Einstein in prospettiva_Predazzi - Accademia delle Scienze di Torino

Torino 12 Gennaio 2017
EINSTEIN IN PROSPETTIVA
Enrico Predazzi
Accademia delle Scienze di Torino
In tempi nei quali una prospettiva sul passato non induce all’ottimismo
sul presente, soffermarsi su quale sia la situazione attuale di un campo
importante del sapere può essere motivo di speranza o almeno di
personale sollievo. Questo è certamente il caso di una materia oggi di
primaria importanza culturale come la fisica e proprio in un paese che
oggi non induce a speciale ottimismo come il nostro.
Oggi, però, la prospettiva che voglio discutere in questa sede non è
quella della fisica in generale (anche se ne varrebbe davvero la pena),
ma quella che a questo campo ne deriva considerando la figura di Albert
Einstein. Questo, anche perché la sua rilevanza nel panorama odierno
appare molto difficile da separare da quella della fisica in generale.
È famosa la considerazione con cui Newton guardava alla sua vita di
scienziato e ai suoi contributi dicendo che se era riuscito a vedere molto
lontano, molto era dovuto al fatto che guardava dalle spalle dei giganti
che l’avevano preceduto (anche se non son sicuro di quanto lo pensasse
davvero).
Oggi di questi giganti del passato ne abbiamo molti di più ma se uno si
volta indietro e cerca di individuarli, fra i giganti stessi ve ne sono alcuni
ancora più giganteschi. E, anche se può sembrare un esercizio sterile,
vorrei provare a farlo brevemente per la fisica.
In tempi “storici” (e cioè non volendo andare indietro ai “classici”
dell’antichità), tutto parte, a gloria imperitura del nostro paese, da
Galileo. Quindi, quattro secoli fa quando, convenzionalmente, nasce
quello che oggi si chiama il metodo scientifico e cioè nasce chi riesce a
distinguere in un fenomeno naturale quello che è davvero importante
da quello che è invece accessorio, a individuare il problema, ad
affrontarlo, a risolverlo e, soprattutto, a verificare che la soluzione sia
giusta e, possibilmente, a prevederne le conseguenze e quindi i nuovi
fenomeni che possono rientrare in questo schema. Riesce quindi, anche,
1
a rinunciare a quanto tramandato dal passato se questo risulta
inadeguato. La scienza non arriva mai a fondo corsa.
Già è molto difficile saper discriminare in un evento o in un problema
ciò che è veramente importante da quello che è accessorio (e in questo,
Einstein è stato veramente un caso unico). Saperlo poi interpretare
correttamente è, di nuovo, non un compito per tutti. Ma, capire in un
panorama ancora largamente primitivo di vere conoscenze scientifiche
che oltre a tutto è poi fondamentale verificare che questa
interpretazione sia corretta, questo è veramente porre una pietra
miliare sulla via del progresso umano. E, infine, rendersi conto che lo
strumento per tutto ciò è l’uso della matematica, ha fatto della fisica la
regina delle scienze naturali. Con una non significativa forzatura, credo
di poter dire che solo ora (o da non molto), le altre discipline scientifiche
stanno arrivando a questo traguardo cui Galileo arriva nel 1600. A me
pare quindi di poter concludere che Galileo è il primo “scienziato”
dell’età moderna e non solo il primo “fisico” della medesima e
giganteggia per questo su tutti. Non è vanto da poco poter rivendicare
alla fisica il merito di aver saputo indicare alle altre scienze come
procedere. Se poi nasceranno chimica (Lavoisier), botanica (Linneo),
biologia (Darwin) e così via, non voglio dire che sarà stato merito diretto
di Galileo ma certo indirettamente è così.
Continuando a scegliere chi giganteggia fra i giganti della fisica del
passato, certo la seconda figura (e non solo in ordine di tempo) non può
essere che quella di un altro fisico: Isac Newton che, perfezionando
l’intuizione di Galileo, non solo si dota (costruendoselo) dello strumento
matematico indispensabile (il calcolo infinitesimale) ma lo usa
magistralmente per mettere la fisica in condizione di essere studiata in
termini che permetteranno misure precise. Cosa che sarà sempre più
vera fino ai giorni nostri e che, incidentalmente, ripeto, comincia ormai
ad essere recepita anche in altre discipline scientifiche.
