblicistica). Sul punto si è affermato che anche nel sistema privatistico l’autonomia negoziale non è illimitata ed è soggetta a controlli esterni. Se l’accordo è stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti può conseguire l’omologazione da parte del tribunale, ove consti l’idoneità del piano di risanamento ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Sono qui evidenti le peculiarità di tale strumento che, da un lato, non è (2) Per una lucida disamina del problema v. ROVELLI, I nuovi assetti privatistici nel diritto societario e concorsuale e la tutela creditoria, in Il Fall., 2009, 1029 ss., spec. 1033-34. (3) Per una sintesi del percorso che ha portato al riconoscimento di spazi per l’autonomia privata nella gestione delle crisi d’impresa v., se vuoi, GALLETTO, Nuove prospettive nel diritto fallimentare italiano: il gruppo insolvente e la risoluzione negoziata delle crisi di impresa, relazione presentata al Congresso del Conseil National des Administrateurs Judiciaires et des Mandataires Judiciaires — CNAJMJ — tenutosi a Roma il 7 maggio 2010, in Rass. forense, 2/2010, 267 ss. 218 © Copyright - Giuffrè Editore obbligatorio per tutto il ceto creditorio, ma solo per coloro che aderiscono all’accordo, e, da altro lato, consente pagamenti preferenziali, non soggetti alla disciplina del concorso, in favore dei creditori estranei all’accordo, ipotesi che in passato era pacificamente riconducibile al paradigma della bancarotta preferenziale, in caso ovviamente di successivo fallimento. Le ragioni che sono poste a fondamento della natura privatistica degli accordi di ristrutturazione tale da differenziarli nettamente dal concordato preventivo in cui coesistono momenti pubblicistici e privatistici, risiedono sostanzialmente nella assenza di un decreto di ammissione alla procedura, di nomina di organi deputati alla gestione e al controllo di essa, dalla mancata previsione di una votazione dei creditori e dalla mancata estensione degli effetti degli accordi ai creditori dissenzienti. La recente riforma del 2012, peraltro, ha previsto la possibilità di innestare gli accordi di ristrutturazione del debito in un percorso aperto da una domanda di concordato c.d. « in bianco » finalizzata alternativamente alla formalizzazione successiva e alternativa di una proposta di concordato o di accordi di ristrutturazione del debito (4). Queste ultime previsioni normative hanno consentito la riviviscenza di quelle opinioni che tendono ad ascrivere anche gli accordi di ristrutturazione all’area della concorsualità, ipotizzando un apparentamento di questi ultimi al concordato preventivo. Ma, nonostante le suggestioni che possono essere suscitate dal richiamato intervento legislativo, sembrano tuttora persuasive le opposte tesi che distinguono nettamente gli accordi di ristrutturazione dal concordato preventivo rispetto al quale, nonostante il recente intervento delle Sezioni Unite con la nota decisione n. 1521 del 23 gennaio 2013, resta irrisolta la questione della prevalenza della natura negoziale o pubblicistica dell’istituto (5). Ferma restando la già sottolineata differenziazione tra gli accordi di ristrutturazione ed il concordato, tuttavia, occorre riconoscere che la tesi che ascrive gli accordi all’area della concorsualità in senso lato non è priva di significativi supporti rinvenibili nella stessa frammentaria disciplina legislativa. Il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, ovvero di acquisire titoli di prelazione se non concordati, che consegue alla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese (e che può essere anche ottenuto dal tribunale prima della formalizzazione dell’accordo, durante il corso delle trattative per la formalizzazione di esso) induce (4) Per un accurato esame delle novità della riforma del 2012 v. AMBROSINI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti dopo la riforma del 2012 in Il Fall., 2012, 1137 ss. (5) Sulla incerta natura giuridica del concordato preventivo, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite con la decisione richiamata nel testo, v. LO CASCIO, Concordato preventivo: natura giuridica e fasi giurisprudenziali alterne in Il Fall., 2013, 525 secondo il quale si è di fronte ad un orientamento ondivago nel cui ambito è venuta anche meno la prospettiva di privatizzare la procedura di concordato preventivo ed è tramontato ancora una volta il tentativo di una costruzione unitaria della sua natura giuridica (ivi p. 534). 219 © Copyright - Giuffrè Editore a riflettere sulla effettiva estraneità del fenomeno all’area concorsuale, ed analoghe riflessioni conseguono alla constatazione del differimento dei termini di pagamento dei creditori estranei all’accordo entro 120 giorni dalla omologazione di esso, in caso di crediti già scaduti a quella data, ovvero di 120 giorni dalla scadenza qualora a quella data non ancora scaduti. D’altra parte, come è stato recentemente rilevato, anche gli accordi di ristrutturazione attuerebbero l’esigenza dell’universalità in quanto coinvolgono l’intero patrimonio del debitore, con una caratteristica che è comune a tutte le procedure concorsuali. Anche il profilo della par condicio creditorum non sarebbe contraddetto dalla disciplina degli accordi in quanto essa riceverebbe tutela indiretta nelle previsioni che da un lato consentono di regolare convenzionalmente la soddisfazione dei creditori aderenti all’accordo e, da altro lato, obbligano alla integrale soddisfazione dei creditori non aderenti (6). Non può quindi negarsi una certa ambiguità quanto alla natura degli accordi di ristrutturazione, rispetto ai quali non può escludersi l’emersione di profili di matrice pubblicistica che, senza alterarne la natura privatistica, li rendono comunque di incerta collocazione sistematica. Pur nella ambiguità della quale si è fatto cenno in precedenza, la natura contrattuale degli accordi di ristrutturazione non sembra discutibile. In questa prospettiva è opportuno un cenno, nei limiti funzionali all’indagine qui condotta e riferita alla utilizzabilità dello strumento arbitrale, alla questione relativa alla causa di tali accordi ed alla struttura di essi. Merita di essere condivisa l’opinione che ascrive alla rimozione negoziale dello stato di crisi o insolvenza la causa concreta degli accordi di ristrutturazione del debito, con ciò confermandosi il superamento del dogma della indisponibilità dell’insolvenza (7). Se sulla funzione (intesa quale causa concreta) degli accordi di ristrutturazione del debito nel senso che essi perseguono lo scopo di superare, rimuovendola, la situazione di crisi o di insolvenza si riscontra un ampio consenso, assai più dibattuta è invece la questione relativa alla tipologia strutturale dei menzionati accordi. In estrema sintesi può dirsi che, quanto alla struttura negoziale degli accordi, si contendono il campo due tesi principali : secondo la prima si tratterebbe di contratti plurilaterali con comunione di scopo mentre secondo l’altra si tratterebbe invece di un fascio di contratti bilaterali, collegati funzionalmente tra loro. Non è certamente possibile in questa sede approfondire la questione (8). (6) In questo senso v. DELLE MONACHE, Profili dei « nuovi » accordi di ristrutturazione dei debiti, in www.judicium.it spec. 9 ss. (7) In argomento v. ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti « di salvataggio » (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. Fall., 2008, 1, 289 (8) Per una interessante analisi dei profili strutturali e funzionali degli accordi di ristrutturazione dei debiti v. INZITARI, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis legge fallim.: natura, profili funzionali e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, in Dir. Fall., 2012, 13 220 © Copyright - Giuffrè Editore Nei limiti funzionali all’economia al presente lavoro può rilevarsi che in passato, con riferimento all’ipotesi del concordato stragiudiziale privo di regolazione, ma diffuso nella prassi, la giurisprudenza di legittimità si era espressa nel secondo senso e cioè nel riconoscere in tali accordi « un fascio di contratti remissori » (Cass. 18 marzo 1979 n. 1562). Questa ricostruzione è posta in discussione da coloro che osservano che dal punto di vista funzionale la collocazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti nella categoria dei contratti plurilaterali corrisponderebbe meglio alle pratiche di cooperazione tra i vari soggetti interessati, senza dimenticare peraltro che così facendo l’intera convenzione resta assoggettata alle vicende che possano riguardare un singolo creditore qualora la sua partecipazione all’accordo debba considerarsi essenziale (arg. ex art. 1420 cod. civ.). L’elemento di maggiore criticità per una siffatta configurazione è rappresentato tuttavia dalla discutibile configurazione di una comunione di interessi tra tutti i partecipanti all’accordo, finalizzata al conseguimento di uno scopo comune, che è elemento imprescindibile per la configurabilità di un contratto plurilaterale, almeno nel senso fatto proprio dalla giurisprudenza. È anche stata avanzata, per la verità, una diversa opinione che ravvisa una posizione antagonistica tra creditori ed imprenditore in crisi e conseguentemente raggruppa le posizioni dei primi in un unico centro di interesse, contrapposto a quello rappresentato dall’imprenditore. In questa ipotesi, allora, il contratto sarebbe unico, bilaterale ma caratterizzato da una parte soggettivamente complessa (i creditori aderenti). Ciascuna delle ipotesi in precedenza sinteticamente richiamate presenta spunti di interesse che meriterebbero approfondimenti qui non consentiti: un profilo rilevante ai fini della qualificazione tipologia degli accordi è peraltro costituito dalla constatazione della variabilità del contenuto degli stessi, circostanza che rende oltremodo difficile (e probabilmente non esaustivo) un tentativo di classificazione generale. Proprio l’estrema flessibilità e variabilità del contenuto concreto che nella prassi assumono gli accordi di ristrutturazione del debito può consentire, di volta in volta, la iscrizione all’una o all’altra delle categorie. Si tratta, in altri termini, di accordi che potrebbero essere definiti a « struttura variabile », a seconda del loro effettivo e concreto contenuto e rispetto ai quali, allora, una definizione generale ed astratta sotto il profilo tipologico risulta non appagante. ss. Una accurata analisi dei profili civilistici degli accordi di ristrutturazione è contenuta in NOCERA, Architettura strutturale degli accordi di ristrutturazione: una analisi di diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 1129 ss. ed ivi i necessari riferimenti bibliografici. Dello stesso Autore v., più recentemente, Gli accordi di ristrutturazione come contratto privatistico: il diritto della crisi d’impresa oltre le procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2012, 376 ss., ove si sviluppa più compiutamente la tesi della natura essenzialmente privatistica degli accordi di ristrutturazione dei debiti, anche in questo caso con il corredo di una ampia bibliografia. 221 © Copyright - Giuffrè Editore Per quanto in questa sede rileva il dato significativo consiste nella constatazione, sia pure con diversa graduazione, della interdipendenza tra gli adempimenti a carico delle parti al fine della corretta attuazione dell’accordo. Sia che si tratti di contratto plurilaterale, sia che si tratti invece di un fascio di contratti bilaterali avvinti da collegamento negoziale sia infine che si propenda per il contratto bilaterale con parte soggettivamente complessa (la pluralità di creditori aderenti) è evidente come nella patologia dell’accordo siano destinati ad emergere rilevanti profili di criticità. L’inadempimento dell’imprenditore nei confronti di uno dei creditori aderenti ovvero di quest’ultimo nei confronti dell’imprenditore è suscettibile di alterare la fisiologia dell’adempimento dell’accordo, incidendo negativamente sugli interessi di coloro ai quali l’inadempimento non è imputabile (9). 4. Gli accordi nella prospettiva del legislatore. Venendo ora ad un sintetico esame della scarna disciplina dettata dal legislatore è agevole constatare che nessun aiuto può trarsi da tale disciplina ai fini della qualificazione tipologica. Come si è in precedenza ricordato, infatti, la normativa è finalizzata a disciplinare gli aspetti procedimentali e gli effetti degli accordi ex art. 182-bis l.f. e demanda al tribunale la verifica della idoneità dell’accordo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei. Le modalità attraverso le quali l’imprenditore proponente ed i creditori aderenti si prefiggono di perseguire le finalità proprie dell’accordo, come in precedenza ricordate, sono rimesse all’autonomia negoziale delle parti, così sottolineandosi il diverso approccio, di stampo tendenzialmente privatistico, di composizione della crisi d’impresa che è stato fatto proprio dal legislatore. 5. L’omologa giudiziale. Il momento pubblicistico che connota gli accordi di ristrutturazione del debito è costituito dalla omologa da parte del tribunale, dalla quale derivano rilevanti effetti, non altrimenti conseguibili. L’accordo omologato esenta da revocatoria i pagamenti effettuati in conformità ad esso, consente a determinate condizioni di assicurare la prededucibilità dei crediti conseguenti alla erogazione di nuovi mezzi finanziari all’imprenditore ed esclude l’applicazione delle norme in tema di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice con riferimento ai pagamenti ed alle operazioni compiute in conformità all’accordo omologato. (9) Sull’importante tema dell’inadempimento del debitore rispetto agli accordi stragiudiziali ex art. 182 bis l.f. v. l’approfondita analisi di CAPOBIANCO, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi di impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, 295 ss. al quale si rinvia per i necessari approfondimenti. 222 © Copyright - Giuffrè Editore L’ambito oggettivo della valutazione demandata al tribunale sul contenuto dell’accordo, inoltre, è graduato a seconda della presenza o meno di opposizioni alla omologazione. In assenza di opposizioni, infatti, al tribunale è demandato sostanzialmente un controllo di mera legittimità, intesa quale corrispondenza dell’accordo al paradigma legale, senza possibilità di sovrapporre un giudizio prognostico di fattibilità a quello risultante dalla relazione dell’esperto che deve necessariamente accompagnare la documentazione dell’accordo, a meno che — ovviamente — l’impossibilità della corretta esecuzione dell’accordo emerga ictu oculi. In presenza di opposizioni, invece, al tribunale è demandata la responsabilità di verificare la concreta fattibilità del piano alla luce delle contestazioni ad esso mosse ed il controllo giudiziario si configura conseguentemente assai più pregnante (10). 