l`italia repubblicana

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L’ITALIA REPUBBLICANA
G
iugno 1946: le edizioni
straordinarie dei
quotidiani annunciano la vittoria
della Repubblica nel referendum
istituzionale, caratterizzato, come
le contemporanee elezioni per
l’Assemblea costituente, da
un’altissima partecipazione alle
urne da parte degli elettori e, per
la prima volta, delle elettrici. Era
il punto d’arrivo di un travagliato
processo di transizione alla
democrazia cominciato tre anni
prima con la caduta del fascismo;
e insieme l’avvio di una nuova
storia, quella della Repubblica
italiana, con i suoi partiti di
massa, la sua Costituzione
democratica, i suoi contrasti
anche drammatici (che
riproducevano su scala nazionale
le fratture della guerra fredda), la
sua capacità di superare le
tragedie del conflitto mondiale e
di ripararne le distruzioni
materiali. Fu nei suoi primi anni di
vita che l’Italia repubblicana fece
le sue scelte fondamentali,
optando per l’adesione al sistema
di alleanze occidentale, e poi alla
Comunità europea. Scelte che le
avrebbero consentito, una volta
I MATERIALI
parolachiave
Qualunquismo
esercizi
� pp. 704-705
esaurita la fase della
ricostruzione, di inserirsi a pieno
titolo nel novero delle democrazie
industrializzate.
�Edizioni straordinarie di quotidiani
che annunciano la vittoria della
Repubblica al referendum istituzionale
(6 giugno 1946)
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Il mondo diviso
UN PAESE SCONFITTO
Liberata e riunificata, nella primavera del ’45, dall’avanzata degli alleati
e dall’insurrezione partigiana, l’Italia si trovò ad affrontare i problemi e
le incognite di un difficilissimo dopoguerra. Nel 1945 l’economia italiana era in condizioni gravissime. Gli stabilimenti industriali si erano in
buona parte salvati (le distruzioni causate dai bombardamenti non superavano il 20% della
capacità produttiva), ma la produzione era scesa a meno di un terzo di quella dell’anteguerra. Incalcolabili erano i danni inferti all’agricoltura (la produzione era diminuita del 60% rispetto al ’38) e più ancora al patrimonio zootecnico, che risultava distrutto per tre quarti. Tutto ciò rendeva drammatico il problema degli approvvigionamenti alimentari: nel ’45 la
quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino era meno della metà di
quella, già piuttosto scarsa, del ’38; e la situazione sarebbe stata ancor più insostenibile senza gli aiuti alleati. L’inflazione provocata dalla guerra aveva assunto ritmi paurosi: i prezzi
al consumo erano cresciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e ridimensionando drasticamente i salari reali, che si ridussero della metà fra il ’39 e il ’45.
Il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato (strade interrotte,
Le distruzioni
ferrovie inutilizzabili, ponti distrutti), con conseguenze disastrose sul momateriali
vimento delle merci. Meno gravi quantitativamente, ma ugualmente
drammatici, i danni subìti dall’edilizia abitativa: circa tre milioni di vani di abitazioni erano
Le
conseguenze
economiche
della guerra
Una scena del film Ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica
Le rovine e le sofferenze di un paese sconvolto dalla guerra, le
storie di vita quotidiana fatte di grandi speranze e profonda miseria,
diventarono fonte di soggetti cinematografici e letterari. Gli autori del
neorealismo, la corrente culturale sviluppatasi negli anni compresi
tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ’50, presero
a oggetto delle loro elaborazioni artistiche quelle situazioni che fino
a quel momento erano state rappresentate soltanto marginalmente:
si pensi al disoccupato protagonista del film Ladri di biciclette di
Vittorio De Sica, agli orfani di Sciuscià di Roberto Rossellini, alle
mondine di Riso amaro di Giuseppe De Santis.
Una scena del film Riso amaro (1949), di Giuseppe De Santis
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stati distrutti o seriamente danneggiati; i moltissimi rimasti senza casa erano costretti a coabitazioni forzate o cercavano rifugio nelle scuole e in altri edifici pubblici, trasformati in dormitori per gli «sfollati».
La fame, la mancanza di alloggi e l’elevata disoccupazione (oltre un
I problemi
milione e mezzo di senza lavoro nell’estate ’45) contribuivano a rendedell’ordine
pubblico
re precaria la situazione dell’ordine pubblico. Nell’Italia settentrionale
la fine della guerra aveva ridato slancio alle lotte sociali e i leader della sinistra faticavano
a tenere a freno una base galvanizzata dalla sconfitta del fascismo. Un serio problema era
poi costituito dagli ex partigiani, spesso riluttanti a deporre le armi e a volte inclini ad adottare misure di giustizia sommaria nei confronti dei repubblichini o degli ex gerarchi fascisti. Nelle regioni del Centro-sud, fin dalla primavera del ’44, contadini e braccianti avevano preso, come nel primo dopoguerra, a occupare terre incolte e latifondi; e il movimento si protrasse negli anni successivi, nonostante i tentativi delle autorità di disciplinarlo e
«legalizzarlo». Ma la minaccia più grave all’ordine pubblico, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera
(ossia al commercio clandestino di generi razionati). In Sicilia, in particolare, si assisteva
a una ripresa in grande stile del fenomeno mafioso, favorita anche dal comportamento delle autorità militari americane, che non avevano esitato, al momento dello sbarco nell’isola, a servirsi di noti esponenti della malavita italoamericana per stabilire contatti con la popolazione.