Ma se poi continuiamo e ci limitiamo alla fisica, la figura successiva in
ordine di tempo che emerge fra i giganti del passato è indubbiamente
quella di Einstein ed è quella su cui ritornerò fra poco e mi soffermerò
per il resto di questo breve incontro. Anche perché, a tutti gli effetti, è
quella che, in un modo o nell’altro, è all’origine di praticamente tutto
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quello che succede oggi nella fisica e voglio proprio sviluppare questo
punto come non esagerazione della realtà delle cose.
Prima di farlo, però, voglio ancora fare alcune considerazioni. La prima è
un “disclaimer”. Pretendere di individuare tre nomi in un panorama
quale è quello anche solo della fisica oggi è una pretesa che rasenta
l’assurdo. Fra i fisici del passato ve ne sono così tanti così importanti che
non me la sentirei di individuarne altri senza sentire l’acuta
consapevolezza di commettere una leggerezza se non direttamente una
plateale ingiustizia (Keplero? Avogadro? Faraday? Maxwell? Planck,
Boltzmann? Bohr? Schrödinger? Pauli? Heisenberg? Born? Fermi? …). La
seconda è che, se dovessi proprio scegliere ancora qualcuno da mettere
in prima fila, a questo punto, per ragioni di campanilismo (ma non solo)
proporrei di mettere Fermi come quarto fra cotanto senno. Non tanto e
non solo per le sue straordinarie intuizioni e realizzazioni ma anche e
forse soprattutto, sia per aver fatto (ri)nascere la fisica nel nostro paese
(dove era rimasta in una sonnolenza pluricentenaria) ponendo le
premesse per sviluppi che hanno portato oggi all’assoluta eccellenza
della scuola di fisica italiana in campo internazionale sia, infine, per aver
contribuito a farne la punta assoluta mondiale del paese in cui dovette
rifugiarsi per sfuggire al fascismo e alle persecuzioni razziali e che lo
accolse con tutti gli onori e soprattutto dandogli tutte le possibilità di
lavorare: gli Stati Uniti. Sono pochi i premi Nobel targati USA della
seconda metà del ‘900 che non debbano molto a Fermi!
Una ulteriore, curiosa ma certo non insignificante considerazione sulle
figure ricordate sopra, è che tutte, senza eccezioni, uniscono alla
straordinarietà dei loro contributi scientifici, quella di una umanità a
livello individuale non sempre proprio esemplari. Individualità molto
complesse, come certo uno si aspetta ma ognuna con difetti molto
“umani” che variano dall’avidità, all’invidia, a debolezze peraltro assai
naturali (come l’attrazione per il sesso gentile, per esempio) ma anche
indifferenza a livello personale per gli altri. E, forse, si potrebbe dire,
meno male, dopotutto, esseri umani con virtù ma anche difetti molto
comuni…
Concludendo questa breve introduzione di figure così eccezionali dal
punto di vista scientifico, non posso resistere al rovesciare un
commento di un grande chançonnier americano della seconda metà del
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Novecento (che era anche un matematico di vaglia) che si chiama Tom
Lehrer. In una canzone scritta quando non era ancora quarantenne in
occasione della morte di una signora che in vita aveva riempito di sé la
scena viennese, Alma Mahler Gropius Werfel, commentava “It’s people
like that who make you realize how little you can accomplish”. Qui il
commento è all’inverso: “It’s people like that who make you realize how
much you can accomplish”. E, infatti, Tom Lehrer concludeva, molto
appropriatamente, “It is a sobering thought, for example, that when
Mozart was my age, he had been dead for two years”.