6. L’adempimento e le vicende successive all’omologa. Un aspetto particolarmente rilevante che connota la disciplina legislativa degli accordi di ristrutturazione del debito è costituito, come già è stato rilevato, dalla assenza di un momento pubblicistico di controllo dell’adempimento dell’accordo omologato. L’adempimento e le vicende successive alla omologazione ricadono, ad ogni effetto, nella sfera privatistica e sono conseguentemente momenti demandati all’autonomia delle parti. Anche le modificazioni successive al contenuto degli accordi sarebbero, nella interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, sottratte ad un nuovo controllo in sede giurisdizionale (11). In questa prospettiva la prassi negoziale ha introdotto nell’ambito degli accordi pattuizioni specificamente dedicate alla gestione delle sopravvenienze e delle criticità sorte a valle della omologa, nella fase di adempimento dell’accordo. Si tratta di previsioni negoziali idonee ad assicurare nella maggior misura possibile la flessibilità del piano di attuazione dell’accordo al fine di gestire le vicende sopravvenute. In questo ambito le parti, anche attraverso la predisposizione di idonei flussi informativi, si obbligano ad una gestione negoziata, per quanto possibile, delle sopravvenienze. (10) Una accurata ricognizione dei limiti del controllo giurisdizionale in sede di omologazione degli accordi di ristrutturazione può leggersi in CARMELLINO Accordi di ristrutturazione e controllo giudiziale, in Il Fall., 2013, 625 ss. (11) Una interessante analisi delle vicende relative alla fase esecutiva degli accordi di ristrutturazione può leggersi in FABIANI, Fase esecutiva degli accordi di ristrutturazione e varianti del piano e dell’accordo, in Il Fall., 2013, 769 ss. 223 © Copyright - Giuffrè Editore È peraltro evidente che non tutte le sopravvenienze e/o gli inadempimenti successivi alla omologa possono essere definitivamente risolti attraverso strumenti negoziali. In questa prospettiva assume un autonomo rilievo (anche sotto il profilo funzionale ed economico) la gestione dell’eventuale contenzioso. 7. La patologia degli accordi: le controversie nella fase successiva all’omologa. Le controversie nella fase successiva all’omologa dell’accordo possono naturalmente essere di diversa natura. Accanto alle controversie che riguardano la validità e l’efficacia dell’accordo in sé vi sono quelle originate da inadempimenti imputabili all’una o all’altra parte dell’accordo. Si è detto in precedenza che, almeno con riferimento agli accordi di ristrutturazione del debito resi conoscibili al pubblico, non è rinvenibile alcuna previsione di arbitrabilità delle relative controversie. Queste ultime risultano demandate alla cognizione del tribunale che ha provveduto alla omologazione dell’accordo. Si tratta allora di verificare se questa scelta sia determinata da ragioni di impossibilità di ricorrere allo strumento arbitrale ovvero da ragioni di opportunità che militino in favore della sottoposizione della controversia all’autorità giudiziaria ordinaria. I due profili meritano di essere separatamente indagati. 8. Arbitrabilità o meno di tali controversie. Il primo quesito che sorge spontaneo dalla constatazione che la prassi riconduce alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria tutte le controversie comunque originate dalla stipulazione e/o dall’esecuzione degli accordi di ristrutturazione del debito omologati riguarda la possibile non arbitrabilità delle relative controversie. Sotto questo profilo non sembra rinvenibile nel sistema un divieto di arbitrabilità. Ai sensi dell’art. 806 c.p.c., invero, la non arbitrabilità di una controversia discende alternativamente dal rilievo che essa abbia ad oggetto diritti indisponibili ovvero dalla sussistenza di un espresso divieto di legge. Dalle considerazioni che precedono emerge con sufficiente evidenza che, anche a seguito della riforma della legge fallimentare e della conseguente espressa previsione di una disciplina negoziale di componimento delle crisi d’impresa, in questa materia non sia predicabile l’indisponibilità dei diritti, nemmeno sotto il profilo che attiene alla rimozione delle cause dell’insolvenza. Non vi sono quindi ostacoli costituiti dalla presenza di diritti indisponibili, 224 © Copyright - Giuffrè Editore né la presenza di momenti pubblicistici di controllo del contenuto degli accordi ai fini dell’omologa è suscettibile di rendere indisponibili i diritti patrimoniali connessi alla stipulazione degli accordi. Sotto un diverso profilo, non è rinvenibile alcun espresso divieto di legge in ordine alla arbitrabilità delle controversie che abbiano ad oggetto accordi di ristrutturazione del debito. Anzi, proprio dal mancato richiamo dell’art. 186 l.f. in tema di risoluzione e annullamento del concordato dovrebbe desumersi che il legislatore non ha inteso dettare una regola che imponga il necessario ricorso al tribunale per le controversie originate dagli accordi di ristrutturazione dei debiti. Ancora, non può ritenersi non arbitrabile una controversia ricollegata ad un accordo di ristrutturazione dei debiti in considerazione della possibile ascrivibilità di quest’ultimo all’area delle procedure concorsuali in senso lato. L’arbitrato, invero, non è ontologicamente incompatibile con una procedura concorsuale ed a riprova della correttezza dell’affermazione sarà sufficiente richiamare quelle disposizioni della legge fallimentare che autorizzano il curatore alla stipulazione di compromessi, previa autorizzazione del comitato dei creditori (art. 35 l.f.) e più in generale il pacifico orientamento della dottrina e della giurisprudenza che esclude l’arbitrabilità esclusivamente con riferimento a specifiche tipologie di controversie endofallimentari o comunque tali da incidere sulla verifica dello stato passivo (12). La natura e l’oggetto degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quindi, non impediscono il ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione delle controversie che possono insorgere con riferimento a tali accordi. Questa constatazione, naturalmente, non implica la insussistenza di profili di criticità della scelta arbitrale. 9. I profili di criticità: a) la formulazione della convenzione di arbitrato ed i problemi dell’arbitrato multiparte; b) arbitrato e litisconsorzio necessario; c) coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso. L’incerta struttura tipologica degli accordi di ristrutturazione del debito (contratto plurilaterale, fascio di contratti, oppure contratto bilaterale con parte soggettivamente complessa) della quale si è fatto cenno in precedenza si riverbera immediatamente, quale profilo di criticità, sulla opzione di devolvere in arbitrato le controversie originate da tali accordi. a) Un primo profilo di criticità si rinviene nella constatazione che le controversie originate da accordi ex art. 182-bis l.f. tendenzialmente coinvolgono più di due parti. (12) Sul tema, assai delicato, relativo ai limiti dell’arbitrabilità delle controversie in ambito fallimentare v. recentemente BOVE, Arbitrato e fallimento, in www.judicium.it. Sull’argomento v. altresì le considerazioni enunciate da ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato, commentario diretto da F. Carpi, Bologna, 2007, sub art. 806, 110 ss. 225 © Copyright - Giuffrè Editore Ciò è sicuramente vero se si ritiene che l’accordo sia un contratto plurilaterale, ma è vero anche se si propende per una qualificazione di esso quale pluralità di contratti collegati funzionalmente ed ancora se si ragiona in termini di contratto bilaterale ma con parte soggettivamente complessa. Nella generalità dei casi, quindi, la controversia darà luogo ad un arbitrato con più di due parti. Da tale constatazione deriva la necessità di una attenta formulazione della convenzione di arbitrato, idonea a dare vita ad un arbitrato multiparte. Sono note in proposito le delicate questioni che si sono poste in passato e che tuttora impegnano gli arbitri e le istituzioni che amministrano l’arbitrato quando la controversia coinvolge una pluralità di parti. A riprova della importanza e della complessità delle questioni suscitate dall’arbitrato che vede coinvolte più di due parti ovvero una pluralità di contratti tra le stesse parti può richiamarsi il nuovo Regolamento di Arbitrato della ICC, entrato in vigore il 1º gennaio 2012, il quale dedica una intera (e nuova) sezione alle questioni in oggetto. Non è possibile in questa sede approfondire le scelte operate dal citato nuovo regolamento della ICC, ma può essere significativo ricordare che nell’ultimo decennio gli arbitrati amministrati dalla ICC con più di due parti sono stati superiori al 30% del totale e che quasi ogni anno viene amministrato un arbitrato con più di venti parti (13). Gli accordi di ristrutturazione del debito sembrano costituire una ipotesi paradigmatica di arbitrato multiparte (si pensi, a solo titolo di esempio, alle controversie che riguardino la validità di tali accordi, necessariamente coinvolgenti tutti i soggetti che li hanno sottoscritti). È noto, in proposito, che il legislatore della riforma dell’arbitrato del 2006 si è posto il problema (precedentemente ignorato dal codice di procedura) dell’arbitrato con pluralità di parti. L’art. 816-quater c.p.c. dispone che quando più di due parti siano vincolate dalla stessa convenzione di arbitrato ciascuna parte può convenire tutte o alcune delle altre nel medesimo procedimento arbitrale se si verifica una delle seguenti circostanze: (i) la convenzione di arbitrato devolve ad un terzo la nomina degli arbitri; (ii) se gli arbitri sono nominati con l’accordo di tutte le parti, ovvero (iii) se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l’arbitro o gli arbitri, nominano d’accordo un ugual numero di arbitri o ne affidano ad un terzo la nomina. Se non si verificano le circostanze sopra indicate il procedimento arbitrale si scinde in tanti distinti procedimenti quante sono le parti chiamate in arbitrato. (13) Per un commento al nuovo regolamento della ICC v. MAZZA Il nuovo regolamento di arbitrato della ICC in questa Rivista, 2013, 43 ss. . In particolare, con riferimento alle nuove regole introdotte in tema di arbitrato con pluralità di parti v. p. 59 ss. 226 © Copyright - Giuffrè Editore Nell’ipotesi di litis consorzio necessario, peraltro, se non si verificano le circostanze in precedenza indicate [sub (i), (ii) e (iii)] l’arbitrato è improcedibile. Quest’ultima previsione è particolarmente insidiosa come dimostrano recenti esperienze nelle quali è stata dichiarata l’improcedibilità dell’arbitrato per difetto delle condizioni in precedenza richiamate, nonostante l’intervento volontario del litis consorte pretermesso. Non è possibile in questa sede discutere sulla correttezza della declaratoria di improcedibilità dell’arbitrato nell’ipotesi sopra ricordata, questione che vede divisi i numerosi, autorevoli commentatori di tale decisione (14). Ai fini della presente indagine è sufficiente sottolineare la delicatezza della questione per le conseguenze che ne possono derivare sulla procedibilità dell’arbitrato. Una soluzione idonea ad evitare l’insorgere di insidiose questioni è certamente quella della stipulazione di una convenzione di arbitrato nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione del debito, che demandi ad un terzo la nomina degli arbitri, così soddisfacendosi una delle condizioni poste dall’art. 816-quater c.p.c. In questa prospettiva può essere particolarmente opportuna l’utilizzazione della clausola modello della Camera Arbitrale di Milano con la previsione ulteriore che tutti gli arbitri saranno nominati dalla Camera. Il regolamento della Camera Arbitrale, per parte sua, è in grado di consentire una corretta amministrazione dell’arbitrato multiparte. b) Si è già rilevato che le controversie nascenti da accordi di ristrutturazione del debito sono suscettibili di dare luogo ad ipotesi di litis consorzio necessario, vicenda tra le più dedicate nell’ambito dell’arbitrato multiparte. Ma anche in questa ipotesi, che deve ritenersi tendenzialmente fisiologica con riferimento agli accordi di ristrutturazione del debito, la scelta dell’arbitrato amministrato dalla Camera Arbitrale, sulla base di una convenzione di arbitrato che devolva a quest’ultima la nomina degli arbitri è in grado di superare le criticità sollevate dal litisconsorzio necessario. Una residua criticità, tuttavia, persiste in relazione all’ipotesi di litis consorzio necessario nell’ipotesi in cui il litis consorte non sia chiamato fin dall’inizio nel procedimento arbitrale. (14) Il riferimento è al lodo pubblicato in Riv. dir. proc., 2011, 943 ss., con nota critica di SASSANI, Sull’esclusione del litis consorte necessario dal giudizio arbitrale, ivi 951 ss.; commenta favorevolmente il lodo GRAZIOSI, Consenso delle parti e intervento del litisconsorte necessario pretermesso, in arbitrato rituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 293 ss. In senso critico v. CONSOLO, I terzi e il procedimento arbitrale, in Riv. dir. proc., 2012, 858 ss.; sempre in senso critico, v. altresì GRADI, Adesione del litis consorte necessario pretermesso al collegio arbitrale già costituito e dissenso di uno dei litis consorti originari: uno « strano caso » di improcedibilità dell’arbitrato, in Giust. civ., 2012, I, 2863 ss. In senso dubitativo, ma tendenzialmente favorevole alla soluzione prescelta dal citato lodo v. recentemente BRIGUGLIO, Amleto, la pluralità di parti sopravvenuta e la nomina degli arbitri, in Riv. dir. proc., 2012, 1533 ss. Più in generale sull’intervento litisconsortile nell’arbitrato v. CORSINI, L’intervento del litis consorte necessario nel procedimento arbitrale, in Riv. dir. proc., 2013, 589 ss. 227 © Copyright - Giuffrè Editore Le norme in tema di intervento di terzi, di cui all’art. 816-quinquies c.p.c., infatti, dispongono che la chiamata in arbitrato di un terzo può avvenire soltanto con l’accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri, essendo sempre ammesso l’intervento del litis consorte necessario. In ciò la norma codicistica si differenzia dall’arbitrato societario, nell’ambito del quale la chiamata in causa ai sensi degli artt. 106 e 107 c.p.c. è ammessa fino alla prima udienza di trattazione e non necessita quindi dell’assenso di tutte le parti e degli arbitri (arg. ex art. 35 comma 2 d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5). Nella disciplina ordinaria, dunque, se il litis consorte necessario non è chiamato in arbitrato sin dall’inizio, ovvero non interviene spontaneamente, nella sussistenza delle condizioni poste dall’art. 816-quater c.p.c., l’integrazione del contraddittorio può risultare impossibile perché necessita del consenso del chiamato, di tutte le altre parti e degli arbitri. Anche con riferimento a questo delicato profilo, peraltro, è possibile rinvenire una soluzione nel regolamento della Camera Arbitrale. L’art. 22 del regolamento, sotto la rubrica « poteri del Tribunale Arbitrale » prevede infatti (comma 5) il potere del Tribunale Arbitrale, sentite le parti, di disporre, se richiesto, la partecipazione di un terzo al procedimento (naturalmente il terzo potrà essere chiamato qualora sia vincolato dalla stessa convenzione d’arbitrato, ipotesi che qui si assume per verificata in quanto la convenzione di arbitrato risulterebbe apposta nell’accordo di ristrutturazione dei debiti). c) Un ulteriore profilo di criticità, oggettivamente ineliminabile, riguarda la posizione dei co-obbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso. Salvo che non sia diversamente disposto nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, infatti, la posizione di questi soggetti risulta estranea alla regolazione negoziale della crisi d’impresa e l’efficacia dell’accordo certamente non si estende alla loro posizione soggettiva. La questione è analogamente regolata, con riferimento al concordato preventivo, dall’art. 184 l.f. il quale come è noto dispone che l’efficacia obbligatoria del concordato omologato per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’ammissione alla procedura non pregiudica i diritti di questi ultimi contro i co-obbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso. La soluzione più razionale è, evidentemente, quella di coinvolgere i co-obbligati o obbligati in via di regresso del debitore nell’accordo. Anche sotto questo profilo, dunque, il connotato plurilaterale della eventuale controversia emerge con evidenza. 