Sempre negli anni dell’occupazione alleata, si era sviluppato in Sicilia
Il separatismo
un movimento indipendentista, strettamente legato agli agrari e alla
siciliano
e il banditismo
vecchia classe dirigente prefascista e condizionato da una forte presenza mafiosa. Il movimento, che disponeva di un proprio esercito clandestino, fu affrontato
con energia e stroncato dai governi postliberazione. Ma molti suoi aderenti rimasero alla
macchia, dando vita ad alcuni fra i più gravi episodi di banditismo del dopoguerra (come
quelli di cui fu protagonista, sui monti del Palermitano, la banda capeggiata da Salvatore
Giuliano).
Fenomeni come questi erano solo i segni più evidenti della disgregazioLa frattura
ne morale, oltre che politica, in cui la guerra aveva gettato il paese. Le
Nord/Sud
vicende seguite all’armistizio, in particolare, avevano fortemente appannato l’immagine stessa del potere statale e avevano scavato nella compagine nazionale una
profonda frattura che ricalcava, aggravandole, le tradizionali spaccature fra Nord e Sud. A
partire dal settembre ’43, le due metà del paese avevano infatti vissuto due esperienze completamente diverse. Da una parte l’occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto il segno della monarchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali. Dall’altra l’occupazione tedesca, la guerra civile, un’insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava alle istanze di rinnovamento (o di rivoluzione) in campo politico e sociale: soprattutto fra quanti si erano impegnati nella lotta contro il nazifascismo era diffusa l’attesa di mutamenti profondi nelle istituzioni e nella vita civile. Queste spinte al cambiamento si scontravano, però, non solo con le resistenze di una società reduce
GUIDAALLOSTUDIO
da vent’anni di regime fascista e toccata solo in parte dall’esperienza rin1. Descrivi i caratteri della crisi economica
novatrice della lotta partigiana (il cosiddetto vento del Nord), ma anche
italiana nel 1945. 2. Da quali cause erano
determinati i problemi di «ordine pubblico»
con la situazione obiettiva del paese nel contesto internazionale. L’Italia
nell’Italia settentrionale e in quella centroera una nazione sconfitta (e tale era considerata dai vincitori, nonostanmeridionale? 3. Perché alla fine della guerra il Nord e il Sud apparivano segnati da difte il cambio di fronte dell’8 settembre e nonostante la Resistenza), era ocferenze sempre più profonde? 4. Contro
cupata militarmente, dipendeva dagli aiuti alleati e non poteva dunque
quali ostacoli internazionali dovette scontrarsi il cosiddetto «vento del Nord»?
considerarsi completamente arbitra del proprio destino.
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LE FORZE IN CAMPO
Le forze politiche che si candidavano alla guida del paese all’indomani
della liberazione [cfr. 13.10] erano, con poche varianti, le stesse che erano state protagoniste della lotta politica tra la fine della prima guerra
mondiale e l’avvento della dittatura. Rispetto ad allora era però profondamente mutata la
situazione interna e internazionale in cui quei partiti si trovavano a operare; e, fino a nuove libere elezioni, era impossibile conoscere i reciproci rapporti di forza. Il ritorno alla dialettica democratica si era accompagnato a un’impetuosa crescita della partecipazione politica: gli iscritti ai partiti più forti si misuravano ormai in centinaia di migliaia, anziché in
decine di migliaia come in età prefascista. Era dunque convinzione comune che il dopoguerra avrebbe visto in primo piano i partiti organizzati su basi di massa, soprattutto quelli
della sinistra operaia.
In particolare il Partito socialista – che portava allora il nome di Psiup,
Il Partito
assunto nel ’43 – pareva destinato ad assumere un ruolo da protagonista
socialista
grazie anche alla popolarità del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente era però tutt’altro che compatto, diviso ancora una volta fra le spinte rivoluzionarie,
che lo portavano a mantenere uno stretto legame coi
comunisti, e il richiamo alla tradizione riformista, che
Augusto Colombo, manifesto del Psiup per la fine della dittatura
lo spingeva ad assumere una posizione intermedia,
Questo manifesto del Psiup per la fine della dittatura fascista
quasi di cerniera fra il Pci e i partiti borghesi. Giocava
sottolinea la nascita di una nuova Italia aperta al mondo,
inoltre a sfavore del Psiup il ruolo non di primo piano
rappresentandola nella figura di un giovane uomo che schiaccia
Mussolini.
svolto nella lotta clandestina e poi nella resistenza armata al nazifascismo.
Al contrario, il Partito comunista
Il Partito
traeva nuova forza e credibilità
comunista
proprio dal contributo offerto alla
lotta antifascista e su questo fondava i suoi titoli di legittimità per presentarsi come forza «nazionale» e di
governo. Il partito nuovo che Togliatti aveva cercato
di costruire dopo la «svolta di Salerno» [cfr. 13.10] era
molto diverso dal piccolo e intransigente partito leninista nato a Livorno nel 1921 [cfr. 8.2]. Era anzitutto
un autentico partito di massa (vantava infatti un milione di iscritti già nell’estate ’45, 1.700.000 un anno dopo), che tendeva ad allargare l’area dei suoi consensi
al di là della tradizionale base operaia, verso i contadini, i ceti medi e soprattutto gli intellettuali. Era inoltre un partito che, già rappresentato nel governo, mostrava di volersi inserire attivamente nelle istituzioni
democratico-parlamentari, senza tuttavia rinnegare il
suo legame privilegiato con l’Urss e senza cessare di
incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe
operaia.