Oggi che gli scienziati (tutti, ovviamente, non solo i fisici) sono
dell’ordine di 10 milioni in tutto il mondo, guardare ai risultati ottenuti
da questi giganti può essere da un lato deprimente per l’individuo
singolo ma molto gratificante come appartenenti al genere umano. A
titolo, poi, strettamente personale, non posso non avere una qualche
forma di sollievo se penso alla difficoltà (non più di 15 anni fa) a far
passare anche in un ambiente di persone colte, l’importanza non tanto
della ricerca in fisica ma della ricerca in generale e il senso di fastidio
che il ricorrente incitamento in questa direzione sembrava sollecitare
all’uditorio. Se confronto quelle difficoltà con l’invasione (almeno a
parole) di scienza e di fisica nel mondo moderno (dalle trasmissioni
televisive alla réclame quotidiana di volumi intitolati “Il bosone di
Higgs”, “I buchi neri”, “Le onde gravitazionali”, “La materia oscura”, al
fatto che la Direttrice Generale del CERN, Fabiola Gianotti, una donna
peraltro eccezionale, sia stata invitata a far parte della delegazione che
il precedente Presidente del Consiglio Italiano si è portata dietro alla
ultima cena ufficiale offerta in suo onore dal Presidente uscente degli
Stati Uniti e così via) non posso che pensare che molta acqua è passata
sotto i ponti e che, tutto sommato, oggi il problema della importanza
della scienza è finalmente nella consapevolezza del grande pubblico.
Semmai, uno potrebbe temere, perfino troppo! E, infatti, l’impressione
dopo la prima, superficiale, di stupore, è che molto se non tutto, si limiti
a parole.
Ma ora è davvero tempo di tornare ad occuparci di Einstein. Cosa che
farò senza badare troppo a dare formule, mostrare figure o fornire
letteratura specializzata. Questo, principalmente perché ci saranno
conferenze in Accademia che copriranno tutti questi aspetti in maniera
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puntuale e precisa. Il 19 gennaio raccomando la conferenza del
professor Nicola Vittorio che darà una panoramica molto avanzata sugli
aspetti cosmologici degli sviluppi delle teorie di Einstein e poi quella del
professor Vincenzo Barone che ne metterà invece in luce anche gli
aspetti e gli sviluppi matematici e fisici. Ma anche perché l’Accademia
delle Scienze di Torino tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 ha già
coperto in maniera molto dettagliata tutti gli sviluppi dalla relatività
speciale a quella generale, all’astrofisica e alle correlazioni anche con la
meccanica quantistica e con i problemi più scottanti della fisica del
giorno d’oggi con conferenze di molti suoi soci e non. Cito, Giovanni
Bignami, Vincenzo Barone, Leonardo Castellani, Nicola Vittorio e altri
(fra cui me stesso).
Per quanto riguarda invece eventuali volumi di consultazione e di
approfondimento, questi sono così numerosi che resta solo l’imbarazzo
della scelta. Raccomando fra tutte un recente breve ma ottimo libretto
di Vincenzo Barone “Albert Einstein il costruttore di universi” (Editori
Laterza, 2016). Credo, però, che una raccomandazione a parte
richiedono i volumi di Abraham Pais fra cui, forse di massima eccellenza
“Inward bound” Oxford University Press, 1986 che sono notevoli non
solo per l’aneddotica personale dell’autore ma forse ancora di più per la
precisione estrema con cui riporta gli avvenimenti che ne fanno davvero
una serie di volumi di storia della fisica moderna.
Ci risparmieremo gli aneddoti sulla prima parte della sua vita
limitandoci a un succinto richiamo di date: Albert Einstein nasce a Ulm
in Germania, da una famiglia della media borghesia il 14 marzo 1879, ha
una sorella, Maia, è un ottimo studente (come ci fa sapere sua madre in
una lettera) ma non proprio brillante. Soprattutto, insofferente ai lacci e
lacciuoli della scuola germanica dell’epoca e, comunque assai gratificato
dai suggerimenti di studio e dalle interazioni con uno studente di
medicina, Max Talmud che frequentava casa Einstein. Studia anche in
Italia dove il padre si trasferirà per qualche tempo, ha difficoltà a
trovare la scuola giusta per diplomarsi, cosa che poi fa d Aarau nel 1896
avendo, fra il resto, un docente, Hermann Minkovski e un compagno di
scuola Marcel Grossmann che resteranno un punto di riferimento nel
seguito. Si sposa una prima volta con una sua compagna di studi, Mileva
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Maric, con la quale avrà tre figli, Lieserl, Hans Albert e Eduard sul cui
destino non ritorneremo per carità di patria).
