“Il lavoro nella quotidianità, la quotidianità del lavoro” Venezia, 18-19 aprile 2005 Giovani, tempo, vita quotidiana Intervento di Marita Rampazi 1. L’incertezza biografica è un tema centrale nella riflessione sociologica contemporanea sul tempo dei giovani, stimolata dalla trasformazione delle coordinate spazio-temporali prodottasi nel passaggio dalla prima alla seconda modernità e dalla saldatura di questo cambiamento con il processo di individualizzazione in atto. Tale concetto è stato messo a tema negli anni ’80 in relazione alla contestazione delle certezze tipiche della prima modernità, emergente, come tratto trasgressivo, in talune frange giovanili. Oggi, esso definisce una condizione che si va generalizzando al punto da proporsi come un dato normale dell’esperienza dei giovani. In estrema sintesi, gli aspetti costitutivi del concetto di incertezza biografica sono rappresentati da: a) reversibilità delle scelte e loro relativa de-connessione rispetto a forme consolidate di modelli di ruolo e di radicamento spaziale, in una prospettiva di crescente flessibilizzazione di percorsi e carriere, b) enfatizzazione della dimensione del presente rispetto a un futuro sempre meno prevedibile e ad un passato che sbiadisce sotto la spinta dell’accelerazione dei tempi dell’agire, che provoca una sorta di reificazione dell’atto in sé, entro una cultura dell’‘immediatezza’ potenzialmente distruttrice della cumulatività dell’esperienza; un fenomeno sotteso all’idea di presentificazione; c) dilatazione dei tempi di passaggio entro un gioco complesso di anticipazione/posticipazione delle esperienze che l’orizzonte culturale moderno associava a specifiche fasi della vita; d) progressiva centralità della dimensione biografica, associata allo sbiadire di quella storico-istituzionale e del ‘tempo lungo’ posto a fondamento delle identificazioni collettive ‘forti’ del passato; in tal senso, si sottolinea oggi non solo la perdita di memoria storica, ma anche l’affievolirsi dei confini fra pubblico e privato, che, per taluni, si risolve nella privatizzazione dell’esperienza. Per i giovani, questo insieme di fenomeni trae origine da e, insieme, alimenta un processo nel quale “le traiettorie esistenziali ricavano sempre meno luce (tendendo progressivamente ad autonomizzarsi) dalle relazioni con il mondo istituzionale, non più garante del loro ingresso nella sfera adulta”, come osserva Carmen Leccardi 1, illustrando gli orientamenti verso il futuro emergenti da una recente ricerca nazionale sul tempo dei giovani, dalla quale traggono spunto le considerazioni che vorrei proporre con questo intervento. 2. Il venir meno di garanzie istituzionali “certe” circa l’ingresso nella sfera adulta è particolarmente evidente e sofferto nel caso della progettualità connessa al lavoro. E’ quasi banale notare che, finché non si ha un lavoro che offra concrete e stabili prospettive di autonomizzazione dalla famiglia e qualche forma di riconoscimento sociale, non si può seriamente pensare né ad uscire di casa, né a stabilizzare il rapporto di coppia, né ad avere dei figli. Meno banale è il disagio identitario derivante dal non sapere se e quando si potrà uscire dal limbo in cui si è confinati a causa del protrarsi dei tempi di passaggio. Nel limbo, si può stare anche bene: la famiglia garantisce la sopravvivenza, la sostanziale de-responsabilizzazione tipica di questa condizione consente di sperimentare la molteplicità di percorsi, relazioni, interessi, che l’universo culturale contemporaneo propone come possibili. Tuttavia, si è socialmente “invisibili” (Diamanti, 1999). A lungo andare, tale invisibilità, che mette in dubbio il riconoscimento, può tradursi in un senso di perdita angosciante: “il tempo vola e io sono sempre qui: rischio di mancare all’appuntamento con tutte le tappe importanti della vita”, dicono i nostri intervistati. L’incertezza per il