Torino 12 Gennaio 2017 EINSTEIN IN PROSPETTIVA Enrico Predazzi Accademia delle Scienze di Torino In tempi nei quali una prospettiva sul passato non induce all’ottimismo sul presente, soffermarsi su quale sia la situazione attuale di un campo importante del sapere può essere motivo di speranza o almeno di personale sollievo. Questo è certamente il caso di una materia oggi di primaria importanza culturale come la fisica e proprio in un paese che oggi non induce a speciale ottimismo come il nostro. Oggi, però, la prospettiva che voglio discutere in questa sede non è quella della fisica in generale (anche se ne varrebbe davvero la pena), ma quella che a questo campo ne deriva considerando la figura di Albert Einstein. Questo, anche perché la sua rilevanza nel panorama odierno appare molto difficile da separare da quella della fisica in generale. È famosa la considerazione con cui Newton guardava alla sua vita di scienziato e ai suoi contributi dicendo che se era riuscito a vedere molto lontano, molto era dovuto al fatto che guardava dalle spalle dei giganti che l’avevano preceduto (anche se non son sicuro di quanto lo pensasse davvero). Oggi di questi giganti del passato ne abbiamo molti di più ma se uno si volta indietro e cerca di individuarli, fra i giganti stessi ve ne sono alcuni ancora più giganteschi. E, anche se può sembrare un esercizio sterile, vorrei provare a farlo brevemente per la fisica. In tempi “storici” (e cioè non volendo andare indietro ai “classici” dell’antichità), tutto parte, a gloria imperitura del nostro paese, da Galileo. Quindi, quattro secoli fa quando, convenzionalmente, nasce quello che oggi si chiama il metodo scientifico e cioè nasce chi riesce a distinguere in un fenomeno naturale quello che è davvero importante da quello che è invece accessorio, a individuare il problema, ad affrontarlo, a risolverlo e, soprattutto, a verificare che la soluzione sia giusta e, possibilmente, a prevederne le conseguenze e quindi i nuovi fenomeni che possono rientrare in questo schema. Riesce quindi, anche, 1 a rinunciare a quanto tramandato dal passato se questo risulta inadeguato. La scienza non arriva mai a fondo corsa. Già è molto difficile saper discriminare in un evento o in un problema ciò che è veramente importante da quello che è accessorio (e in questo, Einstein è stato veramente un caso unico). Saperlo poi interpretare correttamente è, di nuovo, non un compito per tutti. Ma, capire in un panorama ancora largamente primitivo di vere conoscenze scientifiche che oltre a tutto è poi fondamentale verificare che questa interpretazione sia corretta, questo è veramente porre una pietra miliare sulla via del progresso umano. E, infine, rendersi conto che lo strumento per tutto ciò è l’uso della matematica, ha fatto della fisica la regina delle scienze naturali. Con una non significativa forzatura, credo di poter dire che solo ora (o da non molto), le altre discipline scientifiche stanno arrivando a questo traguardo cui Galileo arriva nel 1600. A me pare quindi di poter concludere che Galileo è il primo “scienziato” dell’età moderna e non solo il primo “fisico” della medesima e giganteggia per questo su tutti. Non è vanto da poco poter rivendicare alla fisica il merito di aver saputo indicare alle altre scienze come procedere. Se poi nasceranno chimica (Lavoisier), botanica (Linneo), biologia (Darwin) e così via, non voglio dire che sarà stato merito diretto di Galileo ma certo indirettamente è così. Continuando a scegliere chi giganteggia fra i giganti della fisica del passato, certo la seconda figura (e non solo in ordine di tempo) non può essere che quella di un altro fisico: Isac Newton che, perfezionando l’intuizione di Galileo, non solo si dota (costruendoselo) dello strumento matematico indispensabile (il calcolo infinitesimale) ma lo usa magistralmente per mettere la fisica in condizione di essere studiata in termini che permetteranno misure precise. Cosa che sarà sempre più vera fino ai giorni nostri e che, incidentalmente, ripeto, comincia ormai ad essere recepita anche in altre discipline scientifiche. Ma se poi continuiamo e ci limitiamo alla fisica, la figura successiva in ordine di tempo che emerge fra i giganti del passato è indubbiamente quella di Einstein ed è quella su cui ritornerò fra poco e mi soffermerò per il resto di questo breve incontro. Anche perché, a tutti gli effetti, è quella che, in un modo o nell’altro, è all’origine di praticamente tutto 2 quello che succede oggi nella fisica e voglio proprio sviluppare questo punto come non esagerazione della realtà delle cose. Prima di farlo, però, voglio ancora fare alcune considerazioni. La prima è un “disclaimer”. Pretendere di individuare tre nomi in un panorama quale è quello anche solo della fisica oggi è una pretesa che rasenta l’assurdo. Fra i fisici del passato ve ne sono così tanti così importanti che non me la sentirei di individuarne altri senza sentire l’acuta consapevolezza di commettere una leggerezza se non direttamente una plateale ingiustizia (Keplero? Avogadro? Faraday? Maxwell? Planck, Boltzmann? Bohr? Schrödinger? Pauli? Heisenberg? Born? Fermi? …). La seconda è che, se dovessi proprio scegliere ancora qualcuno da mettere in prima fila, a questo punto, per ragioni di campanilismo (ma non solo) proporrei di mettere Fermi come quarto fra cotanto senno. Non tanto e non solo per le sue straordinarie intuizioni e realizzazioni ma anche e forse soprattutto, sia per aver fatto (ri)nascere la fisica nel nostro paese (dove era rimasta in una sonnolenza pluricentenaria) ponendo le premesse per sviluppi che hanno portato oggi all’assoluta eccellenza della scuola di fisica italiana in campo internazionale sia, infine, per aver contribuito a farne la punta assoluta mondiale del paese in cui dovette rifugiarsi per sfuggire al fascismo e alle persecuzioni razziali e che lo accolse con tutti gli onori e soprattutto dandogli tutte le possibilità di lavorare: gli Stati Uniti. Sono pochi i premi Nobel targati USA della seconda metà del ‘900 che non debbano molto a Fermi! Una ulteriore, curiosa ma certo non insignificante considerazione sulle figure ricordate sopra, è che tutte, senza eccezioni, uniscono alla straordinarietà dei loro contributi scientifici, quella di una umanità a livello individuale non sempre proprio esemplari. Individualità molto complesse, come certo uno si aspetta ma ognuna con difetti molto “umani” che variano dall’avidità, all’invidia, a debolezze peraltro assai naturali (come l’attrazione per il sesso gentile, per esempio) ma anche indifferenza a livello personale per gli altri. E, forse, si potrebbe dire, meno male, dopotutto, esseri umani con virtù ma anche difetti molto comuni… Concludendo questa breve introduzione di figure così eccezionali dal punto di vista scientifico, non posso resistere al rovesciare un commento di un grande chançonnier americano della seconda metà del 3 Novecento (che era anche un matematico di vaglia) che si chiama Tom Lehrer. In una canzone scritta quando non era ancora quarantenne in occasione della morte di una signora che in vita aveva riempito di sé la scena viennese, Alma Mahler Gropius Werfel, commentava “It’s people like that who make you realize how little you can accomplish”. Qui il commento è all’inverso: “It’s people like that who make you realize how much you can accomplish”. E, infatti, Tom Lehrer concludeva, molto appropriatamente, “It is a sobering thought, for example, that when Mozart was my age, he had been dead for two years”. Oggi che gli scienziati (tutti, ovviamente, non solo i fisici) sono dell’ordine di 10 milioni in tutto il mondo, guardare ai risultati ottenuti da questi giganti può essere da un lato deprimente per l’individuo singolo ma molto gratificante come appartenenti al genere umano. A titolo, poi, strettamente personale, non posso non avere una qualche forma di sollievo se penso