Vorrei, invece, soffermarmi a grandi linee sullo stato della fisica quando,
ormai laureato al Politecnico di Zurigo nel 1900, dopo qualche lavoro
come insegnante si impiega all’Ufficio brevetti di Berna dove lavora
anche il suo amico di una vita Michele Besso e nel 1905 pubblica tre
lavori che rivoluzioneranno completamente la fisica.
La fisica della fine dell’Ottocento, ha fatto grandissimi passi avanti dai
tempi di Newton in cui l’abbiamo lasciata. I contributi italiani non sono
stati da poco, la cellula elettrochimica di Luigi Galvani, la geniale
intuizione di Amedeo Avogadro del 1811 e gli importanti lavori di
Alessandro Volta precedono però un lungo sonno che sarà solo
interrotto da Marconi che nel 1895 usa per la prima volta le onde
elettromagnetiche per captare suoni a distanza e cioè inventa la radio.
Poi, però, il sonno riprenderà per interrompersi in maniera definitiva
solo dopo il 1920 con l’arrivo sulla scena mondiale di quell’Enrico Fermi
di cui sopra. Ma, con un lungo salto, vorrei solo ricordare che è proprio
la radio che si trasformerà in un mezzo adatto a ricevere anche figure in
movimento, dico la televisione, e che negli ultimi venti anni o poco più
si è trasformata in uno strumento capace di farmi parlare in tempo reale
con mia figlia a 10.000 chilometri di distanza vedendola come se fosse lì
da noi, di farmi mandare un suo filmato, di trasmetterle un documento
con figure e formule chiedendole di verificarlo lì con me, di andare a
cercare film o musica e, insomma di utilizzare quella che chiamiamo la
rete di cui, una volta di più dobbiamo dir grazie alla fisica e in
particolare al CERN di Ginevra dove il www (world wide web) è stato
inventato e regalato gratis all’umanità (nel bene e, ahimè, nel male).
Le premesse per le quali oggi possiamo accendere la televisione, lavare
in casa la biancheria che in altri tempi doveva essere portata ai lavatoi,
conservare il cibo, leggere un libro fino a tardi la notte, far fare i lavori
pesanti a macchine e, insomma vivere agiatamente come in nessuna
altra epoca prima di noi, questo lo dobbiamo in parte quasi esclusiva
alla fisica dell’Ottocento. Quando, infatti, la meccanica è stata (più o
meno), soddisfacentemente sistemata, la fisica ha affrontato e risolto il
problema irrisolto più antico, forse, dell’umanità e cioè quello della
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elettricità e del magnetismo. O, almeno, quasi altrettanto antico del
perché una pietra cade o la notte scende e le stelle appaiono. È uno
sviluppo complesso, che richiederà una buona parte del secolo ma che
nel 1864 viene risolto completamente (o quasi) da James Clerk Maxwell,
un eccezionale fisico scozzese cui la fisica deve molti altri importanti
contributi, in termodinamica, meccanica statistica, teoria del colore e
altro. Di gran lunga il più importante, però, è il suo contributo a
impostare in forma unitaria lo studio di elettricità e magnetismo che
riassume in poche formule matematiche in quello che da allora in poi
chiamiamo elettromagnetismo. Si tratta, come credo tutti sappiamo, di
una costruzione matematica assolutamente geniale e in cui l’abilità a
capire la fisica, a maneggiare la più avanzata matematica dell’epoca, a
saper riconoscere le analogie e a interpretare i dati sperimentali
inserendoli nelle intuizioni di Faraday e dei fisici che vi avevano lavorato
in tutta la prima parte del secolo si fondono e risolvono in maniera
definitiva tutti (o quasi) i problemi connessi. Ma è l’idea di fondo, quella
di unificazione delle forze fisiche che influenzerà tutto il ‘900 fino ai
giorni nostri.
L’unico neo di questa magnifica costruzione matematica è che essa è
costruita nell’ambito ancora dell’esistenza dell’etere cioè di un sistema
di riferimento assoluto e privilegiato tramandato dagli antichi e da
Aristotele in particolare. È una costruzione in cui elettromagnetismo e
gravitazione non si parlano e rappresentano due mondi separati come
del resto è ancora il caso oggi. In prospettiva, però, per ragioni che
hanno ottime ragioni storiche ma che tuttora prevalgono, ancora oggi
pochi stabiliscono una diretta connessione della relatività (che nascerà,
all’inizio del Novecento con quell’elettromagnetismo comparso 40 anni
prima. Se così non fosse, probabilmente, l’incomprensibile e incredibile
errore di annunciare la scoperta di neutrini superluminali sarebbe stata
risparmiata alla vergogna della fisica italiana pochi anni fa.