10. Le due opzioni possibili: arbitrato e processo a confronto. Le considerazioni che sono state svolte in merito alla astratta arbitrabilità delle controversie che traggano la loro origine nella stipulazione di accordi di 228 © Copyright - Giuffrè Editore ristrutturazione del debito depongono univocamente in senso favorevole alla scelta arbitrale, pur nella consapevolezza delle difficoltà insite nella gestione di un procedimento arbitrale che coinvolge tendenzialmente più parti. Esclusa quindi una ontologica incompatibilità dello strumento arbitrale nella gestione dei conflitti originati dalla composizione negoziale dell’insolvenza dell’impresa, l’indagine sulle ragioni della mancata utilizzazione dell’arbitrato nell’esperienza pratica degli accordi ex art. 182-bis l.f. deve necessariamente volgersi ai profili di opportunità che possano giustificare questa scelta. L’indagine non può che riguardare un sintetico confronto tra le due possibili opzioni per la gestione del contenzioso originato dagli accordi di ristrutturazione del debito. Il confronto riguarda da un lato la scelta in favore del processo civile ordinario (privilegiata dalla prassi conosciuta) e, dall’altro, la scelta per lo strumento arbitrale. La comparazione tra processo arbitrale e processo ordinario è impietosa per quest’ultimo: alla rapidità e relativa stabilità dell’esito del primo si contrappone la lentezza ed imprevedibilità dell’esito del secondo (statisticamente, oltre il 50% delle sentenze civili di primo grado impugnate in appello è oggetto di riforma) (15). Come è stato correttamente rilevato, tuttavia, la crescita della domanda di arbitrato riscontrata a livello europeo (e senza considerare l’amplissima diffusione dell’istituto negli Stati Uniti) non può essere spiegata soltanto in ragione della durata contenuta del relativo procedimento, dal momento che il fenomeno arbitrale è in crescita anche in quegli ordinamenti in cui la durata del processo civile è del tutto ragionevole (16). La durata contenuta del procedimento arbitrale, quindi, è soltanto una delle ragioni del crescente successo dell’istituto; la scelta arbitrale è orientata anche da considerazioni sulla specifica competenza e preparazione degli arbitri in determinate materie, caratterizzate da elevata complessità anche sotto il profilo tecnico, e sulla maggiore flessibilità dello strumento arbitrale rispetto al processo ordinario con riferimento sia alla procedura sia ai mezzi di prova utilizzabili. In altri termini, è l’ampio potere dispositivo che l’arbitrato assicura alle parti del relativo procedimento a segnare la profonda differenza con il giudizio ordinario e a rendere preferibile, in molti casi, la scelta arbitrale. Sono quindi molteplici le ragioni che rendono l’arbitrato maggiormente (15) Secondo le rilevazioni dell’Ufficio Statistica della Corte di Cassazione per l’anno 2011, inoltre, il 35% dei provvedimenti ulteriormente impugnati in sede di legittimità è stato oggetto di annullamento, con o senza rinvio. (16) In argomento v. le interessanti considerazioni di VIGORITI, Criteri di scelta tra giudizio ordinario e arbitrato, in RUBINO SAMMARTANO (a cura di), Arbitrato, ADR, conciliazione, Bologna, 2009, 3 ss.. 229 © Copyright - Giuffrè Editore competitivo rispetto al giudizio ordinario, ma non vi è dubbio che — almeno nel contesto italiano — la celerità con la quale in sede arbitrale si giunge ad una pronuncia sul merito della controversia è il principale elemento che orienta la scelta di stipulare una convenzione arbitrale. La consapevolezza che il « fattore tempo » è una condizione imprescindibile del « rendere giustizia », in particolare in un sistema economico integrato nel quale le scelte imprenditoriali includono nell’analisi degli investimenti anche l’efficacia e la rapidità della risposta giudiziale è sottolineata, ancora recentemente, nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012 predisposta dal Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Ernesto Lupo (17). I dati statistici che si rinvengono nella menzionata Relazione sono tuttavia sconfortanti: la durata media dei procedimenti nelle Corti di appello è pari a 1051 giorni, quella nei tribunali a 463 giorni e quella presso i giudici di pace a 378 giorni. Si tratta peraltro di dati statistici che ricomprendono nella media tutte le tipologie di procedimenti che si svolgono in sede di merito e che conseguentemente non rispecchiano l’effettività della situazione dei giudizi di cognizione, la durata dei quali è oggettivamente maggiore di quella risultante dal mero dato statistico. D’altra parte è sufficiente prendere in considerazione il dato relativo al numero dei procedimenti pendenti di merito al 30 giugno 2012 (pari a 5.388.544) per rendersi conto che questo arretrato è « una montagna insensibile alla pur costante e generosa attività di erosione posta in essere nei diversi programmi di gestione » (18). In questo contesto si colloca il rinnovato interesse dei giuristi e persino del legislatore rispetto alla risoluzione in sede arbitrale delle controversie civili in materia di diritti disponibili, testimoniato ad esempio dalla previsione della istituzione di Camere Arbitrali, di Conciliazione e ADR costituite dai Consigli Circondariali degli Ordini degli Avvocati presso ciascun tribunale ai sensi dell’art. 29 lett. n) della legge 31 dicembre 2012 n. 247, recante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense. 11. Per la convenienza della scelta arbitrale. Nella comparazione tra processo ordinario e processo arbitrale assume un particolare rilievo la gestione del fattore tempo. Accanto all’ampia libertà e flessibilità che l’ordinamento consegna all’autonomia delle parti in ordine alla gestione del « processo » arbitrale, altri fattori concorrono a determinare la maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario. (17) Cfr. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012, Roma, 25 gennaio 2013, 71 in www.cortedicassazione.it. (18) Così, testualmente, la Relazione sopra citata, 72. 230 © Copyright - Giuffrè Editore Fra questi rileva in primo luogo il fattore « tempo ». Il tempo necessario per conseguire la pronuncia arbitrale evidenzia la maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario sotto due distinti profili: (i) la prevedibilità e (ii) la disponibilità. Per quanto riguarda il primo profilo, la legge dispone che se non è fissato un termine per la pronuncia del lodo questo deve essere pronunciato entro 240 giorni dalla accettazione della nomina da parte degli arbitri (art. 820 c.p.c.). Le parti sono quindi poste in grado di conoscere, sin dalla stipulazione della convenzione arbitrale (o del compromesso), il tempo necessario per ottenere la decisione della controversia. È vero che determinati eventi (o ragioni sopravvenute) possono comportare uno slittamento del tempo della decisione finale degli arbitri (assunzione di mezzi di prova o licenziamento di consulenza tecnica, pronuncia di un lodo non definitivo o parziale, modificazione della composizione dell’organo arbitrale), ma anche in queste ipotesi i tempi della proroga sono scanditi dalle norme e sono quindi anch’essi prevedibili. La prevedibilità del tempo della decisione è certamente un valore rilevante, di particolare interesse per le parti in conflitto: essa consente, quanto meno, una programmazione delle attività che possono essere incise dalla decisione arbitrale in funzione dei prevedibili tempi di essa. Ma anche il secondo profilo evidenziato, relativo alla disponibilità del tempo dell’arbitrato, è assai rilevante. Le parti possono, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, non soltanto prevedere ex ante (con la convenzione arbitrale o il compromesso) il termine per la pronuncia del lodo in misura maggiore o minore di quello generalmente previsto dalla legge, ma anche — con il consenso dell’organo arbitrale — prorogare una o più volte il termine. All’interno del procedimento arbitrale, poi, le parti possono modulare come meglio ritengono le scansioni temporali per l’espletamento delle attività necessarie per giungere alla decisione arbitrale. I tempi del processo arbitrale non sono rigidamente scanditi come nel processo ordinario e, ciò che più conta, essi sono disponibili, in quanto anche sotto questo profilo vige il principio che privilegia l’autonomia delle parti. Si è quindi in presenza di una straordinaria flessibilità del tempo del processo (a seconda della convenienza delle parti) alla quale si contrappone la rigidità delle scansioni temporali del processo civile. In altri termini, mentre nel giudizio ordinario i tempi sono eterodiretti (dalla legge, dal giudice), nel processo arbitrale essi sono dettati dall’autonomia delle parti. La circostanza che, con la riforma del 2006, il termine per la pronuncia del lodo possa essere prorogato, anche su istanza degli arbitri (o di una sola 231 © Copyright - Giuffrè Editore parte), ad opera del Presidente del Tribunale (art. 820, comma 3, lett. b) c.p.c.) rappresenta una eccezione alla regola generale che vede nelle parti i soggetti legittimati a disporre del tempo dell’arbitrato. Non vi è dubbio, allora, che il dominio ad opera delle parti del fattore tempo (nel procedimento e nella decisione arbitrale) è elemento che caratterizza l’arbitrato e contemporaneamente ne esalta la competitività rispetto al processo ordinario (19). Un aspetto che è spesso sottolineato dai detrattori della scelta arbitrale riguarda l’eccessivo costo di questo strumento di risoluzione delle controversie. È opinione diffusa (e risalente) che l’arbitrato sia uno strumento di risoluzione delle controversie civili molto costoso e, in quanto tale, elitario. Tale opinione merita di essere rivisitata (e rivista) alla luce dell’evoluzione che il fenomeno arbitrale ha conosciuto negli ultimi decenni. Le iniziative assunte dagli organi comunitari già nell’ultimo decennio del secolo scorso, intese a favorire il ricorso a metodi alternativi di risoluzione delle controversie civili e commerciali, hanno fatto emergere le potenzialità dell’arbitrato anche con riferimento a controversie di valore non particolarmente elevato, ferma restando la cautela, suggerita anche dalla Corte di Giustizia, rispetto alla generale applicazione dell’arbitrato nella materia dei diritti dei consumatori (20). L’indagine dal punto di vista del diritto comparato, inoltre, consente di rilevare una generale tendenza volta a favorire il ricorso allo strumento arbitrale. In questa prospettiva il problema dei costi dell’arbitrato assume un particolare rilievo, poiché l’onerosità della procedura può costituire effettivamente un deterrente rispetto alla scelta arbitrale. La questione, tuttavia, deve essere affrontata distinguendo le varie componenti del costo dell’arbitrato. Innanzi tutto dalle voci del costo dell’arbitrato deve essere scomputata quella riferita all’assistenza legale (non obbligatoria, tra l’altro, ma ora a differenza del passato, riservata agli avvocati nell’ambito dell’arbitrato rituale ex art. 2, comma V, della legge n. 247 del 2012) posto che il costo di essa è del tutto analogo a quello da sostenersi in un ordinario processo di cognizione. (19) Condividono l’opinione che il tempo della decisione costituisca un fattore di competitività dell’arbitrato rispetto al processo civile ALPA-V. VIGORITI (Arbitrato (nuovi profili dell’) in Digesto IV, Discipline privatistiche, Sez. Civile, Aggiornamento, 2011, 38 ss., spec. 71), ma sottolineano nel contempo la tendenza, specialmente nell’arbitrato amministrato, a sottrarre alle parti il controllo del termine per la pronuncia del lodo. La constatazione è condivisibile, ma non è a mio avviso ostativa alle conclusioni enunciate nel testo. (20) Per un inquadramento delle delicate questioni che si pongono in tema di arbitrato delle controversie dei consumatori v., se vuoi, GALLETTO, Arbitrato e conciliazione nei contratti dei consumatori, in (a cura di ALPA-VIGORITI) Arbitrati. Milano, 2012, Sezione IV, Cap. I, 92 ss. Particolarmente importanti sono, in proposito, le decisioni della Corte di Giustizia Mostaza, 26 ottobre 2006, C-168/05 e Asturcom, 6 ottobre 2009, C-40/08. 