Ulrich Beck - Terza Università

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Ulrich Beck (1944)
Quella che Ulrich Beck presenta, nelle sue opere e nei suoi molti interventi, è una “teoria” ma nel
senso originario della parola; occorre cioè intendere correttamente ed etimologicamente il termine:
è uno “sguardo di comprensione”, uno sguardo guidato da idee, rivolto al proprio tempo; in altri
termini, una Zeitdiagnose, una “diagnosi del proprio tempo” (come osserva Walter Privitera in
prefazione a Beck Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma
2000 [Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne] p. 9) fatta, come ogni diagnosi,
mantenendo il coraggio dei dati e l’amore della cura.
In un’opera del 1993, Caillé Alain, 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle
scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, denuncia come la sociologia si sia de-politicizzata: «gli
specialisti delle scienze sociali, della storia e della filosofia politica — in poche parole, i chierici —
hanno massicciamente rinunciato a pensare il loro tempo e tanto più ad agirvi, svolgendo la loro
funzione di esploratori e di agitatori della coscienza collettiva a cui spetta il compito di rivelare il
possibile e l’auspicabile.»; la sociologia, cioè, si è resa descrittiva e spesso compiacente nel fornire
statistiche a sostegno di politiche dominanti che commissionano, simulando attenzioni, statistiche
autogiustificative. Le ricerche di Ulrich Beck sono sì sociologicamente descrittive ma con il chiaro
intento di opporsi alla “trasparenza del male” al non notare i problemi per rendere più serena, fino
alla irresponsabilità, la visione che si ha, o che si vuole diffondere del sociale. Ne emerge una
società del rischio, sia che si lavori nel microsociale della famiglia e della natura dei legami amorosi
all’interno di una coppia, sia che si registrino i globali e irrisolti problemi ambientali che mostrano
la debolezza o l’ignavia delle politiche statali attuali. Rischio con cui l’uomo, per sfida, attrazione o
giuliva irresponsabilità continua a giocare. Il metodo di osservazione critica adottato da Beck
evidenzia la complessità e apre il dibattito verso direzioni operative di certo non conservative o
pacificanti. Affrontando, ad esempio, il tema della famiglia, della coppia e della loro
romanticizzazione diffusa, in un’opera del 1990 sintesi di studi della seconda metà degli anni ’80,
afferma: «Chi voglia decifrare queste insensatezze deve mettere al centro la contrapposizione che si
afferma storicamente di amore, libertà e famiglia.» Ed è sulla contraddizione vivente, ricorrente e
variegata che si sviluppa la sua osservazione e la sua diagnosi su di un tema apparentemente di vita
privata, come l’amore e la famiglia, ma che si allarga poi alle politiche pubbliche, e su aspetti
macrosociali e globali in cui il mondo contemporaneo mette in gioco il proprio presente e il futuro
della stessa umanità. Il gioco delle società famigliari, quello della società civile organizzata in Stato,
il gioco delle dinamiche globalizzate dell’età contemporanea si rimandano e nel loro legarsi si
comprendono progressivamente nelle loro regole; Beck imposta le relazioni attraverso la ricerca
delle regole di un meta-gioco a valenza politica globale. Su questi ultimi temi vertono le opere più
note di Urlich Beck: La società del rischio. Verso una seconda modernità, del 1986; Potere e
contropotere nell’età globale, del 2002.
0. Hobbes – Beck
Il senso di un parallelo tra Thomas Hobbes e Urlich Beck: il ritorno allo stato di natura nella società
contemporanea del rischio e i giochi del potere.
0.1. Le condizioni di bellum omnium contra omnes proprie dello stato di natura descritto da
Hobbes sono mutate ma sono ancora presenti; non sono state estinte da un contratto inscindibile e
irrevocabile, si sono trasformate, collocate in altra sede e sono ancora operanti. Non trovano il loro
fondamento sul diritto naturale di tutti a tutto (o non esplicitamente), non fanno riferimento (solo)
alle caratteristiche morali che spingono l’uomo a privilegiare, finché gli riesce, non la giustizia o
l’equità o altre virtù morali, ma la cupidigia, la vendetta («Infatti le leggi di natura (come la
giustizia, l’equità, la modestia, la pietà, e, insomma, fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a
noi) per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi l’osservanza, sono contrarie alle nostre
passioni naturali, che ci inducono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili.» Hobbes,
1
Leviatano,107), hanno sede in quella che Ulrich Beck considera la caratteristica dominante della
società contemporanea come società “globalizzata” (problemi comuni e rapidi collegamenti): siamo
in una società del rischio, luogo di nuovi scontri di potere e contropotere, la cui precarietà impone
un passaggio verso una “seconda modernità”.
Il problema e il richiamo posti da Beck: «La teoria politica della sovranità di Thomas Hobbes si
basa sulla formula homo homini lupus, «l’uomo è un lupo per l’uomo». Invece, la teoria politica
della società del rischio parte da una variante di questo stesso principio: l’umanità è un lupo per
l’umanità. Il «carattere di predatore», del quale parla Hobbes, non viene attribuito ai singoli uomini,
ma all’umanità nel suo complesso. L’umanità è soggetto e oggetto della propria autominaccia.»
(Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010, p.329)
0.2. È messa a rischio la sopravvivenza, l’autoconservazione (non tanto e non solo lo sviluppo,
anzi a conseguenza dello sviluppo) dell’umanità… il primo affacciarsi della globalizzazione, come
natura globale del rischio, come natura globale del potere che ha come obiettivo quello di
scongiurare il rischio.
«La priorità dell’autoconservazione protratta il più a lungo possibile è il primo bene dell’umanità.
Tra tutti i mali la morte sta al primo posto. Al livello del singolo individuo essa è inevitabile. Non è
così al livello dell’umanità. La morte dell’umanità, l’autoannientamento di tutti come possibilità
dell’agire umano è la novità introdotta nel mondo dalla civiltà. L’orrore dinnanzi a questa
prospettiva può fondare un consenso globale che crea un potere globale. Il fatto che questo potere
unito al consenso del dominio legittimo globale, che tende a evitare i pericoli incombenti
sull’umanità, abbia conseguenze estremamente ambivalenti, è dovuto alla natura stessa del politico.
[…] La percezione dell’incombente suicidio del genere umano apre la possibilità di ricorrere a una
legittimità globalizzata e a fonti globalizzate di potere basato sul consenso. Queste fonti di
legittimazione del potere globale sono in prima istanza a-democratiche, in quanto si sottraggono a
qualsiasi procedura democratica proprio in forza della loro globalità. Tuttavia, esse dipendono dalla
percezione e dal riconoscimento globali e dunque dalle messe in scena mediatiche. In secondo
luogo esse sono anche potenzialmente antidemocratiche, poiché con la percezione del rischio per
l’umanità cresce la disponibilità a sbarazzarsi dei vincoli democratici.» (Beck 2002 p.328)
«… la percezione del pericolo che incombe sull’umanità fa cadere il principio di legittimazione
dell’ordine nazional-statale. Dal momento che il sovrano nazionale di fronte al pericolo da cui è
minacciata l’umanità non è più in grado di garantire la sicurezza interna ed esterna e la protezione
della vita dei suoi cittadini, viene meno il dovere di ubbidienza dei cittadini. La conseguenza
(secondo Hobbes) è che l’umanità civilizzata ricade nello stato di natura, nel quale ognuno è
padrone di se stesso e deve difendere da sé i suoi diritti naturali. Nella misura in cui la percezione
dei pericoli ai quali è esposta l’umanità avviene a livello globale, questa delegittimazione minaccia
l’ordine nazional-statale su scala globale. A meno che gli Stati nazionali minacciati nella loro
esistenza non comincino e non riescano a trasformarsi da Stati nazionali in Stati transnazionali, cioè
in Stati cosmopolitici. Il contratto sociale non può più fondarsi sull’anarchia dei singoli Stati. Deve
invece istituire un nuovo ordine interstatale che tragga la propria legittimità cosmopolitica dalla
lotta preventiva ai pericoli che minacciano l’umanità.» (Beck 2002 p.331-332)
0.3. Lo sviluppo del tema. Due sono i tratti principali della seconda modernità che è necessario
cogliere e porre in analisi: 1. è una società del rischio; occorre indicarne gli ambiti e i soggetti
coinvolti [punto 1] ; 2. è segnata, nel suo sviluppo, da una logica di potere e contropotere; occorre
chiarire la logica del gioco storico politico in atto [punto 2]. Su questi due dati si può delineare un
modello politico di lettura, se non di gestione, delle dinamiche presenti: nuovi soggetti, nuove
logiche, nuove potenzialità [punto 3]; per chiarezza produttiva e di riflessione è opportuno rendere
esplicite le scelte di metodo che sorreggono la descrizione degli equilibri contemporanei, come
proposti da U. Beck [punto 4].
2
Il richiamo del pensiero e delle tesi di Urlich Beck fa riferimento a due opere principali: Beck
Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000. [testo già
presente in TU 2008-9 sviluppo e decrescita; § 3],
Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010
1. La società del rischio.
Un prefisso ricorrente indicatore di disagio: “post-“. L’età presente, contemporanea, è definita dal
pervicace ricorso al prefisso “post-”. Lo stesso Beck dichiara: «Il tema di questo libro è il “post”,
prefisso non appariscente ma parola chiave del nostro tempo. Tutto è “post”.» (Beck 1986, 13) Tre
ragioni della ricorrenza del prefisso quasi ossessivo “post”: 1. rinvia ad un oltre che non si sa
denominare, e segnala più un disorientamento che un’informazione a fronte di cambiamenti che non
comparivano nelle previsioni; 2. contrassegna in prima istanza una realtà che viene colta/giudicata
come in disgregazione nei confronti dei suoi equilibri storicamente consolidati; 3. vuole
indirettamente riconfermare, almeno richiamare, le vecchie teorie e le vecchie abitudini di pensiero
e di scelta, qui però colte e mirate in diversa direzione, per cui non si tratta di una negazione della
modernità, ma della tesi che si è di fronte e all’interno di una “seconda modernità” di cui occorre
cogliere i tratti, la direzione dei movimenti per comprendere e decidere.
1.1. la convinzione precedente e ancora persistente: il progresso, lo sviluppo. «Che la
“vecchia” società industriale fosse ossessionata dal progresso, è stato spesso sottolineato.
Nonostante tutte le critiche rivolte a questa fissazione, dal primo romanticismo fino ad oggi, non è
mai stata messa in discussione quella fede latente nel progresso che oggi è diventata così precaria
con la crescita dei rischi: la fede nel metodo per tentativi ed errori e, nella possibilità di un dominio
sistematico della natura esterna ed interna affermatasi gradualmente nonostante i numerosi
contraccolpi e problemi collaterali (un mito al quale anche la sinistra politica è rimasta vincolata
fino a tempi molto recenti, a dispetto di ogni critica alla “fede capitalistica nel progresso”). Inoltre,
questa musica di sottofondo della critica della civiltà non ha tolto una virgola alla capacità di
attuazione delle trasformazioni sociali avvenute sotto le vele del “progresso”. Ciò rinvia alle
peculiarità del processo nel quale i mutamenti sociali possono avvenire, per così dire, “in
incognito”. Il “progresso” è ben più di un’ideologia; è una struttura extraparlamentare di azione
volta alla trasformazione permanente della società, istituzionalizzata come “normale”. Abbastanza
paradossalmente, nei casi-limite in essa può essere attuato anche il rivoluzionamento dei rapporti
vigenti, se necessario con la forza d’ordine dello stato contro le resistenze che vogliono preservare
l’esistente.
Per poter comprendere questo potere legittimante del consenso sul progresso è necessario
richiamare un nesso ormai quasi dimenticato: il rapporto della cultura sociale e politica con lo
sviluppo tecnico-economico. […] la costruzione sociale del consenso sul progresso nella politica
delle tecnologie è basata su tre presupposti: 1. “progresso tecnico uguale progresso sociale” … 2.
Le “conseguenze sociali” sono tipicamente danni, per essere precisi, particolari problemi collaterali
di determinati gruppi che non mettono mai in questione i benefici socialmente evidenti dello
sviluppo tecnologico in quanto tale. … 3. …i portatori e produttori di questo consenso sul
progresso nella politica della tecnologia sono le controparti nei conflitti industriali: sindacati e
imprenditori. …Le differenze nella valutazione delle “conseguenze sociali” presuppongono sempre
un consenso sul modo in cui si compie lo sviluppo tecnologico. Questo consenso sulle questioni
centrali dello sviluppo tecnologico è fortificato da una ben collaudata opposizione comune
all’“ostilità nei confronti della tecnica”, al “luddismo”, alla “critica della civiltà”.» (Beck 1986,
276-280 passim)
1.1.1. occorre una nuova sensibilità: L’intento: una «diagnosi del proprio tempo», «comprendere
con rinnovati strumenti analitici la mutata costellazione di patologie e potenzialità della società
contemporanea»; «a confronto con i problemi creati dalla nuova dimensione scientifico-tecnologica
dell’industrialismo e in presenza di livelli di benessere diffuso mai conosciuti in precedenza, il
3
processo di modernizzazione si fa riflessivo, aprendo inediti scenari politici e sociali.» (Beck 1986,
9-10, introduzione Walter Privitera)
Osserva Touraine: « Ci stiamo avvicinando, più o meno in fretta a seconda dei paesi, alla fase in cui
la capacità di accumulo scomparirà e il consumo prevarrà sulla produzione al punto tale da far
gravare sulle generazioni successive il peso della crescita del debito pubblico. Le nostre società
potrebbero allora diventare mercati, bazar, in cui ogni gruppo cercherà di vendere ciò che produce e
di comprare al miglior prezzo i beni e i servizi di cui ha bisogno.» Touraine Alain 2004 La
globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore,
Milano 2008, p.115
1.2. La logica di distribuzione della ricchezza e del rischio; il “vuoto politico” di un nuovo
stato di natura.
Si potrebbe preliminarmente segnalare che siamo passati da una situazione di “comunità dei
destini”, di cui parlava Max Weber, alla “comunità dei rischi”, come illustra Urlich Beck.
«Nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con
la produzione sociale di rischi. Analogamente, ai problemi ed ai conflitti distributivi della società
basata sulla penuria si sovrappongono problemi e conflitti che scaturiscono dalla produzione,
definizione e distribuzione di rischi prodotti dalla scienza e dalla tecnica.
[…] Com’è possibile impedire, minimizzare, drammatizzare, canalizzare i rischi e i pericoli
prodotti sistematicamente come parte del processo di modernizzazione? E quando si presentano
sotto forma di “effetti latenti collaterali”, come limitarli, diluirli distribuendoli in modo che non
ostacolino il processo di modernizzazione né travalichino i confini di ciò che è considerato
“tollerabile” dal punto di vista ecologico, medico, psicologico e sociale?
[…] Il processo di modernizzazione diventa “riflessivo”, si fa tema e problema di se stesso. […]
… prima o poi, nel continuum del processo di modernizzazione, le situazioni e i conflitti sociali di
una società “distributrice di ricchezza” iniziano ad intersecarsi con quelli di una società
“distributrice di rischi”. .» (Beck 1986, 25-27)
Problemi di impostazione.
1.2.1. «È certamente vero che i rischi dello sviluppo industriale sono tanto vecchi quanto lo
sviluppo stesso… Tuttavia i rischi che verranno qui presi in esame e che da alcuni anni preoccupano
l’opinione pubblica hanno una nuova qualità.» (Beck 1986, 28)
1. sono totali, non solo per l’intera umanità, e non ristretti nelle aree produttive, ma anche per la vita
sulla terra in tutte le sue forme e per le sue risorse: es. inquinamento dell’aria, delle acque, la
distruzione di specie, di ambienti e delle biodiversità, la radioattività, i mutamenti climatici,
l’erosione di ghiacciai, monti, coste, boschi…
2. sono “invisibili” o resi tali o minimizzati per la priorità data ad obiettivi più immediati e da tutti
considerati rivendicati come primari e urgenti: garantire i profitti, salvare i capitali, fornire risorse
per la sopravvivenza, per il mercato e gli stili di vita acquisiti, salvare il lavoro …
3. incidono sul futuro dell’ambiente e delle generazioni, minerali, vegetali, animali, per periodi
imprevedibili ma sicuramente molto lunghi spesso con danni irreversibili es. una contaminazione
radioattiva, chimica in generale …
L’ampiezza spazio-temporale dei rischi cui è esposta la attuale produttività le impone una nuova
fase critica: così come è a rischio di autodistruzione, negante il proprio futuro, così entra in una fase
di autoriflessione; e con la produzione è la stessa ricerca scientifica a dover abbandonare i toni
trionfalistici del positivismo (mai rinnegato) per entrare un una più realistica e “produttiva”
“costellazione riflessiva”. («… in modo alquanto paradossale, nel mondo scientificamente
settorializzato e professionalmente amministrato le prospettive future e la possibilità di
un’espansione della scienza sono legate anche alla critica della scienza.» Beck 1986, 219-220 «Ciò
che è essenziale … è che genere di scienza venga praticata con riguardo alla prevedibilità dei suoi
effetti collaterali spacciati per imprevedibili.» Beck 1986, 244) Non si tratta di rischi che
coinvolgono solo alcune componenti del sistema produttivo e sociale (gli operai e la loro
4
alienazione, il territorio locale, questa generazione) ma che mettono in forse il sistema stesso nel
suo complesso e l’intera società; una nuova fase di rischi… quindi l’attenzione analitica, anche in
termini di autoattenzione, muta.
«Detto in altri termini, nella società del rischio le conseguenze sconosciute e non volute assurgono
al ruolo di forza dominante nella storia e nella società.» (Beck 1986, 29)
Più analiticamente: vengono chiamati in causa e attivati alcuni processi riflessivi e operativi: 1. La
consapevolezza che natura e cultura formano un nesso inscindibile, 2. La progressiva
globalizzazione sociale del rischio, 3. Lo spetto dell’immiserimento sullo sfondo di una attesa di
alto stile di consumo, 4. I profitti dell’industria e della stessa scienza sul rischio.
1.2.2. un binomio inscindibile: risorse naturali e decisioni produttive (natura e società, natura e
cultura): l’analisi delle risorse e dell’ambiente in sé, come disponibilità, consegnata a statistiche e
misurazioni statiche, provoca errori e nega corrette interpretazioni se prescinde dalla componente
uomo, dalla sua azione produttiva e di consumo e dalla incidenza che essa può avere sulle “risorse”
naturali ambientali.
«Così, però, tale discussione rischia di cadere nell’errore opposto a quello giustamente rimproverato
a quell’ottimistica fiducia nel progresso industriale rimasta per lungo tempo incontrastata: l’errore
di limitarsi ad una discussione sulla natura senza l’uomo, senza interrogarsi su questioni di
rilevanza sociale e culturale.» (Beck 1986, 32) «In altre parole, ciò che si mostra chiaramente nelle
discussioni sul rischio sono le crepe e le voragini che si aprono tra razionalità scientifica e
razionalità sociale nel modo di rapportarsi ai potenziali di pericolo insiti nella civiltà. È un dialogo
tra sordi.» (Beck 1986, 39) «… la fine dell’antitesi tra natura e società. Questo significa che non si
può più comprendere la natura senza la società né la società senza la natura. Le teorie sociali del
XIX secolo (ed anche le loro varianti del XX secolo) hanno pensato la natura essenzialmente come
un’entità data, ascritta e da sottomettere, e di conseguenza come qualcosa di contrapposto ed
estraneo: come non-società. Queste attribuzioni sono state superate dal processo stesso di
industrializzazione; sono state per così dire falsificate storicamente. Alla fine del XX secolo la
natura non è né data né ascritta; è diventata invece un prodotto storico, arredamento interno del
mondo civile, distrutto o minacciato nelle condizioni naturali della sua riproduzione. Ma questo
significa che il degrado della natura, integrato nella circolazione universale della produzione
industriale, smette di essere “mero” degrado della natura e diventa una componente integrale della
dinamica sociale, economica e politica.» (Beck 1986, 105-106) «… la nozione di società mondiale
del rischio pertiene a un mondo che può essere caratterizzato dalla perdita di una distinzione chiara
tra natura e cultura. Oggi se parliamo di natura, parliamo di cultura, e viceversa. La nostra
concezione di una separazione tra società naturale e società culturale, intimamente legata al
pensiero modernista, non riesce a dar conto del fatto che stiamo costruendo, agendo e vivendo in un
mondo civile costruito, artificiale, le cui caratteristiche vanno al di là di queste distinzioni, che
invece ancora dominano il nostro pensiero. La perdita di confini tra questi ambiti è portata avanti
non soltanto dall’industrializzazione della natura e della cultura, ma anche dai pericoli che mettono
a rischio allo stesso tempo umani, animali e piante.» (Beck 1986, 339)
1.2.3. specificità di classe e di area dei rischi ma contemporanea progressiva globalizzazione.