proprio futuro lavorativo e per il riconoscimento sociale ad esso collegato, può tradursi in un vissuto di precarietà, potenzialmente paralizzante ai fini della costruzione di sé come durata, vale a dire, soggetti capaci di raccontarsi in una prospettiva di divenire. In questo senso, ad esempio, Sennett (1999) denuncia le conseguenze distruttive delle “parole d’ordine del capitalismo moderno” – flessibilità, mobilità, rischio - sulla vita personale. L’“uomo flessibile” di Sennett è prigioniero di una sorta di paralisi temporale, appiattito su un quotidiano, talvolta caratterizzato da un iperattivismo frenetico, ma privo di significato per la biografia. Questa lettura, tuttavia, non è l’unica possibile. In alcuni casi, anziché all’idea di precarietà sembra più corretto riferirsi al concetto di provvisorietà (Rampazi, 2005) ed al suo statuto ambivalente. Da un lato, evoca il fenomeno visto sopra di sradicamento, disagio identitario, frammentarietà nella narrazione di sé, fonte di potenziale neutralizzazione affettiva. D’altro lato, la non-fissazione, implicita nell’idea di provvisorietà, rimanda all’autonomizzazione del soggetto favorita dal processo di individualizzazione. Da questo punto di vista, balza allora in primo piano ciò che Bauman (1999) definisce la «strategia post-moderna generata dall’orrore di essere legati e fissati», attualizzando le metafore del 1 Si tratta di una ricerca PRIN coordinata da Franco Crespi, nell’ambito della quale chi scrive è stata responsabile dell’unità di ricerca pavese. Per quanto riguarda l’impianto teorico-metodologico e i risultati, cfr: F. Crespi, a cura di, Tempo vola, Il Mulino, Bologna, in corso di stampa vagabondo, del turista, del flâneur e del giocatore. Fra queste metafore, quella del vagabondo sembra coniugarsi perfettamente con il senso di provvisorietà connesso alla de-strutturazione delle carriere ed alla mobilità – spaziale e funzionale - implicite nel modo con cui si tende a interpretare, oggi, la flessibilizzazione del lavoro. “Il vagabondaggio – nota Bauman - non ha alcun itinerario fissato – la sua traiettoria è messa assieme pezzo per pezzo, un pezzo alla volta Per il vagabondo, ogni posto è un luogo di sosta, ma egli non sa quanto a lungo rimarrà … Dovunque il vagabondo vada, egli è un estraneo …Vivere il sogno di diventare un nativo finisce solo per creare recriminazione reciproca e amarezza. E’ quindi meglio non ambientarsi troppo in un posto. E, dopo tutto, altri posti si profilano, posti non ancora sperimentati, magari più ospitali, sicuramente in grado di offrire nuove possibilità. Aver caro di «essere fuori posto» è una strategia ragionevole … Permette di lasciare aperte le opzioni. Permette di non ipotecare il futuro … Il primo vagabondo moderno vagava attraverso luoghi «organizzati»; egli era un vagabondo perché non riusciva a sistemarsi, come altra gente aveva fatto, in alcun posto. Coloro che erano sistemati erano tanti, i vagabondi pochi. La postmodernità ha invertito la situazione … Ora il vagabondo è tale non per la sua riluttanza o difficoltà a sistemarsi, ma per la scarsità di luoghi organizzati”. 3. Il vagabondare contemporaneo descritto da Bauman non riguarda scelte o sfortune dei singoli, ma il progressivo sbriciolarsi della strutturazione sociale dello spazio, l’assenza di luoghi «organizzati» in cui potersi stabilizzare. Si tratta di una condizione oggettiva di disancoraggio, che si coglie nei racconti di alcuni intervistati. Tuttavia, i casi puri sono molto rari. Più frequentemente, la provvisorietà si lega ad una situazione di nomadismo: una mobilità, nel quotidiano e/o nella dimensione biografica, caratterizzata da molteplici passaggi, e ritorni, entro luoghi che, agli occhi degli intervistati, mantengono precisi caratteri di «organizzazione». Nella ricerca in questione, il nomadismo emerge come un tratto normale dell’esperienza possibile