232 © Copyright - Giuffrè Editore Il costo per la gestione amministrativa dell’arbitrato, riferibile alla funzione di segreteria, è invece effettivamente più elevato — in generale — dell’importo del contributo unificato dovuto per le cause in sede ordinaria, ma il servizio reso non è in alcun modo paragonabile a quello effettuato dalle cancellerie dei tribunali (21). Il costo relativo alla remunerazione dell’organo arbitrale, infine, è peculiare della procedura prescelta e non comparabile con un analogo costo riferito al processo ordinario. Tale costo, peraltro, non è altro che il riflesso, sotto il profilo patrimoniale, della circostanza per cui nell’arbitrato sono le stesse parti (direttamente o in via mediata) a scegliere il/i componente/i dell’organo giudicante. I vantaggi di questa opportunità, che consente di individuare i soggetti astrattamente più idonei (per capacità, esperienza) a dirimere il conflitto, non necessitano di particolari sottolineature e valgono certamente a giustificare la maggior onerosità, sotto questo profilo, della scelta arbitrale (22). D’altra parte, anche nel processo arbitrale vige il principio della soccombenza, in base al quale i costi del processo devono essere rimborsati alla parte vincitrice. In questa prospettiva deve essere disapprovata la tendenza degli arbitri (per la verità oggi meno diffusa che in passato) a compensare tra le parti i costi della procedura anche in assenza di plausibili ragioni giustificative di tale scelta. Quest’ultima, tra l’altro, poteva forse in passato trarre spunto da una inesatta percezione del fenomeno arbitrale, da taluno inteso quale strumento volto a perseguire una soluzione in senso lato transattiva della controversia. Oggi una tale visione dell’arbitrato non è più sostenibile, anche alla luce della recente riforma del 2006 che ha fortemente accentuato la connotazione processuale dell’arbitrato (emblematica è, in proposito, l’equiparazione — di cui all’art. 824-bis c.p.c. — del lodo, quanto agli effetti, alla sentenza civile). La tendenza dell’ordinamento processuale civile, tra l’altro, è evidentemente orientata a considerare eccezionale l’ipotesi di compensazione (parziale o totale) delle spese di causa (v. artt. 91 e 92 c.p.c. nel testo novellato nel 2009), e non vi è ragione per una diversa soluzione nell’ambito del processo arbitrale. (21) Questa affermazione di maggiore onerosità del costo della gestione amministrativa dell’arbitrato rispetto al costo del contributo unificato dovuto per le cause in sede ordinaria è suscettibile di essere messa in discussione in conseguenza del vertiginoso aumento degli importi del contributo unificato che, rispetto alla originaria quantificazione al momento della sua introduzione nel 2002 risultano alla data odierna incrementati del 500% come è stato rilevato da una recente indagine pubblicata il 28 gennaio 2013 da Il Sole-24ore. (22) Si è in proposito rilevato che « L’affermazione corrente che l’arbitrato sia oneroso, e che lo sia in misura incomparabilmente superiore al processo ordinario, risponde dunque al vero, ma si spiega con la complessività dell’apparato. In ogni caso essa vale solo nell’ottica dell’esborso di denaro, e non tiene conto dei costi che derivano dall’immobilizzazione dei capitali e dall’incertezza dei rapporti esasperata dalla durata del processo civile. » (ALPA - VIGORITI, Arbitrato (nuovi profili dell’), cit., 67). 233 © Copyright - Giuffrè Editore Attraverso il corretto uso del potere di allocare le spese originate dalla controversia, allora, il maggiore costo della procedura arbitrale dovrebbe tendenzialmente fare carico alla parte soccombente, rendendo neutri per la parte vincitrice gli effetti patrimoniali della scelta arbitrale, in astratto più onerosa di quella del giudizio ordinario. Anche l’opzione per un organo arbitrale monocratico può contribuire a diminuire la maggiore onerosità dei costi arbitrali rispetto a quelli del giudizio ordinario e questa scelta, in effetti, è sempre più privilegiata nell’ambito dell’arbitrato amministrato, naturalmente ove la natura della controversia e la convenzione di arbitrato lo consentano. L’arbitrato amministrato, per parte sua, si propone quale scelta privilegiata sia in ragione della prevedibilità dei costi della procedura (generalmente più competitivi di quelli risultanti dalle tariffe forensi), sia per la maggior professionalità del servizio complessivamente reso alle parti. Come è stato rilevato da autorevole dottrina « in questa materia la funzione delle Camere arbitrali è veramente preziosa e porta ad esaltare la convenienza dell’arbitrato amministrato e a giustificarne la preferenza rispetto all’arbitrato ad hoc. Invero la formazione e la diffusione di tabelle contenenti le misure minime e massime delle spese dell’arbitrato nonché delle spese amministrative, e dei compensi agli arbitri, coniugate con la sottrazione agli arbitri e il conferimento agli organi delle istituzioni arbitrali del potere di determinare queste spese e questi compensi sono la risposta più idonea alle critiche e ai sospetti che, in materia di costi dell’arbitrato, hanno investito, soprattutto in questi ultimi tempi, l’arbitrato, giungendo sino a provocare provvedimenti legislativi per vietarne l’applicazione e proclamare la nullità dei relativi patti compromissori. Tutto ciò significa che l’arbitrato amministrato rappresenta la forma più evoluta di arbitrato, adeguata al nostro tempo e capace di rispondere all’attesa di soluzioni delle controversie rapide ed efficienti, e di garantire e soddisfare la domanda di giustizia di tutti, soggetti pubblici e privati. Arbitrato amministrato, dunque come « servizio », ma anche come « ufficio » socialmente elevato, strumento di giustizia a vantaggio della collettività e segno di progresso e di civiltà » (23). In ogni caso, e conclusivamente sul punto, deve rilevarsi che, come è stato recentemente sottolineato, l’arbitrato è un genus ricco di molte species, atte a garantire tutela anche in caso di ridotta importanza economica delle aspettative (24). (23) In questo senso, testualmente, PUNZI, Brevi note in tema di arbitrato amministrato in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 1325 ss. spec. 1337. (24) Cfr. ALPA - VIGORITI, Arbitrato (nuovi profili dell’), cit., 67, i quali osservano che « Il confronto fra processo ordinario e arbitrato in punto di costi non può essere quindi impostato in termini semplicistici, segnando solo la dispendiosità del secondo, perché l’arbitrato sa essere funzionale anche alla tutela di interessi minori, con oneri addirittura inferiori a quelli del processo ordinario. ». 234 © Copyright - Giuffrè Editore Merita infine un cenno, nella prospettiva qui sostenuta della convenienza della scelta arbitrale, la questione della fiscalità nell’arbitrato. Esula certamente dalle finalità dell’intervento (e dalle capacità del suo autore) una approfondita disamina dei profili fiscali riconducibili al fenomeno arbitrale. I complessi meccanismi dell’imposizione indiretta in tema di arbitrato formano oggetto di indagini specialistiche che, ancora recentemente, ne hanno chiarito l’ambito applicativo; ad essi è quindi opportuno fare rinvio per una esaustiva trattazione (25). L’attenzione al profilo fiscale in questo contesto, invece, è incentrata sulla verifica della sussistenza o meno di ragioni che, dal punto di vista tributario, inducano a preferire lo strumento arbitrale al giudizio ordinario. In disparte i profili relativi all’imposta di bollo, alla quale sono soggetti tutti gli atti e i provvedimenti del procedimento arbitrale, salva diversa regolamentazione, mentre nel processo civile ordinario l’imposizione avviene su base forfettaria (il c.d. contributo unificato), ciò che maggiormente rileva attiene all’imposta di registro. Con riferimento a quest’ultima, a seguito delle riforme introdotte nel codice di rito in materia di arbitrato, risulta che il solo lodo arbitrale omologato è soggetto ad imposizione di registro secondo quanto disposto dall’art. 8 Tariffa, Parte I, allegata al T.U. n. 131/1986, purché emesso nel territorio dello Stato. Un’imposizione, quindi, sostanzialmente analoga a quella applicabile alle sentenze del giudice civile ordinario. Del tutto diversa, invece, l’ipotesi del lodo arbitrale non omologato, che è soggetto a tassazione solo in caso d’uso (art. 2, Tariffa, Parte II). In questa prospettiva emerge un aspetto di maggior competitività dell’arbitrato. Come è stato correttamente rilevato, infatti, « tale disposizione rappresenta certamente l’aspetto caratterizzante dell’imposizione sull’arbitrato, in quanto finisce per rimettere all’interesse delle parti l’imposizione sul lodo, consentendo così di giungere alla soluzione della controversia e ad una spontanea attuazione del lodo senza l’aggravio di costi fiscali. In tal modo è l’interesse delle parti a condizionare l’imposizione, ricadendo sul soccombente anche l’onere dell’imposta di registro, evitabile in presenza della prevenzione della procedura esecutiva e della preventiva dichiarazione di esecutività del lodo finalizzata a ciò. (25) Per una completa disamina dei profili fiscali dell’arbitrato v. per tutti DOMINICI, Aspetti tributari in ALPA-VIGORITI (a cura di), L’arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, Torino, 2012, 1481 ss. 235 © Copyright - Giuffrè Editore Con tale sistema di imposizione si è in effetti incentivato in modo rilevante il ricorso alla giustizia privata, sottraendo l’imposizione sul processo agli automatismi propri della funzione pubblica svolta dagli organi dell’amministrazione della giustizia » (26). La maggior appetibilità dello strumento arbitrale sotto il profilo dell’imposizione indiretta, peraltro, si esaurisce nei limiti sopra indicati (lodo non omologato che non necessiti del ricorso alla esecuzione forzata). Il legislatore non ha sinora ritenuto opportuno introdurre norme agevolative della fiscalità indiretta nell’arbitrato, come invece ha fatto ad esempio in materia di procedimenti di mediazione finalizzati alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, di cui al D.lg.vo 28 del 2010. Ai sensi dell’art. 17 del menzionato Decreto, infatti, i verbali di conciliazione redatti presso organismi abilitati sono esenti dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, e l’imposta è dovuta solo per la parte eventualmente eccedente (l’intero procedimento, poi, è esente da imposta di bollo e sono previsti crediti di imposta, sino a 500 euro, per le indennità corrisposte agli organismi di mediazione). È evidente come la previsione di una analoga agevolazione fiscale per l’arbitrato potrebbe conseguire il risultato di incentivare le parti a fare ricorso allo strumento arbitrale, con conseguente effetto deflattivo del contenzioso civile ordinario. Pur non essendo possibile individuare l’importo in termini di minor gettito tributario di una siffatta previsione normativa, se si rammentano i costi per la collettività della inefficienza della giustizia civile (che la Banca d’Italia calcola in un punto percentuale del P.I.L. annuo) ne deriva che il minor gettito riveniente dalla imposizione indiretta applicata alle sentenze civili sarebbe ampiamente compensato dal minor costo globale del « servizio giustizia ». In questa prospettiva non sembra allora azzardato auspicare un intervento del legislatore fiscale inteso ad agevolare — nei limiti compatibili con le esigenze di bilancio — il ricorso allo strumento arbitrale per la risoluzione delle controversie civili e commerciali, contribuendo così a completare il quadro normativo che, come si è cercato di illustrare, determina la maggiore competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio civile ordinario. Questo intervento agevolativo avrebbe, tra l’altro, l’effetto di invogliare le parti a ricorrere allo strumento arbitrale (in ipotesi all’arbitrato amministrato) con corrispondente diminuzione dell’accesso alla giustizia ordinaria. Se è pacifica l’impossibilità per il legislatore di prevedere ipotesi di arbitrato obbligatorio, non altrettanto può dirsi di iniziative incentivanti sotto il profilo fiscale, idonee ad orientare la libera determinazione delle parti di avvalersi dello strumento arbitrale. (26) Cfr. TINELLI, Profili tributari dell’arbitrato, in questa Rivista, 1993, 29, spec. 38. 236 © Copyright - Giuffrè Editore 12. Conclusioni. Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza è possibile cercare di trarre le fila del discorso per giungere ad alcune sintetiche conclusioni. Per quanto riguarda la astratta percorribilità della scelta arbitrale per la regolazione delle controversie che traggano origine da accordi di ristrutturazione del debito non sembra siano rinvenibili ostacoli che impediscano il ricorso all’arbitrato nella materia considerata. Per quanto concerne le eventuali ragioni di inopportunità dell’opzione arbitrale, l’esito della sintetica comparazione tra processo ordinario e processo arbitrale che è stata svolta in precedenza depone significativamente in favore dell’arbitrato. La maggior competitività dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario quanto ai tempi di conseguimento di una decisione sul merito della lite è oggettivamente innegabile, anche a fronte delle statistiche sulla durata media di un giudizio di primo grado che sono state precedentemente ricordate. L’aspetto sul quale è opportuno riflettere, peraltro, non è solo quello della velocità della conclusione del procedimento: altrettanta importanza, infatti, deve essere riconosciuta alla disponibilità dei tempi del processo arbitrale che è riservata alle parti e che è un vero e proprio valore aggiunto peculiare dello strumento arbitrale. Anche per quanto riguarda il fattore costo, rispetto al quale non può negarsi una potenziale maggiore onerosità dell’arbitrato rispetto al giudizio ordinario, deve rilevarsi il profilo economico dei numerosi vantaggi indiretti che sono offerti dall’arbitrato. La possibilità di scegliere il giudice più adatto a risolvere una determinata controversia, invero, non ha termine di comparazione con il giudizio ordinario e costituisce un valore suscettibile di quantificazione economica. La decisione assunta da persona competente, infatti, tende ad assicurare maggiore stabilità alla pronuncia ed a scoraggiare l’impugnazione, con evidenti vantaggi per la parte vittoriosa in termini di tempo necessario ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione controversa. In questa prospettiva, allora, il maggior costo della procedura arbitrale si dissolve a fronte del costo riconducibile al protrarsi per molti anni (in qualche caso oltre un decennio) delle controversie davanti al giudice ordinario con conseguente impossibilità di programmazione basata sull’esito della lite. L’arbitrato, specialmente se amministrato con conseguente controllo sulla regolarità formale della procedura, esce vincitore anche nella sfida sul costo, per le ragioni sinteticamente ricordate in precedenza. Certo il cammino per una compiuta affermazione dell’arbitrato è ancora lungo, ma non è senza significato che — in un recente convegno — il Vice-Presidente della Corte Costituzionale abbia avuto modo di osservare che 237 © Copyright - Giuffrè Editore « intermediazione preventiva e arbitrato possono anche lasciare scorgere, naturalmente in lontananza, lo scenario, eventuale e probabile, di un futuro privatistico della stessa giustizia civile e amministrativa » (27). Non vi sono allora ragioni per escludere la possibile convivenza tra accordi di ristrutturazione dei debiti e strumento arbitrale, specialmente se l’opzione in favore di quest’ultimo è accompagnata dall’ulteriore scelta dell’arbitrato amministrato che garantisce ex ante la conoscibilità delle regole del processo e dei costi della procedura. In questa prospettiva non sembrano rinvenibili oggettive ragioni, né sotto il profilo giuridico, né sotto quello dell’opportunità, che giustifichino la mancata opzione in favore dello strumento arbitrale per la risoluzione delle controversie originate da accordi ex art. 182-bis l.f. D’altra parte, e conclusivamente, è singolare la constatazione che vede da un lato gli operatori escludere il ricorso allo strumento arbitrale nell’ambito dei menzionati accordi e, dall’altro, le banche sottoporre a giudizio arbitrale le controversie che possano tra loro insorgere in relazione agli obblighi derivanti dal « Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi d’impresa », predisposto dalla Associazione Bancaria Italiana (circolare serie legale n. 9 del 3 aprile 2000). Anche per queste ragioni non può che auspicarsi che in futuro gli accordi di ristrutturazione dei debiti contemplino il ricorso alla soluzione arbitrale, mediante procedura amministrata, per la risoluzione delle controversie che da essi traggano origine. (27) MAZZELLA, Riflessioni sulla giustizia tra teoria e prassi, intervento al Convegno « La giustizia: teoria e prassi », organizzato dalla Scuola Superiore di studi avanzati Università degli Studi di Roma « La Sapienza », Roma, 6 marzo 2013, pag. 12 del dattiloscritto. 