1.2.3.1. «La storia della distribuzione del rischio mostra che i rischi, come le ricchezze, aderiscono
allo schema di classe, ma al rovescio: le ricchezze si accumulano in alto, i rischi in basso. In questo
senso, i rischi sembrano rinsaldare la società di classe, non superarla.» (Beck 1986, 46) «Nuove
diseguaglianze internazionali. Il livellamento su scala planetaria delle situazioni di rischio non deve
tuttavia ingannare sulle nuove diseguaglianze rispetto all’esposizione al rischio. Esse si producono
soprattutto là dove le situazioni di classe e quelle di rischio si sovrappongono, anche qui su scala
internazionale. Il proletariato della società globale del rischio risiede sotto le ciminiere, vicino alle
raffinerie e alle fabbriche chimiche dei centri industriali del terzo mondo. La «più grande catastrofe
industriale della storia» (“Der Spiegel”), l’incidente di Bhopal in India, ha fatto prendere coscienza
all’opinione pubblica di tutto il mondo: le produzioni pericolose sono state trasferite nei paesi a
bassi salari. Non è un caso che ciò accada. C’è un’inevitabile “forza d’attrazione” tra povertà
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estrema ed estremi rischi. Nel sistema di smistamento dei rischi le “provincie sottosviluppate”
godono di una particolare predilezione. E sarebbe un ingenuo o un pazzo chi pensasse ancora che i
responsabili delle scelte di fondo non sappiano quello che fanno. Per questa gente, le complesse
strutture degli impianti chimici, con le imponenti tubature e i giganteschi serbatoi, sono simboli di
successo conquistati a caro prezzo. La minaccia di morte che essi contengono rimane invece
invisibile. Per loro i fertilizzanti, i pesticidi e gli erbicidi che essi producono stanno soprattutto sotto
il segno della liberazione dalla miseria materiale.» (Beck 1986, 54)
1.2.3.2. «Tuttavia, nell’ambito della loro portata e tra coloro che ne sono minacciati, i rischi
dispiegano obiettivamente un effetto livellatore, ed è proprio in ciò che sta la loro nuova forza
politica. In questo senso sono proprio le società del rischio a non essere società di classe; le loro
situazioni di rischio non possono essere comprese come situazioni di classe, né i loro conflitti come
conflitti di classe. Ciò si mostra ancora più chiaramente se si guarda alla forma particolare e al
particolare modello distributivo dei rischi della modernizzazione: in essi è insita una tendenza
immanente alla globalizzazione. Alla produzione industriale si affianca un’universalizzazione dei
pericoli indipendente dai luoghi della loro produzione: su questa terra le catene alimentari collegano
praticamente tutto con tutti, non hanno confini. L’acido contenuto nell’aria non si limita ad erodere
sculture e tesori d’arte, ha dissolto già da tempo anche le moderne barriere doganali. Anche in
Canada i laghi contengono acque acide, e i boschi muoiono anche nell’estremo nord della
Scandinavia.[…] L’effetto boomerang. Diffondendosi, i rischi evidenziano socialmente un effetto
boomerang: anche i ricchi e i potenti non possono dirsi al sicuro da essi. Quelli che prima erano
“effetti latenti collaterali” colpiscono alla fine anche i centri della loro produzione. Gli stessi attori
della modernizzazione finiscono molto concretamente coll’essere vittime dei pericoli che provocano
e dai quali traggono profitto. […] Ad una crescita modesta degli utili in rapporto all’impiego di
fertilizzanti e prodotti chimici corrisponde un aumento sproporzionato dei danni arrecati alla natura,
ormai visibili e allarmanti anche agli occhi degli stessi agricoltori. […] Quelli che prima erano gli
“effetti collaterali non osservati” diventano ora effetti primari pienamente visibili che mettono in
pericolo persino i loro centri di produzione. La produzione di rischi della modernizzazione segue la
curva del boomerang. L’effetto boomerang finisce coll’investire proprio quei paesi ricchi che si
sono liberati dai rischi trasferendoli altrove, ma poi importano a basso prezzo prodotti alimentari.»
(Beck 1986, 49-58 passim)
1.2.4. Nuove forme di immiserimento nella società globale del rischio: immiserimento da
dipendenza da un’attesa e abitudine ad un alto stile di consumi.
«… nei paesi più sviluppati con alti livelli di sicurezza sociale, l’immiserimento da rischio coincide
con il contrario della miseria materiale (per lo meno se si pensa alle immagini del XIX secolo e ai
paesi del terzo mondo afflitti dalla fame): gli uomini non sono impoveriti, vivono anzi nel
benessere, in una società massificata dei consumi e del superfluo (il che certamente può coincidere
con un acutizzarsi delle diseguaglianze sociali), e sono solitamente bene istruiti ed informati. Ma
hanno paura, si sentono minacciati e si impegnano perché in futuro l’unica conferma possibile delle
loro previsioni realistico-pessimistiche non abbia a verificarsi, venga evitata.» (Beck 1986, 69)
1.2.4.1. «Le situazioni di rischio creano…dipendenze sconosciute alle situazioni di classe. I
coinvolti diventano incompetenti in questioni che riguardano il loro stesso coinvolgimento; perdono
una parte importante di sovranità sul sapere. Le cose nocive, minacciose, ostili sono in agguato
ovunque.» (Beck 1986, 70)
1.2.4.2. La particolare forma di dipendenza capace di alimentare la paura dipende dalla doppia
consapevolezza: 1. l’emergere dell’evidenza dei rischi, 2. la percezione della incapacità e della
volontà sociale a farvi fronte e porvi rimedio (politiche ondivaghe).
1.2.5. Scienza e profitti sul rischio (e l’incremento dei rischi, per paradosso o “la trappola del
rischio”). «Primo, cresce la scientificizzazione dei rischi; secondo, cresce il business col rischio (le
due cose si influenzano a vicenda). Non è affatto vero che la denuncia di pericoli e rischi della
modernizzazione sia solo critica; è anche, nonostante tutte le resistenze e le demonizzazioni del
caso, un fattore di sviluppo economico di prim’ordine, come risulta fin troppo chiaramente dallo
6
sviluppo dei rispettivi settori economici e dalle crescenti spese pubbliche per la difesa
dell’ambiente, per combattere le malattie della civiltà moderna ecc. Il sistema industriale trae
profitto, in misura rilevante, dai problemi che esso produce (cfr. Jänicke, 1979).» (Beck 1986, 74)
1.3. reazioni al tema del rischio consegnata a atteggiamenti tra loro estremi tra cui è difficile
trovare (se esiste) una mediazione. Ipotesi di ventaglio delle reazioni (in ripresa e rapida sintesi): a.
isteria e catastrofismo; b. indifferenza, minimizzazione e disconoscimento; c. società riflessiva.
E ipotesi di uscita dalla società del rischio.
1.3.1. isteria e catastrofismo. «Questa tendenza alla globalizzazione provoca forme di
coinvolgimento anch’esse non specifiche nella loro generalità. Dove tutto si trasforma in pericoli, in
un certo senso niente è più pericoloso. Dove non c’è più scampo, alla fine si preferisce non pensarci
più. L’ecofatalismo escatologico fa muovere il pendolo degli umori privati e politici in ogni
direzione. La società del rischio va dall’isteria all’indifferenza e viceversa. L’impegno è già da
tempo fuori moda.» (Beck 1986, 49)
«L’esperienza di questa esposizione ai rischio senza spazi di decisione rende comprensibile gran
parte dello shock, della rabbia impotente e del senso di perdita di un orizzonte futuro con cui molti,
pur tra mille ambivalenze e con una critica che per forza di cose approfitta del suo oggetto,
reagiscono alle conquiste della civiltà tecnologica. È possibile creare e mantenere una distanza
critica nei confronti di ciò cui non si può sfuggire? È ammissibile rinunciare alla distanza critica
solo perché non c’è scampo, rifugiarsi nell’ineluttabile con scherno o cinismo, indifferenza o
esultanza?» (Beck 1986, 54)
1.3.2. indifferenza, minimizzazione e disconoscimento.
1.3.2.1. «L’altra faccia del riconoscimento dei rischi è la confutazione dell’atteggiamento scientifico
fondato sulla massima: “io non vedo, io non sento, io non so nulla”.» (Beck 1986, 78)
Cecità economica nei confronti del rischio. «Non esiste miglior humus per i rischi che negarli. Se si
sceglie la strategia opposta e si presuppone la (mancanza di) conoscenza come fondamento
dell’azione contro i rischi, allora questo apre le cateratte della paura e ogni cosa diviene rischiosa.
I rischi suggeriscono solamente cosa non si dovrebbe fare, non cosa si dovrebbe fare. Nella misura
in cui i rischi divengono lo sfondo onnicomprensivo per percepire il mondo, l’allarme che essi
provocano crea un’atmosfera di impotenza e paralisi. Sia non far nulla che pretendere troppo sono
cose che trasformano il mondo in una serie di rischi incontrollabili. Questo potrebbe essere definito
la trappola del rischio, che è ciò che il mondo può trasformare nella forma percettiva del rischio.»
(Beck 1986, 334)
1.3.2.2. La negazione causale dei rischi «… sottolineare che determinati nessi non sono accertati
con sicurezza potrà anche essere cosa lodevole, che ben si addice ad uno scienziato. Ma nel
rapporto con i rischi, chi ne è coinvolto sa che tale atteggiamento sortisce l’effetto contrario:
potenzia i rischi. Qui infatti si ha sempre a che fare con pericoli che devono essere evitati, e che
risultano minacciosi nonostante la scarsa probabilità che si verifichino. Se sulla base di un livello di
conoscenze “non chiaro” si nega il riconoscimento di un rischio, ciò significa omettere di prendere
le necessarie contromisure e lasciar crescere il pericolo. Elevando gli standard di scientificità la
cerchia dei rischi riconosciuti che giustificano un intervento è ridotta al minimo, e di conseguenza si
rilasciano implicitamente dei lasciapassare scientifici per il potenziamento dei rischi.» (Beck 1986,
82) «Di solito non c’è l’inquinatore, ci sono sostanze inquinanti nell’aria che provengono da molte
ciminiere e sono per di più spesso correlate con disturbi non specifici, attribuibili sempre numerose
“cause” diverse. In questo contesto, chi continua a insistere sulla necessità di rigorose dimostrazioni
di causalità massimizza il disconoscimento e minimizza il riconoscimento dell’inquinamento e delle
malattie della civiltà moderna indotti dall’industria. Con il candore della scienza “pura”, gli studiosi
del rischio difendono la “nobile arte della prova per nessi causali” e bloccano le proteste dei
cittadini soffocandole sul nascere per “mancanza” di dimostrazione causale. In apparenza fanno
risparmiare costi all’industria e coprono le spalle ai politici; in realtà contribuiscono a tenere aperte
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le cateratte di una minaccia generale per la vita. Questo è anche un buon esempio di come la
“razionalità” possa tramutarsi in “irrazionalità”, a seconda di come viene visto lo stesso modo di
pensare e di agire: in rapporto alla produzione di ricchezza o in rapporto alla produzione di rischi.»
(Beck 1986, 83)
«I valori massimi consentiti rendono possibile una razione permanente di avvelenamento collettivo
standardizzato.» (Beck 1986, 85)
In sintesi: l’ambiguo e ondivago rimedio di fronte ai rischi; il rischio: un nuovo ambito di scienza e
di investimento; il rischio: reinterpretato, nascosto, minimizzato; la sua minimizzazione va di pari
passo con l’ostentazione di competenza nel settore, proprio nel momento in cui quello stesso settore
non trova alcuna agenzia assicurativa che abbia il coraggio di sostenerlo nonostante gli alti margini
di profitto includibili nel contratto assicurativo.
1.3.3. società riflessiva. E ipotesi di uscita dalla società del rischio.
La società del rischio può diventare una nuova realtà storica contemporanea o una nuova (seconda)
modernità, un nuovo patto sociale.
Torna il parallelo Hobbes - Beck: entrambi sono alla ricerca di una strategia politica per uscire
definitivamente o per strade efficaci dal rischio. Dai rischi dello stato di natura, del bellum omnium
contra omnes; dai rischi della civiltà, “la società del rischio”. Una comune domanda: quale Stato e
quale politica (compiti e limiti)?
«Mentre le società di classe sono organizzate su base nazionale, le società del rischio fanno
emergere “comunità di pericolo” che in ultima analisi possono essere comprese soltanto nel quadro
di una società planetaria. Il potenziale di autodistruzione sviluppato dalla civiltà nel processo di
modernizzazione rende così anche l’utopia di una società planetaria un po’ più reale, o per lo meno
più urgente.» (Beck 1986, 62)
«Nella sovrapposizione e nella concorrenza tra i problemi della società classista industriale e di
mercato da una parte, e quelli della società del rischio dall’altra, dati gli attuali rapporti di potere e
standard di rilevanza, prevale la logica della produzione della ricchezza. Ma proprio per questo,
alla fine è la società del rischio che si afferma. L’evidenza delle necessità rimuove dalla coscienza
la percezione dei rischi.» (Beck 1986, 59)
Il «vuoto politico» (e il ritorno del “bellum omnium contra omnes”) in un nuovo “stato di natura”:
«… queste obbiettive comunità di pericolo in via di formazione da un punto di vista politicoorganizzativo sono sospese in uno spazio vuoto. Anzi, entrano in rotta di collisione con gli egoismi
nazionali e, all’interno dei vari paesi, con le più importanti organizzazioni partitiche e di interessi
delle società industriali. Nella giungla della società corporativa non c’è posto per rischi trascendono
la dimensione di gruppo. … è possibile organizzare politicamente un così poco tangibile
coinvolgimento di tutti nei rischi?» (Beck 1986, 63). Le strade percorribili.
1.3.3.1. la “comunità solidale della paura” o: con il “vuoto politico dello stato di natura” la funzione
della paura: «Dalla solidarietà della penuria alla solidarietà per paura?» «Il progetto normativo
alternativo che sta alla sua [della società del rischio] base e la spinge in avanti, è la sicurezza. Al
posto del sistema dei valori della società “diseguale” subentra quindi il sistema valoriale della
società “insicura”. Mentre l’utopia dell’uguaglianza contiene una quantità di fini sostanziali e
positivi riferiti al cambiamento della società, l’utopia della sicurezza rimane peculiarmente negativa
e difensiva. In fondo, nel suo caso non si tratta più di ottenere qualcosa di “buono”, ma soltanto di
evitare il peggio; l’obbiettivo che emerge è l’autolimitazione. Il sogno della società classista è che
tutti vogliano e debbano avere una parte della torta. Il fine della società del rischio è che tutti siano
risparmiati dai veleni. […] Al posto della comunanza indotta dalla penuria subentra la comunanza
indotta dalla paura. In questo senso le caratteristiche tipiche della società del rischio mettono in
risalto i tratti di un’epoca sociale in cui la solidarietà della paura nasce e diventa una forza della
politica. È però ancora del tutto da chiarire che effetti abbia la forza di coesione della paura. Fino a
che punto reggono le comunanze prodotte dalla paura? Che tipo di motivazioni e di energie per
l’azione mettono in moto? Che caratteristiche ha questa nuova comunità solidale della paura?
L’energia sociale della paura riuscirà davvero a mettere fuori gioco il calcolo del tornaconto
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individuale? Fino a che punto sono capaci di compromesso le comunità ansiogene prodotte dai
pericoli? In quali forme di azione si organizzano? La paura spingerà gli uomini verso
l’irrazionalismo, l’estremismo, il fanatismo? Finora non aveva mai costituito il fondamento di un
agire razionale. Questo assunto ha forse perso la propria validità? La paura non sarà forse
(diversamente dalla miseria materiale) una base troppo incerta per i movimenti politici?» (Beck
1986, 64-65)
Come nelle tesi di Hobbes, la paura di soccombere porta all’urgenza di un contratto; i suoi contenuti
sono di rinuncia e sottomissione (pactum unionis, pactum subjectionis); qui il rischio di estinzione
dell’umanità si traduce nell’ipotesi di una “comunità solidale della paura” che accetta il limite, anzi
che decide per una autolimitazione.
1.3.3.2. conoscenza a fine latenza. «La fase di latenza dei rischi si avvia a conclusione. Le minacce
invisibili diventano visibili. Degrado e danni arrecati alla natura non si verificano più soltanto al di
là della nostra esperienza diretta, nella sfera delle reazioni a catena chimiche, fisiche o biologiche,
ma interessano invece sempre più chiaramente gli occhi, il naso e le orecchie. Elenchiamo solo i
fenomeni più evidenti: rapido inscheletrimento dei boschi, laghi e mari incoronati di schiuma,
carcasse di animali neri di pece, smog, erosione di edifici e monumenti artistici per l’aria inquinata,
incidenti a catena con fuoriuscita di sostanze tossiche, scandali e catastrofi — e l’informazione su
tutto ciò fornita dai media. Le liste delle sostanze inquinanti di quelle tossiche presenti negli
alimenti e negli oggetti di uso comune si fanno sempre più lunghe. Gli argini costituiti dai “valori
massimi consentiti”, più che alle esigenze di difesa della salute della popolazione sembrano
rispondere agli standard in uso per il formaggio svizzero: più sono i buchi e meglio è. Le smentite
dei responsabili si fanno sempre più nette e sempre più povere di argomenti. Per quanto qui si
trovino in alcuni casi delle tesi che dovranno ancora essere dimostrate, ciò che comunque emerge
con chiarezza da questo elenco è che la fine della latenza ha due facce: il rischio e la sua (pubblica)
percezione. Non è mai chiaro se sono i rischi ad essersi acutizzati o se è il nostro sguardo su di essi
ad essersi fatto più attento. I due aspetti convergono si condizionano e si rafforzano a vicenda; e
poiché i rischi sono rischi nel sapere, la percezione dei rischi e i rischi stessi coincidono, sono
un’unica e medesima cosa.» (Beck 1986, 73)
1.3.3.3. trasversalità scientifiche. La trasversalità di competenze scientifiche e gestionali per la
corretta definizione, comprensione, comunicazione e gestione del rischio: la “cesura nella
razionalità scientifica” (Beck 1986, 92)
«I rischi …evidenziano relazioni complessive. Mettono in una diretta e minacciosa connessione ciò
che è distinto in termini di contenuto, di spazio e di tempo. Non si lasciano trattenere nel filtro
dell’iperspecializzazione; sono ciò che sta tra le specializzazioni. Il superamento dei rischi
costringe ad assumere una visione d’insieme, impone la collaborazione, al di là di tutti gli steccati
scrupolosamente costruiti e custoditi. I rischi si collocano trasversalmente rispetto alle distinzioni
tra teoria e prassi, trasversalmente rispetto ai confini delle specializzazioni e delle discipline,
trasversalmente rispetto alle competenze e le responsabilità istituzionali, trasversalmente rispetto
alla distinzione tra valori e fatti (e di conseguenza tra etica e scienza) e trasversalmente rispetto agli
ambiti di politica, sfera pubblica, scienza ed economia che solo in apparenza sono istituzionalmente
separati. Così nella società del rischio i problemi cardinali della teoria dei sistemi e
dell’organizzazione diventano la dedifferenziazione dei sottosistemi e delle sfere funzionali, un
nuovo collegamento degli specialisti e l’unificazione del lavoro al fine di contenere i rischi.» (Beck
1986, 92-93). La specializzazione, vanto e fine della ricerca scientifica, anche nella sua destinazione
produttiva economica, può diventare un potente alimentatore delle minacce ambientali: «Dalla
specializzazione non deriva soltanto il carattere “non visto” e “secondario” delle “conseguenze
secondarie non viste”. Con essa aumenta anche la probabilità che siano concepite e realizzate
soluzioni selettive i cui effetti intenzionali vengono continuamente coperti dagli effetti collaterali
non intenzionali. Perciò, la scienza iperspecializzata diventa una “stazione di smistamento” per i
problemi e per il costoso trattamento dei loro sintomi. L’industria chimica produce rifiuti tossici.
Che farne? La “soluzione”: discariche. Le sue conseguenze: il problema dei rifiuti diventa un
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problema delle falde acquifere. L’industria chimica ed altre possono trarre profitto da ciò grazie agli
“additivi per la depurazione” dell’acqua potabile. Se l’acqua potabile con questi additivi nuoce alla
salute delle persone, sono pur sempre disponibili medicine i cui “effetti collaterali latenti” possono
essere intercettati e prolungati da un elaborato sistema di cura medica. In questo modo, si formano
catene di soluzione e di produzione dei problemi, in conformità con il grado di iperspecializzazione,
e questo “conferma” continuamente la “favoletta” delle conseguenze secondarie non viste.» (Beck
1986, 249)
1.3.3.4. il nuovo sguardo, oltre la sindrome della paura: la sensibilità di una seconda modernità
«Al posto di un’interpretazione antropomorfica della natura e dell’ambiente è subentrata la moderna
coscienza del rischio della civiltà, con i suoi latenti nessi di causalità non percepibili e tuttavia
onnipresenti. Dietro un’apparenza innocua si nascondono sostanze pericolose ed ostili. Tutto
dev’essere visto due volte [la produzione e il rischio, la promozione e l’inganno… (elenco non di
Beck)], e solo in questo doppio può essere veramente compreso e giudicato. Il mondo del visibile
dev’essere indagato, relativizzato e valutato in rapporto ad una seconda realtà, concepita nel
pensiero eppure presente in esso. I criteri di valutazione stanno in questa realtà, non in quella
visibile. Chi usa semplicemente le cose, le prende per come gli appaiono, e respira, mangia senza
interrogarsi sul sostrato di tossicità della realtà, non è solo ingenuo, misconosce anche i pericoli che
lo minacciano e così finisce coll’esporsi ad essi senza alcuna protezione. L’abbandono, il
godimento immediato, il semplice essere-così-come-si-è si sono infranti. Ovunque sono in agguato
sostanze inquinanti e tossiche che imperversano come facevano i diavoli del Medioevo. Gli uomini
sono esposti ad esse quasi senza via d’uscita. Respirare, mangiare, abitare, vestirsi — tutto ne è
impregnato. Andar via aiuta tanto poco quanto mangiare il müsli. I pericoli aspettano anche a
destinazione, e stanno anche nei chicchi dei cereali. Li ritroviamo sempre, come nella favola del
riccio in corsa con la lepre. Il fatto che non siano visibili non è una prova della loro non esistenza,
anzi: poiché la loro esistenza ha luogo comunque nella sfera dell’invisibile, ciò attribuisce uno
spazio quasi sconfinato al sospetto del loro imperversare.» (Beck 1986, 95-96) «Il ruolo degli
spiriti se lo assumono le sostanze inquinanti e tossiche, invisibili ma onnipresenti. Ciascuno ha le
sue personali relazioni ostili con determinati sottogruppi di sostanze tossiche, i suoi rituali
liberatori, le sue formule esorcistiche, le sue sensibilità particolari, i suoi presentimenti e le sue
certezze. […] Sorgono nuove comunità e contro-comunità, le cui visioni del mondo, norme e
certezze si raggruppano attorno al centro delle minacce invisibili.» (Beck 1986, 97) «Il suo centro è
la paura. Che tipo di paura? In che modo la paura ha l’effetto di formare gruppi? In quale immagine
del mondo è originata? » (Beck 1986, 97)
1.3.3.4.1. La scoperta di una comunanza e di una comune fragilità: «quando gli alberi vengono
abbattuti e intere specie animali sono annientate, gli uomini sentono in un determinato senso di
essere essi stessi vittime, “feriti”. I pericoli mortali insiti nello sviluppo della civiltà toccano
determinate comunanze nell’esperienza della vita organica che connettono i bisogni vitali
dell’uomo con quelli di piante e animali. Nella moria dei boschi l’uomo fa esperienza di sé come
“creatura naturale con coscienza morale”, come cosa mobile e vulnerabile in mezzo ad altre cose,
come parte naturale di un insieme naturale minacciato di cui egli è responsabile. Vengono offesi e
risvegliati strati di una coscienza umana della natura che scalzano e superano il dualismo di corpo e
spirito, di natura e uomo. Quando è minacciato, l’uomo si rende conto di respirare come la pianta e
di vivere di acqua come il pesce nell’acqua. La minaccia tossica gli fa sentire di aver parte con il
proprio corpo alle cose (una sorta di “metabolismo con la coscienza e la morale”) e di conseguenza
di poter essere eroso dalla pioggia acida assieme alle pietre e agli alberi. Diventa avvertibile una
comunanza tra terra, piante, animali e uomini, una “solidarietà delle cose viventi” che di fronte alla
minaccia colpisce allo stesso modo tutto e tutti (cfr. Schütz, 1984). (Beck 1986, 98)
1.3.3.4.2. cammini di riconoscimento e condivisione: una “società riflessiva”, una “modernità
riflessiva”, una “politicizzazione riflessiva”.