alla difficoltà (non più di 15 anni fa) a far passare anche in un ambiente di persone colte, l’importanza non tanto della ricerca in fisica ma della ricerca in generale e il senso di fastidio che il ricorrente incitamento in questa direzione sembrava sollecitare all’uditorio. Se confronto quelle difficoltà con l’invasione (almeno a parole) di scienza e di fisica nel mondo moderno (dalle trasmissioni televisive alla réclame quotidiana di volumi intitolati “Il bosone di Higgs”, “I buchi neri”, “Le onde gravitazionali”, “La materia oscura”, al fatto che la Direttrice Generale del CERN, Fabiola Gianotti, una donna peraltro eccezionale, sia stata invitata a far parte della delegazione che il precedente Presidente del Consiglio Italiano si è portata dietro alla ultima cena ufficiale offerta in suo onore dal Presidente uscente degli Stati Uniti e così via) non posso che pensare che molta acqua è passata sotto i ponti e che, tutto sommato, oggi il problema della importanza della scienza è finalmente nella consapevolezza del grande pubblico. Semmai, uno potrebbe temere, perfino troppo! E, infatti, l’impressione dopo la prima, superficiale, di stupore, è che molto se non tutto, si limiti a parole. Ma ora è davvero tempo di tornare ad occuparci di Einstein. Cosa che farò senza badare troppo a dare formule, mostrare figure o fornire letteratura specializzata. Questo, principalmente perché ci saranno conferenze in Accademia che copriranno tutti questi aspetti in maniera 4 puntuale e precisa. Il 19 gennaio raccomando la conferenza del professor Nicola Vittorio che darà una panoramica molto avanzata sugli aspetti cosmologici degli sviluppi delle teorie di Einstein e poi quella del professor Vincenzo Barone che ne metterà invece in luce anche gli aspetti e gli sviluppi matematici e fisici. Ma anche perché l’Accademia delle Scienze di Torino tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 ha già coperto in maniera molto dettagliata tutti gli sviluppi dalla relatività speciale a quella generale, all’astrofisica e alle correlazioni anche con la meccanica quantistica e con i problemi più scottanti della fisica del giorno d’oggi con conferenze di molti suoi soci e non. Cito, Giovanni Bignami, Vincenzo Barone, Leonardo Castellani, Nicola Vittorio e altri (fra cui me stesso). Per quanto riguarda invece eventuali volumi di consultazione e di approfondimento, questi sono così numerosi che resta solo l’imbarazzo della scelta. Raccomando fra tutte un recente breve ma ottimo libretto di Vincenzo Barone “Albert Einstein il costruttore di universi” (Editori Laterza, 2016). Credo, però, che una raccomandazione a parte richiedono i volumi di Abraham Pais fra cui, forse di massima eccellenza “Inward bound” Oxford University Press, 1986 che sono notevoli non solo per l’aneddotica personale dell’autore ma forse ancora di più per la precisione estrema con cui riporta gli avvenimenti che ne fanno davvero una serie di volumi di storia della fisica moderna. Ci risparmieremo gli aneddoti sulla prima parte della sua vita limitandoci a un succinto richiamo di date: Albert Einstein nasce a Ulm in Germania, da una famiglia della media borghesia il 14 marzo 1879, ha una sorella, Maia, è un ottimo studente (come ci fa sapere sua madre in una lettera) ma non proprio brillante. Soprattutto, insofferente ai lacci e lacciuoli della scuola germanica dell’epoca e, comunque assai gratificato dai suggerimenti di studio e dalle interazioni con uno studente di medicina, Max Talmud che frequentava casa Einstein. Studia anche in Italia dove il padre si trasferirà per qualche tempo, ha difficoltà a trovare la scuola giusta per diplomarsi, cosa che poi fa d Aarau nel 1896 avendo, fra il resto, un docente, Hermann Minkovski e un compagno di scuola Marcel Grossmann che resteranno un punto di riferimento nel seguito. Si sposa una prima volta con una sua compagna di studi, Mileva 5 Maric, con la quale avrà tre figli, Lieserl, Hans Albert e Eduard sul cui destino non ritorneremo per carità di patria). Vorrei, invece, soffermarmi a grandi linee sullo stato della fisica quando, ormai laureato al Politecnico di Zurigo nel 1900, dopo qualche lavoro come insegnante si impiega all’Ufficio brevetti di Berna dove lavora anche il suo amico di una vita Michele Besso e nel 1905 pubblica tre lavori che rivoluzioneranno completamente la fisica. La fisica della fine dell’Ottocento, ha fatto grandissimi passi avanti dai tempi di Newton in cui l’abbiamo lasciata. I contributi italiani non sono stati da poco, la cellula elettrochimica di Luigi Galvani, la geniale intuizione di Amedeo Avogadro del 1811 e gli importanti lavori di Alessandro Volta precedono però un lungo sonno che sarà solo interrotto da Marconi che nel 1895 usa per la prima volta le onde elettromagnetiche per captare suoni a distanza e cioè inventa la radio. Poi, però, il sonno riprenderà per interrompersi in maniera definitiva solo dopo il 1920 con l’arrivo sulla scena mondiale di quell’Enrico Fermi di cui sopra. Ma, con un lungo salto, vorrei solo ricordare che è proprio la radio che si trasformerà in un mezzo adatto a ricevere anche figure in movimento, dico la televisione, e che negli ultimi venti anni o poco più si è trasformata in uno strumento capace di farmi parlare in tempo reale con mia figlia a 10.000 chilometri di distanza vedendola come se fosse lì da noi, di farmi mandare un suo filmato, di trasmetterle un documento con figure e formule chiedendole di verificarlo lì con me, di andare a cercare film o musica e, insomma di utilizzare quella che chiamiamo la rete di cui, una volta di più dobbiamo dir grazie alla fisica e in particolare al CERN di Ginevra dove il www (world wide web) è stato inventato e regalato gratis all’umanità (nel bene e, ahimè, nel male). Le premesse per le quali oggi possiamo accendere la televisione, lavare in casa la biancheria che in altri tempi doveva essere portata ai lavatoi, conservare il cibo, leggere un libro fino a tardi la notte, far fare i lavori pesanti a macchine e, insomma vivere agiatamente come in nessuna altra epoca prima di noi, questo lo dobbiamo in parte quasi esclusiva alla fisica dell’Ottocento. Quando, infatti, la meccanica è stata (più o meno), soddisfacentemente sistemata, la fisica ha affrontato e risolto il problema irrisolto più antico, forse, dell’umanità e cioè quello della 6 elettricità e del magnetismo. O, almeno, quasi altrettanto antico del perché una pietra cade o la notte scende e le stelle appaiono. È uno sviluppo complesso, che richiederà una buona parte del secolo ma che nel 1864 viene risolto completamente (o quasi) da James Clerk Maxwell, un eccezionale fisico scozzese cui la fisica deve molti altri importanti contributi, in termodinamica, meccanica statistica, teoria del colore e altro. Di gran lunga il più importante, però, è il suo contributo a impostare in forma unitaria lo studio di elettricità e magnetismo che riassume in poche formule matematiche in quello che da allora in poi chiamiamo elettromagnetismo. Si tratta, come credo tutti sappiamo, di una costruzione matematica assolutamente geniale e in cui l’abilità a capire la fisica, a maneggiare la più avanzata matematica dell’epoca, a saper riconoscere le analogie e a interpretare i dati sperimentali inserendoli nelle intuizioni di Faraday e dei fisici che vi avevano lavorato in tutta la prima parte del secolo si fondono e risolvono in maniera definitiva tutti (o quasi) i problemi connessi. Ma è l’idea di fondo, quella di unificazione delle forze fisiche che influenzerà tutto il ‘900 fino ai giorni nostri. L’unico neo di questa magnifica costruzione matematica è che essa è costruita nell’ambito ancora dell’esistenza dell’etere cioè di un sistema di riferimento assoluto e privilegiato tramandato dagli antichi e da Aristotele in particolare. È una costruzione in cui elettromagnetismo e gravitazione non si parlano e rappresentano