agli occhi dei giovani, soprattutto in relazione alla necessità di saper cogliere, ovunque si trovino, le opportunità formative e lavorative prospettate dal mercato. A differenza del vagabondo, il nomade non gira a caso. Egli segue un percorso disegnato da una finalità precisa: trovare le risorse che consentano di “crescere” ed, eventualmente, imbattersi nel “posto giusto” dove potersi stanziare. Nella misura in cui gli scenari stessi del quotidiano sono mutevoli e imprevedibili, la risposta alla domanda “chi e che cosa posso diventare?” - alla base del dilemma identitario – si può cercare solo per approssimazioni successive, attraverso una continua negoziazione interpersonale dei significati delle scelte. L’importante, dicono molti fra i nostri intervistati, è “attrezzarsi” per saper gestire questa negoziazione, sfruttando le opportunità che si presenteranno volta a volta, nell’immediatezza della vita quotidiana. 4. I caratteri della mobilità contemporanea profilano, accanto al vagabondaggio e al nomadismo, una terza modalità, che potremmo definire, con Beck (1997), poligamia di luogo, di particolare interesse, ai fini delle strategie di stabilizzazione di un’immagine di sé coerente, indipendentemente dalla frammentarietà del contesto. Si tratta di un fenomeno che sottintende una temporalità giostrata fra più “tavoli” fortemente organizzati e connotati dal punto di vista identitario: analoga, a ben vedere, a quella che caratterizza la doppia presenza femminile. Il tratto distintivo della poligamia di luogo non è tanto la provvisorietà, quanto la sovrapposizione di spezzoni di vita, ciascuno dei quali ha una propria logica temporale e una specifica valenza etica. Questo concetto è stato coniato da Beck in relazione alla fine dell’esclusività delle identificazioni territorialmente fondate – quella nazionale, in particolare. La non esclusività cui allude Beck deriva dall’accresciuta mobilità geografica fra stati e continenti diversi, innescata dalla globalizzazione economica, che ha spostato sino ai limiti del globo i confini dell’agire professionale di numerose categorie di soggetti e oggi produce i suoi effetti ben oltre la sfera dell’economia e del lavoro. Gli individui sono così in condizione di potersi costruire percorsi identitari che si alimentano di una pluralità di identificazioni con contesti culturalmente assai diversificati. Fra i nostri intervistati, abbiamo trovato alcuni casi di poligamia di luogo à la Beck, tuttavia, la declinazione più interessante e generalizzata di tale metafora riguarda il modo in cui si organizza la vita quotidiana: un patchwork (Balbo, 1982) che si compone e ricompone giorno per giorno, “tenendo insieme” la pluralità di contesti, tutti egualmente importanti, nei quali si vivono lo studio e/o il lavoro – spesso distribuito fra più “lavoretti” svolti contemporaneamente -, l’intimità con il/la partner, lo “stare con” gli amici e i familiari, l’andare in palestra – un appuntamento importantissimo, da non mancare! -, il volontariato e così via. La riduzione ad unità di questi frammenti è possibile, a condizione di potersi ritagliare un po’ di tempo per sé, in cui “riannodare le fila”, “ritrovarsi” come dicono alcuni, in un processo di costante autoriflessione. Rieccheggiano, qui, i temi evidenziati da tempo dalle indagini sulla temporalità femminile moderna. La novità è che essi si stanno generalizzando. 