«Una società che percepisce se stessa come società del rischio diventa riflessiva, il che significa che
le fondamenta della sua attività e i suoi obiettivi diventano oggetto di controversie pubbliche,
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scientifiche e politiche.» (Beck 1986, 340) «La modernità diventa riflessiva, il che significa che si
preoccupa delle sue conseguenze involontarie, dei suoi rischi e delle sue implicazioni a partire dalle
sue fondamenta.» (Beck 1986, 347)
«Dove i rischi della modernizzazione sono stati “riconosciuti” (e per arrivare a ciò occorrono molte
cose: bisogna non soltanto conoscerli, ma conoscerli collettivamente, credere nella loro esistenza e
far luce sulle relative conseguenze e catene causali), essi sviluppano una straordinaria dinamica
politica. Sono privati di tutto: della loro latenza, della loro tranquillizzante “struttura di effetto
collaterale”, della loro inevitabilità. Improvvisamente i problemi stanno davanti a tutti, senza
giustificazione: pure ed esplosive sfide per l’azione. Dalle strutture e condizioni oggettive
emergono le persone. Cause si trasformano in responsabili, e cominciano a rilasciare dichiarazioni.
Gli “effetti collaterali” prendono la parola, si organizzano, vanno in tribunale, si fanno valere, non
si tolgono più dai piedi. Come abbiamo già detto, il mondo è cambiato. È questa la dinamica della
politicizzazione riflessiva che produce coscienza del rischio e conflitto. Ciò non contribuisce di per
sé a contrastare i pericoli, apre tuttavia ambiti e opportunità precedentemente preclusi all’azione.
Produce un improvviso punto di fusione dell’ordine industriale, dove l’impensabile e l’irrealizzabile
diventano prospettive di breve periodo.» (Beck 1986, 101) «Così, con il riconoscimento dei rischi
della modernizzazione e la pressione dei crescenti pericoli si accumula un esplosivo politico di tipo
particolare. Ciò che ieri era ancora possibile oggi è soggetto a limitazioni: chi minimizza ancora la
moria dei boschi, il morbo della mucca pazza o lo scandalo dei mangimi tossici deve sapere che
sarà pubblicamente accusato di cinismo. “Livelli accettabili di esposizione” si trasformano in
“intollerabili fonti di pericolo”. Quello che fino a poco prima stava ancora al di fuori dell’ambito
della politica rientra ora nel suo raggio d’influenza. La relatività dei valori massimi consentiti e
delle variabili inaccessibili alla politica diventa evidente. I pesi e contrappesi del politico e del nonpolitico, del necessario e del possibile, di ciò che è dato e di ciò che è modificabile vengono
ridefiniti. Ferree “costanti” tecnico-economiche, come le emissioni di sostanze inquinanti, o
l’“insostituibilità” dell’energia nucleare, si fondono improvvisamente in variabili politicamente
malleabili. (Beck 1986, 101-102)
«Quanto più crescono i pericoli del processo di modernizzazione, si minacciano manifestamente
valori essenziali della collettività e si crea una coscienza pubblica di ciò, tanto più profondamente è
scosso il consueto assetto di poteri e responsabilità nel rapporto tra economia, politica e opinione
pubblica. E tanto più probabile diventa che sotto la spinta dei pericoli incombenti si ridefiniscano
responsabilità, si centralizzino competenze decisionali e si coprano di controlli e programmi
burocratici tutti i dettagli del processo di modernizzazione. Nei suoi effetti, il riconoscimento dei
rischi della modernizzazione e la crescita dei relativi pericoli conduce a mutamenti strutturali.»
(Beck 1986, 102-103)
«Nella società del rischio, con la crescita dei pericoli si devono affrontare sfide completamente
nuove per la democrazia. La società del rischio ha insita una tendenza ad un “legittimo”
totalitarismo di difesa dai pericoli, che, partendo dal diritto di evitare il peggio conduce, com’è fin
troppo noto, al “peggio ancora”. Gli “effetti politici collaterali” degli effetti collaterali minacciano
l’esistenza di un sistema politico democratico che si trova davanti al dilemma o di fallire di fronte ai
pericoli prodotti strutturalmente, oppure, servendosi di “sostegni” autoritari e repressivi, di
sospendere principi democratici fondamentali. Uscire da questo dilemma è uno dei compiti
principali del pensiero democratico e della sua prassi nell’immediato futuro della società del
rischio.» (Beck 1986, 104-105)
1.4. Manifesto per la nuova alleanza (per studio, diagnosi e intervento) di natura e società: un
nuovo patto, un nuovo contratto. (In sintesi conclusiva e richiamo)
Si impone la consapevolezza di un nuovo incontro natura-società, natura-cultura: “una natura
immanente alla civiltà”, “non più natura esaurita dallo sfruttamento industriale”.
«Con il degrado industriale della base ecologica e naturale della vita si mette in moto una dinamica
sociale e politica storicamente senza precedenti e ancora del tutto non compresa che impone anche
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di ripensare il rapporto tra natura e società. […] Questo significa che non si può più comprendere la
natura senza la società né la società senza la natura. […] L’effetto collaterale non visto della
sociazione (Vergesellschaftung) della natura è la sociazione del degrado e dei pericoli della natura,
la loro trasformazione in contraddizioni e conflitti economici, sociali e politici: le alterazioni delle
condizioni naturali della vita si trasformano in minacce globali di natura medica, sociale ed
economica, con inedite sfide alle istituzioni sociali e politiche della società globale altamente
industrializzata.
Proprio questo passaggio dai pericoli per la natura provocati dalla civiltà ai pericoli per l’ordine
sociale, economico e politico è la vera sfida del presente e del futuro che giustifica il concetto di
società del rischio. Mentre il concetto di società industriale classica è basato sull’antitesi di natura e
società (nel senso del XIX secolo), con il concetto di società (industriale) del rischio si parte da un
concetto di “natura” integrato nella cultura per seguire le metamorfosi dei suoi danneggiamenti
attraverso i sottosistemi sociali. […] Alla fine del XX secolo la natura è società e la società è
(anche) “natura”“. Oggi chi continua a parlare della natura come della non-società, lo fa con le
categorie di un altro secolo che non riescono più a comprendere la nostra realtà.» (Beck 1986, 105106)
Scrive Touraine: « Viviamo in un mondo che è sempre meno «naturale», che sappiamo essere
creato da noi, cosicché la nostra azione si esercita sugli effetti della nostra stessa azione piuttosto
che su un ambiente, come sanno bene gli ecologisti che studiano più i nostri interventi sull’ambiente
che non le caratteristiche dell’«ambiente naturale», come si diceva ancora mezzo secolo fa.»
Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo
contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008 p. 124 [Sulla stessa linea: Latour Bruno 1991 Non
siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995.]
1.5. A distanza di 25 anni della sua opera del 1986 La società del rischio. Verso una seconda
modernità Beck Ulrich così riprende, sintetizza e compie un bilancio della sua ricerca: la minaccia è
un’autominaccia, deriva da quel politico che abbiamo costituito per la mostra guida e salvezza.
Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano
sempre più contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato,
ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la
crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto
25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl.
A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello
spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa,
della responsabilità e (3) non possono , essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le
assicurazioni private negano la loro protezione—come nel caso dell’energia nucleare e della
tecnologia genetica—viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli
incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati
economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati
politicamente. In altri termini il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali
di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale.
Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi
partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana,
ma dal terremoto e dallo tsunami.
La categoria di "catastrofe naturale" , segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la
sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo
passato. Questo concetto è sbagliato, già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma,
semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un
terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione
di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una
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scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza
dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni.
La risposta ai rischi moderni è l'idea dell’assicurazione come "tecnologia morale" (Francois Ewald).
Non è più accettabile che ci si affidi alla divina provvidenza e si subiscano passivamente i colpi del
destino. Il nostro rapporto con la natura, con il mondo e con Dio cambia in modo tale che
diventiamo responsabili della nostra sventura, ma in linea di principio disponiamo dei mezzi per
compensare le conseguenze da noi stessi innescate. Si tratta comunque del mito della “vita
assicurata", che a partire dal 18° secolo ha trionfato in ogni ambito.
In effetti siamo riusciti a ottenere il consenso sui precedenti rischi dell’età industriale legandoli a
una sorta di "prevenzione a posteriori" (vigili del fuoco, assicurazioni, assistenza psicologica e
medica, ecc.). Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal
Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né
immaginabile, preparata al super-Gau, il "massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare",
e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo
disastro dei disastri. Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare
possibile: la negazione dei pericoli. Infatti, al posto della sicurezza offerta dalla prevenzione a
posteriori subentra il tabù della impossibilità di errore. Ogni Paese — in particolare, naturalmente,
la Francia, e l’esperto atomico Sarkozy lo sa bene — ha le centrali nucleari più sicure del mondo!
Custodi del tabù diventano la scienza e l’economia dell’energia nucleare, colte in flagrante proprio
dagli eventi catastrofici che hanno attirato sui loro errori i riflettori dell'opinione pubblica mondiale.
Nel 1986 Franz-Joseph Strauß dichiarò che solo i reattori nucleari "comunisti" possono esplodere.
Egli tentava cosi di circoscrivere eventi come Chernobyl, in base all’assunto che l’Occidente
capitalistico superevoluto dispone di centrali nucleari sicure.
Ora però siamo alle prese con l’avaria in Giappone, che viene considerato il Paese meglio attrezzato
del mondo, quello dotato della tecnologia più sofisticata per garantire la sicurezza. La finzione per
la quale in Occidente si può dormire tranquilli è svanita.
Che in Giappone le rimanenti speranze poggino proprio sull’intervento delle "forze di autodifesa"
chiamate a sostituire con elicotteri antincendio gli impianti di raffreddamento in avaria, è qualcosa
di più di un’ironia. Hiroshima fu terribile, l’orrore puro e semplice. Ma in quel caso fu il nemico a
colpire. Cosa accade se un fatto così spaventoso avviene all'interno del sistema produttivo della
società—non in un ambito militare? In questo caso, coloro che minacciano la nazione sono proprio i
garanti del diritto, dell’ordine e della razionalità, della democrazia stessa. Quale politica industriale
sarebbe più possibile se fosse negata anche la residua speranza del "vento" e Tokyo fosse
contaminata? Quale crisi della tecnologia, della democrazia, della ragione, della società?
Molti deplorano che le impressionanti immagini provenienti dal Giappone incutano paure sbagliate
e diano impulso ad una "pseudo-scienza" della compassione. In questo modo, però, essi
disconoscono e sottovalutano ingenuamente la dinamica politica insita nel potenziale di
autodistruzione del trionfante capitalismo industriale. Infatti, molti pericoli—un esempio da
manuale: le radiazioni atomiche —sono invisibili, sfuggono alla percezione ordinaria. Ciò significa
che la distruzione e la protesta son mediate simbolicamente. Solo constatando impercepibilità di
molti pericoli grazie alle immagini televisive il cittadino culturalmente accecato può tornare a
"vedere".
La questione di un soggetto rivoluzionario capace di rovesciare i rapporti di definizione della
politica del rischio cade nel vuoto. Non sono —o non sono soltanto— i movimenti antinucleari,
l'opinione pubblica critica, ecc. a poter dar luogo a un’inversione nella politica atomica. In ultima
analisi, il contropotere rispetto all’energia nucleare non sono i manifestanti che bloccano il trasporto
del materiale radioattivo. L’avversario più irriducibile dell' energia nucleare è … l'energia nucleare
stessa!
Nelle immagini delle catastrofi categoricamente escluse dai manager si dissolve il mito della
sicurezza. Quando ci si rende conto e si ha la prova che i custodi della razionalità e dell’ordine
legalizzano e normalizzano i pericoli per la vita, si scatena il pandemonio nel milieu della sicurezza
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burocraticamente promessa. Perciò, non è sbagliato affermare che all’interrogativo sul soggetto
politico della società di classe corrisponde l’interrogativo su questa "riflessività politica" nella
società del rischio.
Tuttavia, sarebbe un errore trarre da ciò la conclusione che si sia aperta una nuova fase di
illuminismo, beneficamente offertaci dalla storia. Al contrario, a qualcuno la prospettiva qui
tracciata potrebbe suggerire il paragone con il tentativo di praticare un foro nello scafo di una nave
per far uscire l’acqua del mare penetrata al suo interno.» Urlich Beck 2011 La faccia oscura del
progresso, in la Repubblica 8 aprile 2011 (traduzione di Carlo Sandrelli).
2. la seconda modernità e la logica del suo sviluppo.
I soggetti coinvolti e attivi nella e per la società del rischio; la dinamica del conflitto.
2.01. Lo sguardo. Lo sguardo è rivolto a tre soggetti operativi (autonomie nella globalizzazione):
capitale, Stato, movimenti. La dinamica di potere e contropotere all’interno di una logica dei giochi
(mossa e contromossa, azione e reazione). Lo schema suggerito rimanda alla dama (nazioni) e agli
scacchi (relazioni transnazionali). Lo sviluppo e l’analisi presuppongono due certezze: la
conoscenza e la chiarezza delle regole del gioco (senza di esse non c’è gioco); la certezza della
impossibilità di prevedere quale partita verrà giocata (senza una simile non-previsione non c’è
gioco; il gioco è truccato); questa logica va applicata alle relazioni politiche e definisce il problema
e la difficoltà dell’interpretare.
2.02. I termini. La sovranità è gestita e conservata attraverso una logica continua di potere e
contropotere tra i diversi soggetti coinvolti nelle relazioni sociali: le Stato e le sue istituzioni, il
capitale e la varietà dei modi e dei soggetti operanti, i movimenti civili, gli obiettivi e le forme della
loro organizzazione… Beck adotta lo schema del potere e contropotere, in rovesciamenti plurimi,
per cogliere la natura, l’evoluzione e le forme che, di conseguenza, assume il volto politico di una
società in un periodo storico dato e in particolare nell’età contemporanea.
2.03. Gli esiti. Potere e contropotere è contemporaneamente una logica dell’equilibrio e una logica
dell’evoluzione dei sistemi sociali; il gioco di potere contropotere costituisce la logica del sistema e
da essa deriva la fisionomia stessa del sistema. È pertinente con il tema l’osservazione e la domanda
che costituiscono il piano o riassumono la direzione dell’indagine di Foucault sulla realtà politica:
«La teoria dello Stato, l’analisi tradizionale degli apparati di Stato non esaurisce probabilmente il
campo d’esercizio e di funzionamento del potere. E la grande incognita attuale è: chi esercita il
potere? e, dove l’esercita? […] Dovrò in seguito far la storia di quel che è accaduto nel XIX secolo,
mostrare come, attraverso una serie di offensive e controffensive, di effetti e di controeffetti, si è
potuti giungere allo stato attuale così complesso delle forze ed al profilo contemporaneo della
battaglia. La coerenza non vien fuori dal mostrare un progetto, ma dalla logica delle strategie che
s’oppongono le une alle altre.» Foucault Michel 1971 Microfisica del potere. Interventi politici,
Einaudi, Torino 1977,114,143.
I tre soggetti in azione
1. Capitale: strategie del capitale (Beck 2002 il capitolo IV 150-215)
2. Stato: strategie dello Stato (Beck 2002 il capitolo V 216-306)
3. Società civile: strategie dei movimenti della società civile (Beck 2002 il capitolo VI 307-322)]
Una conferma e nota introduttiva: « …la relazione fra capitale e Stato e sempre più spesso oggetto
di disputa. Il denaro ha sempre avuto una dimensione internazionale e le multinazionali che oggi
dominano il capitalismo mondiale sono ovviamente meno legate che mai alle loro nazioni d’origine.
Fino a poco tempo fa l’economia mondiale era controllata da poche società di provenienza
occidentale, e di incerta lealtà, sebbene l’avanzare del capitalismo asiatico stia rapidamente
cambiando lo scenario. Oggi quattro delle cinque banche più importanti al mondo sono cinesi. […]
I governi e le grandi aziende hanno certamente bisogno gli uni delle altre, ma i loro interessi sono
tutt’altro che sovrapponibili. Entrambi possono essere messi in pericolo dall’uso consapevole delle
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risorse di Internet da parte dei movimenti democratici che mirano a sovvertire i loro rispettivi
monopoli.» Hann Chris, Hart Keith 2011 Antropologia economica. Storia, etnografia, critica,
Einaudi, Torino 2011, 40,42
2.1. il capitale: la logica del capitale e delle sue condizioni e scelte di profitto
2.1.1. [il potere] «È soprattutto l’economia ad avere sviluppato un meta-potere di questo genere
uscendo dalla gabbia del gioco di potere territoriale e organizzato sul piano dello Stato nazionale ed
elaborando nuove strategie nello spazio digitale di fronte allo Stato radicato nella dimensione
territoriale. Meta-gioco di potere significa che ci si scontra e si lotta per il potere e nello stesso
tempo si cambiano le regole nazional-statali della politica mondiale.» (Beck 2002 p.66)
Quindi occorre partire dal divario sempre più evidente tra Stati nazionali, capitali multinazionali.
2.1.1.1. L’origine del meta-potere del capitale. «Chi si chiede da dove traggano il loro meta-potere
le strategie del capitale si imbatte in una curiosa situazione. L’idea di fondo è stata espressa in un
giornale dell’Europa dell’Est che nel 1999, in occasione di una visita del cancelliere tedesco,
titolava: «Perdoniamo i cavalieri teutonici e attendiamo gli investitori». È l’esatto capovolgimento
del calcolo della teoria classica del potere e della sovranità a rendere possibile la massimizzazione
del potere delle imprese transnazionali: non è la minaccia dell’invasione, ma, al contrario, la
minaccia della non-invasione o del ritiro degli investitori a costituire uno strumento di coercizione.
C’è solo una cosa peggiore dell’essere travolti dalle multinazionali, ed è non essere travolti dalle
multinazionali. Questa forma di dominio non è più legata all’esecuzione di ordini, ma alla
possibilità di investire più vantaggiosamente altrove — in altri Paesi — e alla minaccia latente così
agitata di non fare qualcosa, ossia di non investire in questo Paese. In questo senso, il nuovo potere
dei grandi gruppi economici non si fonda sulla violenza come ultima ratio per piegare gli altri alla
propria volontà e perciò è molto più mobile, perché indipendente dai luoghi e, di conseguenza,
«applicabile a livello globale». Il potenziale di coercizione che comporta questa forma di dominio
perfeziona la logica dell’agire economico e del potere economico: sempre e ovunque non fare
qualcosa, non investire, senza doversi giustificare di fronte all’opinione pubblica — questa è la leva
fondamentale del potere nelle mani degli attori dell’economia mondiale. Non è attorno
all’imperialismo, ma attorno al non-imperialismo che si cristallizza il potere economico globale. La
massimizzazione deterritorializzata del potere dell’economia non ha dunque bisogno di essere
conquistata politicamente né di essere legittimata politicamente. Essa avviene all’insaputa degli
organi di controllo della democrazia parlamentare evoluta come i parlamenti, i tribunali e i governi.
Essa non necessita di alcuna mobilitazione militare. Pertanto, il potere dell’economia mondiale si
basa sull’esatto contrario di ciò che fonda il potere degli Stati nazionali democratici: le elezioni
democratiche, la legittimazione pubblica, il monopolio dei mezzi di violenza. La formula del potere
dell’economia transnazionale recita invece così: non-conquista deliberata e intenzionale. Questo
«non» senza violenza, invisibile, totalmente intenzionale e onnipresente del recesso non abbisogna
di un consenso, né potrebbe ottenerlo.» (Beck 2002 p. 66-68)
2.1.1.2. Contrasti di logica tra capitale e nazione. «La logica di esclusione della politica nazionalstatale entra in contraddizione con la logica di inclusione della razionalità economica mondiale. La
fonte della massimizzazione della creatività e del profitto non è la separazione, ma la mescolanza
delle razze, dei gruppi etnici, delle nazionalità, che quindi diventa la politica dominante in materia
di mercato del lavoro tra le imprese transnazionali. L’antidoto alla stagnazione è l’ibridazione. La
mescolanza è la carta vincente, diventa la norma — perlomeno nello spazio di potere delle
organizzazioni transnazionali. La mobilità all’interno dell’impresa significa mobilità al di là delle
frontiere. Chi vuol fare carriera in un grande gruppo industriale «tedesco» deve non soltanto parlare
inglese ad Erlangen, ma anche «uccidere le distanze» nel lavoro quotidiano ed essere disposto ad
andare a vivere in altri continenti. I grandi gruppi che operano a livello globale ricavano il loro
capitale, reclutano le loro élites manageriali in molte nazioni, creano posti di lavoro in (quasi) tutte
le parti del mondo e distribuiscono i loro dividendi ad azionisti dei Paesi più diversi. Così la fede
nell’ontologia sociale nazionale viene confutata empiricamente in esperimenti reali e non con la
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morale del multiculturalismo, ma con l’argomento «money». È il realismo cosmopolitico
dell’economia mondiale che, usando il linguaggio della massimizzazione del profitto, porta al
trionfo di questa massima: le società cosmopolite sono puramente e semplicemente più creative e
quindi superiori alle società nazionali nella competizione per i mercati mondiali. […] In estrema
sintesi, si può affermare che il capitalismo senza frontiere è entrambe le cose, ossia un evasore
fiscale cronico e una scuola di cosmopolitismo.» (Beck 2002 p. 79-80) oppure, in versione più
benevola: «Per usare un’immagine: gli Stati hanno radici, gli investitori hanno ali. Questa nuova
asimmetria tra la forma di potere radicata e quella data rende possibili le conquiste non guerriere
compiute dall’economia mondiale.» (Beck 2002 p. 94)
2.1.1.3. Potere nazionale e potere trans-nazionale. «Quale genere di «potere» e di «dominio» sta
prendendo forma? Per rispondere a queste domande è opportuno chiarire la distinzione tra potere
nazional-statale e potere economico transnazionale sulla scorta della distinzione tra sovranità
territoriale e sovranità deterritorializzata. Il potere statale acquisisce e stabilizza la propria sovranità
grazie al controllo su un territorio, sulla sua popolazione e sulle sue risorse, mentre l’economia
mondiale ricava il suo potere, al contrario, dal fatto di non essere legata a nessun luogo, riuscendo
così a massimizzare il suo dominio exterritoriale, che fa valere nei confronti del potere statale
territorializzato.» (Beck 2002 p. 179) «La debolezza del potere dello Stato è causata dal fattore al
quale lo Stato doveva la propria forza, ossia il legame a un territorio. Fino a quando agiranno a
livello nazionale, cioè come sovrani in casa propria in quanto Stati territoriali isolati, gli Stati
nazionali potranno fare ben poco per impedire di essere messi gli uni contro gli altri nelle questioni
vitali delle tasse e dei posti di lavoro.[…] Questo concetto delocalizzato di dominio ribalta dalla
testa ai piedi la logica della concezione tradizionale del potere, della forza e del dominio.» (Beck
2002 p. 181) « Lo spazio politico (cioè quello degli Stati nazionali) e lo spazio economico (cioè
quello degli attori dell’economia mondiale) non coincidono più. E proprio questo affrancamento
dell’economia mondiale dal «nazionalismo economico» (Reich 1991) impone tanto la riduzione del
potere degli Stati nazionali, quanto l’auto-attribuzione del potere da parte degli attori dell’economia
mondiale.» (Beck 2002 p.184)
2.1.1.4. La produzione e applicazione del nuovo, nelle scienze e nella tecnica, non conosce confini
di carattere nazionale o restrizioni territoriali. «Translegale è il meta-potere dell’innovazione, cioè
del ricorso sistematico alle condizioni e alle possibilità istituzionali e cognitive della produzione del
nuovo; e questo significa anzitutto ottenere e affermare il proprio potere sulla «scienza in quanto
forza produttiva e innovativa». Nella misura in cui i grandi gruppi e le grandi organizzazioni
dell’economia mondiale riescono a servirsi di questa fonte sociale di monopolio per creare
innovazioni tecnologiche e «verità», dispongono effettivamente di alcune carte vincenti nella partita
per il potere nella società mondiale. Possono creare e distruggere posti di lavoro, sviluppare nuovi
prodotti e aprire nuovi mercati, eludere o aggirare i regolamenti e i controlli, eliminare i
concorrenti, ecc.» (Beck 2002 p. (Beck 2002 p.95)
«Anche se non sappiamo ancora granché sul possibile «regime cosmopolitico» del futuro, possiamo
già individuare queste due caratteristiche: esso sarà orientato verso il mercato mondiale e sarà
costituito tecnologicamente. Entrambe le cose sfuggono al controllo statale e rientrano nella sfera di
potere degli attori dell’economia mondiale e della scienza.» (Beck 2002 p. 172)
2.1.2. [il contropotere o le debolezze di quel potere] Controreazioni ad interrompere
autoconvincimenti neoliberali.