238 © Copyright - Giuffrè Editore DOCUMENTI E NOTIZIE La riforma dell’arbitrato in Belgio Si riporta qui di seguito il testo francese della legge belga del 24 giugno 2013, pubblicata il 28 giugno 2013 ed entrata in vigore il 1° settembre 2013, che ha riformato la disciplina dell’arbitrato. Loi modifiant la sixième partie du Code judiciaire relative à l’arbitrage (Loi 24 juin 2013) CHAPITRE 1er. Disposition générale er Article 1 . - La présente loi règle une matière visée à l’article 78 de la Constitution. CHAPITRE 2. - Modifications de la sixième partie du Code judiciaire relative à l’arbitrage Art. 2. Dans le Code judiciaire, les articles 1676 à 1723 de la sixième partie, intitulée “L’arbitrage”, insérée par la loi du 4 juillet 1972 et modifiée par les lois des 27 mars 1985 et 19 mai 1998, sont abrogés. Art. 3. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre 1er intitulé “Chapitre 1er. Dispositions générales”. Art. 4. Dans le chapitre 1er inséré par l’article 3, il est inséré un article 1676 rédigé comme suit: “Art. 1676. § 1er. Toute cause de nature patrimoniale peut faire l’objet d’un arbitrage. Les causes de nature non-patrimoniale sur lesquelles il est permis de transiger peuvent aussi faire l’objet d’un arbitrage. § 2. Quiconque a la capacité ou le pouvoir de transiger, peut conclure une convention d’arbitrage. § 3. Sans préjudice des lois particulières, les personnes morales de droit public ne peuvent conclure une convention d’arbitrage que lorsque celle-ci a pour objet le règlement de différends relatifs à une convention. La convention 239 © Copyright - Giuffrè Editore d’arbitrage est soumise aux mêmes conditions quant à sa conclusion que la convention qui fait l’objet de l’arbitrage. En outre, les personnes morales de droit public peuvent conclure une convention d’arbitrage en toutes matières déterminées par la loi ou par arrêté royal délibéré en Conseil des ministres. Cet arrêté peut également fixer les conditions et les règles à respecter relatives à la conclusion de la convention. § 4. Les dispositions qui précèdent sont applicables sous réserve des exceptions prévues par la loi. § 5. Sous réserve des exceptions prévues par la loi, est nulle de plein droit toute convention d’arbitrage conclue avant la naissance d’un litige dont le tribunal du travail doit connaître en vertu des articles 578 à 583. § 6. Les articles 5 à 14 de la loi du 16 juillet 2004 portant le Code de droit international privé s’appliquent en matière d’arbitrage et les juges belges sont également compétents lorsque le lieu de l’arbitrage se trouve en Belgique au sens de l’article 1701, § 1er, lors de l’introduction de la demande. Tant que le lieu de l’arbitrage n’est pas fixé, les juges belges sont compétents en vue de prendre les mesures visées aux articles 1682 et 1683. § 7. Sauf convention contraire des parties, la sixième partie du présent Code s’applique lorsque le lieu de l’arbitrage au sens de l’article 1701, § 1er, est situé en Belgique. § 8. Par dérogation au § 7, les dispositions des articles 1682, 1683, 1696 à 1698, 1708 et 1719 à 1722 s’appliquent quel que soit le lieu de l’arbitrage et nonobstant toute clause conventionnelle contraire.”. Art. 5. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1677 rédigé comme suit: “Art. 1677. § 1er. Dans la présente partie du Code, 1° les mots “tribunal arbitral” désignent un arbitre unique ou plusieurs arbitres; 2° le mot “communication” désigne la transmission d’une pièce écrite tant entre les parties qu’entre les parties et les arbitres et entre les parties et les tiers qui organisent l’arbitrage, moyennant un moyen de communication ou d’une manière qui fournit une preuve de l’envoi. § 2. Lorsqu’une disposition de la présente partie, à l’exception de l’article 1710, permet aux parties de décider d’une question qui y est visée, cette liberté emporte le droit pour les parties d’autoriser un tiers à décider de cette question.”. Art. 6. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1678 rédigé comme suit: “Art. 1678. § 1er. Sauf convention contraire des parties, la communication est remise ou envoyée au destinataire en personne, ou à son domicile, ou à sa résidence, ou à son adresse électronique ou s’il s’agit d’une personne morale, à son siège statutaire, ou à son établissement principal ou à son adresse électronique. 240 © Copyright - Giuffrè Editore Si aucun de ces lieux n’a pu être trouvé après une enquête raisonnable, la communication s’effectue valablement par sa remise ou son envoi au dernier domicile connu ou à la dernière résidence connue, ou s’il s’agit d’une personne morale, au dernier siège statutaire connu ou au dernier établissement principal connu ou à la dernière adresse électronique connue. § 2. Sauf convention contraire des parties, les délais qui commencent à courir à l’égard du destinataire, à partir de la communication, sont calculés: a) lorsque la communication est effectuée par remise contre un accusé de réception daté, à partir du premier jour qui suit; b) lorsque la communication est effectuée par courrier électronique ou par un autre moyen de communication qui fournit une preuve de l’envoi, à partir du premier jour qui suit la date indiquée sur l’accusé de réception; c) lorsque la communication est effectuée par courrier recommandé avec accusé de réception, à partir du premier jour qui suit celui où le courrier a été présenté au destinataire en personne à son domicile ou à sa résidence, soit à son siège statutaire ou son établissement principal ou, le cas échéant, au dernier domicile connu ou la dernière résidence connue soit au dernier siège statutaire connu soit au dernier établissement principal connu; d) lorsque la communication est effectuée par courrier recommandé, à partir du troisième jour ouvrable qui suit celui où le courrier a été présenté aux services postaux, à moins que le destinataire apporte la preuve contraire. § 3. La communication est présumée être effectuée au destinataire le jour de l’accusé de réception. § 4. Le présent article ne s’applique pas aux communications échangées dans le cadre d’une procédure judiciaire.”. Art. 7. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1679 rédigé comme suit: “Art. 1679. Une partie qui, en connaissance de cause et sans motif légitime, s’abstient d’invoquer en temps utile une irrégularité devant le tribunal arbitral est réputée avoir renoncé à s’en prévaloir.”. Art. 8. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1680 rédigé comme suit: “Art. 1680. § 1er. Le président du tribunal de première instance, statuant comme en référé, sur requête unilatérale présentée par la partie la plus diligente, désigne l’arbitre conformément à l’article 1685, §§ 3 et 4. Le président du tribunal de première instance statuant comme en référé, sur citation procède au remplacement de l’arbitre, conformément à l’article 1689, § 2. La décision de nomination ou de remplacement de l’arbitre n’est pas susceptible de recours. Toutefois, appel peut être interjeté contre cette décision lorsque le président du tribunal de première instance déclare n’y avoir lieu à nomination. 241 © Copyright - Giuffrè Editore § 2. Le président du tribunal de première instance statuant comme en référé, sur citation, se prononce sur le déport d’un arbitre conformément à l’article 1685, § 7, sur la récusation d’un arbitre conformément à l’article 1687, § 2, et sur la carence ou l’incapacité d’un arbitre dans le cas prévu à l’article 1688, § 2. Sa décision n’est susceptible d’aucun recours. § 3. Le président du tribunal de première instance statuant comme en référé, peut impartir un délai à l’arbitre pour rendre sa sentence dans les conditions prévues à l’article 1713, § 2. Sa décision n’est susceptible d’aucun recours. § 4. Le président du tribunal de première instance statuant comme en référé prend toutes les mesures nécessaires en vue de l’obtention de la preuve conformément à l’article 1709. Sa décision n’est susceptible d’aucun recours. § 5. Sauf dans les cas visés aux §§ 1er à 4, le tribunal de première instance, est compétent. Il statue, sur citation, en premier et dernier ressort. § 6. Sous réserve de l’article 1720, les actions visées au présent article sont de la compétence du juge dont le siège est celui de la cour d’appel dans le ressort duquel est fixé le lieu de l’arbitrage. Lorsque ce lieu n’a pas été fixé, est compétent le juge dont le siège est celui de la cour d’appel dans le ressort duquel se trouve la juridiction qui eut pu connaître du litige s’il n’avait pas être soumis à l’arbitrage.”. Art. 9. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre II intitulé “Chapitre II. Convention d’arbitrage”. Art. 10. Dans le chapitre II inséré par l’article 9, il est inséré un article 1681 rédigé comme suit: “Art. 1681. Une convention d’arbitrage est une convention par laquelle les parties soumettent à l’arbitrage tous les différends ou certains des différends qui sont nés ou pourraient naître entre elles au sujet d’un rapport de droit déterminé, contractuel ou non contractuel.”. Art. 11. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1682 rédigé comme suit: “Art. 1682. § 1er. Le juge saisi d’un différend faisant l’objet d’une convention d’arbitrage se déclare sans juridiction à la demande d’une partie, à moins qu’en ce qui concerne ce différend la convention ne soit pas valable ou n’ait pris fin. A peine d’irrecevabilité, l’exception doit être proposée avant toutes autres exceptions et moyens de défense. § 2. Lorsque le juge est saisi d’une action visée au § 1er, la procédure arbitrale peut néanmoins être engagée ou poursuivie et une sentence peut être rendue.”. Art. 12. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1683 rédigé comme suit: 242 © Copyright - Giuffrè Editore “Art. 1683. Une demande en justice, avant ou pendant la procédure arbitrale, en vue de l’obtention de mesures provisoires ou conservatoires et l’octroi de telles mesures ne sont pas incompatibles avec une convention d’arbitrage et n’impliquent pas renonciation à celle-ci.”. Art. 13. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre III intitulé “Chapitre III. Composition du tribunal arbitral”. Art. 14. Dans le chapitre III inséré par l’article 13, il est inséré un article 1684 rédigé comme suit: “Art. 1684. § 1er. Les parties peuvent convenir du nombre d’arbitres pourvu qu’il soit impair. Il peut y avoir un arbitre unique. § 2. Si les parties ont prévu un nombre pair d’arbitres, il est procédé à la nomination d’un arbitre supplémentaire. § 3. A défaut d’accord entre les parties sur le nombre d’arbitres, le tribunal arbitral est composé de trois arbitres.”. Art. 15. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1685 rédigé comme suit: “Art. 1685. § 1er. Sauf convention contraire des parties, une personne ne peut, en raison de sa nationalité, être empêchée d’exercer la fonction d’arbitre. § 2. Sans préjudice des §§ 3 et 4 ainsi que de l’exigence générale dindépendance et d’impartialité du ou des arbitres, les parties peuvent convenir de la procédure de désignation de l’arbitre ou des arbitres. § 3. Faute d’une telle convention; a) en cas d’arbitrage par trois arbitres, chaque partie désigne un arbitre et les deux arbitres ainsi désignés choisissent le troisième arbitre; si une partie ne désigne pas un arbitre dans un délai d’un mois à compter de la réception d’une demande à cette fin émanant de l’autre partie, ou si les deux arbitres ne s’accordent pas sur le choix du troisième arbitre dans un délai d’un mois à compter de la désignation du deuxième arbitre, il est procédé à la désignation du ou des arbitres par le président du tribunal de première instance statuant sur requête de la partie la plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er; b) en cas d’arbitrage par un arbitre unique, si les parties ne peuvent s’accorder sur le choix de l’arbitre, celui-ci est désigné par le président du tribunal de première instance statuant sur requête de la partie la plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er; c) en cas d’arbitrage par plus de trois arbitres, si les parties ne peuvent s’accorder sur la composition du tribunal arbitral, celui-ci est désigné par le président du tribunal de première instance statuant sur requête de la partie la plus diligente, conformément à l’article 1680, § 1er. § 4. Lorsque, durant une procédure de désignation convenue par les parties, 243 © Copyright - Giuffrè Editore a) une partie n’agit pas conformément à ladite procédure; ou b) les parties, ou deux arbitres, ne peuvent parvenir à un accord conformément à ladite procédure; ou un tiers, y compris une institution, ne s’acquitte pas d’une fonction qui lui a été conférée dans ladite procédure, l’une ou l’autre partie peut demander au président du tribunal de première instance statuant conformément à l’article 1680, § 1er, de prendre la mesure voulue, à moins que la convention relative à la procédure de désignation ne stipule d’autres moyens pour assurer cette désignation. § 5. Lorsqu’il désigne un arbitre, le président du tribunal tient compte de toutes les qualifications requises de l’arbitre en vertu de la convention des parties et de toutes considérations propres à garantir la désignation d’un arbitre indépendant et impartial. § 6. La désignation d’un arbitre ne peut être rétractée après avoir été notifiée. § 7. L’arbitre qui a accepté sa mission ne peut se retirer que de l’accord des parties ou moyennant l’autorisation du président du tribunal de première instance statuant conformément à l’article 1680, § 2.”