Fra gli altri partiti presenti sulla
La Democrazia
scena politica italiana, l’unico che
cristiana
apparisse in grado di competere
con comunisti e socialisti sul piano dell’organizzazioLe nuove
condizioni della
lotta politica
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ne di massa era la Democrazia cristiana. La Dc si richiamava direttamente all’esperienza del
Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma (ispirato alla dottrina sociale cattolica
e dunque avverso alla lotta di classe, rispettoso del diritto di proprietà ma aperto alle istanze
di riforma) e ne ereditava la base contadina e piccolo-borghese [cfr. 8.1]. Anche il gruppo
dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte da quel partito, ma era stato rafforzato dall’afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il
ventennio nelle file dell’Azione cattolica. Rispetto al Partito popolare, la Dc godeva inoltre
di un più esplicito e massiccio appoggio da parte della Chiesa. In virtù di questo appoggio –
e della posizione centrale occupata nello schieramento politico – la Democrazia cristiana si
presentava come il principale perno del fronte moderato: anche perché le formazioni tradizionali di area liberal-democratica apparivano del tutto inadeguate a fronteggiare la spinta
dei partiti di massa.
Il Partito liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe diIl Partito
rigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (come
liberale
quelle di Luigi Einaudi e Benedetto Croce), oltre che sul sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto fra i leader e la loro base elettorale – un rapporto di tipo personale e clientelare, già in crisi nel primo dopoguerra – era ormai definitivamente compromesso.
Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l’intransigenIl Partito
za sulla questione istituzionale (aveva infatti respinto ogni compromesso
repubblicano
e il Partito
con la monarchia, rifiutando persino di partecipare ai Cln). In una posid’azione
zione particolare, al confine fra l’area liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d’azione. Forte del prestigio che gli veniva dall’adesione di molti
leader dell’antifascismo (Parri, Lussu, Valiani) e di molti intellettuali – e più ancora del notevole contributo dato dai suoi militanti alla lotta partigiana – il Pda si presentava come una
forza nuova e moderna e si faceva promotore di ampie riforme sociali e istituzionali: nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, riforma agraria, massimo sviluppo delle autonomie locali. Il partito era però privo di una base di massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com’era fra un’ala socialista e un’ala liberal-democratica. Un contrasto che lo
avrebbe accompagnato lungo tutto il breve arco della sua vita e lo avrebbe portato di lì a poco a una scissione (febbraio 1946) e al successivo scioglimento.
Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioNeofascisti
co nel clima del dopo-liberazione. Ma era ancora forte, soprattutto nel
e monarchici
Mezzogiorno, e tendeva a diventarlo sempre più con l’accentuarsi delle
insofferenze nei confronti del nuovo assetto politico e dei timori provocati dalle misure di
epurazione annunciate a carico degli aderenti al passato regime. Assente ancora un movimento neofascista organizzato (solo nel dicembre ’46 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano), i gruppi di destra andarono in parte a ingrossare le file della Dc e del
Pli, in parte si raccolsero sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all’affermazione, clamorosa ma effimera, di un nuovo movimento: L’Uomo qualunque.
Fondato nel novembre ’45 dal commediografo Guglielmo Giannini sul«L’Uomo
l’onda del successo ottenuto dall’omonimo giornale (che si stampava a
qualunque»
Roma dalla fine del ’44), il movimento qualunquista rifiutava qualsiasi
caratterizzazione ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio –
l’«Uomo qualunque», appunto – che, dopo essere stato oppresso dalla dittatura fascista, sarebbe stato ora minacciato dalla dittatura non meno soffocante dei partiti del Cln (cfr. Parola chiave, p. 402). Con i suoi slogan pittoreschi, l’«Uomo qualunque» riscosse notevoli
consensi, soprattutto presso la piccola e media borghesia del Centro-sud, spaventata dal-
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l’avanzata delle sinistre. Già a partire dal ’47, tuttavia, il fenomeno qualunquista cominciò
a sgonfiarsi, soprattutto per la confluenza dell’opinione pubblica moderata attorno alla Democrazia cristiana.
Se i partiti si erano affermati, fin dal periodo della Resistenza, come i veLa Cgil unitaria
ri protagonisti della vita politica nell’Italia libera, un ruolo importante,
non solo sul piano economico, fu svolto anche dalla Confederazione generale italiana del
lavoro (Cgil), ricostituita su basi unitarie, nel giugno ’44, nella Roma ancora occupata dai
tedeschi. Le tre componenti – socialista, comunista e cattolica – erano rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma erano molto squilibrate fra loro come peso numerico (i
comunisti erano di gran lunga i più forti, i cattolici nettamente i più deboli, soprattutto fra
le categorie operaie). La loro convivenza non fu sempre facile e richiese un incessante lavoro di mediazione politica. La Cgil riuscì tuttavia, nel quadro di una linea complessivamente «moderata», a realizzare alcune importanti e durevoli conquiste norGUIDAALLOSTUDIO
1. Quali tendenze sorsero in seno al Psiup e
mative: il riconoscimento delle commissioni interne, che rappresentavaal Pci di Togliatti? 2. Elenca i punti programno il sindacato all’interno delle aziende; l’introduzione di un meccanimatici della Democrazia cristiana. 3. Perché i partiti laici erano in crisi? 4. Qual era la
smo di scala mobile per l’adeguamento automatico dei salari al costo delsituazione della destra politica italiana? 5.
la vita; una nuova e più rigida disciplina dei licenziamenti; un maggior
Come era organizzata la Cgil? Quali furono i
egualitarismo retributivo fra i lavoratori delle diverse categorie.
suoi risultati principali nel dopoguerra?