Una tesi politica generale: «Poiché qualsiasi potere è legato al consenso, la concentrazione di potere
dell’economia mondiale ha una sua legittimità precaria.» (Beck 2002 p. 228)
2.1.2.1. I rischi di un’atomizzazione xenofoba; spaesamento in una società frammentata. «Più
libertà, ma anche più spaesamento [Unbehaustheit]. Più mobilità, ma anche meno lealtà. Più
transnazionalità, ma anche meno democrazia. In altri termini, il crollo dell’ontologia sociale
nazionale non significa affatto automaticamente l’avvento di un’era cosmopolitica, cioè non
significa che crescano la curiosità e il rispetto per l’alterità dell’altro. Questo crollo può anche
sfociare nell’atomizzazione e ribaltarsi nella xenofobia. Occorre tenere presenti entrambi questi
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scenari agli antipodi, l’atomizzazione e la ri-nazionalizzazione, da un lato, e la cosmopolitizzazione,
dall’altro. Fra l’uno e l’altro ci sono mondi, possibili crisi mondiali, catastrofi mondiali. Ogni potere
genera un contropotere. La nascita delle società cosmopolitiche e l’apparizione dei loro nemici sono
due aspetti dello stesso movimento.» (Beck 2002 p. 80-81)
« Si può affermare che al posto della scontata esclusività del nazionale è subentrato il dualismo tra
protezionismo e apertura al mondo.» (Beck 2002 p. 101)
2.1.2.2. La potenza del ricatto della logica del capitale nei confronti della politica nazionale e la
creazione di situazioni estreme: aree di sfruttamento, paradisi fiscali; l’accentuarsi delle
diseguaglianze mondiali statali e sociali. «In conformità alla loro logica i governi dei diversi Paesi
perseguono una strategia politica di mobilità discendente, al fine di attirare e legare a sé il capitale
straniero. Ciò significa che essi perseguono sistematicamente una politica di deregolazione, di
riduzione delle tasse, di smantellamento dei sistemi di sicurezza, delle normative contrattuali e
sindacali, delle forme organizzative del lavoro umano, per ridurre la concorrenza degli Stati sociali
sviluppati e dunque cari, creandosi una sorta di «monopolio» per condizioni di lavoro a buon
mercato, vale a dire miserabili. All’altra estremità della gerarchia mondiale, ma in base a un calcolo
analogo, gli Stati ricchi si assicurano la loro posizione di nicchia nello scenario mondiale
perseguendo la strategia del paradiso fiscale. Questa strategia parassitaria mira ad attirare e
trattenere i flussi globali di capitali istituendo e rispettando rigorosamente il «segreto bancario»,
riducendo al minimo le tasse, offrendo crediti facili e dunque spesso dubbi, ecc.» (Beck 2002 p.
197)
2.1.2.3. I rischi di questa deriva e il ritorno dello Stato. «Anche se tutte le strategie dell’economia
mondiale fin qui citate e tratteggiate rivelano e sviluppano in modo convincente il potenziale di
potere degli attori dell’economia mondiale, sono pur sempre condannate al fallimento. Questo
fallimento è dovuto al fatto che ogni tentativo compiuto dall’economia mondiale di spezzare, di
minimizzare o di sostituire il potere degli Stati urta contro un limite assoluto: l’economia mondiale
non può esistere senza lo Stato e la politica. Con una piccola forzatura, si può dire che il fallimento
delle strategie del capitale rientra nell’interesse più profondo del capitale. Proprio l’economia
mondiale ha bisogno di una forte mano (trans)statale sul piano dell’economia mondiale, capace di
imporle un quadro e un ordine, poiché altrimenti verrebbe meno l’accettazione pubblica e quindi il
potere degli attori transnazionali.» (Beck 2002 p. 205) «… tutte le strategie di autarchia e di
monopolizzazione dell’economia mondiale in ultima analisi falliscono per il fatto che solo la
politica condotta nel quadro dello Stato e organizzata su basi democratiche può prendere decisioni
collettivamente vincolanti e nello stesso tempo legittime circa la struttura e il futuro delle società.»
(Beck 2002 p. 206)
Con efficacia Aldo Bonomi (Bonomi Aldo 2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura,
operosità, Feltrinelli, Milano) titola un paragrafo del proprio studio, con rovesciamento della tesi
liberale originaria smithiana: La mano visibile dello stato. «Il divorzio tra economia e società e la
sfida differenzialista allo stato-nazione non implicano l’arretramento unilaterale del potere politico,
quanto una sua ristrutturazione e rifondazione. Ci sono molte e valide ragioni per ritenere che nel
nuovo capitalismo globale convivano e s’intreccino diversi modi e pratiche di relazione tra stato
economia, che si dispiegano secondo logiche spaziali non più (o non solo, e comunque sempre
meno) nazionali, non per questo meno cogenti o rilevanti.
Il potere politico (lo stato) non può essere considerato infatti un attore inerte di questo processo, per
tante e svariate ragioni. […] La rete dei rapporti fiduciari e dei reciproci riconoscimenti sui quali si
fonda un’economia di mercato, infatti, richiede l’esercizio di un’autorità di garanzia che assicuri
contro le tendenze opportunistiche e sia in grado di sanzionare i comportamenti scorretti. Richiede
inoltre che questa autorità sia in grado di ricostruire le condizioni di funzionamento dei mercati
quando queste vengono meno. È il caso per citare un esempio recente, dell’intervento di garanzia
delle banche centrali a sostegno dei grandi istituti di credito privati all’indomani del crollo di
Lehman Brothers, quando il mercato interbancario visse una fase di sostanziale congelamento che
rischiò di condurre a un credit crunch dagli effetti devastanti per vasti settori dell’economia.
17
L’idea per cui dello stato “si possa fare a meno” non trova in definitiva riscontri empirici nella
realtà europea e internazionale, sebbene siano venute meno alcune delle sue prerogative
monopolistiche sull’identità dei cittadini. […] In questo senso si può sostenere che negli ultimi
decenni abbiamo assistito a forme di parziale o più spinta denazionalizzazione di alcune
componenti dello stato nazionale, funzionale al dispiegarsi dei movimenti globali dei capitali.
L’inserimento del locale nello spazio globale, e viceversa (della localizzazione del globale o
lobalismo), è reso tuttavia possibile da sistemi di pratiche e da dispositivi giuridici posti in essere
dalle funzioni (tendenzialmente) “denazionalizzate” degli stati. […] Altrettanto indubbiamente,
queste trasformazioni implicano una riallocazione dei poteri all’interno degli stessi apparati statali,
poiché alcune funzioni dello stato divengono strategiche per i movimenti dei capitali — sia nel
senso di agevolarne la circolazione, sia nel senso di tutelare i diritti di proprietà nelle accresciute
incertezze e asimmetrie informative nel reticolo globale, sia infine per assicurare forme di
coordinamento o interventi di ultima istanza, come anche la recente fase di crisi dell’euro
dimostra...
Altre funzioni, che erano consustanziali allo stato-nazione, perdono viceversa rilevanza, o sono
comunque sottoposte ai vincoli impliciti ed espliciti da parte di autorità e forze sopranazionali. Per
esemplificare i due processi, si pensi al ruolo delle banche centrali (poteri rafforzati) e al sistema di
welfare (poteri indeboliti).
Infine, ma è evidente che nell’economia del discorso qui condotto si tratta dell’aspetto più rilevante,
la mano dello stato assume forza e visibilità nella produzione di nuovi spazi per l’investimento dei
capitali, attraverso l’introduzione di elementi di mercato o la mercatizzazione tout court di risorse e
beni che nel fordismo-keynesismo erano affidati alla gestione diretta dell’attore pubblico statale, o
comunque sottoposti a una regolazione invasiva del potere politico. […] Senza addentrarsi in questa
sede nel dibattito sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni avvenute e mancate, occorre
considerare che gli assetti proprietari, gestionali e organizzativi delle “reti” sono profondamente
mutati, in virtù di una serie di processi variamente correlati, e così sintetizzabili:
— il passaggio da uno stato soggetto (ossia, dalla gestione diretta e dalla concentrazione degli
assetti proprietari, gestionali, organizzativi nello stato centrale) a uno stato funzione, che ha
condotto al decentramento funzionale e al mutamento dello status giuridico delle camere di
commercio, delle università, delle autorità portuali, delle fondazioni di origine bancaria;
— la liberalizzazione di settori precedentemente iperregolati, come il sistema bancario;
— il processo di privatizzazione (con l’affidamento della gestione a privati) e la parziale
liberalizzazione (dove i processi appaiono assai meno avanzati) di altri settori: è il caso dei terminal
portuali, di aeroporti, autostrade, ma anche di telefonia, energia, comunicazioni, poste, trasporti
locali, ferrovie, risorse idriche.» (Bonomi 2010, 44- 47)
2.2. gli Stati: il tema della autonomia e sovranità nazionale degli Stati e la logica delle
organizzazioni politiche sopranazionali /internazionali.
Una storia di affermazione e potere che si rivela essere debolezza; di una debolezza e cessione del
potere (di contropoteri) che si rivela essere forza e autentica sovranità.
Il potere. La storia moderna di formazione delle nazioni (e il concetto stesso di nazione) è una
storia epica (costruita ufficialmente in modo epico, tendenzialmente eroico, con documenti
trasformati in monumenti) di nascita dello Stato secondo gli obiettivi della autonomia e della
sovranità in tutti gli svariati campi della funzione politica (economia, giustizia, guerra, educazione,
cultura, religione fino ad obiettivi di biopotere esplicitamente o occultamente totalitari).
Il contropotere. La società del rischio, dei rischi globali devastanti, mettono in evidenza i limiti e la
pochezza di una simile sovranità e mettono in dubbio l’utilità di rivendicare e difendere la propria
sovrana autonomia. Riconoscere e gestire quei rischi impone una sovranità diversa per ruoli e per
sedi; processo già in corso da tempo: nella stessa formazione degli Stati nazionali (che non possono
prendere realtà senza un riconoscimento e una collocazione di tipo internazionale – emblematica è
la storia dell’unificazione politica italiana per l’apporto politico militare e culturale di Francia,
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Inghilterra e dello stesso Impero austro-ungarico); nella costituzione di accordi, trattati,
organizzazioni internazionali, transnazionali, sovranazionali. È come se l’originario, e moderno,
concetto di sovranità fosse preso in una doppia trappola: la trappola della nazionalità (la nazione è
trappola a se stessa, condannata ai margini per la propria impotenza e insolvenza di fronte a
problemi globali), la trappola della inter- o sovranazionalità (le cui norme controllano e vincolano –
apparentemente limitano e mettono in crisi – il concetto di autonomia e di sovranità nazionale).
La dialettica potere e contropotere qui si intreccia avviando un processo di definizione politica di
una seconda modernità. Occorre prendere atto come il potere dello Stato si esercita nelle sedi del
“contropotere” rappresentato da organismi sovranazionali e, conseguentemente, nell’attuazione
mirata di quelle scelte nel campo della propria sovranità nazionale, segnato da una specifica
concretezza storica.
2.2.1. il (contro)potere; il gioco di autonomia e sovranità congiunte e la doppia trappola: «trappola
della nazionalità», «trappola della sovranazionalità».
2.2.1.1. Sovranità e autonomia dello Stato moderno. «Le strategie statali «effettive» sono dunque eo
ipso strategie nazionali, che risultano dal controllo sul proprio territorio. Ciò include, sì, la
manipolazione dei mercati interni, di cui fanno parte anche i mercati del lavoro, con i presupposti
formativi e i sistemi di sicurezza sociale ad essi corrispondenti, ma esclude la
transnazionalizzazione e le strategie di cooperazione.
Perciò, la distinzione tra strategie di Stato potenziali, «despazializzate», e strategie di Stato
nazionale effettive è così importante perché comporta due cose: da un lato, essa mette in luce un
elemento di «emancipazione» dello Stato e della politica che imitano i loro avversari dell’economia
mondiale e si liberano dei propri «provincialismi» nazionali e territoriali. In questo modo, d’altro
lato, risulta evidente che cosa impedisce agli attori della politica — i governi e i partiti politici — di
cogliere e di realizzare queste opportunità, cioè il falso apriori secondo cui lo Stato e la nazione
sarebbero indissolubili, così come la politica e il territorio, la gestione politica e la sovranità
nazionale.» (Beck 2002 p. 224-225)
2.2.1.2. la trappola della nazionalità come obiettivo che cocciutamente perseguito provoca il suo
contrario: la denazionalizzazione. La difesa di una sovranità in termini di autonomia è fonte del
rischio di perdita della sovranità sotto l’azione di soggetti che operano a livello transnazionale e
deterritorializzato, come i capitali e i movimenti. Perdita di sovranità che si realizza nelle forme
antitetiche della nazionalizzazione e della denazionalizzazione; la prima forma può generare o
affiancarsi, per ironia o tragica conseguenza, alla seconda se l’assenza dagli ambiti delle decisioni
globali comporta l’avvio di una debolezza e incapacità della nazione a gestire la realtà in cui vive
(ambiente, clima, economia produttiva e finanziaria, sicurezza e guerra, disoccupazione, emergenze
sanitarie, flussi migratori…) e ad accettare di entrare a far parte, per sopravvivere, di un sistema
globale mondiale eterogestito (e a rischio). Quindi il rischio della nazionalizzazione come innesco
di un processo di denazionalizzazione.
2.2.1.3. La trappola della sovranazionalità e della denazionalizzazione:
2.2.1.3.1. quando la sovranità in termini di autarchia è esclusione e isolamento nei confronti dei
flussi globali.: «La politica e lo Stato sono costretti, ad esempio, a sopportare e giustificare i
problemi economici, sociali ed ecologici provocati dai flussi di capitali e dalle decisioni di
investimento, come il crollo di interi Paesi e gruppi di Paesi, la disoccupazione e la distruzione
ambientale. I governi sono dunque costretti ad anticipare e a giustificare la negatività delle
decisioni private di investimento, senza poter influenzare direttamente queste decisioni.» (Beck
2002 p. 229) Tutto ciò anche a fronte delle diverse potenzialità contrattuali degli Stati nazione:
«Così, ad esempio, quanto la posizione di un Paese sul mercato mondiale sia rilevante dipende dalla
grandezza del mercato interno (che è colossale in Paesi come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia).
[…] Gli Stati economicamente potenti non sono proprio quelli che perseguono una politica di
doppia morale dell’economia di mercato, imponendo i princìpi del libero mercato a tutti gli altri
Paesi, mentre essi sono i primi a praticare il protezionismo, schermando i loro mercati interni dalle
«intrusioni straniere»?» (Beck 2002 p.244).
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2.2.1.3.2. quando il ruolo dello Stato nei circuiti globali si riduce a una specializzazione univoca
delle scelte di una nazione, funzionali solo alla domanda momentanea proveniente dall’andamento
di profitto dei capitali denazionalizzati. In questo caso, nella migliore delle ipotesi, gli Stati
nazionali rischiano di doversi rassegnare a «strategie di specializzazione» dettate dalla situazione
mondiale; secondo l’elenco di U. Beck: « (a) la strategia socialdemocratica dello Stato protettore;
(b) la strategia di ribasso degli Stati dai bassi salari; (c) la strategia parassitaria degli Stati-paradisi
fiscali e (d) la strategia anglosassone di depoliticizzazione neoliberale, di de-statalizzazione dello
Stato.» (Beck 2002 p. 248) Un caso limite ma ricorrente e diffuso: «Alcuni Stati - soprattutto quelli
del cosiddetto Terzo mondo – cercano di acquisire un profilo ben distinto sul mercato mondiale e
quindi di attirare e legare a sé il capitale straniero, applicando sull’«articolo di marca» l’etichetta
costi ridotti, controlli ridotti. Ciò significa che essi rendono meno rigide o cancellano le loro leggi
sulla tutela del lavoro, sulla tutela dell’ambiente o sulla riscossione delle imposte da parte dello
Stato.» (Beck 2002 p. 255)
La difesa della sovranità in termini di autarchia fa quindi cadere lo Stato dalla trappola della
nazionalizzazione in una nuova trappola apparentemente opposta della denazionalizzazione che si
traduce in dipendenza passiva dalle leggi di specializzazione dettate dall’economia globale del
capitale. «Nelle condizioni della globalizzazione economica gli Stati si trovano dunque presi, in
certo modo, in una trappola della denazionalizzazione: se tengono fermo al postulato della
sovranità della politica nazionale provocano un’intensificazione della concorrenza tra gli Stati per
gli investimenti e un aumento del pericolo che si formino monopoli sul mercato mondiale, che a sua
volta depotenzia gli attori statali.» (Beck 2002 p. 263)
2.2.2. l’incontro: il potere come forma di contropotere (contropotere nazionale al contropotere
internazionale che pareva esercitato nei confronti dello Stato nazionale). Non si tratta di perdita
della sovranità ma di fine del binomio esclusivo tra sovranità e autonomia, sovranità e territorialità;
la sovranità si esercita: all’esterno nelle decisioni strategiche (su ambiente, capitali, movimenti),
all’interno nella gestione adattata delle decisione e risoluzione applicata di problemi.
Momenti strategici di passaggio: «Occorre che i governi rinuncino all’indipendenza dello Stato e,
per così dire, si leghino reciprocamente le mani in accordi di cooperazione per dare impulso alla
realizzazione dei compiti nazionali fondamentali e conquistarsi nuove possibilità d’azione non solo
sul piano internazionale, ma anche su quello interno, nei confronti dell’opposizione e dell’opinione
pubblica. Le strategie di transnazionalizzazione esigono una nuova politica delle frontiere.» (Beck
2002 p.263)
«Internazionalizzazione e globalizzazione. Dalla perdita di sovranità verso l’esterno viene colpita
anche la maggior parte degli stati occidentali da tempo costituiti, anche se tale perdita viene sancita
nella maggior parte dei casi per mezzo di trattati. Uno stato come la Germania oggi è integrato in
numerose organizzazioni internazionali. Vanno ricordate a questo proposito l’Onu, con le
organizzazioni e agenzie a essa collegate, e le organizzazioni più antiche come l’Unione postale
universale. A esse si aggiungono istituzioni economiche come il Fondo monetario internazionale, la
Banca mondiale e il Trattato sul commercio mondiale (Gatt), e infine organizzazioni regionali come
il Consiglio d’Europa e alleanze militari come la Nato e l’Unione europea occidentale.
Simili istituzioni si fondano generalmente su trattati di diritto internazionale che impongono agli
stati partner degli obblighi, anche finanziari. Essi devono rispettarne gli statuti (come la Carta
dell’Onu che prescrive la soluzione pacifica dei conflitti), le prescrizioni (come quella di partecipare
alle consultazioni nel quadro dell’Ocse, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa) e i divieti (come quello di applicare i dazi preclusi dal Gatt). In teoria tutto ciò non intacca
la sovranità degli stati membri, in quanto è questa la base del diritto internazionale dei trattati. In
realtà, lo spazio di manovra degli stati in politica estera viene notevolmente ridotto dall’eccezionale
densità degli impegni che essi hanno sottoscritto con i trattati. Quale stato, a parte gli Usa, ha oggi
la possibilità — che era un tempo la quintessenza della sovranità — di dichiarare guerra a proprio
piacimento? Sul piano giuridico è anche possibile che quegli impegni non abbiano prodotto un
aumento o una diminuzione di sovranità, ma sul piano politico è chiaro che proprio di questo si
20
tratta.
A partire dal 1951 è stata creata e sviluppata, per motivi pratici, una rete europea di alleanze e
trattati, da cui infine si è sviluppata l’Unione europea. Già la Comunità economica europea istituita
nel 1957 aveva un parlamento comune e un’unica corte di giustizia. Sebbene soprattutto la Francia
di De Gaulle negli anni Sessanta e la Gran Bretagna di Margaret Thatcher dopo il 1979 si
opponessero costantemente a ulteriori perdite di sovranità, la Comunità ha fatto sempre ulteriori
progressi. Nel 1973 ottenne il diritto ad avere entrate proprie e dal 1979 un parlamento a elezione
diretta; in quello stesso anno fu creato un sistema monetario europeo e nel 2002 la valuta è stata
unificata con l’introduzione dell’euro e l’istituzione di una banca centrale. Il complesso dei rapporti
europei è stato rivisto e integrato dal trattato di Maastricht del 1992, con cui in tutta la comunità —
che si chiamava ormai Unione europea — si introduceva la stessa normativa quadro di diritto civile.