. Art. 16. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1686 rédigé comme suit: “Art. 1686. § 1er. Lorsqu’une personne est pressentie en vue de sa désignation éventuelle en qualité d’arbitre, elle signale toute circonstance de nature à soulever des doutes légitimes sur son indépendance ou son impartialité. A partir de la date de sa désignation et durant toute la procédure arbitrale, l’arbitre signale sans délai aux parties toutes nouvelles circonstances de cette nature. § 2. Un arbitre ne peut être récusé que s’il existe des circonstances de nature à soulever des doutes légitimes sur son indépendance ou son impartialité, ou s’il ne possède pas les qualifications convenues par les parties. Une partie ne peut récuser l’arbitre qu’elle a désigné ou à la désignation duquel elle a participé que pour une cause dont elle a eu connaissance après cette désignation.”. Art. 17. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1687 rédigé comme suit: “Art. 1687. § 1er. Les parties peuvent convenir de la procédure de récusation d’un arbitre. § 2. Faute d’un tel accord: a) la partie qui a l’intention de récuser un arbitre expose par écrit les motifs de récusation à l’arbitre concerné, le cas échéant aux autres arbitres si le tribunal en comporte, et à la partie adverse. A peine d’irrecevabilité, cette communication intervient dans un délai de quinze jours à compter de la date à laquelle la partie récusante a eu connaissance de la constitution du tribunal arbitral ou de la date à laquelle elle a eu connaissance des circonstances visées à l’article 1686, § 2. 244 © Copyright - Giuffrè Editore b) Si, dans un délai de dix jours à partir de la communication de la récusation qui lui est faite, l’arbitre récusé ne se déporte pas ou que l’autre partie n’admet pas la récusation, le récusant cite l’arbitre et les autres parties, à peine d’irrecevabilité, dans un délai de dix jours, devant le président du tribunal de première instance statuant conformément à l’article 1680, § 2. Dans l’attente de la décision du président, le tribunal arbitral, y compris l’arbitre récusé, peut poursuivre la procédure arbitrale et rendre une sentence.”. Art. 18. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1688 rédigé comme suit: “Art. 1688. § 1er. Sauf convention contraire des parties, lorsqu’un arbitre se trouve dans l’impossibilité de droit ou de fait de remplir sa mission, ou, pour tout autre motif, ne s’acquitte pas de sa mission dans un délai raisonnable, son mandat prend fin s’il se retire dans les conditions prévues à l’article 1685, § 7, ou si les parties conviennent d’y mettre fin. § 2. S’il subsiste un désaccord quant à l’un quelconque de ces motifs, la partie la plus diligente cite les autres parties ainsi que l’arbitre visé au § 1er devant le président du tribunal de première instance qui statue conformément à l’article 1680, § 2. § 3. Le fait qu’en application du présent article ou de l’article 1687, un arbitre se retire ou qu’une partie accepte que la mission d’un arbitre prenne fin, n’implique pas reconnaissance des motifs mentionnés à l’article 1687 ou dans le présent article.”. Art. 19. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1689 rédigé comme suit: “Art. 1689. § 1er. Dans tous les cas où il est mis fin à la mission de l’arbitre avant que la sentence finale ne soit rendue, un arbitre remplaçant est désigné. Cette désignation est effectuée conformément aux règles qui étaient applicables à la désignation de l’arbitre remplacé, à moins que les parties n’en conviennent autrement. § 2. Si l’arbitre n’est pas remplacé conformément au § 1er, chaque partie peut saisir le président du tribunal de première instance, statuant conformément à l’article 1680, § 1er. § 3. Une fois désigné l’arbitre remplaçant, les arbitres, après avoir entendu les parties, décident s’il y a lieu de reprendre tout ou partie de la procédure sans qu’ils puissent revenir sur la ou les sentences définitives partielles qui auraient été rendues.”. Art. 20. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre IV intitulé “Chapitre IV. Compétence du tribunal arbitral”. Art. 21. Dans le chapitre IV inséré par l’article 20, il est inséré un article 1690 rédigé comme suit: 245 © Copyright - Giuffrè Editore “Art. 1690. § 1er. Le tribunal arbitral peut statuer sur sa propre compétence, y compris sur toute exception relative à l’existence ou à la validité de la convention d’arbitrage. A cette fin, une convention d’arbitrage faisant partie d’un contrat est considérée comme une convention distincte des autres clauses du contrat. La constatation de la nullité du contrat par le tribunal arbitral n’entraîne pas de plein droit la nullité de la convention d’arbitrage. § 2. L’exception d’incompétence du tribunal arbitral doit être soulevée au plus tard dans les premières conclusions communiquées par la partie qui l’invoque, dans les délais et selon les modalités fixées conformément à l’article 1704. Le fait pour une partie d’avoir désigné un arbitre ou d’avoir participé à sa désignation ne la prive pas du droit de soulever cette exception. L’exception prise de ce que la question litigieuse excèderait les pouvoirs du tribunal arbitral doit être soulevée aussitôt que cette question est formulée dans le cours de la procédure. Dans les deux cas, le tribunal arbitral peut recevoir des exceptions soulevées tardivement, s’il estime que le retard est justifié. § 3. Le tribunal arbitral peut statuer sur les exceptions visées au § 2 soit en les traitant comme des questions à trancher préalablement soit dans sa sentence au fond. § 4. La décision par laquelle le tribunal arbitral s’est déclaré compétent ne peut faire l’objet d’un recours en annulation qu’en même temps que la sentence au fond et par la même voie. Le tribunal de première instance peut également, à la demande d’une des parties, se prononcer sur le bien fondé de la décision d’incompétence du tribunal arbitral.”. Art. 22. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1691 rédigé comme suit: “Art. 1691. Sans préjudice des pouvoirs reconnus aux cours et tribunaux en vertu de l’article 1683, et sauf convention contraire des parties, le tribunal arbitral peut, à la demande d’une partie, ordonner les mesures provisoires ou conservatoires qu’il juge nécessaires. Le tribunal arbitral ne peut toutefois autoriser une saisie conservatoire.”. Art. 23. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1692 rédigé comme suit: “Art. 1692. A la demande de l’une des parties, le tribunal arbitral peut modifier, suspendre ou rétracter une mesure provisoire ou conservatoire.”. Art. 24. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1693 rédigé comme suit: “Art. 1693. Le tribunal arbitral peut décider que la partie qui demande une mesure provisoire ou conservatoire fournira une garantie appropriée.”. 246 © Copyright - Giuffrè Editore Art. 25. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1694 rédigé comme suit: “Art. 1694. Le tribunal arbitral peut décider qu’une partie communiquera sans tarder tout changement important des circonstances sur la base desquelles la mesure provisoire ou conservatoire a été demandée ou accordée.”. Art. 26. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1695 rédigé comme suit: “Art. 1695. La partie qui poursuit l’exécution d’une mesure provisoire ou conservatoire est responsable de tous les frais et de tous les dommages causés par la mesure à une autre partie, si le tribunal arbitral décide par la suite qu’en l’espèce la mesure provisoire ou conservatoire n’aurait pas dû être prononcée. Le tribunal arbitral peut accorder réparation pour ces frais et dommages à tout moment pendant la procédure.”. Art. 27. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1696 rédigé comme suit: “Art. 1696. § 1er. Une mesure provisoire ou conservatoire prononcée par un tribunal arbitral est reconnue comme ayant force obligatoire et, sauf indication contraire du tribunal arbitral, est déclarée exécutoire par le tribunal de première instance, quel que soit le pays où elle a été prononcée, sous réserve des dispositions de l’article 1697. § 2. La partie qui demande ou a obtenu qu’une mesure provisoire ou conservatoire soit reconnue ou déclarée exécutoire en informe sans délai l’arbitre unique ou le président du tribunal arbitral ainsi que de toute rétractation, suspension ou modification de cette mesure. § 3. Le tribunal de première instance à qui est demandé de reconnaître ou de déclarer exécutoire une mesure provisoire ou conservatoire peut ordonner au demandeur de constituer une garantie appropriée si le tribunal arbitral ne s’est pas déjà prononcé sur la garantie ou lorsqu’une telle décision est nécessaire pour protéger les droits du défendeur et des tiers.”. Art. 28. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1697 rédigé comme suit: “Art. 1697. § 1er. La reconnaissance ou la déclaration de la force exécutoire d’une mesure provisoire ou conservatoire ne peut être refusée que: a) à la demande de la partie contre laquelle cette mesure est invoquée: i) si ce refus est justifié par les motifs exposés à l’article 1721, § 1er, a), i., ii., iii., iv. ou v.; ou ii) si la décision du tribunal arbitral concernant la constitution d’une garantie n’a pas été respectée; ou iii) si la mesure provisoire ou conservatoire a été rétractée ou suspendue par le tribunal arbitral ou, lorsqu’il y est habilité, annulée ou suspendue par le tribunal de l’Etat dans lequel a lieu l’arbitrage ou conformément à la loi selon laquelle cette mesure a été accordée; 247 © Copyright - Giuffrè Editore ou b) si le tribunal de première instance constate que l’un des motifs visés à l’article 1721, § 1er, b) s’applique à la reconnaissance et à la déclaration exécutoire de la mesure provisoire ou conservatoire. § 2. Toute décision prise par le tribunal de première instance pour l’un des motifs visés au § 1er n’a d’effet qu’aux fins de la demande de reconnaissance et de déclaration exécutoire de la mesure provisoire ou conservatoire. Le tribunal de première instance auprès duquel la reconnaissance ou la déclaration exécutoire est demandée n’examine pas, lorsqu’il prend sa décision, le bien fondé de la mesure provisoire ou conservatoire.”. Art. 29. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1698 rédigé comme suit: “Art. 1698. Le juge des référés dispose, pour prononcer une mesure provisoire ou conservatoire en relation avec une procédure d’arbitrage, qu’elle ait ou non lieu sur le territoire belge, du même pouvoir que celui dont il dispose en relation avec une procédure judiciaire. Il exerce ce pouvoir conformément à ses propres procédures en tenant compte des particularités de l’arbitrage.”. Art. 30. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre V intitulé “Chapitre V. Conduite de la procédure arbitrale”. Art. 31. Dans le chapitre V inséré par l’article 30, il est inséré un article 1699 rédigé comme suit: “Art. 1699. Nonobstant toute convention contraire, les parties doivent être traitées sur un pied d’égalité et chaque partie doit avoir toute possibilité de faire valoir ses droits, moyens et arguments dans le respect du contradictoire. Le tribunal arbitral veille au respect de cette exigence ainsi qu’au respect de la loyauté des débats.”. Art. 32. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1700 rédigé comme suit: “Art. 1700. § 1er. Les parties peuvent convenir de la procédure à suivre par le tribunal arbitral. § 2. Faute d’une telle convention, le tribunal arbitral peut, sous réserve des dispositions de la sixième partie du présent Code, fixer les règles de procédure applicable à l’arbitrage comme il le juge approprié. § 3. Sauf convention contraire des parties, le tribunal arbitral apprécie librement l’admissibilité des moyens de preuve et leur force probante. § 4. Le tribunal arbitral procède aux actes d’instruction nécessaires à moins que les parties ne l’autorisent à y commettre l’un de ses membres. Il peut entendre toute personne. Cette audition a lieu sans prestation de serment. 248 © Copyright - Giuffrè Editore i une partie détient un élément de preuve, le tribunal arbitral peut lui enjoindre de le produire selon les modalités qu’il détermine et au besoin, à peine d’astreinte. § 5. A l’exception des demandes relatives à des actes authentiques, le tribunal arbitral a le pouvoir de trancher les demandes de vérification d’écritures et de statuer sur la prétendue fausseté de documents. Pour les demandes relatives à des actes authentiques, le tribunal arbitral délaisse les parties à se pourvoir dans un délai déterminé devant le tribunal de première instance. Dans l’hypothèse visée à l’alinéa 2, les délais de l’arbitrage sont suspendus jusqu’au jour où le tribunal arbitral a eu communication par la partie la plus diligente de la décision coulée en force de chose jugée sur l’incident. ”. Art. 33. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1701 rédigé comme suit: “Art. 1701. § 1er. Les parties peuvent décider du lieu de l’arbitrage. Faute d’une telle décision, ce lieu est fixé par le tribunal arbitral, compte tenu des circonstances de l’affaire, en ce compris les convenances des parties. Si le lieu de l’arbitrage n’a pas été déterminé par les parties ou par les arbitres, le lieu où la sentence est rendue vaut comme lieu de l’arbitrage. § 2. Nonobstant les dispositions du § 1er et à moins qu’il en ait été convenu autrement par les parties, le tribunal arbitral peut, après les avoir consultées, tenir ses audiences et réunions en tout autre endroit qu’il estime approprié.”. Art. 34. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1702 rédigé comme suit: “Art. 1702. Sauf convention contraire des parties, la procédure arbitrale commence à la date à laquelle la demande d’arbitrage est reçue par le défendeur, conformément à l’article 1678, § 1er, a).”. Art. 35. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1703 rédigé comme suit: “Art. 1703. § 1er. Les parties peuvent convenir de la langue ou des langues à utiliser dans la procédure arbitrale. Faute d’un tel accord, le tribunal arbitral décide de la langue ou des langues à utiliser dans la procédure. Cet accord ou cette décision, à moins qu’il n’en soit convenu ou décidé autrement, s’applique à toute communication des parties, à toute procédure orale et à toute sentence, décision ou autre communication du tribunal arbitral. § 2. Le tribunal arbitral peut ordonner que toute pièce soit accompagnée d’une traduction dans la ou les langues convenues par les parties ou choisies par le tribunal arbitral.”. Art. 36. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1704 rédigé comme suit: 249 © Copyright - Giuffrè Editore “Art. 1704. § 1er. Dans le délai et selon les modalités convenues par les parties ou fixées par le tribunal arbitral, les parties développent l’ensemble de leurs moyens et arguments à l’appui de leur demande ou de leur défense ainsi que les faits au soutien de celle-ci. Les parties peuvent convenir ou le tribunal arbitral peut décider l’échange de conclusions complémentaires, ainsi que de ses modalités, entre les parties. Les parties joignent à leurs conclusions toutes les pièces qu’elles souhaitent verser aux débats. § 2. Sauf convention contraire des parties, chaque partie peut modifier ou compléter sa demande ou sa défense au cours de la procédure arbitrale, à moins que le tribunal arbitral considère ne pas devoir autoriser un tel amendement, notamment en raison du retard avec lequel il est formulé.”. Art. 37. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1705 rédigé comme suit: “Art. 1705. § 1er. A moins que les parties n’aient convenu qu’il n’y aurait pas de procédure orale, le tribunal arbitral organise une telle procédure à un stade approprié de la procédure arbitrale, si une partie lui en fait la demande. § 2. Le président du tribunal arbitral règle l’ordre des audiences et dirige les débats.”. Art. 38. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1706 rédigé comme suit: “Art. 1706. Sauf convention contraire des parties, si, sans invoquer d’empêchement légitime, a) le demandeur ne développe pas sa demande conformément à l’article 1704, § 1er, le tribunal arbitral met fin à la procédure arbitrale, sans préjudice du traitement des demandes d’une autre partie; b) le défendeur ne développe pas sa défense conformément à l’article 1704, § 1er, le tribunal arbitral poursuit la procédure arbitrale sans pouvoir considérer cette carence en soi comme une acceptation des allégations du demandeur; c) l’une des parties ne participe pas à la procédure orale ou ne produit pas de documents, le tribunal arbitral peut poursuivre la procédure et statue sur la base des éléments dont il dispose.”. Art. 39. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1707 rédigé comme suit: “Art. 1707. § 1er. Le tribunal arbitral peut, sauf convention contraire des parties, a) nommer un ou plusieurs experts chargés de lui faire rapport sur les points précis qu’il détermine; 250 © Copyright - Giuffrè Editore b) enjoindre à une partie de fournir à l’expert tous renseignements appropriés ou de lui soumettre ou de lui rendre accessible, aux fins d’examen, toutes pièces, toutes marchandises ou autres biens pertinents. § 2. Si une partie en fait la demande ou si le tribunal arbitral le juge nécessaire, l’expert participe à une audience à laquelle les parties peuvent l’interroger. § 3. Le paragraphe 2 s’applique aux conseils techniques désignés par les parties. § 4. Un expert peut être récusé pour les motifs énoncés à l’article 1686 et selon la procédure prévue à l’article 1687.”. Art. 40. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1708 rédigé comme suit: “Art. 1708. Une partie peut avec l’accord du tribunal arbitral, demander au président du tribunal de première instance statuant comme en référé d’ordonner toute les mesures nécessaires en vue de l’obtention de preuves conformément à l’article 1680, § 4.”. Art. 41. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1709 rédigé comme suit: “Art. 1709. § 1er. Tout tiers intéressé peut demander au tribunal arbitral d’intervenir dans la procédure. Cette demande est adressée par écrit au tribunal arbitral qui la communique aux parties. § 2. Une partie peut appeler un tiers en intervention. § 3. En toute hypothèse, pour être admise, l’intervention nécessite une convention d’arbitrage entre le tiers et les parties en différend. Elle est, en outre, subordonnée, à l’assentiment du tribunal arbitral qui statue à l’unanimité.”. Art. 42. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre VI intitulé “Chapitre VI. Sentence arbitrale et clôture de la procédure”. Art. 43. Dans le chapitre VI inséré par l’article 42, il est inséré un article 1710 rédigé comme suit: “Art. 1710. § 1er. Le tribunal arbitral tranche le différend conformément aux règles de droit choisies par les parties comme étant applicables au fond du différend. Toute désignation du droit d’un Etat donné est considérée, sauf indication contraire expresse, comme désignant directement les règles juridiques de fond de cet Etat et non ses règles de conflit de lois. § 2. A défaut d’une telle désignation par les parties, le tribunal arbitral applique les règles de droit qu’il juge les plus appropriées. § 3. Le tribunal arbitral statue en qualité d’amiable compositeur uniquement si les parties l’y ont expressément autorisé. 251 © Copyright - Giuffrè Editore § 4. Qu’il statue selon des règles de droit ou en qualité d’amiable compositeur, le tribunal arbitral décidera conformément aux stipulations du contrat si le différend qui oppose les parties est d’ordre contractuel et tiendra compte des usages du commerce si le différend oppose des commerçants.”. Art. 44. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1711 rédigé comme suit: “Art. 1711. § 1er. Dans une procédure arbitrale comportant plus d’un arbitre, toute décision du tribunal arbitral est, sauf convention contraire des parties, prise après délibération à la majorité de ses membres. § 2. Les questions de procédure peuvent être tranchées par le président du tribunal arbitral, si ce dernier y est autorisé par les parties. § 3. Les parties peuvent également convenir que, lorsqu’une majorité ne peut se former, la voix du président du tribunal arbitral est prépondérante. § 4. Au cas où un arbitre refuse de participer à la délibération ou au vote sur la sentence arbitrale, les autres arbitres peuvent décider sans lui, sauf convention contraire des parties. L’intention de rendre la sentence sans l’arbitre qui a refusé de participer à la délibération ou au vote doit être communiquée aux parties d’avance.”. Art. 45. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1712 rédigé comme suit: “Art. 1712. § 1er. Si, durant la procédure arbitrale, les parties s’entendent pour régler le différend, le tribunal arbitral met fin à la procédure arbitrale et, si les parties lui en font la demande, constate par une sentence l’accord des parties, sauf si celui-ci est contraire à l’ordre public. § 2. La sentence d’accord-parties est rendue conformément à l’article 1713 et mentionne le fait qu’il s’agit d’une sentence. Une telle sentence a le même statut et le même effet que toute autre sentence prononcée sur le fond de l’affaire. § 3. La décision par laquelle la sentence est déclarée exécutoire est sans effet dans la mesure où l’accord des parties a été annulé.”. Art. 46. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1713 rédigé comme suit: “Art. 1713. § 1er. Le tribunal arbitral statue définitivement ou avant dire droit par une ou plusieurs sentences. § 2. Les parties peuvent fixer le délai dans lequel la sentence doit être rendue ou prévoir les modalités selon lesquelles ce délai sera fixé et le cas échéant, prolongé. Faute de l’avoir fait, si le tribunal arbitral tarde à rendre sa sentence et qu’un délai de six mois s’est écoulé à compter de la désignation du dernier arbitre, le président du tribunal de première instance peut impartir un délai au tribunal arbitral conformément à l’article 1680, § 3. 252 © Copyright - Giuffrè Editore La mission des arbitres prend fin de plein droit lorsque le tribunal arbitral n’a pas rendu sa sentence à l’expiration du délai imparti. § 3. La sentence arbitrale est rendue par écrit et signée par l’arbitre. Dans une procédure arbitrale comprenant plusieurs arbitres, les signatures de la majorité des membres du tribunal arbitral suffisent, pourvu que soit mentionnée la raison de l’omission des autres. § 4. La sentence arbitrale est motivée. § 5. La sentence comprend notamment, outre le dispositif, les mentions suivantes: a) les noms et domiciles des arbitres; b) les noms et domiciles des parties; c) l’objet du litige; d) la date à laquelle la sentence est rendue; e) le lieu de l’arbitrage déterminé conformément à l’article 1701, § 1er, ainsi que le lieu où la sentence est rendue. § 6. La sentence arbitrale liquide les frais d’arbitrage et décide à laquelle des parties le paiement en incombe ou dans quelle proportion ils sont partagés entre elles. Sauf convention contraire des parties, ces frais comprennent les honoraires et frais des arbitres et les honoraires et frais des conseils et représentants des parties, les coûts des services rendus par l’institution chargée de l’administration de l’arbitrage et tous autres frais découlant de la procédure arbitrale. § 7. Le tribunal arbitral peut condamner une partie au paiement d’une astreinte. Les articles 1385bis à octies sont d’application mutatis mutandis. § 8. Après que la sentence arbitrale a été rendue, un exemplaire est communiqué, conformément à l’article 1678, § 1er, à chacune des parties par l’arbitre unique ou par le président du tribunal arbitral, qui s’assure que chaque partie reçoive en outre un original de la sentence si le mode de communication retenu conformément à l’article 1678, § 1er n’a pas emporté remise d’un tel original. Il en dépose l’original au greffe du tribunal de première instance. Il informe les parties de ce dépôt. § 9. La sentence, a, dans les relations entre les parties, les mêmes effets qu’une décision d’un tribunal.”. Art. 47. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1714 rédigé comme suit: “Art. 1714. § 1er. La procédure arbitrale est close par la signature de la sentence arbitrale qui épuise la juridiction du tribunal arbitral ou par une décision de clôture rendue par le tribunal arbitral conformément au § 2. § 2. Le tribunal arbitral ordonne la clôture de la procédure arbitrale lorsque: a) le demandeur se désiste de sa demande, à moins que le défendeur y fasse objection et que le tribunal arbitral reconnaisse qu’il a un intérêt légitime à ce que le différend soit définitivement réglé; 253 © Copyright - Giuffrè Editore b) les parties conviennent de clore la procédure. § 3. La mission du tribunal arbitral prend fin avec la clôture de la procédure arbitrale, la communication de la sentence et son dépôt, sous réserve des articles 1715 et 1717, § 6.”. Art. 48. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1715 rédigé comme suit: “Art. 1715. § 1er. Dans le mois de la réception de la sentence conformément l’article 1678, § 1er, à moins que les parties ne soient convenues d’un autre délai, a) une des parties peut, moyennant communication à l’autre, demander au tribunal arbitral de rectifier dans le texte de la sentence toute erreur de calcul, toute erreur matérielle ou typographique ou toute erreur de même nature; b) si les parties en sont convenues, une partie peut, moyennant communication à l’autre, demander au tribunal arbitral de donner une interprétation d’un point ou passage précis de la sentence. Si le tribunal arbitral considère que la demande est fondée, il fait la rectification ou donne l’interprétation dans le mois qui suit la réception de la demande. L’interprétation fait partie intégrante de la sentence. § 2. Le tribunal arbitral peut, de son propre chef, rectifier toute erreur du type visé au § 1er, a), dans le mois qui suit la date de la sentence. § 3. Sauf convention contraire des parties, l’une des parties peut, moyennant communication à l’autre, demander au tribunal arbitral, dans le mois qui suit la réception de la sentence conformément à l’article 1678, § 1er, de rendre une sentence additionnelle sur des chefs de demande exposés au cours de la procédure arbitrale mais omis dans la sentence. S’il juge la demande fondée, le tribunal arbitral complète sa sentence dans les deux mois, même si les délais prévus à l’article 1713, § 2 sont expirés. § 4. Le tribunal arbitral peut prolonger, si besoin est, le délai dont il dispose pour rectifier, interpréter ou compléter la sentence en vertu du § 1er ou § 3. § 5. L’article 1713 s’applique à la rectification ou l’interprétation de la sentence ou à la sentence additionnelle. § 6. Lorsque les mêmes arbitres ne peuvent plus être réunis, la demande d’interprétation, de rectification ou de compléter la sentence arbitrale doit être portée devant le tribunal de première instance. § 7. Lorsque le tribunal de première instance renvoie une sentence arbitrale en vertu de l’article 1717, § 6, l’article 1713 et le présent article sont applicables mutatis mutandis à la sentence rendue conformément à la décision de renvoi.”. Art. 49. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre VII intitulé “Chapitre VII. Recours contre la sentence arbitrale”. 254 © Copyright - Giuffrè Editore Art. 50. Dans le chapitre VII inséré par l’article 49, il est inséré un article 1716 rédigé comme suit: “Art. 1716. Il ne peut être interjeté appel contre une sentence arbitrale que si les parties ont prévu cette possibilité dans la convention d’arbitrage. Sauf stipulation contraire, le délai pour interjeter appel est d’un mois à partir de la communication de la sentence, conformément à l’article 1678, § 1er.”. Art. 51. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1717 rédigé comme suit: “Art. 1717. § 1er. La demande d’annulation n’est recevable que si la sentence ne peut plus être attaquée devant les arbitres. § 2. La sentence arbitrale ne peut être attaquée que devant le tribunal de première instance, par voie de citation, et elle ne peut être annulée que dans les cas énumérés au présent article. § 3. La sentence arbitrale ne peut être annulée que si: a) la partie en faisant la demande apporte la preuve: i) qu’une partie à la convention d’arbitrage visée à l’article 1681 était frappée d’une incapacité; ou que ladite convention n’est pas valable en vertu du droit auquel les parties l’ont soumise ou, à défaut d’une indication à cet égard, en vertu du droit belge; ou ii) qu’elle n’a pas été dûment informée de la désignation d’un arbitre ou de la procédure arbitrale, ou qu’il lui a été impossible pour une autre raison de faire valoir ses droits; dans ce cas, il ne peut toutefois y avoir annulation s’il est établi que l’irrégularité n’a pas eu d’incidence sur la sentence arbitrale; ou iii) que la sentence porte sur un différend non visé ou n’entrant pas dans les prévisions de la convention d’arbitrage, ou qu’elle contient des décisions qui dépassent les termes de la convention d’arbitrage, étant entendu toutefois que, si les dispositions de la sentence qui ont trait à des questions soumises à l’arbitrage peuvent être dissociées de celles qui ont trait à des questions non soumises à l’arbitrage, seule la partie de la sentence contenant des décisions sur les questions non soumise à l’arbitrage pourra être annulée; ou iv) que la sentence n’est pas motivée; ou v) que la constitution du tribunal arbitral, ou la procédure arbitrale, n’a pas été conforme à la convention des parties, à condition que cette convention ne soit pas contraire à une disposition de la sixième partie du présent Code à laquelle les parties ne peuvent déroger, ou, à défaut d’une telle convention, qu’elle n’a pas été conforme à la sixième partie du présent Code; à l’exception de l’irrégularité touchant à la constitution du tribunal arbitral, ces irrégularités ne peuvent toutefois donner lieu à annulation de la sentence arbitrale s’il est établi qu’elles n’ont pas eu d’incidence sur la sentence; ou vi) que le tribunal arbitral a excédé ses pouvoirs; ou b) le tribunal de première instance constate: i) que l’objet du différend n’est pas susceptible d’être réglé par voie d’arbitrage; ou 255 © Copyright - Giuffrè Editore ii) que la sentence est contraire à l’ordre public; ou iii) que la sentence a été obtenue par fraude. § 4. Hormis dans le cas visé à l’article 1690, § 4, alinéa 1er, une demande d’annulation ne peut être présentée après l’expiration d’un délai de trois mois à compter de la date à laquelle la partie introduisant cette demande a reçu communication de la sentence conformément à l’article 1678, § 1er, a), ou, si une demande a été introduite en vertu de l’article 1715, à compter de la date à laquelle la partie introduisant la demande d’annulation a reçu communication de la décision du tribunal arbitral sur la demande introduite en vertu de l’article 1715, conformément à l’article 1678, § 1er, a). § 5. Ne sont pas retenues comme causes d’annulation de la sentence arbitrale les cas prévus au § 2, a), i., ii., iii. et v., lorsque la partie qui s’en prévaut en a eu connaissance au cours de la procédure arbitrale et ne les a pas alors invoquées. § 6. Lorsqu’il lui est demandé d’annuler une sentence arbitrale le tribunal de première instance peut, le cas échéant et à la demande d’une partie, suspendre la procédure d’annulation pendant une période dont il fixe la durée afin de donner au tribunal arbitral la possibilité de reprendre la procédure arbitrale ou de prendre toute autre mesure que ce dernier juge susceptible d’éliminer les motifs d’annulation.”. Art. 52. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1718 rédigé comme suit: “Art. 1718. Les parties peuvent, par une déclaration expresse dans la convention d’arbitrage ou par une convention ultérieure, exclure tout recours en annulation d’une sentence arbitrale lorsqu’aucune d’elles n’est soit une personne physique ayant la nationalité belge ou son domicile ou sa résidence habituelle en Belgique, soit une personne morale ayant en Belgique, son siège statutaire, son principal établissement ou une succursale.”. Art. 53. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre VIII intitulé “Chapitre VIII. Reconnaissance et exécution des sentences arbitrales”. Art. 54. Dans le chapitre VIII inséré par l’article 53, il est inséré un article 1719 rédigé comme suit: “Art. 1719. § 1er. La sentence arbitrale, rendue en Belgique ou à l’étranger, ne peut faire l’objet d’une exécution forcée qu’après avoir été revêtue de la formule exécutoire, entièrement ou partiellement, par le tribunal de première instance conformément à la procédure visée à l’article 1720. § 2. Le tribunal de première instance ne peut revêtir la sentence de la formule exécutoire que si la sentence ne peut plus être attaquée devant les arbitres ou si les arbitres en ont ordonné l’exécution provisoire nonobstant appel.”. 256 © Copyright - Giuffrè Editore Art. 55. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1720 rédigé comme suit: “Art. 1720. § 1er. Le tribunal de première instance est compétent pour connaître d’une demande concernant la reconnaissance et l’exécution d’une sentence arbitrale rendue en Belgique ou à l’étranger. § 2. Le tribunal territorialement compétent est le tribunal de première instance du siège de la cour d’appel dans le ressort duquel la personne contre laquelle la déclaration exécutoire est demandée a son domicile et, à défaut de domicile, sa résidence habituelle où, le cas échant, son siège social, ou à défaut, son établissement ou sa succursale. Si cette personne n’a ni domicile, ni résidence habituelle, ni siège social ni établissement ou succursale en Belgique, la demande est portée devant le tribunal de première instance du siège de la cour d’appel de l’arrondissement dans lequel la sentence doit être exécutée. § 3. La demande est introduite et instruite sur requête unilatérale. Le requérant doit faire élection de domicile dans le ressort du tribunal. § 4. Le requérant doit fournir l’original de la sentence arbitrale ou une copie certifiée conforme ainsi que l’original de la convention d’arbitrage ou une copie certifiée conforme. § 5. La sentence ne peut être reconnue ou déclarée exécutoire que si elle ne contrevient pas aux conditions de l’article 1721.”. Art. 56. Dans le même chapitre, il est inséré un article 1721 rédigé comme suit: “Art. 1721. § 1er. Le tribunal de première instance ne refuse la reconnaissance et la déclaration exécutoire d’une sentence arbitrale, quel que soit le pays où elle a été rendue, que dans les circonstances suivantes: a) à la demande de la partie contre laquelle elle est invoquée, si cette dite partie apporte la preuve: i) qu’une partie à la convention d’arbitrage visée à l’article 1681 était frappée d’une incapacité; ou que ladite convention n’est pas valable en vertu de la loi à laquelle les parties l’ont subordonnée ou, à défaut de choix exercé, en vertu de la loi du pays où la sentence a été rendue; ou ii) que la partie contre laquelle la sentence est invoquée n’a pas été dûment informée de la désignation d’un arbitre ou de la procédure arbitrale, ou qu’il lui a été impossible pour une autre raison de faire valoir ses droits; dans ces cas, il ne peut toutefois y avoir refus de reconnaissance ou de déclaration exécutoire de la sentence arbitrale s’il est établi que l’irrégularité n’a pas eu une incidence sur la sentence arbitrale; ou iii) que la sentence porte sur un différend non visé ou n’entrant pas dans les termes de la convention d’arbitrage, ou qu’elle contient des décisions qui dépassent les termes de la convention d’arbitrage, étant entendu toutefois que, si les dispositions de la sentence qui ont trait à des questions soumises à 257 © Copyright - Giuffrè Editore l’arbitrage peuvent être dissociées de celles qui ont trait à des questions non soumises à l’arbitrage, seule la partie de la sentence contenant des décisions sur les questions soumises à l’arbitrage pourra être reconnue et exécutée; ou iv) que la sentence n’est pas motivée alors qu’une telle motivation est prescrite par les règles de droit applicables à la procédure arbitrale dans le cadre de laquelle la sentence a été prononcée; ou v) que la constitution du tribunal arbitral, ou la procédure arbitrale, n’a pas été conforme à la convention des parties ou, à défaut d’une telle convention, à la loi du pays où l’arbitrage a eu lieu; à l’exception de l’irrégularité touchant à la constitution du tribunal arbitral, ces irrégularités ne peuvent toutefois donner lieu à refus de reconnaissance ou de déclaration exécutoire de la sentence arbitrale s’il est établi qu’elles n’ont pas eu d’incidence sur la sentence; ou vi) que la sentence n’est pas encore devenue obligatoire pour les parties, ou a été annulée ou suspendue par un tribunal du pays dans lequel ou en vertu de la loi duquel elle a été rendue; vii) que le tribunal arbitral a excédé ses pouvoirs; ou b) si le tribunal de première instance constate: i) que l’objet du différend n’est pas susceptible d’être réglé par arbitrage; ou ii) que la reconnaissance ou l’exécution de la sentence serait contraire à l’ordre public. § 2. Le tribunal de première instance surseoit de plein droit à la demande tant qu’il n’est pas produit à l’appui de la requête une sentence arbitrale écrite et signée par les arbitres conformément à l’article 1713, § 3. § 3. Lorsqu’il y a lieu à application d’un traité entre la Belgique et le pays où la sentence a été rendue, le traité prévaut.”. Art. 57. Dans la même partie du même Code, il est inséré un chapitre IX intitulé “Chapitre IX. Prescription”. Art. 58. Dans le chapitre IX inséré par l’article 57, il est inséré un article 1722 rédigé comme suit: “Art. 1722. La condamnation prononcée par une sentence arbitrale se prescrit par dix années révolues, à compter de la date où la sentence arbitrale a été communiquée.” . CHAPITRE 3. - Disposition transitoire Art. 59. La présente loi s’applique aux arbitrages qui commencent conformément à l’article 34 après la date d’entrée en vigueur de la présente loi. 258 © Copyright - Giuffrè Editore La sixième partie du Code judiciaire, telle qu’elle était rédigée avant l’entrée en vigueur de la présente loi, reste d’application aux arbitrages qui ont commencé avant la date d’entrée en vigueur de la présente loi. La présente loi s’applique aux actions qui sont portées devant le juge, pour autant qu’elles concernent un arbitrage visé à l’alinéa 1er. La sixième partie du Code judiciaire, telle qu’elle était rédigée avant l’entrée en vigueur de la présente loi, reste d’application aux actions pendantes ou introduites devant le juge relativement à un arbitrage visé à l’alinéa 2. CHAPITRE 4. - Entrée en vigueur Art. 60. La présente loi entre en vigueur le premier jour du troisième mois qui suit celui de sa publication au Moniteur belge. 259 © Copyright - Giuffrè Editore © Copyright - Giuffrè Editore In memoria del giudice Bernard Corboz Il 24 settembre 2013 è deceduto a Ginevra il giudice federale Bernard Corboz. Da sempre interessato ai problemi dell’arbitrato, il Giudice Corboz ha partecipato come relatore a numerosi convegni, anche nel nostro Paese, dedicati a questa materia. Da ultimo, lo abbiamo incontrato alcuni mesi fa a Milano in occasione di un convegno dedicato alle prospettive in Italia dell’arbitrato internazionale, dove ha avuto modo di illustrare, con l’abituale chiarezza, la disciplina svizzera dell’arbitrato. Membro ordinario del Tribunale federale svizzero dal marzo 1990 e Vice-Presidente dello stesso Tribunale dal dicembre 2004, Bernard Corboz è stato tra i maggiori artefici della giurisprudenza del Tribunale federale. La competenza di questo Tribunale in materia di ricorsi per l’annullamento di sentenze arbitrali rese in Svizzera e la grande diffusione dell’arbitrato in questo Paese hanno consentito a Bernard Corboz di esprimere al meglio le sue qualità di giurista raffinato, contribuendo alla enunciazione di una serie di principi e regole che fanno della giurisprudenza del Tribunale federale un modello di chiarezza e coerenza nell’interpretazione della legge, oltreché di grande apertura ai problemi pratici dell’arbitrato. Come attestato dal comunicato del decesso da parte dello stesso Tribunale federale, “Monsieur le Juge fédéral Corboz possédait une capacité de travail hors du commun et a influencé la jurisprudence du Tribunal Fédéral de manière durable“. L’Associazione Italiana per l’Arbitrato e la Rivista dell’arbitrato sono vicine alla comunità svizzera dell’arbitrato nel rimpianto per la perdita di una personalità tanto eminente e sensibile ai problemi dell’arbitrato. [P.B.] 261 © Copyright - Giuffrè Editore © Copyright - Giuffrè Editore Notizie libri Si deve a Ferdinando Emanuele e Milo Malfa (con collaborazioni di L. Marvasi, G. Gosi, C. Santoro, L. Bergamini, F. Gesualdi, P. Bertoli e P. D’Elia, ed autorevole prefazione di Guido Alpa) una notevole guida in lingua inglese alle principali questioni in materia di arbitrato internazionale viste nella prospettiva della cultura giuridica italiana: “Selected Issues in International Arbitration: the Italian Perspective”, London, 2014, XV - 329, edito da Cleary Gottlieb Steen & Hamilton per i tipi della Thomson Reuters. Utile come veicolo, nel latino di oggi, di elaborazioni, riflessioni e concetti altrimenti destinati a ben poca diffusione, il volume è in proposito assai accurato e meditato (si pensi alla abilità linguistica e concettuale con cui, a pag. 64 ss., è decifrato per i non italiani il mistero di ciò che si cela dietro il nomen “arbitrato irrituale”, mistero pari solo, per inesplicabilità all’estero e sopravvenuta obsolescenza, a ciò che si cela dietro “interesse legittimo”). Ma i pregi non sono solo quelli didascalici e divulgativi, ché molti temi di recente emersi (la litispendenza innanzi ad arbitri e giudici o innanzi ad arbitri, la disclosure, il Merger remedy arbitration di origine comunitaria ed altro) sono trattati con consapevolezza scientifica nei vari capitoli, nonché nelle appendici (alcune delle quali in lingua spagnola). [A.B.] 263 © Copyright - Giuffrè Editore CONDIZIONI DI ABBONAMENTO PER IL 2014 Unione europea Paesi extra Unione europea Prezzo di un singolo numero (Extra U. E. E 35,00) E 95,00 E 137,00 E 24,00 In caso di sottoscrizione contemporanea a due o più riviste cartacee tra quelle qui di seguito indicate sconto 10% sulla quota di abbonamento: Unione europea Paesi extra Unione europea Giustizia civile massimario annotato della cassazione E 150,00 E 220,00 Rivista trimestrale di diritto e procedura civile E 135,00 E 197,00 Rivista dell’arbitrato E 95,00 E 137,00 Gli sconti non sono cumulabili Le annate arretrate a fascicoli, dal 2011 fino al 2013, sono disponibili fino ad esaurimento scorte RIVISTA ON-LINE ALL’INTERNO DI “BIBLIOTECA RIVISTE” DAL 1991 U.E. abbonato E 30,00* non abbonato E 78,00* *IVA esclusa La rivista on-line riproduce, in pdf, i contenuti di ogni fascicolo dall’anno indicato fino all’ultimo numero in pubblicazione. 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