PAROLACHIAVE
Qualunquismo
Il «qualunquismo», come atteggiamento
di diffidenza nei confronti dei partiti e in
genere della politica (che si vorrebbe risolta nella buona amministrazione), come esaltazione dei valori dell’individuo e
della tradizione contro le tendenze stataliste, come protesta contro la fiscalità,
esiste da molto prima che qualcuno pensasse di dargli un nome, o addirittura di
fondare su di esso un vero e proprio partito. In questo senso, tendenze qualunquiste sono sempre state presenti nei
regimi parlamentari, anche se non avevano un’espressione politica autonoma,
in quanto si risolvevano nell’adesione ai
partiti conservatori o, più coerentemente, nell’astensione dal voto.
Nel periodo fra le due guerre mondiali,
queste tendenze confluirono in larga
parte nei movimenti fascisti o parafascisti, che proclamavano la loro avversione nei confronti della politica tradizionale e ne proponevano una nuova,
basata sul drastico accentramento dei
processi decisionali. Solo nel secondo
dopoguerra, alcuni abili quanto improvvisati leader pensarono di isolare e di
coltivare il virus della sfiducia nella politica, per farne la base di inediti movimenti di massa.
Il primo di questi movimenti fu quello fondato in Italia nell’immediato dopoguerra
dal commediografo Guglielmo Giannini,
col nome di Fronte dell’Uomo qualunque (donde il termine «qualunquismo»).
Una vicenda molto simile fu quella dell’«Unione per la difesa dei commercianti
e degli artigiani», fondata in Francia nel
’53 dal cartolaio Pierre Poujade (in francese il termine poujadisme corrisponde
all’italiano «qualunquismo»). Nata come
gruppo di pressione extrapartitico e poi
trasformatasi in movimento politico vero
e proprio, sull’onda del rigurgito nazionalista seguìto alla crisi dell’impero coloniale francese [cfr. 14.12], l’Unione ebbe il 10% dei voti nelle elezioni del ’56 e
mandò cinquanta deputati alla Camera.
Ma, due anni dopo, la sua base era stata già erosa dalla crescita del movimento gollista.
Negli ultimi decenni, quasi tutte le democrazie industriali dell’Occidente hanno
conosciuto fenomeni che, pur non po-
tendosi definire qualunquisti in senso
stretto, hanno non pochi punti di contatto col qualunquismo «storico». Dai gruppi che si richiamavano alla cosiddetta
«maggioranza silenziosa» (termine coniato negli Stati Uniti alla fine degli anni
’60) e che esprimevano le esigenze di
«legge e ordine» delle classi medie spaventate dalle agitazioni operaie o studentesche, ai movimenti «antitasse»,
nati nella seconda metà degli anni ’70 in
Europa e negli Stati Uniti, nel quadro del
rilancio delle ideologie liberiste e della
crisi dello «Stato assistenziale» [cfr.
18.1]. Anche in Italia si assisté, negli anni della crisi della «prima repubblica» [cfr.
25.1] al crescere di nuove e diffuse forme di protesta contro un fisco ritenuto
troppo esoso, ma anche contro una classe politica accusata in blocco di eccessiva invadenza nei confronti della società
civile. Se queste forme di protesta si
possano o meno definire «qualunquiste»
(termine che, nel linguaggio della classe
politica, porta con sé una certa connotazione spregiativa), è un tema di discussione ancora aperto.
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DALLA LIBERAZIONE ALLA REPUBBLICA
La prima occasione di confronto fra i partiti all’indomani della liberazione si presentò al momento di scegliere il successore di Bonomi, dimessosi in giugno per lasciare il posto a un governo più rappresentativo dell’Italia liberata. Dopo
un lungo braccio di ferro fra socialisti e democristiani, i partiti trovarono l’accordo sul nome
di Ferruccio Parri, leader di una formazione minore come il Partito d’azione, ma investito
di un grande prestigio personale, in quanto era stato uno dei capi militari della Resistenza.
Formato un ministero con la partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di promuovere un processo di normalizzazione nel paese ancora sconvolto dagli strascichi della guerra e mise all’ordine del giorno lo spinoso problema dell’epurazione (che avrebbe dovuto applicarsi non solo ai funzionari statali, ma anche agli esponenti del potere economico più
compromessi col fascismo). Annunciò inoltre una serie di provvedimenti volti a colpire con
forti tasse le grandi imprese e a favorire la ripresa delle piccole e medie aziende. Ma in questo modo Parri suscitò l’opposizione delle forze moderate, in particolare del Pli, che nel novembre ’45 ritirò la fiducia al governo, determinandone la caduta.
La Dc riuscì allora a imporre la candidatura di Alcide De Gasperi: seL’avvento
gno di un mutamento di clima intervenuto rispetto a pochi mesi prima,
di De Gasperi
e la prevalenza
ma anche di una obiettiva posizione di forza acquisita dal partito cattolidei moderati
co. Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln [cfr. 13.10]. Ma inaugurava ugualmente una svolta in senso moderato destinata
poi a rivelarsi irreversibile. I progetti di riforme economiche furono rapidamente accantonati. Quasi tutti i prefetti nominati dai Cln nell’Italia settentrionale furono sostituiti da funzionari di carriera. L’epurazione fu fortemente rallentata: finché, nel giugno ’46, non fu lo stesso Togliatti, nella sua qualità di ministro della Giustizia, a varare una larga amnistia che in
pratica metteva la parola fine a un’operazione molto difficile da condurre con equità, anche
per l’ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva goduto.