due mondi separati come del resto è ancora il caso oggi. In prospettiva, però, per ragioni che hanno ottime ragioni storiche ma che tuttora prevalgono, ancora oggi pochi stabiliscono una diretta connessione della relatività (che nascerà, all’inizio del Novecento con quell’elettromagnetismo comparso 40 anni prima. Se così non fosse, probabilmente, l’incomprensibile e incredibile errore di annunciare la scoperta di neutrini superluminali sarebbe stata risparmiata alla vergogna della fisica italiana pochi anni fa. Ma la fine dell’Ottocento dopo le scoperte di fenomeni come i raggi X, la radioattività naturale, l’elettrone, (oltre alla già ricordata scoperta radio) vede un ottimismo sfrenato fra i fisici che pensano che non vi sia quasi più nulla da scoprire. Non per niente siamo in pieno positivismo. Questo porterà il grande fisico inglese William Thomson, oggi noto come Lord Kelvin ad affermare, in una riunione della British Association 7 for the Advancement of Science del 1900 che “There is nothing new to be discovered in physics now. All that remains is more and more precise measurements…”. Più o meno negli stessi anni il fisico americano Millikan diceva che ormai era solo più questione di fare misure alla sesta cifra decimale e già nel 1874, Phillip von Jolly, il mentore all’università di Monaco di Max Planck (il futuro padre della Meccanica Quantistica), gli consigliava di non studiare fisica perché “era un campo in cui quasi tutto era stato scoperto e quello che restava era riempire pochi buchi”. Eppure, oltre a mancanze ancora fondamentali come la scoperta dell’atomo (Mach sosteneva che si trattava solo di un concetto astratto forse utile ma non osservabile e quindi da abbandonare, cosa che m insieme olti ritengono che, insieme ad altre sia una delle ragioni che porteranno al suicidio di Boltzmann nel 1906 quando nel 1905 proprio Einstein ne aveva fornito una prova inoppugnabile con il primo calcolo del numero di Avogadro) vi erano, diceva sempre Lord Kelvin, due nubi all’orizzonte di questa fisica trionfante. Una era la discrepanza fra le previsioni della termodinamica e statistica e le osservazioni del corpo nero e l’altra era la inconciliabilità tra le leggi di trasformazione delle equazioni di Maxwell e quelle (dette di Galileo) della meccanica classica. A ben guardare, forse Lord Kelvin avrebbe potuto aggiungere altre due nubi, pur se apparentemente di minor portata e cioè l’incomprensibilità del moto browniano e la discrepanza tra le previsioni classiche e le osservazioni sperimentali del cosiddetto effetto fotoelettrico. Anche se è stato detto che Einstein non fosse specialmente attento alla letteratura esistente questo probabilmente non era così vero se nei tre lavori che egli pubblica nel suo “annus mirabilis del 1905, spazza via tre di queste quattro nubi e contribuisce anche a chiarire la quarta in maniera importante. Nel primo, rielaborazione in parte della sua tesi di dottorato dal titolo "Über die von der molekularkinetischen Theorie der Bewegung von Wärme geforderte in ruhenden suspendierten Flüssigkeiten Teilchen" interpreta il moto disordinato delle molecole già osservato nel 1785 da Jan Ingenhousz ma che prende il nome di "moto browniano" da Robert Brown, che lo osservò nel 1827 mentre studiava al microscopio le particelle di polline della Pulchella clarkia in acqua. Egli osservò che 8 queste erano in continuo movimento e che in ogni istante tale moto avveniva lungo direzioni casuali. Particolarmente rimarchevole è che la dimostrazione di Einstein che questo moto era in accordo con la interpretazione che fosse dovuto agli urti delle molecole del liquido con i granuli di polline in sospensione non solo è una prova sia pure indiretta dell’esistenza degli atomi, ma porta anche alla misurabilità del numero di Avogadro che, di fatto, verrà proprio misurato poco dopo da Perrin. E, ripeto, se Boltzmann se ne fosse reso conto, chi sa, magari non si sarebbe suicidato un anno dopo (1906). Nel secondo, Einstein spiega le discrepanze tra la interpretazione classica e i dati sperimentali sull’effetto fotoelettrico le cui primissime osservazioni risalgono al 1887 da parte di Hertz. L’interpretazione di Einstein è almeno pre-quantistica se non già ormai quantistica (la prima apparizione del termine, risale, ricordiamolo, al 1900 da parte di Planck) in quanto egli attribuisce una energia E=h al fotone incidente che individualmente (e non come onda) colpisce un elettrone e che, a seconda del valore della frequenza può o no estrarlo dal metallo colpito dalla radiazione incidente. È proprio per l’effetto fotoelettrico che Einstein riceverà il premio Nobel nel 1921 ma all’epoca, quasi nessuno dei fisici credette a questa spiegazione che pure era una prima conferma importante della validità della nascente Meccanica Quantistica. In questo senso, Einstein non solo fornisce la corretta interpretazione dell’effetto fotoelettrico ma dà un contributo assai significativo alla validità di questa nuova teoria. Torneremo su questo aspetto e sugli sviluppi del pensiero di Einstein in questo campo. L’ultimo e certo il più celebre dei lavori del 1905 è quello che apre il vaso di Pandora sull’ultima nuvola, quella della discrepanza tra le leggi di trasformazione della meccanica classica (dette di Galileo) e quelle delle equazioni di Maxwell dell’elettromagnetismo che nel frattempo erano state dedotte da Lorentz: Zur Elektrodynamik bewegter Körper in Annalen der Physik ovvero Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento. Ricordiamo che Maxwell aveva dedotto le leggi che portano il suo nome nel 1864 (cinque anni dopo il lavoro di Darwin che rivoluzionerà le leggi della natura e cinque anni prima del lavoro con cui Mendeleev porrà su solide basi la nuova chimica) scoprendo che la predizione della sua teoria era che le onde elettromagnetiche viaggiassero proprio alla 9 velocità della luce (quasi esattamente 300.000 km al secondo) e, quindi, che la luce era a sua volta un effetto elettromagnetico. Dalle equazioni di Maxwell, discende poi che si tratta di radiazioni trasversali alla loro direzione di propagazione e il fatto che queste equazioni non obbedissero alle leggi di trasformazione ma a quelle di Lorentz fu una fonte di grande sorpresa. Fu Henry Poincaré che ribattezzò queste trasformazioni di “Lorentz” nel 1905 in onore di Hendrik Antoon Lorentz ma in realtà erano state dedotte da Joseph Larmor per la prima volta nel 1897. Molti erano stati i fisici che avevano in vari modi cercato di riconciliare o di reinterpretare queste leggi di trasformazione con qualche adattamento della o alla fisica classica. In ordine arbitrario Woldemar Voigt, George Francis FitzGerald e molti altri oltre a quelli già ricordati sopra. Il punto, però, è che, a partire dallo stesso Maxwell per arrivare, appunto, a Lorentz, tutti partivano dall’assunto che il moto della luce necessitasse di un supporto materiale che veniva chiamato “etere” con proprietà che non è esagerato chiamare strane ma la cui origine come quinto elemento (quintessenza) alcuni fanno risalire addirittura ai presocratici greci e che era comunque stata invocata da Aristotele perché, permeando tutto l’Universo, avrebbe evitato che si dovesse trovare spazio al vuoto (horror vacui). La cosa più sorprendente, però, è che già nel 1887 i due fisici americani Michelson e Morley avevano mostrato in un esperimento divenuto poi celebre che non si trovava traccia di questa sostanza malgrado, dovendo riempire tutto l’universo, questo dovesse rendersi evidente come base di un sistema inerziale assoluto. La grande intuizione di Einstein fu che, invece di cercare ragioni per cui l’esperimento non riusciva a trovare l’etere, si dovesse semplicemente procedere eliminando l’etere stesso in quanto entità non necessaria postulando che tutte le equazioni della fisica fossero le stesse in tutti i sistemi di riferimento (inerziali, per cominciare). Questo, associato al postulato ulteriore che la velocità della luce nel vuoto sia la stessa in tutti i riferimenti, permise ad Einstein nel 1905 di spazzare via l’ultima delle nubi di Lord Kelvin. Le leggi di trasformazione di Lorentz discendono dalle premesse fatte e nasce la relatività ristretta (1905) di cui la meccanica classica si otterrà come limite quando la velocità della 10 luce c viene considerata infinita rispetto alle velocità v della vita di tutti i giorni (v/c 0). Postulare che la velocità della luce (nel vuoto) sia la stessa in tutti i riferimenti è davvero un passo fondamentale. Questo significa che la velocità della luce non muta neppure se il sistema si muove, rispetto all’osservatore anche a velocità confrontabili con quella della luce stessa. Il che, ovviamente, rappresenta una differenza sostanziale rispetto alla tradizionale legge di composizione delle velocità. Nella sua autobiografia scientifica, Einstein dichiara di aver avuto a sedici anni l’intuizione della natura particolare della velocità della luce quando si rese conto che se avesse potuto mettersi a correre alla velocità della luce, questa gli sarebbe apparsa ferma contravvenendo alle leggi dell’elettromagnetismo. Come ben sappiamo, conseguenza ineluttabile di questi paradigmi è che il tempo non è più un parametro assoluto ma diventa strettamente legato alla natura dell’osservatore. Fra le tante novità apportate già dalla relatività ristretta, limitiamoci qui a ricordare come molto presto Einstein si rese conto che la massa è una misura dell’energia di un corpo. Infatti, già nel settembre del 1905, scriveva un nuovo lavoro intitolato “L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto in energia?” che per la prima volta riporta la più famosa di tutte le equazioni della fisica (1) E = m c² (ma Einstein la scrive L/V² =m dove L è l’energia e V la velocità della luce). Fermiamoci ora a fare brevemente il punto della situazione con speciale riguardo alle nuvole indicate alla fine dell’Ottocento da Lord Kelvin (e diamo pur per risolta in forma definitiva quella dell’atomismo). Come già accennato in precedenza, con la soluzione del problema dell’effetto fotoelettrico, Einstein contribuisce in maniera determinante allo sviluppo della prima teoria quantistica con cui alla fine del 1900 Planck aveva già risolto il problema dello spettro del corpo nero e che nell’arco di una ventina d’anni si tradurrà nella nascita della Meccanica Quantistica. E nel 1926, infatti, Schrödinger dimostrerà l’equivalenza della sua Meccanica Ondulatoria con la Meccanica delle Matrici di Heisenberg che verrà poco dopo interpretata e codificata da Bohr. 11 Non entriamo adesso sui problemi che questa teoria lascerà aperti e su cui ritorneremo più tardi almeno per enunciarli (non per risolverli) e qui limitiamoci a osservare che Einstein, con la sua celebre equivalenza tra frequenza ed energia per un fotone (E=h), pone una importante pietra miliare verso la nascita della teoria quantistica. Quindi, a tutti gli effetti, a spazzare via tutte le nubi che preoccupavano Lord Kelvin. Ritornando ora alla nostra retrospettiva della fisica del Novecento, già nel 1907 Einstein si rende conto che, per quanto rivoluzionaria, la relatività ristretta ha due forti limitazioni. La prima consiste nel fatto che sia limitata a sistemi di riferimento inerziali e questo non soltanto perché la stessa definizione di sistema inerziale è ambigua ma perché quasi tutti i sistemi di riferimento che possiamo immaginare sono accelerati) ma anche perché, nata nell’ambito dell’elettromagnetismo, non dice nulla sulla gravità. Ed è, appunto, del 1907 quella che Einstein stesso dice essere stata “l’idea più felice della sua vita” che porterà a quello che si chiama il “principio di equivalenza” per cui l’effetto della gravitazione viene simulato dall’accelerazione. Come racconta Einstein stesso nella sua Autobiografia (scritta nel 1954) «Stavo seduto in una poltrona nell’Ufficio Brevetti di Berna, quando all’improvviso mi ritrovai a pensare: se una persona cade liberamente, non avverte il proprio peso. Rimasi stupefatto. Questo pensiero così semplice mi colpì profondamente e ne venni sospinto verso una teoria della gravitazione». Vari tentativi di Einstein di incorporarla negli anni immediatamente successivi non ebbero successo. E nel 1912, incapace di trasformare questa idea in simboli matematici, Einstein chiede l’aiuto del suo amico Marcel Grossmann matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di Zurigo (a soli 34 anni). Grossmann non è in grado di aiutarlo ma lo indirizza verso i matematici che in quegli anni hanno sviluppato l’algoritmo che dovrebbe aiutarlo. Si tratta del calcolo differenziale assoluto sviluppato dal matematico italiano Gregorio Ricci Curbastro insieme al suo discepolo Tullio Levi Civita con cui pubblica una celebre memoria “Méthodes de calcul différentiel absolu et leurs applications” e a cui Einstein si rivolge intrattenendo un lungo contatto epistolare. Non sarà facile tradurre in formule matematiche l’idea apparentemente così semplice che un uomo in caduta libera non senta più il suo peso 12 neppure con l’aiuto di Levi Civita. E passeranno altri tre anni abbondanti di studio e delusioni prima che Einstein riesca a tradurre in una formula l’idea più felice della sua vita. Finalmente sul finire del 1915, in piena guerra mondiale, ormai trasferitosi a Berlino, e sentendo sul collo il soffio di Hilbert che sta anche lui arrivando al risultato, elabora la teoria della relatività generale formulando l’equazione (il sistema di equazioni) che descrive come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo spazio tempo. Nella sua forma che include già la cosiddetta costante cosmologica che Einstein in realtà introdurrà solo alcuni anni più tardi, l’equazione della Relatività Generale si scrive (2) Rμν - ½ R gμν + Ʌ gμν = 8π G/c4 Tμν dove: Rμν è il tensore di curvatura di Ricci (Curbastro); R la curvatura scalare, ossia la traccia del tensore di Ricci gμν è il tensore metrico Ʌ è la costante cosmologica Tμν è il tensore energia-sforzo c è la velocità della luce; G è la costante di gravitazione universale. Il tensore g descrive la metrica dello spazio-tempo ed è un tensore simmetrico 4x4, che quindi ha 10 componenti indipendenti (ma le identità di Bianchi, riducono a 6 le equazioni realmente indipendenti). Per qualificare meglio l’innovatività del pensiero di Einstein però, è opportuno spendere qualche parola in più per spiegare perché il passaggio dalle relatività ristretta a quella generale è senza dubbio la maggior componente di innovazione scientifica proposta da Einstein. In fondo, già la relatività ristretta cambia (profondamente) i paradigmi del pensiero scientifico e, come esemplificato sopra, rivoluziona tutta la fisica newtoniana ma la relatività generale va un lungo passo più in là: essa “riduce” la gravitazione ad un complesso fenomeno geometrico di curvatura dello spazio tempo che, di fatto, elimina completamente il concetto di gravitazione come forza. La massa incurva la traiettoria dei corpi che le si avvicinano (luce compresa) in modo proporzionale 13 proprio alla sua quantità e provoca effetti che vengono predetti e verificati sperimentalmente. Uno è appunto la deflessione della luce. Come sintetizza molto bene Archibald Weehler, «La materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi». Grossolanamente (ed impropriamente), molti dicono che la massa esercita un’azione di attrazione sulla luce come se fosse anch’essa massiva ma, appunto, questa è una imprecisione grossolana. La traiettoria per un corpo non soggetto a forze continua ad essere lineare ma è lo spazio che diventa curvo. A conclusione del lungo iter ricordato brevemente sopra, nel Novembre 1915, Einstein proponeva in una serie di 4 conferenze all’Accademia delle scienze prussiana e