Il progetto di una costituzione europea, intrapreso a partire da quel momento, è inizialmente
naufragato per il rifiuto espresso nel 2005 dai referendum popolari in Francia e in Olanda. Ma nel
frattempo il numero dei membri dell’Unione è salito a 25, e altri candidati attendono alla porta. Da
tempo l’Unione non è più una semplice confederazione di stati, ma non è nemmeno uno stato
federale, sebbene una tendenza in tal senso fosse presente fin dall’inizio e non sia certo esaurita.
Con la Commissione, che opera in autonomia ed è dotata di una sua burocrazia, con parlamento e
corti di giustizia, con il potere di emanare regolamenti e direttive vincolanti, con proprie entrate e
spese, con frontiere esterne e dazi in comune, con un proprio diritto civile, l’Unione ha alcune
caratteristiche tipiche dello stato, ottenute a spese della sovranità nazionale, sebbene quest’ultima in
linea di principio non venga messa in discussione. Ma la denuncia dei trattati da parte di un membro
— teoricamente possibile — è da molto tempo impossibile nella pratica: molto più conveniente
risulta invece seguire l’esempio britannico e danese, tentando di ricavare privilegi per il proprio
paese.» Reinhard Wolfgang 2007 Storia dello stato moderno, il Mulino, Bologna 2010 p. 115-117
2.2.2.1. il potere o la forma nuova del potere nata dalla sfida della globalizzazione: «com’è
possibile l’autotrasformazione cosmopolitica della politica e dello Stato?» (Beck 2002 p. 216); ma
non in termini di estensione della formula dello Stato nazionale a livello mondiale! non il ritorno
dell’Impero! «il cosmopolitismo non pensa e non aspira alla società mondiale come a una società
nazionale ingrandita.» (Beck 2002 p.282) «La globalizzazione ha definitivamente aperto il grande
gioco politico che si gioca anche e precisamente per la trasformazione dei fondamenti della politica
e dello Stato e nel quale la questione dell’ulteriore sviluppo della statualità in vista dell’epoca
cosmopolitica è diventata la questione cruciale nella ripartizione del potere. L’autodefinizione della
capacità d’azione statale diventa dunque la variabile strategica del meta-gioco di potere.» (Beck
2002 p. 218)
«Stati nazionali incarnano l’era glaciale della politica, ma questo stadio può essere superato
mediante strategie riflessive che mirano a rivitalizzare il politico e a ridefinirne i compiti. Gli Stati
nazionali dispongono senz’altro dello spazio di potere che permetterà loro di rinnovarsi. Una volta
che lo Stato non sia più identificato con lo Stato nazionale e una volta che gli Stati abbiano
scoperto, messo alla prova e sviluppato il potere politico della transnazionalità e della transsovranità cooperativa, al di là della sovranità e dell’autonomia del loro potere politico, sarà
possibile accedere a questo potenziale.» (Beck 2002 p. 219)
«Nella misura in cui si riesce a sviluppare nuove concezioni di una «de-spazializzazione» dello
Stato e della politica e a percorrere nuove vie in questa direzione, si possono trovare risposte
politiche alla nuova geografia economica che si è delineata. Solo così il «destino» della politica
statale, di passare dalla condizione di soggetto attivo a quella di oggetto passivo della
globalizzazione, potrà capovolgersi in un nuovo slancio del politico. Ciò è possibile grazie alla
transnazionalizzazione intesa come cooperazione tra gli Stati.» (Beck 2002 p.225)
2.3. i movimenti: la logica dei movimenti di opinione della “società civile”
2.3.1. Il dato organizzativo che rappresenta un cambiamento. Il dato nuovo all’interno dei sistemi
democratici rappresentativi: l’iniziativa dei cittadini.
21
Secondo l’analisi di Bernard Manin nei sistemi a democrazia rappresentativa sono in atto due
processi: «l’erosione della fedeltà ai partiti», «l’avvento della partecipazione politica non
istituzionalizzata». Sempre più cittadini, a quanto pare, partecipano a dimostrazioni, firmano
petizioni o sottopongono le loro istanze direttamente a coloro che decidono. Questi comportamenti
sono più difficili da misurare rispetto al voto. […] Sia le inchieste regionali (come l’Eurobarometro)
sia quelle mondiali (come le tre ondate del World Values Survey) mostrano che sempre più cittadini
dichiarano di essersi effettivamente impegnati in una o più delle seguenti attività: firmare petizioni,
partecipare a dimostrazioni, unirsi a boicottaggi di consumatori, aderire a scioperi non ufficiali e
occupare edifici o fabbriche. […] Ma studi sul comportamento effettivo in singoli paesi confermano
che sono in aumento azioni come le dimostrazioni di piazza. In generale, gli studi empirici sulle
democrazie concordano sul fatto che i repertori delle azioni collettive sono cambiati in direzione di
queste forme non istituzionalizzate di partecipazione politica. Le forme di azione e le forme di
organizzazione che caratterizzavano i movimenti sociali antisistema negli anni sessanta si sono
normalizzate, diventando parte del funzionamento ordinario dei sistemi rappresentativi. […] È
impressionante notare come da diverse prospettive tutti questi studi mettano in rilievo che la
democrazia rappresentativa è stata trasformata, ma non messa in crisi, dall’importanza crescente
della partecipazione politica non elettorale.» Manin Bernard 1997 Principi del governo
rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010 p. 281-284)
2.3.2. Il potere prende avvio dal fondamento o la (auto)giustificazione con cui i movimenti si
presentano o che esibiscono.
2.3.2.1. Esistono questioni non appaltabili; una società che non intende coincidere con lo Stato; un
contratto sociale e politico che fa sì sorgere lo Stato (alla Hobbes) ma con vincoli di mandato
(almeno di fini se non di mezzi). «La prassi dei movimenti avvocatori si basa sul principio di non
sovranità degli Stati (o dei grandi gruppi) nelle questioni cruciali dell’umanità: le distruzioni
ambientali, i pericoli legati all’applicazione delle tecnologie su larga scala e all’economia mondiale,
i diritti umani, i diritti civili, la povertà globale, ecc. […] Detto altrimenti, il capitale di
legittimazione acquisito attraverso azioni concrete, ma anche giocato contro gli egoismi delle
nazioni e dell’economia mondiale, presuppone la visione di una responsabilità cosmopolitica che
travalichi e aggiri le frontiere.» (Beck 2002 p.314)
2.3.2.2. il potere della mobilitazione: «Né gli «egoisti» dei singoli Stati né quelli dell’economia
mondiale sono in grado di mobilitare un’opinione pubblica mondiale. Le strategie rivolte
all’opinione pubblica mondiale costituiscono il monopolio polivalente, ma nello stesso tempo
limitato nelle sue risorse di potere, delle reti di attori dei movimenti di difesa dell’ambiente, delle
donne, dei diritti umani e dei consumatori.
Su cosa si basa il potere dei movimenti di difesa della società civile globale nei confronti del
capitale che si arroga il potere e si legittima da sé?» (Beck 2002 p.308); la domanda potrebbe essere
così formulata su cosa si basa il potere del loro contropotere? Il potere della loro azione nel
contrastare (contropotere) scelte e modi operativi di Stato e capitali transnazionali? «… essi
dispongono di una risorsa di potere che non è tale se considerata dal punto di vista dalla politica
internazionale classica: non dispongono del potere dello Stato, né di quello del mercato, ma di un
potere di legittimazione.» (Beck 2002 p.312)
2.3.2.3. per ampliare: il potere, il meta-potere della società civile globale che si esprime nei
movimenti, il “potere di legittimazione” che deve essere esplicitato. «Questo avviene in particolare
allorché attraverso il regime dei diritti umani e le corrispondenti convenzioni regionali vengono
incoraggiati e dotati di potere gruppi di opposizione orientati verso ideali cosmopolitici oppure
quando la politica dei diritti umani è collegata a sanzioni economiche o militari. In questo senso, da
un lato il linguaggio dei diritti umani produce un discorso di potere autorevole e altamente
legittimo, che consente a gruppi repressi e minacciati di legittimare i loro diritti e (eventualmente)
di farli valere in lotte interne che godono del sostegno esterno dell’opinione pubblica mondiale;
dall’altro, in questo modo viene conferito ai governi e alle ONG un diritto permanente e
fondamentale a far sentire la propria voce e a intervenire ovunque nel mondo. […] Il principio
22
vigente nella prima modernità, fondata sugli Stati nazionali, secondo cui il diritto internazionale
prevale sui diritti umani, è soppiantato nella seconda modernità dal principio cosmopolitico, le cui
conseguenze non sono state ancora pienamente valutate, in base al quale i diritti umani prevalgono
sul diritto internazionale, vale a dire che nel caso di conflitto il diritto cosmopolitico di una persona
viene fatto valere contro la sovranità nazionale ancorata al diritto internazionale. Le conseguenze
rivoluzionarie di questa evoluzione cominciano oggi a profilarsi. Le distinzioni tra politica interna e
politica estera, tra guerra e pace, sulle quali finora si era sostenuto l’ordine del sistema
internazionale, vengono meno, poiché il regime dei diritti umani sfida il diritto internazionale e si
rivolge direttamente alle singole persone al di là dei popoli e delle nazioni, postulando una società
civile mondiale di individui, giuridicamente vincolante.» (Beck 2002 p. 83-84, 85-86, 87)
«È ancora vero, come sta scritto nella Costituzione tedesca, che «ogni potere dello Stato emana dal
popolo» (art. 20, § 2), ma non è più vero che ogni potere è detenuto dallo Stato. In particolare il
potere di istituire il diritto, l’autorità sull’autorità, cioè il diritto di decidere chi può prendere
decisioni vincolanti su che cosa, non risiede più soltanto nel potere statale, l’«unico potere
legittimo». Nascono invece forme di sovranità condivisa: condivisa tra gli Stati e gli attori (le
organizzazioni) dell’economia mondiale. Ciò significa che nel quadro dell’economia privata
mondiale si sviluppano nuove forme organizzative di potere non pubblico, che sta al di sopra degli
Stati sovrani senza avanzare pretese di sovranità statale, ma dotato di una parziale capacità di
istituire diritto.» (Beck 2002 p. 94-95)
«Essi fondano la loro stabilità sulle strategie di difesa — celebrate dai mass-media — che mettono
in atto per contrastare i pericoli con i quali la civiltà minaccia se stessa (cfr. in questo volume pp.
326 sgg.). Traggono il loro mandato dall’impegno sulle questioni fondamentali dell’umanità: la
distruzione ambientale, i pericoli dell’economia mondiale, le violazioni dei diritti umani, i diritti
civili, la lotta contro la crescente povertà globale e le clamorose violazioni delle regole non scritte
di una «giustizia globale». Questi «problemi mondiali» non sono soltanto «faccende interne» degli
Stati nazionali o dei grandi gruppi economici internazionali. Perciò è legittimo immischiarsi e
intervenire ovunque nel mondo, infrangendo, là dove necessario, il diritto nazionale con l’aiuto dei
mass-media, per allarmare l’opinione pubblica mondiale e farla reagire.» (Beck 2002 p.98-99)
2.3.2.3.1. uno strumento efficace: il potere del no in termini di consumo. « Le ONG — per quanto
disparate, non coordinate e in sé contraddittorie esse siano — dispongono senz’altro di un’«arma»
tagliente, globale, civile, nella misura in cui esse possono battere i grandi gruppi con le loro stesse
armi. La fredda logica dei mercati astratti ha molti attori. Essi non sono soltanto i proprietari, cioè
gli azionisti, e nemmeno soltanto i manager, le banche o le organizzazioni finanziarie
sovranazionali. C’è, non ultimo, anche il cliente globale, che dispone di un potere sempre maggiore.
Analogamente al capitale, egli dispone del potere globale del «no», del non-acquisto.
Analogamente al capitale, il consumatore politico può mettere in atto questa politica del «no» come
effetto collaterale calcolato dell’agire economico, cioè in modo incontrollabile e con costi ridotti. In
breve, lo «sciopero dei consumatori» è uno strumento di contropotere senza strumenti di
contropotere.» (Beck 2002 p.308-309)
2.3.3. il contropotere: strategie degli altri soggetti volti ad annullare il potere dei movimenti
assorbendone, depotenziandone, in vari modi, il potenziale critico innovativo; e le difficoltà interne
proprie e gli effetti possibili delle « strategie di drammaturgia del rischio: la «metodologia
avvocatoria» — produrre disponibilità al mutamento favorendo la consapevolezza pubblica di certi
fatti» (Beck 2002 , 316)
2.3.2.1. un contropotere “interno” a più livelli (o le debolezze interne al movimento come elemento
e leva [esterna e interna] per ridurne l’efficacia): 1. « L’efficacia dell’arma del non-acquisto è però
indebolita dalla difficoltà di organizzare durevolmente l’azione di non-acquisto dei non-membri
(perché questi sono i consumatori). Essa presuppone sistemi di informazione, un lavoro a livello di
opinione pubblica, l’uso dei media come strumento di una politica simbolica, informazioni fattuali,
ecc.» (Beck 2002, 309); 2. «non esiste un nemico chiaramente individuato, contro il quale possano
essere indirizzati i confitti.» (Beck 2002, 309) 3. «… non c’è un linguaggio unico del conflitto, ma
23
una confusione per così dire babilonica tra molti linguaggi del conflitto: quello dell’ecologia, quello
dei diritti umani, quello femminista, quello religioso, quello nazionalistico, quello sindacale, quello
xenofobo.» (Beck 2002, 309)
In sintesi, le debolezze interne paiono riportabili a: demagogie emotive in diaspora continua;
battaglie per interessi non coordinati e transitori; massimalismi di diagnosi e rivendicazioni
refrattari alla logica della mediazione democratica.
2.3.2.2. un contropotere “esterno” variegato, attrezzato e aggressivo.
2.3.2.2.1. Quando il tema dei diritti umani diventa una motivazione di intervento militare o i tragici
effetti politici a livello di Stati (nazionali) in occasioni di interventi militari delle organizzazioni
internazionali a difesa dei diritti umani. «Questa nuova combinazione di disinteresse umanitario e di
logica imperiale del potere viene preparata da sviluppi che possono essere caratterizzati come
circolo della globalizzazione: le globalizzazioni economica, culturale e morale combinano i loro
effetti per accelerare il declino delle istituzioni nazional-statali, che a sua volta può portare a gravi
tragedie umane e a guerre — come è accaduto negli anni Novanta del secolo scorso in Somalia,
Africa occidentale, Jugoslavia, Albania e in diverse parti dell’ex Unione Sovietica.» Questo avviene
in particolare allorché attraverso il regime dei diritti umani e le corrispondenti convenzioni regionali
vengono incoraggiati e dotati di potere gruppi di opposizione orientati verso ideali cosmopolitici
oppure quando la politica dei diritti umani è collegata a sanzioni economiche o militari.
In questo senso, da un lato il linguaggio dei diritti umani produce un discorso di potere autorevole e
altamente legittimo, che consente a gruppi repressi e minacciati di legittimare i loro diritti e
(eventualmente) di farli valere in lotte interne che godono del sostegno esterno dell’opinione
pubblica mondiale; dall’altro, in questo modo viene conferito ai governi e alle ONG un diritto
permanente e fondamentale a far sentire la propria voce e a intervenire ovunque nel mondo.» (Beck
2002, 87)
2.3.2.2.2. La contro-strategia del sospetto e della negazione adottata (come contropotere nei
confronti dei movimenti) da parte degli Stati e del “capitale”. 1. la strategia del sospetto: «chi
pratica una politica con i fatti, cioè drammatizza i fatti per realizzare determinati obiettivi politici, si
espone al sospetto di essere uno dei tanti difensori di interessi…. strumentalizzano i fatti per
imporre i propri interessi nei confronti di singoli Stati o gruppi economici o per favorire il proprio
autofinanziamento attraverso offerte e nuove adesioni » (Beck 2002, 314, 315); 2. la strategia della
minimizzazione o negazione: «questi fatti [violazione dei diritti umani in un Paese, pericolosità di
determinate forme di produzione, di certe sostanze tossiche negli alimenti, ecc.] sono
sistematicamente rimossi e negati da chi detiene il potere — gli Stati o i grandi gruppi. […] cioè
dissimulano i fatti che li danneggiano e diffondono quelli da cui si attendono vantaggi strategici.»
(Beck 2002, 314, 315)
2.3.2.2.3. Movimenti a rischio di assorbimento: le “sirene” del capitale.
La situazione in esame: «Il peculiare contropotere del rischio pubblicamente discusso, la sua
capacità di far cadere le facciate dell’irresponsabilità organizzata almeno per un secondo (quanto
basta a far inorridire il mondo alla luce dei riflettori della sfera pubblica mediatica) e di costringere
gli ignoranti ad associarsi, è un segno della riflessività politica del rischio.» (Beck 2002 p. 135)
La strategia del capitale come contropotere alla logica dei movimenti consiste, oltre che nella
denuncia del falso allarmismo e del falso moralismo (i movimenti si globalizzano in forza della
globalizzazione che attaccano), nel rubare a proprio vantaggio i temi e le campagne dei movimenti
stessi. In particolare evidenza tale strategia si manifesta nel capo della ecologia, nel campo dei
diritti umani e delle povertà. Il pensiero va alle ricorrenti, disinvolte e rapide tecniche del lavarsi la
coscienza da parte della grandi industrie camuffando (“tingere d’azzurro”) i propri prodotti dalle
imprevedibili conseguenze in termini di spreco di risorse, distruzioni di equilibri ambientali,
minacce al futuro… variando in blue-washing l’espressione green-washing, che allude alle
malefatte delle multinazionali, compiute dietro il paravento delle loro campagne pubblicitarie
«verdi» o della partecipazione a iniziative di solidarietà umanitaria legata all’acquisto dei loro
prodotti (per ogni prodotto venduto 10 centesimi verranno devoluti… i punti accumulati verranno
24
destinati a favore di individui svantaggiati…); sottolineare la cura “ecologica” adottata nella
produzione della propria merce (un SUV nel bosco, l’energia verde, la benzina “verde”, la plastica
ecocompatibile, detersivi che salvano l’ambiente … come aveva previsto Orwell)
2.3.4. in forma di contropotere al contropotere… (alla contromossa del capitale che colloca
occasioni di profitto nella solidarietà movimentistica) la strategia attuale dell’ONU e l’incontro
istituzioni e movimenti: « Il segretario generale delle Nazioni Unite punta speranze sempre più
grandi sulle coalizioni multiple: grazie alla partnership con organizzazioni non governative, con la
società civile, con imprese e università, egli cerca di conquistare un po’ di autonomia per la politica
mondiale dell’ONU. […] In questo modo Annan apre un nuovo gioco politico, multinazionale e
multidimensionale, nel quale gli Stati hanno perduto il loro monopolio politico per diventare un
partner o un concorrente strategico — per quanto molto importante — tra gli altri. Nascono così
coalizioni multiple e si genera un campo di forze nel quale è anche possibile, ad esempio, dar vita
ad alleanze tra organizzazioni non-governative e grandi gruppi transnazionali su questioni di
politica dei diritti umani o di tutela del lavoro, contro i governi ancora legati all’apriori nazionale.
Quando gli si domanda se così facendo egli non mini le fondamenta delle Nazioni Unite, nate da
un’alleanza di Stati e governi, Annan risponde richiamandosi alla Carta dell’ONU, dove si dice che
essa è stata scritta nel nome di tutti gli uomini, e aggiungendo che in ogni modo i governi non
possono mantenere da soli le promesse della Costituzione delle Nazioni Unite. Per questo c’è
bisogno di coalizioni transnazionali e multidimensionali. Ciò significa che la Carta delle Nazioni
Unite abbandona la prospettiva unilateralmente centrata sullo Stato nazionale e si apre a
un’estensione e a un rinnovamento cosmopolitici.» (Beck 2002, 277, 278)
2.3.5. L’incontro. Una nota generale: se l’area del politico istituzionalizzato (nello forme dello
Stato) conserva una ostinata separatezza dal sociale vivendo per se stessa e per la propria
conservazione, ignorando di porsi in relazione, trasversalmente, con i livelli sociali da cui
diversamente è espressa e nei quali deve trovare la propria giustificazione e utilità, allora non resta,
per immaginare un movimento e un cambiamento, che guardare “sotto la pelle dello Stato” e
ripartire per un’altra storia politica e per altre dinamiche. (Sul tema le tesi di Beck Ulrich 1986 La
società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000; Bonomi Aldo 2010 Sotto la
pelle dello Stato)
2.3.5.1. la direzione e il successo della logica dei movimenti non consiste nel negare lo Stato
nazionale, ma nel guadagnare gli Stati nazionali alla (propria) dimensione cosmopolitica. «…il
capitale di legittimazione e quindi il potere dei movimenti avvocatori dipendono dalla loro capacità
di fare della veridicità, in quanto tale, un fattore politico.» (Beck 2002, 314) « In questo senso i
teorici della cultura mondiale trascurano le peculiarità delle strategie avvocatorie [dei movimenti].
Queste ultime tematizzano e strumentalizzano la rapidissima perdita di legittimazione che
caratterizza il dominio degli Stati e dell’economia mondiale, in questo modo contribuendo a creare
e a dare forma al regime cosmopolitico che si sta delineando. Nell’ottica delle strategie avvocatorie
e nel loro campo d’azione cadono le frontiere e i muri dei contenitori degli Stati e delle società
nazionali e si aprono (o vengono aperti) alla responsabilità e al potere cosmopolitici. Nondimeno,
anche per questi movimenti e per la loro strategia occorre tenere presente che il quadro nazionale si
apre, sì, ma non è cancellato. Il progetto cosmopolitico al quale i movimenti avvocatori danno voce
continua a indirizzarsi agli Stati. […] La società cosmopolitica può essere svegliata all’interno di
uno Stato e può fare pressione dall’esterno di uno Stato. Ma gli attori responsabili del politico
restano gli Stati.» (Beck 2002,.321,322)
2.3.6. Il potere in azione. I media, la nuova sede privilegiata, il luogo, la piazza dei movimenti. Non
si tratta solo di una nuova sede (di un trasloco), è nuovo linguaggio, nuova forma, nuovi soggetti,
nuovi temi, nuovo volto di una politica sociale. Un bilancio sulla sub-politica, pre-politica, antipolitica dei movimenti.