Il riflusso delle prospettive di radicale rinnovamento che avevano accomLe incertezze
pagnato la lotta di liberazione lasciò nei militanti di sinistra, e soprattutto
della sinistra
negli ex partigiani, un forte senso di delusione che spesso si tradusse in manifestazioni di protesta. Ma il Pci e il Psiup non potevano cavalcare questa ondata di risentimento: sia perché non volevano rompere la solidarietà di governo, sia perché speravano in un
successo elettorale che avrebbe consentito loro di assumere la guida del paese.
Il governo aveva infatti fissato al 2 giugno 1946 la data per le elezioIl referendum
ni dell’Assemblea costituente: le prime consultazioni politiche libere
istituzionale
dopo venticinque anni, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne. In quello stesso giorno i cittadini sarebbero stati chiamati a decidere, mediante referendum, se mantenere in vita l’istituto monarchico o fare dell’Italia una repubblica.
Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III, con una
decisione a sorpresa, tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, abdicando in favore
del figlio Umberto II, che dal giugno ’44 aveva svolto le funzioni di luogotenente del Regno. Ma la mossa non ottenne gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate
da un’affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica prevalse con un margine abbastanza netto: 12.700.000 voti
circa contro 10.700.000 per la monarchia. Il 13 giugno, dopo la proclamazione ufficiale dei
risultati, Umberto II partì per l’esilio in Portogallo.
Il governo Parri
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Manifestazione antimonarchica a pochi giorni dal referendum,
Milano 1946
Giugno 1946: si cambiano le scritte sulle cassette
della posta
Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito
col 35,2% dei voti, seguita a notevole distanza dal Psiup (20,7) e subito
dopo dal Pci (19). L’Unione democratica nazionale che raccoglieva, assieme ai liberali e ai «demolaburisti» di Bonomi, i maggiori esponenti della classe dirigente
prefascista, non andò al di là del 6,8%: poco più dei qualunquisti (5,3%) e dei repubblicani
(4,4%). Il quadro era completato dal modesto risultato dei monarchici (2,8%) e dall’autentica disfatta del Partito d’azione che ebbe solo l’1,5% dei voti.
Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente l’ulteriore avanzaI nuovi equilibri
ta dei partiti di massa e la crisi definitiva dei vecchi gruppi liberal-democratici, ormai sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell’Italia moderata. La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da risultare maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup ancora in leggero vantaggio, ma insidiato da
vicino dal Pci. Nel complesso, i risultati del 2 giugno mostravano che gli elettori italiani
avevano definitivamente voltato pagina rispetto all’esperienza fascista; che in materia di
scelte istituzionali non si erano lasciati spaventare dalla minaccia del «salto nel buio» agitata dai monarchici; che nella stragrande maggioranza avevano dato la loro fiducia ai partiti antifascisti. Quegli stessi risultati, però, se analizzati regione per regione, rivelavano che
la vittoria repubblicana si reggeva tutta sul voto del Centro-nord (mentre il Sud aveva daLe elezioni per
la Costituente
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L’Italia repubblicana
to una forte maggioranza alla monarchia) e che anche il voto politico si
era distribuito in modo tutt’altro che omogeneo, con la sinistra nettamente maggioritaria nel Nord, ma debolissima nel Mezzogiorno. Le
spaccature ereditate dalla guerra e da tutta la storia del paese si riproponevano nella nuova Italia democratica e ne rendevano più difficile il
cammino.
4
CAPITOLO 16
GUIDAALLOSTUDIO
1. Perché il governo Parri ebbe breve durata
e fu sostituito dal governo De Gasperi? Come fu risolta infine la questione delle epurazioni? 2. Cosa accadde alle consultazioni
del 2 giugno 1946? 3. Quale fu il bilancio politico delle elezioni per le forze antifasciste?
4. Il voto si era distribuito in modo omogeneo
nelle diverse aree del paese?
LA CRISI DELL’UNITÀ ANTIFASCISTA
I due anni che vanno dalle elezioni per la Costituente (2 giugno ’46) alle consultazioni politiche del 18 aprile ’48 furono decisivi per la storia
della neonata Repubblica. Fu questo il periodo in cui l’Italia definì il suo
nuovo assetto istituzionale col varo della Costituzione, riorganizzò la propria economia secondo i modelli tipici dei sistemi capitalistici occidentali, si diede infine un equilibrio politico destinato a resistere per molti anni e a riflettersi immediatamente sulla collocazione internazionale del paese.
Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e comunisti
L’approfondirsi
continuarono a governare insieme; si accordarono sull’elezione del pridei contrasti
mo, e provvisorio, presidente della Repubblica, il giurista liberale Enrico De Nicola; e diedero vita a un secondo governo De Gasperi, basato sull’accordo fra i tre
partiti di massa. Ma la coabitazione al governo non eliminava i motivi di contrasto fra la Dc
e le sinistre. Contrasti originati, da un lato, dall’inasprirsi dello scontro sociale, dall’altro dal
profilarsi della guerra fredda che contribuì a esasperare le divisioni politiche già esistenti.