in un primo lavoro (Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie) la relatività generale come teoria che incorporava ma andava molto oltre la relatività speciale. Ma, come tutte le teorie, anche la RG doveva essere verificata sperimentalmente. In realtà, nella sua ultima conferenza all’Accademia di Prussia del novembre 1915, Einstein dava già una prima verifica della sua validità con il calcolo della precessione del perielio di Mercurio. Un antico problema che la meccanica newtoniana spiegava gran parte (5600” di arco in un secolo) della sua variazione ma con un difetto di 43” di arco. L’astronomo francese Urbain Le Verrier, che aveva previsto l’esistenza di un nuovo pianeta sconosciuto oltre Urano (poi effettivamente scoperto e chiamato Nettuno) per spiegare un’altra anomalia, nel 1859 aveva presentato una memoria all’Académie de France per ipotizzare l’esistenza di un pianeta (da lui chiamato Vulcano) interno tra Sole e Mercurio che avrebbe dato conto di tale anomalia. Pianeta mai trovato. Einstein trova un accordo perfetto e “per giorni ne restò eccitato”. Questa, inosservata al grande pubblico, fu la prima grande prova della relatività generale. La seconda, determinante, fu proprio la prova della deflessione della luce. Come osservato sopra, per la relatività generale, una stella visibile in prossimità del Sole deve apparire in una posizione leggermente più esterna, poiché la luce deve essere deviata dell'attrazione gravitazionale 14 esercitata dalla massa solare. Durante una eclissi del 1919, Eddington e collaboratori fecero numerose fotografie delle regioni situate sul bordo del sole. Le condizioni meteorologiche non erano buone e le immagini fotografiche furono di qualità scadente presentando qualche difficoltà d’interpretazione (errori dello stesso ordine di grandezza dell'effetto osservato) ma furono comunque conclamate accettabili per mostrare la validità della teoria di Einstein che divenne famoso dalla sera alla mattina. Anche se, dati i tempi, l’informazione prese alcuni mesi per passare dall’Inghilterra agli Stati Uniti e al resto d’Europa. Tutto cominciò il 6 Novembre 1919 data della Conferenza di Eddington alla Royal Society di Londra. Primo fu il London Times del 7 Novembre. Ma fu soprattutto il New York Times a fare da cassa di risonanza quando, il 10 Novembre 1919 uscì con il titolo "Lights all askew in the Heavens" (“Le luci sono tutte deviate nei cieli”) annunciando “La teoria di Einstein trionfa”. Il giornale continuava poi rassicurando i lettori che non dovevano preoccuparsi di cercare di capire la nuova teoria perché “solo dodici uomini al mondo erano in grado di capirla”. E poi, il 14 Dicembre, le cose sarebbero cominciate a cambiare anche in Germania. La prima pagina del Berliner Illustrirte Zeitung aveva la foto di un serio signore con una capigliatura nera ben pettinata e un paio di baffi folti che si teneva il mento fra le dita aperte della mano destra e che guardava davanti a sé; la didascalia era “Una nuova celebrità nella storia”. Una prova ulteriore sarà fornita dallo spostamento verso il rosso della luce (red shift) determinato dall’effetto Doppler dell’allontanamento delle galassie peraltro anch’esso molto difficile da verificare in termini quantitativi. Misurato per primo da Walter Sydney Aduams nel 1925, fu definitivamente verificato soltanto nel 1959 con l'esperimento di Pound-Rebka che misurò il minuscolo spostamento verso il rosso di due sorgenti situate in cima e alla base della torre Jefferson alla Harvard University utilizzando l’effetto Mössbauer. Il risultato era in ottimo accordo con la relatività generale. Un altro effetto rilevante è la variazione della misura del tempo con l’altezza misurata per la prima volta da ricercatori dell’Università di Torino, del Politecnico di Torino e dell’allora Istituto Nazionale Elettrotecnico Galileo Ferraris di Torino (oggi INRiM) quando il 15 compianto Sigfrido Leschiutta insieme a Luigi Briatore fece la misura con l’orologio atomico al Cesio a Plateau Rosà. Ma oggi la sensibilità degli strumenti di misura è tale che perfino limitandosi a sollevare l’orologio di qualche decimetro sopra il tavolo si verifica un ritardo misurabile. L’ultima verifica sperimentale diretta che è anche la più sensazionale, è appena stata effettuata ed annunciata nella primavera passata è la scoperta delle onde gravitazionali. Ricercate attivamente dagli anni ’70 in poi dopo l’annuncio della loro scoperta da parte di Webber et al (mai riprodotta da altri gruppi sperimentali). Una scoperta indiretta era stata quella rivendicata da Hulse e Taylor (premio Nobel nel 1993) con l’interpretazione che la diminuzione del periodo di rotazione di due pulsar ruotanti una intorno all’altra fosse dovuto ad una perdita di energia per l’emissione di onde gravitazionali ma, fino a circa un anno fa mancava la prova diretta avvenuta a cavallo del 2015-16 per merito degli strumenti costruiti ad hoc per rivelare le onde gravitazionali, LIGO e VIRGO. I rilevatori di onde gravitazionali sfruttano il fatto che queste deformano lo spazio. Vengono costruiti dei lunghi bracci (dell'ordine dei kilometri) perpendicolari tra loro, i quali al passaggio delle onde gravitazionali vengono leggermente deformati; utilizzando luce laser che va avanti e indietro lungo i bracci si può verificare se uno di essi si sia accorciato o allungato, contratto o dilatato, rispetto all'altro vedendo se questi creano interferenza tra di loro. Se i bracci restano uguali i segnali luminosi partiranno e torneranno indietro ogni volta nello stesso tempo e così facendo formeranno su un monitor una certa figura; se però uno dei bracci è leggermente più corto o lungo, il tempo di percorrenza per la luce cambierà e sul monitor si vedrà una figura di poco distorta; quantificando questa distorsione si può ricavare la differenza di lunghezza tra i due bracci. LIGO (che ha due sedi negli Stati uniti) e VIRGO sono degli interferometri di questo tipo! Il primo ha rilevato per due volte un segnale concorde con un'onda gravitazionale, il 14 Settembre 2015 e il 26 Dicembre 2015. Mi concentrerò sulla prima data, la quale vale molto probabilmente un prossimo nobel. LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) ha osservato in data 14 settembre 2015, alle 10:50:45 ora italiana, un 16 segnale transiente di onda gravitazionale. E' stupefacente la precisione con cui è stato rilevato l'evento. La differenza tra le lunghezze dei due bracci è risultata pari a un milionesimo del diametro di un protone. Bisogna qui fare qualche paragone. I solidi intorno a noi sono fatti di atomi; la grandezza di un atomo è centomila volte quella del suo nucleo, che è la parte che contiene i protoni. Immaginiamo una punta di matita al centro di una dei più grandi edifici al mondo, allora la punta di matita rappresenta il nucleo e l’edificio l'atomo. Questo però non basta, perché dobbiamo andare ad una milionesima parte della punta di matita! Immaginiamo allora il nucleo, la nostra punta di matita, espanso come un edificio dieci volte più grande del precedente e una nuova punta di matita al suo interno; la grandezza della nuova punta di matita sarà la differenza misurata! Se il paragone ha avuto successo, risulterà di enorme difficoltà rendersi capaci di comprendere come abbiano fatto a misurare variazioni di quest'ordine. Ad una conferenza tenutasi poco dopo la prima rilevazione sono stati utilizzati molti paragoni. Uno tra i migliori è il seguente: si prenda uno dei grandi laghi degli Stati Uniti e si aggiunga una goccia d'acqua; è come se fosse stato possibile misurare la variazione del livello del lago! Non c'è quindi da stupirsi che nel 1916 e per molto tempo quasi tutta la comunità scientifica ritenesse impossibile la caccia sperimentale alle onde gravitazionali. Data la piccolezza dello spostamento prodotto, vale la pena fare un confronto con l'evento che