5. Per concludere rapidamente, accanto ai noti fenomeni di dispersione e disorientamento, si vede anche emergere una strategia di governo dell’incertezza identitaria, che fa perno su un’immagine di costante costruzione/ricostruzione di sé, innescata e sostenuta dal farsi delle relazioni interpersonali. In questa prospettiva, non scompare la capacità di raccontarsi; si delinea piuttosto, un nuovo modo per farlo, che abbiamo definito strutturazione riflessiva della biografia. Raccontandosi, il soggetto si “costruisce”, costruendo contemporaneamente il contesto relazionale (Melucci, 2001) e riconducendo all’esperienza di vita i cambiamenti affioranti nell’orizzonte culturale del proprio ambiente sociale. Nelle parole dei nostri giovani, c’è una sottolineatura continua dei contenuti relazionali dell’esperienza, declinati prevalentemente in termini di “comunicazione emozionale”, tipica delle relazioni “pure” (Giddens, 2000), che vanno alimentate e coltivate nelle pratiche, anche minute, del quotidiano. Concentrando l’attenzione sull’intensità e la durata di queste relazioni, si può astrarre dagli effetti disgreganti prodotti dallo sradicamento spaziale e dall’istantaneità dell’agire funzionalmente orientato. In questo senso, va letta, ad esempio, l’enfasi posta sull’importanza di ritagliarsi quotidianamente un po’ di tempo “per stare con gli amici”; sul ruolo di alcune figure-chiave nello stimolare la “crescita personale e professionale” nel contesto di lavoro; sulla tendenza a collezionare oggetti – dalle foto, ai libri, ai fogli su cui si trascrivono gli sms ricevuti - legati al ricordo di persone significative per il proprio percorso di vita; sul recupero della dimensione collettiva del passato attraverso le memorie familiari. Si tratta di una strategia di recupero della progettualità – e della memoria – fondata sulla totale assunzione di responsabilità per le proprie scelte: una responsabilità che non tutti, come si è notato, riescono a maturare, o ad accettare, o per assumere la quale non vi sono per tutti risorse adeguate. Molti ne sono sopraffatti, paralizzati. Altri si danno al vagabondaggio, trasformando l’esplorazione del presente nel progetto di vita, finalizzato a vivere compiutamente l’intensità di ogni attimo, finito in sé. Ciò che unisce le tre modalità di declinare l’incertezza biografica tratteggiate sin qui è il rilievo assunto dalla dimensione quotidiana. Per l’uomo flessibile di Sennett, il quotidiano è il contesto in cui l’angoscia del vuoto può trovare sollievo in un iperattivismo che non lascia spazio per pensare. Per il vagabondo di Bauman, è il terreno nel quale “andare a caccia” di esperienze (Jedlowski, 1989). Per chi persegue strategie di strutturazione riflessiva, è la dimensione nella quale costruire e mettere alla prova le proprie capacità di bricoleur, il luogo in cui si concretizzano le potenzialità di “innovazione, di creatività, di differenza”, di cui già parlava nel 1978 Laura Balbo a proposito della complessa gestione della doppia presenza femminile. Riferimenti bibliografici L. Balbo, “Patchwork”: una prospettiva sulla società di capitalismo maturo, in L. Balbo e M. Bianchi, Ricomposizioni. Il lavoro di servizio nella società della crisi, Angeli, Milano, 1982 L. Balbo, La doppia presenza, in “Inchiesta, n. 32, 1978 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1997 U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto della sicurezza e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000 G. Chiaretti, M. Rampazi, C. Sebastiani, a cura di, Conversazioni, storie, discorsi. Interazioni comunicative tra pubblico e privato, Carocci, Roma, 2001 F. Crespi, a cura di, Tempo vola, Il Mulino, Bologna, 2005 I. Diamanti, a cura di, La generazione invisibile, ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 1999 A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna, 2000 P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Angeli, Milano, 1989 C. Leccardi, I tempi di vita tra accelerazione e lentezza, in F. Crespi, a cura di, cit. A. Melucci, Su raccontar storie e storie di storie, in G. Chiaretti, M. Rampazi, C. Sebastiani, a cura di, cit. M. Rampazi, La costruzione della durata negli spazi del quotidiano, in F. Crespi, Tempo vola, cit. M. RAmpazi, a cura di, L’incertezza quotidiana, Guerini, Milano, 2002 R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999