Mentre la Dc tendeva sempre più ad assumere il ruolo di garante dell’ordine sociale e della
collocazione del paese nel campo occidentale, i comunisti, pur evitando iniziative di aperta rottura, si ponevano più risolutamente alla testa delle lotte operaie e contadine (per il salario, per l’occupazione, per la terra) e accentuavano il loro allineamento all’Urss.
A fare le spese di questa radicalizzazione fu soprattutto il Partito socialiLa scissione
sta. Alla fine del ’46 si erano delineati in seno al Psiup due schieramensocialista
di Palazzo
ti contrapposti. Il primo, che faceva capo a Nenni, voleva lasciare al parBarberini
tito i suoi caratteri classisti e rivoluzionari, era favorevole all’«unità
d’azione» col Pci e puntava, a livello internazionale, su un’impossibile alleanza fra l’Urss e
le sinistre occidentali. Il secondo schieramento, che era guidato da Giuseppe Saragat, si batteva invece per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva la sua ostilità verso il
comunismo sovietico e la politica staliniana nell’Europa dell’Est. Nel gennaio 1947, in occasione del XXV congresso del partito, che si teneva a Roma, i seguaci di Saragat decisero di
abbandonare il Psiup (che riassunse il vecchio nome di Psi) e si riunirono a Palazzo Barberini per fondare un nuovo partito, che si chiamò Partito socialista dei lavoratori italiani
(Psli) e che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito socialdemocratico
italiano (Psdi).
La scissione di Palazzo Barberini, se nell’immediato provocò una crisi di
L’esclusione
governo, per il ritiro dei rappresentanti del Psli, e la formazione di un
delle sinistre
dal governo
nuovo gabinetto tripartito (Dc, Psi, Pci) presieduto da De Gasperi, in realtà finì col dare maggior libertà d’azione a una Democrazia cristiana sempre più insofferente della «coabitazione forzata» con le sinistre. In maggio, traendo spunto dai contrasti in seno alla coalizione, De Gasperi diede le dimissioni e, ottenuto il reincarico dopo una lunga
Due anni
decisivi
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1. Quali furono i contrasti in seno al primo governo repubblicano? 2. Racconta brevemente la scissione avvenuta in seno al Psiup
nel 1947. 3. Quale fu la conseguenza della
scissione socialista per il governo del paese?
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Il mondo diviso
crisi, formò un governo di soli democristiani, rafforzato dall’apporto di
«tecnici» di area liberal-democratica (come Luigi Einaudi al Bilancio e
Carlo Sforza agli Esteri). Si chiudeva così, con i cattolici al potere e le sinistre all’opposizione, la fase della collaborazione governativa fra i tre partiti di massa.
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
I contrasti politici culminati con l’esclusione delle sinistre dal governo non impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di
solidarietà che era necessaria alla Repubblica per superare le due prime
e fondamentali prove che le si ponevano di fronte: la conclusione del trattato di pace – che
fu firmato, come si vedrà più avanti, nel febbraio ’47 – e soprattutto il varo della Costituzione.
L’Assemblea costituente incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale, dopo
lo Statuto albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22 dicembre 1947 con l’approvazione a larghissima maggioranza del testo costituzionale, che entrò in vigore dal 1° gennaio 1948.
La Costituzione repubblicana si ispirava ai modelli democratici ottocenGli istituti
teschi per la parte riguardante le istituzioni e i diritti politici: essa dava videmocratici
ta infatti a un sistema di tipo parlamentare, col governo responsabile di
fronte alle due Camere (la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica), titolari del
potere legislativo (senza apprezzabili differenze di funzioni), entrambe elette a suffragio uniI lavori della
Costituente
La firma del testo
definitivo della
nuova Costituzione,
Roma, 27 dicembre
1947
A sinistra, chino sul
tavolo nell’atto di
apporre la sua
firma, il presidente
del Consiglio De
Gasperi; a destra, il
capo provvisorio
dello Stato De
Nicola.
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versale e incaricate anche di scegliere, in seduta congiunta, un presidente della Repubblica con mandato settennale. Era inoltre previsto che un Consiglio superiore della magistratura garantisse l’autonomia dell’ordine giudiziario, che una Corte costituzionale vigilasse
sulla conformità delle leggi alla Costituzione, che le leggi stesse potessero essere sottoposte
a referendum abrogativo – ed eventualmente annullate – dietro richiesta di almeno 500.000
cittadini, che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata creando il nuovo istituto della regione, dotato di ampi poteri (anche legislativi).
Le norme relative al Consiglio superiore della magistratura, alla Corte
Le norme
costituzionale, al referendum e alle regioni (come altri punti importaninattuate
ti della Costituzione) erano però destinate a restare inattuate per molti
anni. Anche perché, per volontà delle forze moderate, la Costituente non era stata investita
dei poteri legislativi ordinari, che rimasero in via provvisoria affidati al governo, e non ebbe
quindi la possibilità di tradurre immediatamente in leggi applicative le norme del dettato costituzionale.
Non sempre, inoltre, avrebbero trovato riscontro nella realtà alcune afI contenuti
fermazioni di principio in materia di diritti sociali, che erano il risultato
sociali
della convergenza fra la Dc e i partiti di sinistra e che rappresentavano la
maggiore novità rispetto ai modelli costituzionali ottocenteschi: tra l’altro, era sancito il «diritto al lavoro» ed era stabilito che il diritto di proprietà potesse essere limitato a vantaggio
del benessere collettivo.