ha generato il segnale rilevato. Si tratta della collisione di due buchi neri, uno massiccio come 29 soli e uno come 36, i quali dopo una rotazione uno intorno all’altro sempre più veloce (durante la quale è avvenuta l’emissione di onde gravitazionali), si sono fusi lasciando un unico buco nero massiccio quanto 62 soli, massa che si discosta dalla somma delle precedenti per il valore di 3 soli. Dove è finita la massa? È stata interamente emessa come onde gravitazionali! Non è facile visualizzare l'entità di questa energia emessa. Per comprendere quanta sia, si pensi che solo una piccola frazione della massa delle bombe atomiche viene convertita in energia, circa l'un per mille (dunque per una bomba di 1 kg, si convertirà 1 grammo di materiale). Uno dei primi ordigni nucleari, “Little Boy”, utilizzato su Hiroshima, convertì circa 1 grammo in energia. Qui si sta invece 17 parlando di completa conversione della massa di 3 soli, dove ogni sole conta per circa un milione di volte la massa della terra, in pochi millisecondi. Un commento finale divertente sulle prove sperimentali della RG. Non essendo mai stato un esperto di relatività generale, anzi, avendola quasi "temuta" per le sue difficoltà matematiche, conservo ancora il ricordo di una conversazione con un “esperto” che, circa 50 anni fa, mi pronosticava l'impossibilità di una verifica "semplice" (nel senso più sofisticato del termine ovviamente) della RG. Qualcosa, tanto per capirci di simile all'allungamento della vita media di una particella quando si muove a velocità prossime alla velocità della luce che hanno permesso una verifica diretta della validità della relatività ristretta. Mi diceva, il mio amico esperto, che le previsioni della RG erano troppo sottili, difficili e, in fondo esoteriche perché si potessero verificare in un esperimento “semplice” (come quello che può essere, appunto, la dilatazione dei tempi della relatività speciale verificabile dall’allungamento della vita di una particella instabile relativistica). Mi chiedo cosa penserebbe oggi questo mio amico se fosse ancora vivo quando quotidianamente chiunque ha a disposizione la possibilità di effettuare un esperimento la cui validità è strettamente legata alla validità della RG. Parlo, ovviamente, della misura della posizione di un'automobile che permette il GPS (Global Positioning System) e che permette all'automobilista di avere in tempo reale dai satelliti geostazionari l'informazione che gli permette di dirigersi verso un indirizzo stradale preassegnato. Il progetto GPS è stato sviluppato nel 1973 per superare i limiti dei precedenti sistemi di navigazione, integrando idee di diversi sistemi precedenti. È stato creato e realizzato dal Dipartimento della Difesa statunitense (originariamente disponeva di 24 satelliti) ed è diventato pienamente operativo nel 1994. Senza la RG e basandosi solo sulla RS, per esempio, l'errore nella localizzazione dell'automezzo da parte del sistema di satelliti sarebbe dell'ordine di qualche chilometro invece dei pochi metri che è in realtà. Questo, perché la RS non prevede che il tempo misurato dall'orologio sui satelliti possa essere diverso da quello misurato a terra mentre la RG sì. L’osservazione di tale anticipo è una verifica della teoria di Einstein in 18 un'applicazione al mondo reale. E quindi, gli orologi a bordo dei satelliti vengono corretti per gli effetti della teoria della relatività che porta a un anticipo del tempo sui satelliti. E anche se si tratta di "ridicole" frazioni di secondo data la velocità della luce (c= 300.000 km /s) che trasmette l'informazione, l’anticipo di un orologio del satellite rispetto ad un orologio sulla terra per effetto della RG, questo si tradurrebbe in chilometri di errore (ricordiamo che 1 microsecondoluce è circa 1/3 di km!). L'effetto relativistico rilevato corrisponde a quello atteso in teoria, nei limiti di accuratezza della misura e risulta dall’effetto combinato di due fattori: la velocità relativa di spostamento rispetto a terra rallenta il tempo sul satellite di circa 7 microsecondi al giorno, ma il potenziale gravitazionale, minore sull’orbita del satellite rispetto a terra, compensa largamente questo squilibrio anzi lo rovescia perché lo accelera di 45 microsecondi. Il bilancio, quindi, è che il tempo sul satellite accelera di circa 38 microsecondi al giorno. Per correggere la differenza tra orologi a bordo e a terra, gli orologi sul satellite sono corretti per via elettronica. Senza queste correzioni, il sistema GPS genera errori di posizione dell’ordine dei chilometri su un giorno di utilizzo mentre, con le opportune correzioni il sistema realmente riesce ad arrivare al livello centimetrico. La cosa più divertente, è che, mi è stato detto (ma non son sicuro che sia vero), i generali Americani (o meglio i loro tecnici) non conoscendo la relatività generale hanno dovuto simulare e correggere con software a terra l’errore che, di fatto, non potevano correggere sui satelliti inviati in orbita senza le necessarie conoscenze di RG! Tornando brevemente alle equazioni della RG di Einstein, ricordiamo che Stephen Hawking sosteneva che la teoria contiene in sé il germe della sua autodistruzione. Ma solo nel senso che contiene in sé i presupposti per il proprio superamento a opera di una teoria più generale. Il punto è questo: la relatività generale può essere applicata all’universo intero, come fece Einstein nel 1917 formulando le cosiddette “equazioni cosmologiche” (con cui, sia detto per inciso, ha inaugurato la moderna cosmologia scientifica). Ma non ha senso pretendere invece che spieghi 19 fenomeni alle piccolissime distanze. Ebbene oggi sappiamo che da 13,7 miliardi di anni il nostro universo, rispettando la relatività generale, si espande. Creando continuamente nuovo spazio, anzi nuovo spaziotempo. Ma se riavvolgiamo il film della storia cosmica lo vedremmo contrarsi, il nostro universo, ripiegare su se stesso e concentrarsi nella “singolarità iniziale”. In un punto piccolissimo, densissimo e caldissimo dove tutti i parametri fisici sembrano voler assumere valore infinito. Ma per i fisici i parametri con valore infinito sono ingestibili e, dunque, indigeribili: un assurdo. Ecco perché, sostiene Hawking, la relatività generale contiene in sé il messaggio che occorre superare la relatività generale. In soldoni: occorre una nuova teoria, più generale, che eviti la “singolarità iniziale”; cioè che eviti l’assurdo. C’è poi la stessa autocritica di Einstein quando descrive la duplice natura della sua formula. C’è una parte dell’equazione (che Einstein definisce marmo pregiato) che descrive il campo gravitazionale: un’entità diffusa nello spazio in modo continuo. L’altra parte dell’equazione (legno scadente) è la massa, ovvero l’insieme di quelle unità discrete, le particelle, il cui comportamento viene descritto, con precisione dalla meccanica quantistica e dalle teorie quantistiche di campo a essa correlate. Einstein, con la sua spiegazione nel 1905 dell’effetto fotoelettrico e la scoperta dei “quanti di luce” (i fotoni) e della loro ambigua dualità (si comportano sia da onde che da corpuscoli), è stato uno dei padri fondatori della fisica quantistica. La teoria dei quanti è stata formalizzata nella seconda parte degli anni ‘20 del secolo scorso. Da quel momento la fisica poggia su due pilastri: la relatività generale e la meccanica quantistica. E tuttavia le due grandi teorie non risultano, a tutt’oggi, conciliabili. Torneremo brevemente su questo problema più avanti ma molti fisici teorici oggi pensano che occorre rimetterli in fase, quei due pilastri divergenti, se si vuole evitare che l’intero e maestoso edificio della fisica crolli su se stesso (come diceva amaramente Einstein pochi mesi prima di morire, nell’ultima lettera scritta all’amico di penna, l’ingegnere triestino Michele Besso). Il che significa che l’una o l’altra o entrambe le teorie (la relatività generale e la meccanica quantistica) sono incomplete e, dunque, da modificare. 