«Prepolitica, subpolitica, antipolitica. Come dunque è evidente, le pratiche politiche capaci di
interagire con il tessuto sociale non si esauriscono nell’ambito della politica parlamentare: una
sempre maggiore importanza comunicativa ha assunto l’area del cosiddetto “subpolitico”. Tale area
25
coinvolge attori collettivi e individuali al di fuori della politica istituzionale (tradizionale) o liminali
rispetto al sistema economico, spesso in relazione antagonistica (o semplicemente critica) rispetto
alle forme consolidate della politica.» (Sorice Michele 2011 La comunicazione politica, Carocci
editore, Roma, p. 98)
2.3.6.1. La diversa natura politica delle componenti o dei movimenti. «I media, in tale mutata
situazione, non sono più soltanto strumenti di supporto alle istituzioni politiche (e in qualche caso
persino asservite a esse), ma possono diventare veicolo politico, forum di discussione in cui si
generano forme di consenso, si verifica e si forma un’opinione pubblica non più frutto del rapporto
esclusivo fra istituzioni parlamentari e cittadini. I media, in altre parole, rappresentano un luogo di
condivisione pubblica e la vasta area del subpolitico si nutre spesso proprio delle pratiche discorsive
mediali; in tale prospettiva vanno interpretati gli usi “tattici” della Rete da parte di organizzazioni
che possiamo variamente definire come subpolitiche (associazioni dal basso, movimenti autoorganizzati, organizzazioni non governative), prepolitiche (associazioni di formazione alla politica,
movimenti di impegno sociale, associazioni radicate in ambito ecclesiale) e antipolitiche
(movimenti che contestano la “partitocrazia”, gruppi di interesse, associazioni anti-istituzionali).
Bisogna chiarire subito che se il confine fra la sfera del subpolitico e del prepolitico è molto incerto,
esso è molto netto fra le prime due e l’antipolitica. Quest’ultima infatti contesta spesso la stessa
legittimità della politica “tradizionale”, adottando comunque forme comunicative molto simili a
quelle che i gruppi di pressione utilizzano per entrare in maniera adeguata nel dibattito politico.
D’altra parte molti dei cambiamenti o delle politiche pubbliche più importanti per la nostra vita non
provengono dalla sfera tradizionale del processo decisionale, ovvero dal sistema politico formale
(sebbene esso abbia ancora un peso che una vulgata accademica tende a sottodimensionare in
maniera eccessiva). Il cambiamento epocale che Beck (Beck, Giddens, Lash, 1994) etichetta come
“modernizzazione riflessiva” è quello che rivela tendenze fondamentalmente “impolitiche” (se non
antipolitiche) secondo un processo complesso e non sempre chiarissimo. Da un lato, infatti, il
cambiamento, a un livello macrosociale, è causato dallo stesso processo di modernizzazione
(secondo una dinamica che è tipica delle teorie sociologiche del “conflitto”); dall’altro il processo di
cambiamento sembra guidato proprio dalle capacità autoriflessive dei pubblici cittadini. Le azioni
dei consumatori e le logiche della cittadinanza attiva si muovono proprio in questa logica e talvolta
sembra che la dimensione politica venga affiancata — se non addirittura sublimata — dai
meccanismi della subpolitica, dove agenti esterni alla politica tradizionale diventano parte di un
nuovo protagonismo sociale. Beck (1997) ritiene che la subpolitica rappresenti una parte fondante
della politica moderna, sebbene al di fuori del sistema politico formale: in tale area i cittadini
possono assumere un nuovo protagonismo su terni etici o su questioni sociali come l’ecologia, la
famiglia, il sesso ecc. Beck sostiene — forse a volte troppo ottimisticamente — che gruppi di
cittadini spesso non organizzati possono oggi prendere il potere politico: sebbene questo sia
irrealistico per molte ragioni, è tuttavia vero che i movimenti e le associazioni subpolitiche (e
antipolitiche) possono oggi teoricamente riuscire a influenzare l’agenda sociale, stabilendo forme di
inusitato news management in misura a volte maggiore di quanto facciano i partiti politici
tradizionali.» (Sorice Michele 2011, p. 98-99)
2.3.6.2. I temi affrontati: lo stile. «Anche Tony Giddens (Beck, Giddens, Lash, 199, p. 44)
individua nell’area del subpolitico alcune delle attività costitutive della vita politica contemporanea,
non più animata da una motivazione utopica verso il futuro bensì dal mondo vitale del soggetto. In
altre parole, il microcosmo della vita personale appare strettamente interconnesso con il
macrocosmo delle questioni globali. Le forme subpolitiche ci obbligano a ripensare una nuova
agenda morale, costruita su domande nuove, come quelle concernenti un’esistenza in cui siamo
inevitabilmente costretti a compiere, contemporaneamente e spesso in maniera confusa, molte scelte
(Giddens, 1991).» (Sorice Michele 2011, 100)
2.3.6.3. l’azione: lo stile “cittadinanza attiva” e la disintermediazione. «All’interno di logiche più
“politiche” ma comunque con atteggiamento critico verso la politica “istituzionale” si muovono
tutte le esperienze di “cittadinanza attiva” (tipica di gran parte del terzo settore) e che possiamo
26
definire come «la capacità dei cittadini di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse
umane, tecniche e finanziarie, e di agire nelle politiche pubbliche con modalità e strategie
differenziate, per tutelare diritti e prendersi cura dei beni comuni, esercitando a tal fine poteri e
responsabilità» (Moro, 2005).» (Sorice Michele 2011, 101)
«Il successo e lo sviluppo di Internet e, in particolare, del Web 2.0 hanno evidenziato un uso diverso
della comunicazione politica e della stessa partecipazione alla vita sociale: la Rete sembra garantire
un rapporto più diretto fra attori, politici e cittadini. Questo fenomeno viene spiegato ricorrendo al
concetto di disintermediazione. […] Il termine “disintermediazione” proviene dalle scienze
economiche e si riferisce originariamente alla possibilità di scavalcare i canali istituzionalizzati di
distribuzione e vendita dei prodotti. […] Per estensione, il termine designa tutte le forme di
“scambio” in cui scompaiono o sono meno presenti gli intermediari. Il concetto è entrato nell’uso
anche della comunicazione politica e indica la costruzione – potenziale – di rapporti diretti fra attori
politici (candidati) e cittadini senza l’intermediazione dei partiti e/o di apparati istituzionali.»
(Sorice Michele 2011, 107) [segue classificazione e costruzione di tipologie di presenza e
partecipazione dei cittadini alla vita politica, e allo spazio che la politica è disposta a fornire, sulla
base dell’utilizzo dei nuovi media: dal semplice accesso alle informazione alla proposta
partecipazione ai processi decisionali]
2.3.6.1. in ulteriore approfondimento. « Probabilmente, secondo lo stesso Eder, la
ricognitivizzazione della sfera pubblica potrebbe essere favorita solo da una sua estensione oltre i
confini degli stati-mercati nazionali (i quali, invece, nell’era della globalizzazione, per
salvaguardare la propria specificità e i propri interessi sfruttano spesso l’aumentata possibilità di
comunicazione all’esterno per promuovere e far conoscere la propria identità, con un arroccamento
conservatore. Eder, infatti, vede che sta nascendo e sviluppandosi tutto un universo di
“influentials”, di “idea-givers”, di “opinion leaders” (“protest actors, social movements,
intellectuals, scientists, politicians kept outside the decision making bodies, and journalists”) che
stanno promuovendo dibattiti pubblici su molti temi di interesse sovranazionale, come la questione
ambientale, le normative sull’aborto, il fenomeno della globalizzazione, il processo di unificazione
dell’Europa, e, aggiungo io, anche la protesta contro la pena di morte, le istanze di affermazione dei
diritti umani, la questione sanitaria nel terzo mondo e non solo, la mancanza di cibo e di acqua per
larghissima parte degli abitanti del pianeta, un’economia sostenibile, la definizione di una politica
di governo, o quantomeno di indirizzo all’azione politica dei singoli stati, a livello mondiale… Per
Eder questo “return of reason” è legato all’insorgenza e allo sviluppo di una società civile a livello
globale, effetto della globalizzazione delle comunicazioni e alla possibilità conseguente di una
mondializzazione dei dibattiti: per lo studioso, quindi, soltanto al di fuori della “scatola” nazionale
(nella quale evidentemente egli considera la sfera pubblica come ormai irrimediabilmente
compromessa con gli affari privati) e della sua omogeneità elitaria e di “casta” della cultura e degli
atteggiamenti comunicativi, oltre i legami sempre più “stretti” e “vischiosi” delle nazionalità,
soltanto quindi in un’internazionalità tutta da costruire, il processo democratico può trovare nuova
linfa e vigore e continuare la sua perpetua evoluzione, supportata e condizionata dall’interno da una
sfera pubblica transnazionale che finalmente si può riappropriare di quella funzione cognitiva e di
luogo del dibattito pubblico, stimolato da rinnovate forti istanze ideologico-associazionistiche su
scala globale.» Il riferimento è a Klaus Eder, The Transformations of the Public Sphere and Their
Impact on Democratization, in La democrazia di fronte allo stato. Una discussione sulle difficoltà
della politica moderna, a cura di Alessandro Pizzorno, Milano, Feltrinelli, 2010. La nota sopra
riportata in 2.3.5.1. è di Andrea Beretta, La sfera pubblica e la democrazia. Coimplicazioni
processuali, Tesi Scuola Superiore IUSS, 2011, 15-16.
2.4. Il futuro cosmopolita degli Stati: il contesto del gioco politico [per ripresa e ricordo]
«Dunque, il cosmopolitismo non significa (come il globalismo) un livellamento definitivo o una
cancellazione di tutte le differenze ma, proprio al contrario, la riscoperta e il riconoscimento radicali
dell’altro. Questo deve avvenire in cinque dimensioni fondamentali:
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— il riconoscimento dell’alterità di chi è culturalmente «altro» (altre civiltà e altre modernità);
— il riconoscimento dell’alterità del futuro;
— il riconoscimento dell’alterità della natura;
— il riconoscimento dell’alterità dell’oggetto; e
— il riconoscimento dell’alterità di altre razionalità.» (Beck 2002, 369)
2.5. strumenti e metodo di lettura, analisi, previsione, decisione… nei diversi ambiti di azione
sociale e storica dell’età contemporanea.
Cioè: coordinate di metodo e di logica, base per comprendere la logica dei comportamenti degli
attori, vedere e fare (“altre”) previsioni, sostenere realtà e progetto: 1. strategie; 2. gioco e metagioco (politica nazionale, politica transnazionale). Lo sviluppo è consegnato all’incontro tra le
componenti: strategie del gioco nel meta-gioco.
2.5.1. strategie: strategia come spazio strategico; né struttura, né caos, è un concetto di potere “non
sostanzializzato”, si tratta di “quasi-istituzioni”, fa emergere la “contingenza del politico” e
conserva al politica la sua funzione fondamentale di rendere reali, concrete possibilità e non
escluderle a priori in nome di uno “Stato assoluto”.
2.5.2. gioco: il gioco e la possibilità: « Il linguaggio del gioco ci insegna perché occorre dischiudere
concettualmente il possibile affinché il reale non sia ritenuto a torto l’unica realtà possibile. […]
Perciò è importante non confondere gli spazi oggettivi di possibilità della globalizzazione
economica o politica con le mosse reali, cioè con l’empiria della globalizzazione. Ma è altrettanto
vero il contrario: l’azione politica basata soltanto sull’empiria disconosce la contingenza dell’agire
politico e quindi il politico in quanto tale. » (Beck 2002, 27)
2.5.2.1. due livelli del gioco: 1. il gioco combinato delle istituzioni e delle organizzazioni nella
gestione della realtà nazionale e internazionale (organismi / istituzioni internazionali). 2. il metagioco della politica mondiale che segue la logica della modificazione delle regole, nell’ambito
cosmopolitico. In una specie di proporzione: gioco = stati nazionale, meta-gioco = cosmopolitismo.
2.5.2.2. ma i due livelli agiscono (interagiscono), si attuano, si esercitano nella stessa (nelle stesse)
area: il cosmopolitismo negli Stati nazionali e gli Stati nazionali come Stati cosmopoliti. La
distinzione, anzi contrapposizione, tra internazionale e cosmopolitico impone un discorso che non
riguarda i rapporti tra lo Stato nazionale, o gli Stati nazionali e le Istituzioni internazionali o
sopranazionali, ma riguarda la natura cosmopolitica dei singoli Stati nazionali.
Tra i due livelli vi è dunque un continuo intreccio, per due motivi: 1. per la natura cosmopolitica
dello Stato nazionale; 2. perché, più in generale: «La politica che segue le regole e la politica che
modifica le regole si sovrappongono, si mescolano e si incrociano.» (Beck 2002, 324).
2.5.2.3. nel gioco e meta-gioco le strategie operano secondo la dialettica di potere e contropotere:
ogni direzione e scelta strategica genera, tra gli effetti collaterali per lo più indesiderati, una
controdirezione di segno opposto che, servendosi degli stessi elementi e della stessa logica ne mette
in dubbio il successo e può determinarne / ne determina la sconfitta. Ogni direzione strategica è
quindi interessata dalle caratteristiche di potere e contropotere, all’interno di una insopprimibile
contingenza delle situazioni storiche.
2.6. applicativamente e in conclusione provvisoria verso Stati cosmopoliti.
È come se il movimento dei capitali, il movimento dei diritti e i “movimenti” che li sollecitano e
richiedono, le organizzazioni internazionali, loro contesto di definizione formale cambiassero la
natura e la ragione prima dello Stato; non tanto e non più, romanticamente, Stato “nazionale” ma,
come nelle teorie politiche dell’età moderna, stato di diritto, e non più territoriale localistico, ma
cosmopolita esercitato, specificato e garantito in ambiti territoriali storicamente definiti. Tre
soggetti non più nazionali, capitali, organismi internazionali, movimenti, ridefiniscono il ruolo e la
direzione di sovranità degli Stati nazionali, dei suoi principi e della sua struttura organizzativa.
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3. Le direzioni e le forme: relazioni politiche e dinamiche sociali “al di là delle
classi e delle stratificazioni” (futurologia e proposte)
3.1. l’intreccio maxi, medi, mini. Lo scenario che idealmente prende forma, come prospettiva di
cammino del politico nella realtà contemporanea, prospettiva riconosciuta o intravista nelle
osservazioni del presente, è affidato a due intrecci, a loro volta tra loro intrecciati.
3.1.1. Il primo è l’intreccio politico istituzionale tra “maxi, medi, mini”: tra organismi internazionali
e sovranazionali (“maxi”), stati nazionali (o già nazionali; stati di diritto territorialmente
specializzati, “medi”), movimenti societari espressioni di urgenze irrinunciabili di gruppi e persone
(“mini”).
3.1.2. Il secondo è l’intreccio politico sociale tra lo Stato di diritto locale e le libere e contingenti
associazioni cittadine portatrici, in forma di movimenti (e di sub-politica), di urgenze che rendono
possibile una prassi politica legislativa e amministrativa specifica e mirata capace di attuare nella
concretezza della situazione i proclami giuridici riguardanti diritti universali e opportunità generali
garantite. Riprendendo.
3.1.1. ripresa. Il primo intreccio si gioca sulla rilettura degli stati nazionali in grado di passare da
una politica estera (e interna di conseguenza) di difesa della propria autonomia territoriale
all’esercizio del proprio ruolo di sovranità propositiva all’interno degli organismi internazionali e
sovranazionali.
(Le posizioni di Beck sul tema sono espresse per lo più nell’opera Beck Urlich 2002 Potere e
contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010 e riportate nell’intervento 3°: Nazioni nel
cosmopolitismo)
3.1.2. ripresa. Il secondo intreccio diventa analisi delle potenzialità politiche del sociale a decretare,
attraverso la loro contingenza, la contingenza stessa della politica ma anche ad indicarne l’essenza,
la direzione dell’attenzione, del rinnovamento e del rilancio; più radicalmente, a spingere verso una
rifondazione della politica in modo che venga intesa come una prassi, una abitudine, un dovere e un
diritto sociale. Dunque: relazioni politiche e dinamiche sociali “al di là delle classi e delle
stratificazioni”.
3.1.3. Non l’Assoluto (alla Hobbes), ma il gioco, come conseguenza logica e storica del doppio
intreccio. Cioè: il bellum omnium contra omnes mette capo non all’Assoluto, come propone
Hobbes, ma al gioco. I tratti ricorrenti nelle attuali società dello sviluppo, le nuove soggettività, la
loro dinamica, la loro potenzialità culturale/politica e una ipotetica situazione nella quale convivono
e operano le dinamiche dello stato di natura e quelle dello stato civile. Dal bellum omnium contra
omnes (Hobbes) alla dinamica di potere e contropotere (Beck). Il vantaggio e il progetto di una
simile rilettura e transizione è quello di non escludere il gioco naturale e la viva dialettica della
pluralità dei soggetti che operano nel campo del sociale; non sacrificare quella dialettica
all’obiettivo di una sicurezza e di un ordine pagato con il prezzo di un potere assoluto e della
conseguente rinuncia definitiva alla politica da parte della società; tutto ciò senza rinunciare
all’accordo e all’armonia ma conoscendone tuttavia la sorte inevitabilmente e fortunatamente
contingente. Contingenza, ma non precarietà e smarrimento totale, che è pur sempre il luogo di
un’autentica democrazia.
Il terreno in cui i soggetti politici e la riflessione conseguente devono definirsi e operare è segnato
da alcune trasformazioni sociali e tendenze proprie della società del rischio e risultato dell’azione
dei soggetti che la determinano e in essa operano. Alcune tendenze.
3.2. Fare i conti con il sociale ed esplorarne le potenzialità politiche.
3.2.1. Colpisce la stabilità delle strutture delle diseguaglianze sociali nei paesi sviluppati ma,
nello stesso momento la problematica della diseguaglianza sembra aver perso la sua esplosività
sociale o questa non si costituisce nella forma (tradizionale) delle classi; «viviamo in condizioni che
sono al di là della società di classe, e in cui l’immagine della società di classe è mantenuta in vita
solo per mancanza di un’alternativa migliore.» (Beck 1986, 117)
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In altri termini, e interpretando: per un altro aspetto l’attuale società del rischio richiama e fa
riemergere lo “stato di natura” (indole naturale degli uomini) di cui parlava Hobbes. Prende forma e
risalto un’individualizzazione (non è individualismo, ma può trasformarsi per tendenza o per
costrizione in individualismo, familismo) che acquista ancor più risalto per l’assenza di antichi e più
recenti identificatori sociali e politici: comunità, ordini, classi. Ciò accade in un contesto di
sviluppo e benessere destinato ad accentuare la senso di separazione e contrasto che
l’individualismo può ospitare; quel benessere infatti crea una società del rischio e l’ipotesi della
possibile penuria. Per paradosso, crisi, penuria, timore nei confronti dell’esaurirsi delle risorse sono
aspetti propri di una società e di un’economia del benessere, segnata da alti consumi. Osservano
Hann e Hart: «Negli ultimi decenni uno dei filoni più promettenti nell’antropologia economica è
stato quello dell’esplorazione dei «modelli locali» di economia, come per esempio quello dei
raccoglitori di cibo che considerano la foresta in cui vivono una benevola fonte di sicurezza. Queste
popolazioni non sono abituate a nozioni occidentali come lavoro, scarsità e incertezza.» (Hann
Chris, Hart Keith 2011, 7). «…l’individualizzazione si realizza precisamente entro condizioni
sociali generali che ora più che mai ostacolano un’esistenza individuale autonoma.» (Beck 1986,
190)
3.2.1.1. Lo sviluppo economico e la crescita infatti creano un “effetto ascensore”: innalzamento
miglioramento globale delle condizioni di vita; “durata della vita, tempo di lavoro, reddito da
lavoro”. In questo contesto, le diseguaglianze persistono anzi aumentano ma non si traducono in
“nuove classi” o nuovi movimenti collettivi (nuovi soggetti sociali politici di iniziativa, protesta
strutturati nella marxiana coscienza o identità di classe con rappresentanze di partiti e sindacati); ciò
in forza della forte individualizzazione (lettura individuale, privatistica) delle diseguaglianze in
crescita e di una economia che lega i profitto puntando sulla promozione dei consumi individuali.
«Effettivamente, con l’elevazione dello standard di vita nel corso della ricostruzione economica
negli anni cinquanta e sessanta e con l’espansione dell’istruzione negli anni sessanta e settanta,
larghi strati della popolazione hanno sperimentato mutamenti e miglioramenti nelle condizioni di
vita che per la loro stessa esperienza sono stati più importanti delle distanze dagli altri grandi
gruppi, rimaste ancora una volta immutate. […] Le conseguenze di questo “aumento di reddito
rivoluzionario per la storia sociale” si possono osservare nei particolari delle condizioni di vita
nell’ambiente operaio […] Parallelamente si è avuta una sorta di “democratizzazione” di beni di
consumo carichi di valori simbolici — la radio, la televisione, il molto deriso frigorifero,
l’automobile. Le abitazioni sono diventate più grandi e sono meglio arredate. Il soggiorno ha
sostituito la cucina-soggiorno proletaria. Il surplus di denaro ha aperto nuove possibilità di
movimento. Il viaggio di vacanza e di riposo, che una volta si poteva permettere solo il cittadino
benestante, è oggi in ogni caso accessibile anche per più di un operaio su due. C’è persino la
possibilità di diventare proprietari. Anche se le distanze dagli altri grandi gruppi di percettori di
reddito non cambiano, gli operai abbandonano lo status del “nullatenente proletario”. […]
Ma l’innalzamento dello standard di vita materiale è solo una tra le tante possibilità di cambiare le
condizioni di vita degli uomini senza modificare le relazioni di diseguaglianza (definite
statisticamente). Solo l’azione congiunta di tutta una serie di componenti produce la spinta
all’individualizzazione che scioglie gli uomini dai vincoli di classe tradizionali e li trasforma, per
assicurare la propria sopravvivenza materiale, in attori della propria biografia mediata dal mercato
del lavoro.» (Beck 1986, 118-119)
3.2.1.2. l’individualizzazione. «… al riparo dei diritti sociali e politici conquistati, essi vengono
svincolati dai legami di classe della vita quotidiana e indotti sempre più, per provvedere al
sostentamento, a contare solo sulle proprie forze. Nel quadro dello stato assistenziale, l’estensione
del lavoro salariato si trasforma in un’individualizzazione delle classi sociali. Questo sviluppo non è
stato un regalo di misericordiosi capitalisti-samaritani alla classe operaia che avevano ridotto in
miseria. È una conquista, il prodotto di una lotta e quindi espressione di un forte movimento
operaio, che però anche attraverso i suoi successi ha mutato le sue stesse condizioni. È il
conseguimento degli (o dei più essenziali) obiettivi del movimento operaio che ha mutato i
30
presupposti del suo successo e che ora ne minaccia forse l’esistenza, almeno in quanto movimento
operaio”.» (Beck 1986, 126-127)
Le ipotesi di Marx fondate sulle condizioni di immiserimento e alienazione base materiale per la
formazione della classe “sono superate”. Le analisi della Scuola di Francoforte avevano segnalato
l’indebolirsi del potenziale rivoluzionario della classe operaia completamente conquistata dalle
“sirene del capitalismo” [Adorno e Horkheimer, La dialettica dell’Illuminismo], ora attenta a
difendere gli standard di vita acquisiti; molto meno interessata allo studio e alla critica dei costi
pagati e all’alienazione in atto (in nuove forme di consumo commerciale) per garantirne il
mantenimento. Le formule sociologiche ricorrenti sono note: «imborghesimento della classe
operaia», «società livellata del ceto medio». Ma a definire lo specifico delle relazioni sociali
contemporanee non è tanto il dato della «elevazione del livello di vita», di «un avvicinamento tra le
classi» ma il processo sociale di “individualizzazione”, per l’attenuarsi (il diventare di nicchia) o la
scomparsa delle classi sociali.