Un’altra critica che è stata mossa, soprattutto in anni recenti, al testo costiCostituzione
tuzionale riguarda il suo impianto politico: in particolare il fatto che i coe sistema
politico
stituenti – preoccupati di allontanarsi il più possibile dall’esempio negativo dell’autoritarismo fascista – sentirono più l’esigenza di garantire spazi di agibilità e di visibilità a tutte le forze politiche che non quella di assicurare stabilità e legittimazione autonoma al potere esecutivo. La scelta in favore di un modello parlamentare – unita a una legge
elettorale proporzionale molto simile a quella già adottata nel ’19 [cfr. 8.2] e destinata a restare in vigore fino al ’93 – faceva infatti dei partiti (già titolari del potere di fatto a partire dalla nascita del Cln) i veri destinatari del consenso popolare e dunque gli arbitri incontrastati
della politica italiana. Nel corso degli anni, questo assetto istituzionale – che in pratica obbligava i governi a fondarsi su accordi di coalizione e rendeva difficile ogni forma di alternanza
– avrebbe contribuito, assieme alle tensioni e ai vincoli della guerra fredda, a bloccare il sistema politico italiano, accentuandone i tratti oligarchici e immobilisti. Nel complesso, tuttavia,
la Costituzione rappresentò allora un compromesso equilibrato – e non più contestato nei difficili anni che seguirono – fra le istanze delle diverse forze politiche che avevano contribuito
a realizzarla. Certo fu merito dei costituenti l’aver raggiunto questo risultato nonostante il contemporaneo radicalizzarsi della lotta politica e nonostante l’asprezza dei contrasti che si aprirono su singole questioni.
Lo scontro più clamoroso si verificò nel marzo ’47, quando si discusse la
L’articolo 7
proposta democristiana di inserire nella Costituzione
GUIDAALLOSTUDIO
un articolo (l’articolo 7) in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa
1. Delinea il quadro istituzionale previsto dalla Costituzione repubblicana approvata nel
erano regolati dal concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime
1947. 2. Quali norme e princìpi restarono
fascista. La proposta sembrava destinata a essere respinta. Ma all’ultimo
per molti anni inattuati? Per quali ragioni? 3.
Quali esigenze motivarono la scelta di una
momento, con una decisione che destò non poco scalpore, Togliatti anparticolare legge elettorale? 4. Perché il
nunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua scelta con la volontà di
dettato costituzionale rappresenta un compromesso equilibrato fra gli interessi delle
rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana e di non creaforze politiche? Quali elementi evidenziano
re fratture in seno alle masse. L’articolo 7 fu così approvato, nonostante
tale compromesso? 5. Che cosa prevede
l’opposizione dei socialisti e degli altri partiti laici.
l’articolo 7 della Costituzione?
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LE ELEZIONI DEL ’48 E LA SCONFITTA DELLE SINISTRE
Il varo della Costituzione repubblicana fu l’ultima manifestazione significativa della collaborazione fra le forze antifasciste. Dall’inizio del
’48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita per conquistare i favori dell’elettorato, in vista delle elezioni politiche convocate per il 18 aprile
di quell’anno, che avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento. Caratteristica
di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due schieramenti contrapposti: quello di opposizione, egemonizzato dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i partiti laici minori (Psli e Pri erano entrati nel dicembre ’47 nel ministero
De Gasperi). Un contributo alla radicalizzazione dello scontro lo diede il Partito socialista, decidendo, nel dicembre ’47, di presentare liste comuni col Pci sotto l’insegna del
Fronte popolare. Gli elettori si trovarono così di fronte a un’alternativa secca, che lasciava scarsi margini alle posizioni intermedie. E la Dc ebbe buon gioco a impostare la sua battaglia in termini di scontro «di civiltà», oltre che di schieramenti internazionali e di sistemi economici.
Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté inoltre giovarLa
si dell’aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice
mobilitazione
cattolica
Pio XII, si impegnò in prima persona in una dura crociata anticomunista
Gli
schieramenti
contrapposti
Elezioni a Milano,
1948: una sezione
socialista
tappezzata
di manifesti
del Fronte popolare
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e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a sostegno della Dc. Meno diretto, ma ugualmente decisivo, fu l’appoggio degli Stati Uniti, che consentì ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della massima potenza mondiale e di agitare la minaccia di una sospensione degli aiuti del piano
Marshall in caso di vittoria delle sinistre.
Socialisti e comunisti risposero faLa propaganda
cendo appello ai lavoratori e ai cedelle sinistre
ti disagiati e mettendo in primo
piano i toni democratico-populisti (il ritratto di Garibaldi fu scelto come contrassegno delle liste del Fronte popolare), rispetto a quelli classisti e rivoluzionari.
Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da
una stretta adesione alla causa dell’Urss e alla politica
estera di Stalin, in un momento in cui l’immagine del
comunismo sovietico era inevitabilmente associata a
quanto stava accadendo nell’Europa dell’Est, in particolare in Cecoslovacchia, dove i comunisti si sbarazzarono delle opposizioni [cfr. 14.5] poche settimane
prima delle elezioni italiane. Giocavano invece a favore della Dc le prospettive di sviluppo e di benessere,
associate nella stessa mentalità popolare al legame cogli Stati Uniti, il desiderio di ordine e tranquillità e la
paura di mutamenti radicali, il tradizionale ossequio
alla Chiesa di Roma.