20 Ebbene, per quarant’anni lo stesso Einstein si è impegnato in questo tentativo e ha cercato una teoria unitaria – una teoria unitaria di campo continuo – che trasformasse il legno scadente in marmo pregiato. Non c’è riuscito. Ma ancora oggi quello della conciliazione tra le due teorie è il più grande problema aperto della fisica. Molti (tutti?) ritengono che risolvendo il problema della compatibilità tra relatività generale e meccanica dei quanti si darebbe soddisfazione anche al problema della “singolarità iniziale” posto da Hawking (e da tanti altri). Come già detto, questa lucida analisi lo porterà a cercare per il resto della sua vita, con la stessa determinazione che lo aveva portato a spalancare la porta dell’ufficio dell’amico Marcel e a chiedere aiuto, una teoria ancora più generale della relatività generale. Una nuova teoria dello spazio e del tempo. Una teoria del tutto di campo continuo, in grado di unificare in maniera completa e organica tutte le forze note dell’universo. Non ci riuscirà. Ma la strada seguita sarà battuta da molti altri (finora sempre senza successo) e continua a sembrare quella giusta. Resta la domanda se gli sarebbe di qualche consolazione sapere che in questa ricerca, anche dopo la sua morte – sopravvenuta il 18 aprile 1955 – si sono impegnati schiere di fisici teorici, tra i più bravi e geniali. Ad oggi, l’unica fra le previsioni einsteiniane sulla RG non ancora verificata è anche la più esoterica, quella del cosiddetto “Ponte di Einstein Rosen” più noto come “buco di verme” (il termine “wormhole” è di Wheeler del 1957) proposto da Rosen nel 1935 (ma ne esistono tutta una varietà anche anteriore a partire da Ludwig Flamm nel 1916). Questo “ponte” è essenzialmente una "scorciatoia" fra due punti dell'universo, che permetterebbe di viaggiare tra essi più impiegando meno tempo di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale. Avendo dedicato così tanto tempo alle straordinarie scoperte di Einstein nel campo della relatività, non possiamo, però, non soffermarci anche su alcuni altri aspetti del suo lavoro che sono di assoluta straordinarietà. Parlo, è chiaro, di quelli che riguardano l’altra grande rivoluzione della fisica del Novecento e cioè la Meccanica Quantistica di cui Einstein fu uno dei più grandi pionieri e che sempre lo preoccupò (“Dio non gioca a 21 dadi”) ma allo stesso tempo l’affascinò e che, di fatto, contribuì quasi più di chiunque altro a lanciare. Ricordiamo che tra Ottobre e Dicembre del 1900, Planck, messo sull’avviso da suo collega sperimentale che la formula di Wien per l’irraggiamento da corpo nero si discosta dai dati sperimentali alle grandi frequenze, scopre la formula che porta il suo nome che si accorda perfettamente con i dati e segna la nascita dei “quanti” cioè del “discreto” e quindi di quella che nel 1926 verrà chiamata “Meccanica Quantistica”. Usando quello che lui considera un artificio temporaneo in cui l’energia emessa per radiazione è proporzionale per multipli interi alla frequenza stessa della radiazione, Planck arriva a proporre per la distribuzione di energia radiata (da qualunque “corpo nero”!) alla temperatura T (3) I() d = 2 h 3/c2 1/(eh/kT – 1) Il postulato alla base del successo di questi sviluppi è che emissione ed assorbimento di energia radiante da parte della materia avvenga solo per multipli interi di una quantità elementare che Planck chiama “quanto di energia” proporzionale ad una costante denotata da Planck con la lettera “h” (iniziale della parola tedesca “hilfe” cioè “aiuto”) (4) E=h Come si vede, h ha le dimensioni di una “azione” (energia per tempo). Questa ipotesi risolve tutti i problemi dello spettro del corpo nero purché ad h si attribuisca il valore -34 (5) h = 6,626 269 57(29) • 10 Joule • sec Si tratta, come è evidente, di un valore talmente piccolo da poter essere considerato nullo sulle scale di “azioni” della fisica classica di cui, infatti, si ricava la formula mettendo h=0. Ma, mentre far tendere h a zero permette di recuperare la fisica classica da quella quantistica, questo, allo stesso tempo ripropone i problemi della sua discrepanza con i dati dello spettro del corpo nero. Altrimenti detto, in questo limite la formula di Planck prima ricordata si riduce alla formula di Rayleigh Jeans che non riproduce i dati sperimentali e, quindi, NON è permesso. 22 L’escamotage di Planck (come lui lo considera), non convince però né i fisici del tempo né Planck stesso che la considera un artificio da risolvere e contro cui lotterà tutta la vita per capirlo. Ma, nel 1905, contemporaneamente al suo proporre la teoria della relatività ristretta, come già ricordato sopra, è proprio Einstein che risolve il problema della discrepanza della fisica classica con i dati dell’effetto fotoelettrico postulando che la radiazione sia costituita da corpuscoli (che nel 1926 Lewis chiamerà “fotoni”) la cui energia è data proprio dalla formula di Planck E = h ! Con il senno di poi, in questo postulato (che, detto per inciso sembra far tornare alla visione corpuscolare di Newton della luce), Einstein userà esplicitamente il fatto che il fotone, nell’interazione in cui trasmette la sua energia ad un elettrone e, se questa è sufficientemente elevata, lo strappa dal metallo (effetto fotoelettrico, appunto) assume il suo aspetto corpuscolare. Cosa che gli è permessa proprio dalla duplicità onda/corpuscolo della sua natura quantistica. Con la sua soluzione del problema dell’effetto fotoelettrico, Einstein, di fatto, ripropone la validità della nascente Meccanica Quantistica per interpretare fenomeni che sfuggono alle leggi della fisica classica. Ma lui, Einstein, ovviamente non lo sa al momento in cui propone questa soluzione. E, non per caso, sarà proprio per l’effetto fotoelettrico che nel 1921 gli verrà conferito il premio Nobel come non sarà per caso che questo avvenga 16 anni di ripensamento più tardi. Non è, in effetti, stupefacente che Einstein non abbia avuto il premio Nobel per la relatività (che, a maggior ragione per la RG sarebbe stato strameritato). I fisici, soprattutto quelli italiani ma non solo loro, mantennero a lungo un atteggiamento critico nei confronti della relatività al contrario dei matematici. Si pensi, per esempio, che la proposta di nominare Einstein membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, non fu approvata dai soci della medesima! Mentre, invece, Planck fu accolto nell’Accademia stessa (anche se solo nel 1933). Ma la Meccanica Quantistica deve ancora e di nuovo ad Einstein la spinta che le farà fare il decollo definitivo. È, infatti, il 1924 quando il poco più che trentenne Louis de Broglie propone che ad ogni particella materiale sia associata una lunghezza d’onda data dalla formula (6) = h/p 23 dove h è sempre la costante di Planck e “p” è l’impulso della particella. Si noti che la relazione di sopra segue direttamente mettendo assieme la relazione fondamentale dell’elettromagnetismo (7) c = con la formula relativistica (8) E = pc e con la stessa formula di Einstein per l’effetto fotoelettrico (4). Salvo che (1) e (4) sono proposte per fotoni (particelle di massa zero) mentre de Broglie la (6) la propone per particelle materiali. Quindi, si tratta di attribuire una lunghezza d’onda a particelle con massa! de Broglie, consapevole della carica rivoluzionaria della sua proposta la sottopone ad Einstein che entusiasta ne raccomanda la verifica. Verifica che arriva pochi anni dopo con la celebre esperienza di Davisson e Germer (1927). Ma non basta, oltre a tutte le critiche della MQ che Einstein sottoporrà nel corso degli anni e a cui Niels Bohr puntualmente risponderà, c’è ancora un terzo e forse più fondamentale punto nel quale Einstein farà una considerazione che, in tempi debiti si rivelerà fondamentale per sostenere nuovi