«Al centro della tesi dell’individualizzazione sta … la possibilità che le relazioni di diseguaglianza
sociale e il loro carattere di classe siano due variabili indipendenti: pur restando ferme le distanze
nel reddito ecc., nel corso dei processi di individualizzazione durante lo sviluppo dello stato sociale
nel dopoguerra le classi sociali sono state detradizionalizzate e dissolte, o inversamente: il
dissolvimento delle classi sociali (ceti) può in altre condizioni strutturali (per esempio in una
situazione di disoccupazione di massa) accompagnarsi ad un’accentuazione delle diseguaglianze
sociali. Questo “effetto-ascensore” verso il basso acquista importanza a partire dagli anni ottanta.»
(Beck 1986, 137-138)
3.2.1.3. Dunque se sfumano le classi (come soggetto politico) restano le diseguaglianze, anzi si
accentuano. Un effetto paradossalmente prodotto dall’“effetto ascensore” considerato nei suoi due
movimenti: quando lo standard di vita mediamente fruibile si innalza allora diventa difficile o più
costoso conservare il nuovo livello, si accentuano le distanze sociali e fa precipitare verso il basso,
più basso [relativamente, non esiste un basso/alto assoluto] di prima, alcuni ceti, individualmente
espulsi, non come classe, dal circuito medio dei benefici. Ma tali diseguaglianze – disagi –
fallimenti – esclusioni sono individualizzati (percepiti e vissuti a livello individuale). Va
sottolineata la contraddizione storica: la “dimensione di massa” della esclusione (periodica o
definitiva) è vissuta nella sua singolarizzazione, individualizzazione. «…proprio i fattori mediante i
quali si realizza un’individualizzazione sono quelli che producono anche una standardizzazione»; si
è di fronte infatti a una «istituzionalizzazione dei modelli biografici ». «Gli individui affrancati
diventano dipendenti dal mercato del lavoro e perciò dipendenti dalla formazione, dal consumo,
dalle norme socio-giuridiche e dagli interventi assistenziali, dalle pianificazioni del traffico, dalle
offerte di consumo, dalle possibilità e modalità di consulenza e assistenza medica, psicologica e
pedagogica. Tutto questo rinvia alla struttura di controllo delle situazioni individuali: una struttura
dipendente dalle istituzioni. L’individualizzazione diventa la forma più progredita di
socializzazione dipendente dal mercato, dal diritto, dalla formazione ecc. […] Il posto dei vincoli e
delle forme di vita tradizionali (classi sociali, famiglia mononucleare) è preso dalle agenzie e
istituzioni secondarie, che plasmano la biografia dell’individuo e rendono la persona dipendente
dalla moda, dalle relazioni sociali, dalle congiunture economiche e dai mercati, contrariamente
all’immagine del controllo individuale che si impone nella coscienza.
Così, è proprio l’esistenza privata individualizzata a dipendere sempre più fortemente e sempre più
evidentemente da rapporti e condizioni che sono fuori della sua portata. Parallelamente, emergono
problematiche e situazioni di rischio e di conflitto che per la loro origine e per il loro carattere si
sottraggono ad ogni elaborazione individuale. Come è noto, esse includono più o meno qualsiasi
argomento di discussione o controversia politica e sociale: dai cosiddetti “buchi della rete sociale”,
attraverso la negoziazione dei salari e delle condizioni di lavoro, fino alla difesa dalle prepotenze
della burocrazia, all’offerta di opportunità formative, alla soluzione dei problemi del traffico, alla
tutela dell’ambiente ecc. Dunque, l’individualizzazione si realizza precisamente entro condizioni
sociali generali che ora più che mai ostacolano un’esistenza individuale autonoma.» (Beck
31
1986,189-190) « L’individualizzazione più precisamente, la rimozione dai contesti di vita
tradizionali — si accompagna all’uniformità e alla standardizzazione delle forme di vita. Ognuno se
ne sta isolato all’interno della famiglia, fissando incantato lo schermo. Nasce così l’immagine
sociale di un pubblico di massa individualizzato o, per esprimersi più efficacemente, l’esistenza
standardizzata degli eremiti di massa isolati (Anders, 1980).» (Beck 1986, 191-192)
3.2.2. Il problema politico è: queste singolarità senza classe si traducono, si possono tradurre in
nuove soggettività attive? quali soggetti storici (sociali, politici, di costume, di aggregazione …)
nuovi, in tale contesto stanno emergendo? Come coniugare e rendere soggetto attivo 1)
l’individualizzazione in uscita dalle appartenenze di classe, 2) lo stile di vita e di consumo tipico
delle economie avanzate, 3) la transitorietà e la precarietà delle situazioni di lavoro e di reddito
(precarietà che rischia di trasformare le vecchie e classiche associazioni rappresentative, come i
sindacati operai, in strutture corporative che difende posizioni e diritti di classi sociali lavorative
considerate quasi “privilegiate” o in scomparsa)? Si è di fronte ad una massa indifferenziata che non
sente l’esigenza di riconoscersi in classi o in livelli; non ritiene che una simile appartenenza possa
diventare risolutiva delle disuguaglianze e dei disagi che comunque caratterizzano la società
contemporanea. Quali soggetti se non più le vecchie classi, non più le classi (e forse non esiste un
altro termine)? in che direzione vanno, quali rivendicazioni avanzano o in quali ambiti intendono
investire il proprio potenziale di cambiamento? «Non stiamo vivendo, con la disoccupazione di
massa e la nuova povertà, il futuro della società di classe dopo la sua fine annunciata? … A questo
si accompagna l’arroccamento di una parte della popolazione saldamente integrata in un mercato
del lavoro che si va complessivamente restringendo, e la crescita di una non-più-minoranza nella
zona grigia tra sottoccupazione, occupazione temporanea e disoccupazione permanente che vive dei
sempre più scarsi sussidi pubblici e di lavoro “informale” (lavoro al di fuori del mercato, lavoro
nero ecc.).» (Beck 1986, 138)
3.2.2.01. Come consapevolezze di metodo: [1] al mutamento sociale, richiamato, e al tramonto delle
classi corrisponde il tramonto o mutamento delle loro forme rappresentative; [2] enunciato che ha il
proprio presupposto nella convinzione che sia la società (per quanto a sua volta risultato di scelte
politiche) a esprimere le proprie forme politiche di gestione e di progetto e non queste a definire a
priori quella (come avviene, in forma estrema, nei sistemi politici totalitari o nei progetti di
biopolitica); [3] per gestire la relazione tra la società (sempre in mutamento e luogo della
complessità) e le proprie forme politiche di rappresentanza occorre richiamare alcuni aspetti della
teoria dei giochi: a. nel gioco vi sono regole; b. i giochi sono infiniti, c. le regole non permettono di
prevedere il risultato ma questo non è fuori controllo; d. non si può stare fuori dal gioco (si tratta del
gioco sociale).
3.2.2.02. Del resto il senso e il successo di un movimento politico consiste non nel creare qualcosa
di assolutamente nuovo, ma nel catturare il consenso di una realtà (pre)esistente in decomposizione,
sfaldamento, dissenso; si incontrano, in questo compito, due ideologie, talora opposte: ideologia
della fabbrica (del produrre, della costruzione); ideologia mercenaria (della gregarietà, del
saccheggio).
3.2.2.1. «L’individualizzazione non contraddice, ma spiega ciò che è caratteristico di questa “nuova
povertà”. La disoccupazione di massa nelle condizioni dell’individualizzazione si abbatte sulle
spalle dei singoli come un destino personale. Non ne sono, infatti, colpiti in una forma socialmente
visibile e collettiva, ma in fasi di vita specifiche. Essi devono affrontare da soli una situazione che
in altri tempi contesti di vita con esperienza di povertà e caratteri di classe aiutavano a sopportare
offrendo e tramandando controinterpretazioni e forme di difesa e di sostegno. In situazioni di vita
individualizzate, al di fuori del contesto di classe, il destino collettivo è diventato in primo luogo
destino personale, destino singolo, la cui socialità è percepita solo statisticamente, ma non più
vissuta, e a partire da questa frammentazione nel personale dovrebbe perciò essere nuovamente
ricomposto come destino collettivo. L’unità di riferimento su cui cade il fulmine (della
32
disoccupazione e della povertà) non è più il gruppo, la classe, il ceto, ma l’individuo del mercato
nelle sue particolari circostanze.» (Beck 1986, 139)
3.2.2.2. «La grande maggioranza dei disoccupati resta, ancora, per sé e per gli altri nella zona grigia
di chi viene e va. Il destino di classe si è frammentato nella sua unità più piccola, in “fasi della vita
passeggere”, erode biografie, affiora qua e là (insinuandosi oltre confini che prima gli erano
sacrosanti), va via di nuovo, resta più a lungo, si irrigidisce, in questi “ritagli di fasi della vita”
diventa anche un incidente quasi “normale” nella biografia standard di un’intera generazione. Nelle
condizioni dell’individualizzazione è questa realtà nomadica della disoccupazione di massa,
specifica di determinate fasi della vita, (nel frattempo con tendenze sempre più forti alla
sedentarietà) che rende possibile contemporaneamente cose contraddittorie: dimensione di massa e
singolarizzazione del destino, cifre costantemente elevatissime che però in qualche modo si
sbriciolano, un destino di massa sminuzzato e interiorizzato che nella sua immutata durezza con le
sembianze del fallimento personale nasconde al singolo le sue proporzioni di massa uguali per
milioni di persone e brucia individualmente nella coscienza. […] Una disoccupazione di massa di
quest’ordine di grandezza viene accettata senza un grido di protesta politica, viene, per così dire,
occultata nell’individualizzazione.» (Beck 1986, 142, 143)
3.2.3. Per approfondire, di nuovo esplicitamente il quesito ma con i tentativi di cogliere, nei
processi indicati e richiamati, alcune potenzialità e opportunità in positivo. Opportunità, non
strade tracciate o definite ma aperture per percorsi. «Che cosa avviene realmente (questa è la
questione che ora diventa centrale) quando nel corso dello sviluppo storico l’identità delle classi
sociali radicata nella vita quotidiana si dissolve e nello stesso tempo le diseguaglianze sociali si
inaspriscono? Cosa accade quando i rischi del lavoro salariato si estendono, non però secondo il
modello dei grandi gruppi della “proletarizzazione”, ma ridotti in periodi di vita transitori e non
transitori di disoccupazione, sottoccupazione, povertà? È la fine delle classi o l’inizio di una nuova
formazione di classe non tradizionale? […] Prenderò in esame tre varianti di sviluppo ciascuna delle
quali non esclude le altre.
3.2.3.1. La fine della società di classe tradizionale è l’inizio dell’emancipazione delle classi da
limitazioni regionali e particolaristiche. Incomincia un nuovo capitolo della storia delle classi che
dovrebbe essere ancora scritto e decifrato. Alla detradizionalizzazione delle classi nel capitalismo
dello stato sociale potrebbe corrispondere una modernizzazione della formazione di classe che,
partendo dal livello di individualizzazione raggiunto, la inserisca in un nuovo quadro sociale e
politico.
3.2.3.2. Nel corso dello sviluppo indicato, l’azienda e il posto di lavoro perdono importanza come
luogo di formazione di conflitti e di identità e si afferma un nuovo luogo di genesi di vincoli e
conflitti sociali: la disposizione e configurazione dei rapporti sociali privati e delle forme di vita e
di lavoro; parallelamente si costituiscono nuovi networks, identità e movimenti sociali.
3.2.3.3. Si verifica una scissione sempre più netta tra un sistema di piena occupazione e un sistema
di sottoccupazione flessibile, plurale e individuale. Le crescenti diseguaglianze restano nella zona
grigia. Il centro della vita si sposta, dal posto di lavoro e dall’azienda, nella configurazione
sperimentazione di nuovi stili e forme di vita.» (Beck 1986, 145-146)
Analisi dei tre potenziali sviluppi (+1.).
3.2.3.4. La nascita di solidarietà di classe non fondate sull’appartenenza di ceto (Beck 1986, 146)
« … una povertà che si sviluppa uscendo dai bacini di raccolta delle strutture sociali delle classi e
delle loro organizzazioni politiche, in cui l’individualizzazione scompare e si accentua, non per
questo è scomparsa. Al contrario: essa diventa l’espressione di una massiccia precarizzazione delle
condizioni di esistenza del capitalismo del welfare, che può avere effetti politici tanto nuovi quanto
imprevedibili e globali.»(Beck 1986, 149)
3.2.3.5. Dal privatismo familiare a quello politico (Beck 1986, 149) «Il risultato generale di questi
studi è che anche per gli operai dell’industria il centro della vita si trova nella famiglia, e non
nell’esperienza del lavoro salariato di fabbrica. […] Ma come si è mostrato nel frattempo, esso può
assumere diverse forme e sviluppare una propria dinamica che alla fine, nel contesto della
33
trasformazione di famiglia e sessualità, matrimonio e ruolo di genitore, ma anche nel quadro del
rapido mutamento delle culture alternative, carica il privatismo dal suo interno di una valenza
politica e sposta o cancella i confini tra il privato e la sfera pubblica. Il potere politico del
movimento operaio e sindacale è basato sul rifiuto, organizzato nello sciopero, di erogare la
prestazione lavorativa. Il potenziale politico della sfera privata in espansione consiste, invece, nello
sfruttamento di possibilità di configurazione autonoma: nella violazione e nel superamento di
certezze culturali profondamente radicate attraverso l’azione diretta del vivere diversamente.»
(Beck 1986, 151) Vengono dunque ribaltate, liberamente fruite, disinvoltamente modificate le
forme sociali tradizionali: famiglia, associazione, gruppo, religione, movimento … luoghi di
assunzione libera di comportamenti e di fruizione privatistica di opportunità … ; ambito, questo, del
lungo lamento della crisi dei valori, delle istituzioni sociali, ma anche contesto di opportunità e di
libera costruzione di sé. «Io sono io: indifferenza, convivenza e conflitto tra i sessi all’interno e
all’esterno della famiglia» (Beck 1986, il paragrafo da 155-184) È il problema culturale di una
propria identità che, collocata in situazione di multiculturalismo, permette di dare praticabilità alle
ipotesi di identità plurima nella società contemporanea [vedi la sterminata letteratura su identità e
multiculturalismo: Sen, Bauman …].
3.2.3.6. Una “società di lavoratori dipendenti” individualizzata (Beck 1986, 152)
«Il motore dell’individualizzazione va a pieno regime, e non si può perciò prevedere in qual modo
possano crearsi nuovi, durevoli contesti di vita paragonabili alla struttura profonda delle classi
sociali. Al contrario, proprio nei prossimi anni, è probabile che, per risolvere il problema della
disoccupazione e rimettere in marcia l’economia, siano avviate innovazioni sociali e tecnologiche
che aprirebbero nuove dimensioni ai processi di individualizzazione. Questo vale per la
flessibilizzazione dei rapporti sul mercato del lavoro ed in particolare per l’introduzione di nuovi
regolamenti riguardanti gli orari di lavoro; ma ciò vale anche per l’introduzione di nuovi mezzi di
informazione e comunicazione. Se questa valutazione è esatta, si delinea un peculiare stadio di
transizione, in cui le diseguaglianze che sono rimaste o si sono accentuate si intrecciano con
elementi di una “società post-classista”, detradizionalizzata e individualizzata, che non ha niente a
che fare con le visioni di una società senza classi nel senso di Marx: [quattro precisazioni in forma
di passaggi storici sociali e politici:]
[1.] Le istituzioni della società, i partiti politici, i sindacati, i governi, gli uffici sociali ecc,
diventano elementi di conservazione di una realtà sociale che c’è sempre di meno. Mentre i modelli
biografici che fanno riferimento a categorie come classe, famiglia, professione, donna, uomo
perdono il proprio contenuto di realtà e la forza di orientare verso il futuro, nelle “istituzioni
assistenziali” essi sono conservati e difesi contro sviluppi ed orientamenti “devianti”. Si supplisce
alla carente coscienza di classe con corsi di formazione. L’elettorato tradizionale che dà prova di
“infedeltà” votando per un altro partito è richiamato all’ordine con la denuncia di una “democrazia
umorale”. Una società già al di là della società industriale volta le spalle ad una società industriale
che si conserva nelle istituzioni e non comprende più il mondo. Citando liberamente Brecht, si
potrebbe dire: ci avviciniamo sempre più ad una situazione in cui i governi potranno vedersi
costretti a revocare il mandato elettorale al popolo, e le organizzazioni forse non potranno fare a
meno di escludere i propri iscritti.
[2.] Nella vita quotidiana le differenze sociali di classe perdono la propria identità e con loro
impallidisce l’idea di mobilità sociale nel senso dello spostamento di un individuo tra grandi gruppi
distintamente percettibili — un’idea che ancora per buona parte di questo secolo fu un tema sociale
e politico in grado di lasciare un forte segno sull’identità personale. Con ciò, tuttavia, le
diseguaglianze non sono affatto eliminate, ma sono solo ridefinite in una individualizzazione dei
rischi sociali. La conseguenza è che i problemi sociali si trasformano direttamente in disposizioni
psichiche: in insufficienza personale, sensi di colpa, angosce, conflitti psichici, nevrosi. Nasce,
abbastanza paradossalmente, una nuova immediatezza nel rapporto tra individuo e società,
l’immediatezza della crisi e della malattia, nel senso che le crisi sociali si manifestano come crisi
individuali, e non sono più percepite, o solo in forma molto mediata, nella loro dimensione sociale.
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È questa una delle spiegazioni dell’attuale ondata di interesse per le psicoterapie. Nella stessa
misura acquista importanza l’idea del rendimento lavorativo individuale, cosicché si può dire che la
società della prestazione, con le sue possibilità di (apparente) legittimazione di diseguaglianze
sociali, si svilupperà in tutta la sua problematicità solo in futuro.
[3.] Anche in questa situazione gli uomini sono costretti, per venire a capo dei problemi della
società, a formare coalizioni sociali e politiche. Ma non è detto che queste alleanze debbano essere
formate in base ad uno schema, per esempio quello di classe. L’isolamento delle esistenze private,
indipendenti l’una dall’altra, può invece essere rotto su un piano politico-sociale dai più diversi
avvenimenti e sviluppi. Quindi le coalizioni si costituiscono e si sciolgono di volta in volta con
gruppi diversi e in diverse circostanze, cambiando continuamente a seconda della situazione e del
tema. Si può ad esempio aderire assieme a persone che abitano vicino ad un aeroporto ad
un’iniziativa civica contro il rumore degli aerei, essere iscritti al sindacato metalmeccanico e
politicamente votare a destra. Le coalizioni di questo tipo sono alleanze dipendenti dalle persone e
dalle circostanze, con scopi limitati, sorte nella lotta individuale per l’esistenza sui diversi terreni di
scontro imposti dalla società. Qui si può riconoscere come nel corso dei processi di
individualizzazione le linee e i temi di conflitto subiscano una peculiare pluralizzazione. Nella
società individualizzata si prepara il terreno per conflitti, ideologie e coalizioni nuovi e variopinti,
che fanno saltare le schematizzazioni finora dominanti: sono più o meno fondati su temi specifici,
per niente unitari, ma anzi dipendenti da persone e situazioni. La struttura sociale che sta nascendo è
esposta al contagio di temi e conflitti alla moda propagati a forza dai mezzi di comunicazione di
massa.
[4.] Sempre più spesso si producono durevoli linee di conflitto lungo i confini di caratteristiche
“ascrittive”, che ancora oggi sono connesse con discriminazioni: razza, colore della pelle, genere,
appartenenza etnica (lavoratori immigrati), età, handicap. Tali diseguaglianze sociali “quasi
naturali” acquistano in condizioni di avanzata individualizzazione particolari opportunità di
organizzazione e politicizzazione in virtù della loro inevitabilità, della loro persistenza temporale,
del loro contrasto con il principio di prestazione, della loro concretezza e diretta percettibilità e dei
processi di identificazione resi in tal modo possibili.» (Beck 1986, 152-154)
Interpretando e parafrasando. Torniamo e riprendiamo lo “stato di natura” o riprendiamo “l’indole
naturale degli uomini”; quello stato non è il luogo del bellum omnium contra omnes (la guerra è un
fatto eminentemente politico, il diritto di tutti a tutto è un enunciato di diritto positivo, non naturale
e i rischi non sono naturali ma “dipendono da decisioni” – Beck 1986, 255), ma luogo delle
relazioni plurime aperte e imprevedibili, luogo dunque in cui il continuo confronto legato al vissuto,
non codificato da inclassamenti produttivi o politici irrigiditi, diventa la continua formulazione e
modifica del patto sociale di convivenza; questa è la definizione sociale di politica. [la formiula
della
Qui sono in atto, oggi, come suggerisce Beck tre dimensioni: “dimensione dell’affrancamento”,
“dimensione del disincanto” e “dimensione del controllo” o della “reintegrazione”.» (Beck
1986,186); nella consapevolezza che rischi e guerra, diritti e forme dello sviluppo sono frutto di una
decisione e di un contratto più o meno esplicito, più o meno riflessivo. Il tema va ripreso.
3.3. «aprire i confini della politica», «sotto la politica» o per una nuova politica:
«Presa di coscienza delle diseguaglianze: possibilità di scelta e costrizioni alla scelta» (Beck
1986,171)
«Nelle condizioni dell’affrancamento dai moderni destini cetuali di genere prescritti a uomini e
donne, la sessualità, il matrimonio, l’erotismo, la condizione genitoriale hanno molto a che fare con
la diseguaglianza, la professione, il mercato del lavoro, la politica, la famiglia e con le forme di vita
inserite in tale contesto, che ormai hanno perduto la loro rilevanza per il futuro. La psicologia deve
ancora compiere questa storicizzazione e revisione storico-sociale delle sue forme di pensiero,
necessaria se non vuole arenarsi nell’apparenza dell’individualizzazione, della quale profitta
dislocando le cause dei problemi nelle persone che ne soffrono.» (Beck 1986,175)
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«Scenari di un futuro sviluppo.» Lo spettro di opportunità che emerge storicamente può venire
applicato e considerato in tre ambiti: la famiglia, i processi di sociazione, la partecipazione politica
(i tra classici ambiti studiati da Hegel: famiglia, società civile, Stato)
3.3.1. il ritorno alla famiglia è il moltiplicarsi delle sue forme: «è assai verosimile non che un tipo
di famiglia minacci un altro, ma che sorga un largo spettro di variazioni nelle forme del vivere
assieme familiari ed extrafamiliari e che ciascuna di esse continui a sussistere accanto alle altre.