Le elezioni del 18 aprile si risolsero così in un travolgente successo del
La vittoria
partito cattolico, che ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta
della Dc
dei seggi alla Camera, attirando sulle sue liste i suffragi dell’elettorato
moderato, istintivamente propenso a concentrare i suoi voti sul partito più forte (le destre e
le formazioni minori di centro risultarono infatti in netto calo). Bruciante fu la sconfitta dei
due partiti operai, che ottennero il 31% (contro il 40% del ’46) perdendo circa un milione
di voti. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che vedeva più che dimezzata la sua
rappresentanza parlamentare e pagava così l’eccessiva identificazione con le posizioni del
Pci. Con le elezioni del ’48 si chiudeva dunque la fase più agitata e incerta del dopoguerra;
cadevano le speranze dei partiti di sinistra di guidare la trasformazione della società; si rafforzava l’egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l’avvento al governo di De Gasperi e ora sancita in modo inequivocabile dal responso delle urne.
La delusione dei militanti di sinistra per questo risultato si espresse tre
L’attentato
mesi dopo le elezioni, quando un episodio drammatico rischiò di far prea Togliatti
cipitare il paese nella guerra civile. Il 14 luglio 1948, uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti mentre usciva da Montecitorio e lo ferì gravemente. Alla notizia dell’attentato, in tutte le principali città, operai e militanti comunisti scesero
in piazza, scontrandosi con le forze dell’ordine. Ricomparvero armi e barricate e molte fabbriche furono occupate. Nella zona del Monte Amiata, in Toscana, il moto assunse un carattere insurrezionale. In pochi giorni, l’agitazione si esaurì, anche per il comportamento
prudente dei dirigenti comunisti e dei capi sindacali. Ma le tensioni nel paese risultarono
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Un manifesto
elettorale della
Democrazia
cristiana, 1948
Il manifesto della
Dc, che ben illustra
il clima politico
nell’Italia del 1948,
caratterizzato dallo
scontro tra la
sinistra e il fronte
cattolico, propone
uno scenario
catastrofico: la
possibile vittoria
dell’opposizione è
identificata con il
primo passo verso
l’invasione
sovietica.
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ulteriormente esasperate; e si rafforzò, in seno alla compagine governativa, la tendenza a una
gestione dura dell’ordine pubblico.
Un’altra conseguenza delle giornate del luglio ’48 fu la rottura della già
La rottura
precaria convivenza fra le maggiori forze politiche all’interno del sindadell’unità
sindacale
cato. La decisione della maggioranza social-comunista della Cgil di proclamare uno sciopero generale per protesta contro l’attentato a Togliatti fornì infatti alla
componente cattolica l’occasione per staccarsi dal sindacato unitario e per dar vita a una
nuova confederazione, che avrebbe poi assunto il nome di Cisl (ConfeGUIDAALLOSTUDIO
derazione italiana sindacati lavoratori). Pochi mesi dopo anche i sindaca1. Qual era il clima politico prima delle elezioni del 1948? 2. Quale fu l’esito della consullisti repubblicani e socialdemocratici abbandonarono la Cgil, fondando
tazione elettorale? 3. Che cosa accadde in
una terza organizzazione, la Uil (Unione italiana del lavoro). Svaniva coItalia dopo l’attentato a Togliatti? 4. Quale fu
la conseguenza dell’attentato sul piano sinsì l’ultimo residuo di unità antifascista; la divisione del paese in due schiedacale?
ramenti contrapposti poteva ormai dirsi completa.
7
LA RICOSTRUZIONE ECONOMICA
Con le elezioni del 18 aprile ’48, gli elettori italiani non solo scelsero il
partito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Sul terreno della politica economica, le forze moderate – in particolare i liberali, che occuparono l’importantissimo ministero del Tesoro nei governi Bonomi e Parri e
nel primo gabinetto De Gasperi – riuscirono a prendere il sopravvento fin dai primi mesi del
dopo-liberazione, bloccando i tentativi delle sinistre di introdurre nel sistema forti elementi di trasformazione. In generale, i governi dell’immediato dopoguerra evitarono di usare in
modo incisivo gli strumenti di intervento sull’economia che erano stati creati negli anni successivi alla grande crisi: anche perché la corrente di pensiero dominante, ispirata soprattutto dagli economisti di formazione prefascista, vedeva nel dirigismo economico un prodotto
dei regimi autoritari. A tutto questo i dirigenti della sinistra non seppero contrapporre una
coerente linea alternativa: finché restarono al governo, comunisti e socialisti si limitarono
sostanzialmente a un’azione di sostegno ai sindacati, di difesa dei salari e di tutela dell’occupazione, mediante il blocco dei licenziamenti.
Anche questa linea di resistenza cadde però a partire dal maggio ’47, con
Einaudi
l’estromissione delle sinistre dal governo e la formazione del nuovo gabiministro
del Bilancio
netto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto dall’economista liberale Luigi Einaudi. Mentre le sinistre, costrette all’opposizione, si impegnavano
in un’impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuava una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell’inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La manovra si attuò su tre distinti livelli: una serie
di inasprimenti fiscali e tariffari; una svalutazione della lira (da 225 a 350 lire per un dollaro) che doveva favorire le esportazioni e incoraggiare il rientro dei capitali, attirati dal cambio favorevole; una energica restrizione del credito che limitò la circolazione della moneta
e costrinse imprenditori e commercianti a gettare sul mercato le scorte accumulate in attesa di un aumento dei prezzi.
Nel complesso, la linea Einaudi ottenne i risultati che si era prefissa: la
Il risanamento
lira recuperò potere d’acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia
finanziario
(soprattutto dopo le elezioni del ’48), i ceti medi risparmiatori riacquistaLa scelta
liberista
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