aspetti della MQ. Sono passati molti anni da quando la MQ è stata accolta dalla fisica ed è diventata il suo futuro. Siamo nel 1935 (anno della mia nascita) e Einstein continua a considerarla una teoria insoddisfacente, incompleta e da rivedere malgrado non sia riuscito a mettere il dito su qualcosa che lo dimostri in maniera che Niels Bohr non riesca a superare. Insieme ad altri due fisici, Boris Podolsky e Nathan Rosen, Einstein fa una serie di osservazioni (che verranno recepite dalla comunità scientifica come il paradosso EPR) concludendo che la teoria o è incompleta (e avrebbe quindi bisogno di un completamento tipo variabili nascoste per renderla deterministica), oppure deve essere non locale, cioè aver bisogno di azioni a distanza per renderla coerente con sé stessa. Il modo più semplice per rendersene conto è quello che all’inizio è un gedanken experiment (esperimento ideale che però nel frattempo è diventato reale) che possiamo esemplificare nel modo seguente (dovuto a David Bohm nel 1951). Supponiamo di avere una particella instabile di spin zero che decade in due di spin ½. Per la conservazione del momento, le due particelle prodotte nel decadimento devono avere terza componente del 24 momento angolare opposta ma questo può avvenire in due modi che, all’atto del decadimento sono equiprobabili e di cui, quindi, la funzione d’onda sarà sovrapposizione con probabilità uguale. Se però, molto lontano dal decadimento, noi misuriamo lo spin di una delle due particelle prodotte e troviamo per esempio “spin su”, automaticamente sappiamo che l’altra particella prodotta deve avere “spin giù”. Questo, in effetti, è proprio quello che si verificherà sperimentalmente. Se un osservatore misura lo spin di una delle due particelle (che poteva essere con la stessa probabilità “su” o “giù”) e trova, per esempio “su”, invariabilmente si troverà che lo spin dell’altra particella sarà “giù” e, ovviamente, viceversa. La domanda che pone il cosiddetto paradosso EPR è se questo avvenga perché c’è una interazione a distanza o se ci siano delle informazioni nascoste che noi non conosciamo. La chiave per rispondere in pratica a questo quesito la fornirà, molti anni dopo, nel 1964, un fisico scozzese, John Bell che farà vedere come una teoria che abbia bisogno di variabili nascoste, richiederà che il valore di una certa diseguaglianza (nota come diseguaglianza di Bell) NON coincida con quello che prevede la MQ. E il bello è che questa diseguaglianza riguarda grandezze misurabili. Per fare breve una storia molto complessa, l’esperimento (molto delicato e difficile) effettuato per la prima volta da Alain Aspect e collaboratori e ormai ripetuto da molti, ha dimostrato al di fuori di ogni dubbio che la diseguaglianza di Bell è proprio in accordo con la MQ. Cadono, quindi, le teorie di variabili nascoste, permane la non località quantistica e nasce quello che oggi si chiama l’entanglement quantistico e cioè, di fatto l’impossibilità che in questo tipo di esperimenti la funzione d’onda sia semplice (come dire fattorizzabile). Permane, cioè una forma di non località nella MQ che la rende sostanzialmente diversa dalla fisica classica ma che non viola la relatività perché, per restare sul semplice schema sperimentale discusso sopra, per accertare che non si trasporta energia violando il principio di relatività, l’informazione che in effetti la seconda particella aveva lo spin previsto dalla misura della prima non è istantanea. Questi brevi cenni mostrano come, in effetti, il legato di Einstein si estende ben oltre il suo secolo se pensiamo che oggi la grande ricerca si rivolge al cercare di capire in che modo MQ e RG possano essere rese 25 compatibili. L’una, la MQ, presiede ai fenomeni che avvengono alle piccole distanze (il cosiddetto infinitamente piccolo) e l’altra, la RG, a quelli che avvengono alle grandi distanze (il cosiddetto infinitamente grande). La domanda è, possono le due teorie essere rese compatibili? Malgrado non sappiamo ancora come ciò avvenga, la risposta è certamente sì se siamo passati dal Big Bang da distanze infinitesime ai tempi attuali dove, dopo 13 miliardi di anni, le distanze sono dell’ordine di 1026 cm, certamente deve essere avvenuta una fase intermedia nella quale le due teorie sono coesistite. È stata l’epoca della inflazione? Prima? Dopo? Possiamo solo dire che deve esserci stata una fase nella quale sono state attive simultaneamente ma la mia attuale percezione è che esistono molti tentativi di conciliarle ma nessuno è al momento accettato da tutti. Un discorso compiuto su “Einstein in prospettiva” non può prescindere almeno dal nominare il ruolo che le sue teorie hanno avuto sul presiedere alla nascita di una intera nuova affascinante disciplina fisica: cosmologia e astrofisica sono, infatti, figliazioni dirette della RG che hanno raggiunto ormai una maturità straordinaria suscitando un interesse e una curiosità che hanno poche altre discipline. Un Universo che sembra(va) calmo e placido è così diventato tumultuoso e pieno di misteri inaspettati. Si pensi che all’inizio del Novecento si riteneva che la nostra galassia fosse l’intero Universo e si ignorava che quelle che venivano chiamate “nebulose” fossero nella stragrande maggioranza altre galassie e tali verranno riconosciute solo a Novecento avanzato. Solo dopo gli anni ’20 si riconosce che l’Universo si espande e che oggi si sa che vi sono circa 100 miliardi di galassie con ciascuna, in media, circa 100 miliardi di stelle (quindi siamo a numeri confrontabili con un numero di Avogadro di stelle per non parlare dei pianeti oggi molto di moda). Le soluzioni della RG di Einstein, hanno portato per primo Aleksander Fridman nel 1925 a proporre che il nostro Universo fosse un sistema in espansione e questo in prima battuta non piacque molto ad Einstein che per evitare questo evento introdusse (pentendosene più tardi) nelle sue equazioni la costante cosmologica. “Il più grande errore della ia vita”, dirà in seguito dopo che nel 1927 George Eduard Lemaitre per primo interpretò il red 26 shift come prova della espansione dell’Universo e questo poco dopo fu usato da Edwin Hubble (1929) per enunciare la legge di espansione delle galassie proporzionale alla loro distanza. Legge che porta il suo nome. Dopo un secolo di RG il numero delle nostre informazioni, pur cresciuto in modo smisurato, lascia ancora ampissimi spazi a nuove scoperte. Sappiamo dell’esistenza di una varietà tumultuosa e variegata di entità nello spazio, citando a caso, da giganti rosse a pulsar a stelle di neutroni, da supernove a buchi neri. Per finire (solo in ordine di tempo) con le onde gravitazionali discusse brevemente sopra. Ma sappiamo anche che la materia che noi conosciamo (e che chiamiamo luminosa) è una frazione piccolissima (un quarto scarso) della materia totale. Quella che manca, chiamata “materia oscura” è ancora di origine ignota anche se, come sempre, non mancano proposte. Infine, è della fine del secolo scorso la scoperta che non solo l’Universo si espande ma che si espande ad una velocità superiore a quella compatibile con l’attrazione gravitazionale che fa sì che debba esserci una forza ancora sconosciuta che vince l’attrazione gravitazionale e che ha portato i fisici a parlare di “quinta forza” (per la quale si è tornati alla “quintessenza” di Aristotele) o di “energia del vuoto” (peraltro già nota come effetto Casimir). Questa energia del vuoto poi, sarebbe addirittura il 75% del totale e di questa il 20% circa sarebbe materia oscura. Come dire, quella conosciuta sarebbe solo il 5% circa del totale! Insomma, diciamo pure che Einstein, in prospettiva, ha lasciato delle pesanti eredità da sviluppare e comprendere che hanno influenzato tutto il secolo anche al di là della percezione di chi l’ha vissuto in prima persona. Complessivamente, diciamolo pure, un caso piuttosto unico nella storia dell’umanità. 27