Caratteristicamente, molte di esse (vita da single, convivenza prematrimoniale e matrimoniale,
coabitazione, pluralità di ruoli genitoriali in seguito a uno o due divorzi ecc.) saranno integrate
come fasi differenti di un’unica biografia complessiva.» (Beck 1986, 176) Alcuni aspetti specifici.
3.3.1.1. L’analisi è ad un tempo critica e propositiva. 1. Critica: «la famiglia diventa il luogo sociale
che codifica le diseguaglianze e soprattutto la diseguaglianza della donna; creando così una
posizione contraddittoria nella cultura e nei desideri personali degli individui: si esalta la famiglia
come valore sociale fondante, attraverso la famiglia si confezionano ruoli di gerarchia e dipendenza
soprattutto a danno della donna.» Su questi temi gli studi esposti in Beck Urlich, Beck-Gernsheim
Elisabeth 1990 Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1996, 2008 (la citazione
dalla prefazione p.5). 2. Propositiva: La libertà di genere e la conseguente varietà delle forme che la
famiglia assume fa saltare quella base tradizionale e si traduce nella ricerca e costruzione di diverse
e nuove relazioni sociali e di plurali e nuove forme della famiglia. La molla della rivoluzione in atto
è ancora una volta l’individualizzazione, ma ora nelle forme e nella dinamica richiamata.
3.3.1.2. «egualizzazione secondo il modello maschile: […] Se l’“uguaglianza” è interpretata e
praticata nel senso che ormai la società del mercato del lavoro si impone a tutti indistintamente,
allora viene implicitamente creata, con la parificazione, la società integralmente mobile dei single.
La figura fondamentale della modernità pienamente affermatasi è in ultima analisi la persona che
vive da sola. Nelle esigenze del mercato sono ignorate le esigenze della famiglia, del matrimonio,
della condizione di genitori, della convivenza.
3.3.1.3. sperimentazione di nuove forme di vita al di là dei ruoli maschili e femminili: […]
L’uguaglianza tra uomini e donne non può essere realizzata mediante le strutture istituzionali che
già nel loro impianto tendono a riprodurre l’ineguaglianza. Un nuovo tipo di uguaglianza aldilà
dei ruoli maschili e femminili può essere raggiunto passo dopo passo solo nella misura in cui una
profonda riflessione e un mutamento dell’intera struttura istituzionale della società industriale
avanzata investano i presupposti vitali della famiglia e della varie forme di convivenza.» (Beck
1986, 176-184)
Seguono, in dettaglio, le proposte per un nuovo modello di presenza politica nei settori del lavoro
(«dal sistema della piena occupazione standardizzata al sistema della sottoccupazione flessibile e
plurale») in critica e proposta «questo sistema del pieno impiego standardizzato comincia a farsi
meno rigido e a sfilacciarsi ai margini, con la flessibilizzazione dei tre pilastri sui quali si sostiene:
diritto del lavoro, luogo di lavoro e orario di lavoro. Perciò i confini tra lavoro e non-lavoro sono
diventati fluidi. Si stanno diffondendo forme flessibili e plurali di sottoccupazione. […] ma in
questo modo la sua contropartita è anche una generalizzazione delle insicurezze occupazionali […]
È precisamente questo che si intende quando si parla di un sistema della sottoccupazione tipico
della società del rischio. […] In questo modo viene prodotta una nuova divisione del mercato del
lavoro tra un mercato del lavoro uniforme, secondo gli standard della società industriale, e un
mercato flessibile e plurale della sottoccupazione, tipico della società del rischio, dove questo
secondo mercato del lavoro si sta espandendo quantitativamente e sta sempre più predominando sul
primo. […] … le imprese scoprono il lavoro part-time e la sottoccupazione come forze produttive o,
più in generale, la destandardizzazione dei modi tradizionali di utilizzazione del lavoro e delle
possibilità organizzative in essi contenute per incrementare la produttività sulla base della
microelettronica . Naturalmente, questo avviene in modo contraddittorio, discontinuo e non
uniforme.» (Beck 1986,203-208)
3.3.2. Società o processi associativi: «inizio di un nuovo modo di sociazione». Dall’analisi delle
dinamiche e dei mutamenti della famiglia, della persona, delle relazioni sociali, delle scelte
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abitative… della scelta (individuale e concordata) dei modelli di vita (“modelli biografici”) nel
sociale, l’inizio di un nuovo modo di sociazione, «una sorta di “metamorfosi” o di “mutamento
categoriale” nel rapporto tra individuo e società.» «… la modernizzazione non conduce soltanto
alla formazione di un potere coercitivo statale e centralizzato, alle concentrazioni dei capitali e ad
un intreccio sempre più fitto di divisioni del lavoro e relazioni di mercato, alla mobilità, al consumo
di massa ecc., ma anche, e qui arriviamo al modello generale, ad una triplice “individualizzazione”:
sganciamento da forme e vincoli sociali storicamente precostituiti, nel senso di contesti tradizionali
di dominio e di sostegno (“dimensione dell’affrancamento”), perdita delle sicurezze tradizionali in
riferimento alla conoscenza pratica, alla fede e alle norme-guida (“dimensione del disincanto”); e qui il significato della parola è pressoché ribaltato nel suo opposto - un nuovo tipo di legame sociale
(“dimensione del controllo” o della “reintegrazione”).» (Beck 1986,186) Il (un) movente:
3.3.2.1. l’associarsi plurimo e continuo sullo sfondo di una mancanza sostanziale. Manca il conforto
e il sostegno dei concetti tradizionali di progresso, sviluppo e crescita; manca l’implicita fiducia
sulla tenuta dei sistemi politici ed economici consolidati e operanti; manca la possibilità di imputare
all’esterno colpe e responsabilità dei rischi e dei fallimenti o la possibilità di attendere dall’esterno
aiuto, redenzione e salvezza; anche in questo senso appare la situazione politica nuova della società
del rischio. «In contrasto con tutte le epoche precedenti (inclusa la società industriale), la società del
rischio è caratterizzata essenzialmente da una mancanza: l’impossibilità di un’imputabilità esterna
delle situazioni di pericolo. In altri termini, i rischi dipendono da decisioni; essi sono prodotti
industrialmente e in questo senso sono politicamente riflessivi. A differenza da tutte le culture e le
fasi di sviluppo sociale precedenti, che avevano a che fare in vario modo con i pericoli, la società
odierna nel fronteggiare i rischi è messa a confronto con se stessa. […] L’origine dei rischi che
inquietano gli uomini non sta dunque più nell’esterno, nell’estraneo, nel non-umano, ma nella
capacità, storicamente acquisita dall’uomo, di autocambiamento, di autocostruzione e di
autoannientamento delle condizioni riproduttive di tutta la vita su questa Terra. Ciò significa che la
fonte del pericolo non è più l’ignoranza, ma la conoscenza; non un dominio carente, ma un dominio
perfetto della natura; non ciò che si sottrae alla presa umana, ma il sistema di norme e di vincoli
oggettivi stabilito con l’età industriale. La modernità ha assunto il ruolo della sua controparte, della
tradizione da superare, della costrizione naturale da padroneggiare. È diventata la minaccia e la
promessa dell’emancipazione dalla minaccia che essa stessa crea. A ciò è connessa una
conseguenza centrale…: i rischi diventano il motore dell’autopoliticizzazione della modernità nella
società industriale; più ancora, nella società del rischio cambiano il concetto, il luogo e i media
della politica.» (Beck 1986, 255-256)
3.3.3. La partecipazione politica tra politica e sub-politica. «Quando non ci si attende più che i
contorni di una società alternativa emergano dai dibattiti parlamentari o dalle decisioni
dell’esecutivo, ma dalle applicazioni della microelettronica, dalla tecnologia dei reattori nucleari e
dalla genetica umana, cominciano a crollare le costruzioni che hanno finora neutralizzato
politicamente il processo di innovazione. Nello stesso tempo, l’agire tecnico-economico nella sua
costituzione continua ad essere protetto contro le esigenze parlamentari di legittimazione. Perciò lo
sviluppo tecnico-economico si situa tra le categorie della politica e quella della non-politica. Esso
diventa una terza entità, acquistando lo status precario e ibrido di una sub-politica, nella quale
l’ampiezza dei cambiamenti sociali provocati sta in rapporto inversamente proporzionale alla loro
legittimazione. […] … il sistema politico rischia di essere esautorato mentre resta viva la sua
costituzione democratica.» (Beck 1986, 259)
3.3.3.1. una strana ambivalenza / contraddizione: «Il dibattito pubblico e scientifico attorno alla
possibilità che la politica riesca ad influire sulla trasformazione tecnico-economica è pervaso da una
peculiare ambivalenza. Da un lato, si sottolineano in vario modo le limitate capacità di controllo e
di intervento dello stato sugli attori della modernizzazione nell’industria e nella ricerca. Dall’altro,
nonostante tutte le critiche alle limitazioni del campo d’azione politico, imposte dal sistema o
evitabili, permane la fissazione sul sistema politico come centro esclusivo della politica.» (Beck
1986, 261)
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3.3.3.2. «Democratizzazione come spodestamento della politica» (Beck 1986, 265)
«…la modernizzazione politica toglie alla politica il suo potere e i suoi confini e politicizza la
società. Più precisamente, la modernizzazione politica offre ai centri e ai campi d’azione della subpolitica che essa rende possibile e fa gradualmente emergere l’opportunità di un controllo
extraparlamentare affiancato o contrapposto alle altre istanze di controllo. In questo modo si
differenziano ambiti e mezzi più o meno chiaramente definiti della politica cooperativa e alternativa
parzialmente autonoma, basati su diritti conquistati e tutelati. […] In altri termini: accanto al
modello della democrazia specializzata acquistano realtà forme di una nuova cultura politica, nelle
quali centri eterogenei della sub-politica, in virtù di un esercizio effettivo dei diritti costituzionali,
influenzano il processo di formazione e di applicazione delle decisioni politiche.» (Beck 1986,
269,270)
3.3.3.3. «Nuova cultura politica» «… L’ultima (per ora) variante di questo stato di cose si è
manifestata nella vasta attivazione politica dei cittadini — dai gruppi di iniziativa, attraverso i
cosiddetti “nuovi movimenti sociali”, fino alle forme alternative e critiche di prassi professionale
(tra i medici, i chimici, i fisici nucleari ecc.). Con questa pluralità di forme di azione diretta
extraparlamentare, che mette in discussione tutte le precedenti schematizzazioni politiche, essi
esercitano concretamente i loro diritti finora solo formali, riempiendoli della vita per la quale
ritengono che valga la pena di lottare. Questa attivazione dei cittadini su tutte le possibili tematiche
assume un significato centrale, proprio perché ad essi sono aperti anche gli altri fori centrali della
sub-politica: l’applicazione del diritto e la sfera pubblica dei media. E come dimostrano gli sviluppi,
questi fori possono essere utilizzati, almeno in certi casi, in modo assai efficace, in particolare per
tutelare gli interessi dei cittadini (nella tutela ambientale, nel movimento antinucleare o nella
riservatezza dei dati).» (Beck 1986, 271)
3.3.3.4. il “progresso” riflessivo, condiviso e responsabile: “modernizzazione riflessiva”.
3.3.3.4.1. il concetto di progresso e la sua sorte: «Che la “vecchia” società industriale fosse
ossessionata dal progresso, è stato spesso sottolineato. Nonostante tutte le critiche rivolte a questa
fissazione, dal primo romanticismo fino ad oggi, non è mai stata messa in discussione quella fede
latente nel progresso che oggi è diventata così precaria con la crescita dei rischi: la fede nel metodo
per tentativi ed errori e, nella possibilità di un dominio sistematico della natura esterna ed interna
affermatasi gradualmente nonostante i numerosi contraccolpi e problemi collaterali (un mito al
quale anche la sinistra politica è rimasta vincolata fino a tempi molto recenti, a dispetto di ogni
critica alla “fede capitalistica nel progresso”). Inoltre, questa musica di sottofondo della critica della
civiltà non ha tolto una virgola alla capacità di attuazione delle trasformazioni sociali avvenute
sotto le vele del “progresso”. Ciò rinvia alle peculiarità del processo nel quale i mutamenti sociali
possono avvenire, per così dire, “in incognito”.» (Beck 1986, 277-278) «Tutti i pilastri portanti di
questo consenso sul progresso nella politica della tecnologia nel corso degli ultimi vent’anni hanno
cominciato a sgretolarsi, e non per caso o a causa delle macchinazioni della critica della cultura, ma
come conseguenza della modernizzazione riflessiva. Con l’aumento dei rischi sono eliminati i
presupposti della formula armonizzante dell’unità tra progresso tecnologico e progresso sociale».
(Beck 1986, 280)
3.3.3.4.2. movimenti attori consapevoli: «Ora i conflitti si svolgono nel confronto diretto tra il
potere statale e i movimenti di protesta dei cittadini, cioè in uno scenario sociale e politico
completamente cambiato e tra attori che a prima vista sembrano avere soltanto un denominatore
comune: la lontananza dalla tecnologia. Nemmeno questo cambiamento delle arene e delle
controparti è casuale. Esso corrisponde anzitutto al livello di sviluppo delle forze produttive nel
quale le tecnologie su larga scala e ad alto rischio (centrali atomiche, impianti di riciclaggio delle
scorie radioattive, diffusione planetaria dei veleni chimici) entrano in un rapporto reciproco diretto
con i mondi vitali, al di fuori dell’arena industriale. Inoltre, qui trova espressione il crescente
interesse alla partecipazione, proprio di una nuova cultura politica. Dal conflitto sugli impianti di
riciclaggio delle scorie radioattive «è possibile imparare che minoranze numeriche (ad esempio i
“cittadini che si oppongono” sul posto) non possono essere respinte come guastafeste e mestatori. Il
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dissenso che essi esprimono funge da indicatore. Esso indica [...] un vasto cambiamento di valori e
norme nella società, o differenziazioni finora sconosciute tra i gruppi sociali. Le organizzazioni
politiche istituzionalizzate dovrebbero prendere questi segnali almeno tanto sul serio quanto le
scadenze elettorali. Qui si annuncia una nuova forma di partecipazione politica» (Braczyk et al.,
1986, p. 22). Alla fine, dunque, anche la scienza fallisce come fonte di legittimazione. Non sono gli
ignoranti o i fautori di una nuova età della pietra a mettere in guardia dai pericoli, ma si tratta
sempre più di persone che appartengono esse stesse alla comunità degli scienziati (ingegneri
nucleari, fisici, biochimici, medici, genetisti, tecnici informatici ecc.) così come di innumerevoli
cittadini nei cui casi l’esposizione al pericolo e la competenza si sovrappongono. Essi sanno
argomentare, sono bene organizzati, in qualche caso dispongono di loro riviste e sono in condizione
di fornire argomenti all’opinione pubblica e ai tribunali. Ma questa perdita della fede finora
professata nel progresso non cambia nulla nel compimento della trasformazione tecnologica.
Proprio a questa sproporzione si riferisce il concetto di “sub-politica “tecnico-economica:
l’ampiezza dei mutamenti sociali sta in un rapporto inversamente proporzionale alla loro
legittimazione, senza che questo cambi alcunché nel potere di imporsi che detengono le
trasformazioni tecnologiche trasfigurare in “progresso”. (Beck 1986, 281-282)
3.3.3.4.2.1. un esempio in un caso estremo, quello della medicina. È evidente «un aumento
drammatico delle cosiddette “malattie croniche “, cioè delle malattie che vengono diagnosticate
grazie ad un sistema sensorio medico e tecnico più acuto, senza la presenza o anche solo la
prospettiva di terapie efficaci per il loro trattamento.» (Beck 1986, 282) Il difficile consenso intorno
ad una tecnologia dimezzata, incompiuta, quando non fine a se stessa: «Il tasso insolitamente alto di
suicidi mostra quanto poco questa inversione di marcia sia tollerata dai pazienti. Ad esempio, tra i
malati cronici di reni, la cui vita dipende da una dialisi regolare, la percentuale di suicidi è sei volte
più alta, in tutti i gruppi di età, rispetto alla media della popolazione.» (Beck 1986, 283-284)
3.3.4. come conclusione «il potere di trasformazione pratica si trasferisce dall’ambito della
politica a quello della sub-politica» … e, di conseguenza, in una “nuova politica” o la storia di
un possibile incontro.
3.3.4.1. «Mentre la politica con l’espansione dello stato sociale si imbatte in limiti immanenti,
perdendo il suo slancio utopico, si accumulano le opportunità del mutamento sociale consentite
dall’effetto congiunto di ricerca, tecnologia ed economia. In questo modo, in un contesto di stabilità
istituzionale e di condizioni giuridiche immutate, il potere di trasformazione pratica si trasferisce
dall’ambito della politica a quello della sub-politica. Nelle discussioni contemporanee non ci si
attende più una “società diversa” dalle discussioni parlamentari attorno a nuove leggi, ma piuttosto
dalle applicazioni della microelettronica, della tecnologia genetica e dei mezzi di informazione.
Le utopie politiche hanno lasciato il posto agli interrogativi sugli effetti collaterali. La progettazione
del futuro avviene in modo indiretto e cifrato nei laboratori di ricerca e nei consigli direttivi, non nel
Parlamento o nei partiti politici. […] Qui, nella non-opposizione extraparlamentare senza
programma e in vista degli obiettivi scientifici ed economici (non sociali) del progresso della
conoscenza e della redditività economica, si realizzano le strutture di una nuova società. La
situazione rischia di farsi grottesca: la non-politica comincia ad assumere il ruolo di guida spettante
alla politica. La politica sta diventando un’agenzia pubblicitaria, finanziata pubblicamente, della
parte attraente di uno sviluppo che essa non conosce e che è sottratto alla sua influenza attiva. La
generale ignoranza di questo sviluppo è superata soltanto dalla necessità con la quale esso si
impone. Facendo mostra di conservare lo status quo, i politici promuovono la trasformazione in una
società alternativa, della quale non hanno nemmeno una vaga idea, e nello stesso tempo
rimproverano all’“agitazione dei critici della cultura” di suscitare sistematicamente la paura del
futuro. Gli imprenditori e gli scienziati che nel loro lavoro quotidiano si occupano di progetti per il
rovesciamento rivoluzionario dell’ordine sociale presente assicurano, con il volto innocente
dell’oggettività, la loro non-responsabilità rispetto a tutte le questioni che vengono decise in questi
progetti. Ma non sono soltanto le persone a perdere la loro credibilità, bensì anche la struttura di
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ruoli della quale esse sono prigioniere. Quando gli effetti collaterali assumono le proporzioni e le
forme di un cambiamento epocale, il carattere di naturalezza selvaggia del progresso si manifesta in
tutta la sua minacciosità. La stessa divisione dei poteri nel processo di modernizzazione si
fluidifica.» (Beck 1986, 307-308)
3.3.4.2. «La chiave sta proprio nella responsabilità per gli effetti collaterali. In altri termini, l’agire
politico acquista influenza parallelamente alla scoperta e alla percezione dei potenziali di rischio.
Le definizioni dei rischi attivano responsabilità e creano zone di condizioni sistemiche illegittime,
che reclamano un cambiamento nell’interesse di tutti. Perciò esse non paralizzano l’agire politico e
quindi non devono nemmeno essere nascoste a tutti i costi ad un’opinione pubblica
sistematicamente inquieta con l’aiuto di una scienza cieca o controllata dall’esterno. Al contrario, le
definizioni dei rischi dischiudono nuove opzioni politiche che possono essere utilizzate anche per
riacquisire e consolidare un’influenza democratico-parlamentare. […]Una società orientata a
minimizzare i problemi è impreparata a sostenere lo «shock del futuro» (Toffler, 1980). Sotto
l’influenza di questo shock, l’apatia e il cinismo politici nella popolazione potrebbero crescere
rapidamente e altrettanto rapidamente potrebbe allargarsi la frattura già esistente tra la struttura
sociale e la politica, tra i partiti politici e l’elettorato. E forse, poi, il rifiuto “della” politica a poco a
poco non riguarderebbe più soltanto i singoli rappresentanti o partiti, ma il sistema delle regole
democratiche nel suo insieme.» (Beck 1986, 313-314)
3.3.4.3. «In questo modello di sviluppo ci si ricollega alla tradizione della modernità, che mira
all’incremento dell’autodeterminazione.» (Beck 1986, 314)
3.3.4.3.1. «Il punto di partenza è la considerazione secondo cui nel processo innovativo della
società industriale le opportunità di autodeterminazione democratica sono istituzionalmente
dimezzate. In linea di massima le innovazioni tecnico-economiche come motore del permanente
cambiamento sociale sono state escluse dalla possibilità di consultazione, controllo e resistenza
democratica. […] si tratta ora di rendere pubblicamente accessibile questa base dei processi
decisionali secondo le regole previste al riguardo nel ricettario della modernità: democratizzazione.
(Beck 1986, 314-315)
3.3.4.3.2. per una «politica differenziale» «Il punto di partenza di questo progetto per il futuro è
l’apertura dei confini della politica, vale a dire tutto lo spettro di politica principale, politica
secondaria, sub-politica e politica alternativa che si è delineato nelle condizioni di una democrazia
evoluta all’interno di una società differenziata. La diagnosi è che questa perdita di centro della
politica non possa più essere revocata, nemmeno rivendicando più democrazia. La politica si è in un
certo senso generalizzata e quindi è diventata “senza centro”. La non rivedibilità di questa
transizione della politica esecutiva verso un processo politico che ha perduto nello stesso tempo la
sua specificità, il suo contrario, il suo concetto e il suo modo di agire non è però soltanto un motivo
di afflizione. In essa si annuncia una nuova epoca di modernizzazione, che qui è stata caratterizzata
con il concetto di riflessività.» (Beck 1986, 318) «Lo sguardo su questo sviluppo continua ad essere
ostacolato dalla facciata ancora intatta della società industriale. La valutazione qui presentata è che
oggi i monopoli nati con la società industriale e incorporati nelle sue istituzioni si sgretolano. I
monopoli si sgretolano (il monopolio della scienza sulla razionalità, quello dei maschi sulle
professioni, quello del matrimonio sulla sessualità e quello delle istituzioni politiche tradizionali
sulla politica) ma i mondi non collassano.» (Beck 1986, 319) «L’intuizione iniziale è che la politica
deve far propria l’autodelimitazione che si è storicamente compiuta. La politica non è più l’unico
luogo, e nemmeno il luogo centrale dove si decide sul futuro della società.» (Beck 1986, 320).
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