Ma la fine dell’Ottocento dopo le scoperte di fenomeni come i raggi X, la
radioattività naturale, l’elettrone, (oltre alla già ricordata scoperta
radio) vede un ottimismo sfrenato fra i fisici che pensano che non vi sia
quasi più nulla da scoprire. Non per niente siamo in pieno positivismo.
Questo porterà il grande fisico inglese William Thomson, oggi noto
come Lord Kelvin ad affermare, in una riunione della British Association
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for the Advancement of Science del 1900 che “There is nothing new to
be discovered in physics now. All that remains is more and more precise
measurements…”. Più o meno negli stessi anni il fisico americano
Millikan diceva che ormai era solo più questione di fare misure alla
sesta cifra decimale e già nel 1874, Phillip von Jolly, il mentore
all’università di Monaco di Max Planck (il futuro padre della Meccanica
Quantistica), gli consigliava di non studiare fisica perché “era un campo
in cui quasi tutto era stato scoperto e quello che restava era riempire
pochi buchi”. Eppure, oltre a mancanze ancora fondamentali come la
scoperta dell’atomo (Mach sosteneva che si trattava solo di un concetto
astratto forse utile ma non osservabile e quindi da abbandonare, cosa
che m insieme olti ritengono che, insieme ad altre sia una delle ragioni
che porteranno al suicidio di Boltzmann nel 1906 quando nel 1905
proprio Einstein ne aveva fornito una prova inoppugnabile con il primo
calcolo del numero di Avogadro) vi erano, diceva sempre Lord Kelvin,
due nubi all’orizzonte di questa fisica trionfante.
Una era la discrepanza fra le previsioni della termodinamica e statistica
e le osservazioni del corpo nero e l’altra era la inconciliabilità tra le leggi
di trasformazione delle equazioni di Maxwell e quelle (dette di Galileo)
della meccanica classica.
A ben guardare, forse Lord Kelvin avrebbe potuto aggiungere altre due
nubi, pur se apparentemente di minor portata e cioè l’incomprensibilità
del moto browniano e la discrepanza tra le previsioni classiche e le
osservazioni sperimentali del cosiddetto effetto fotoelettrico.
Anche se è stato detto che Einstein non fosse specialmente attento alla
letteratura esistente questo probabilmente non era così vero se nei tre
lavori che egli pubblica nel suo “annus mirabilis del 1905, spazza via tre
di queste quattro nubi e contribuisce anche a chiarire la quarta in
maniera importante.
Nel primo, rielaborazione in parte della sua tesi di dottorato dal titolo
"Über die von der molekularkinetischen Theorie der Bewegung von
Wärme geforderte in ruhenden suspendierten Flüssigkeiten Teilchen"
interpreta il moto disordinato delle molecole già osservato nel 1785 da
Jan Ingenhousz ma che prende il nome di "moto browniano" da Robert
Brown, che lo osservò nel 1827 mentre studiava al microscopio le
particelle di polline della Pulchella clarkia in acqua. Egli osservò che
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queste erano in continuo movimento e che in ogni istante tale moto
avveniva lungo direzioni casuali. Particolarmente rimarchevole è che la
dimostrazione di Einstein che questo moto era in accordo con la
interpretazione che fosse dovuto agli urti delle molecole del liquido con
i granuli di polline in sospensione non solo è una prova sia pure
indiretta dell’esistenza degli atomi, ma porta anche alla misurabilità del
numero di Avogadro che, di fatto, verrà proprio misurato poco dopo da
Perrin. E, ripeto, se Boltzmann se ne fosse reso conto, chi sa, magari non
si sarebbe suicidato un anno dopo (1906).
Nel secondo, Einstein spiega le discrepanze tra la interpretazione
classica e i dati sperimentali sull’effetto fotoelettrico le cui primissime
osservazioni risalgono al 1887 da parte di Hertz. L’interpretazione di
Einstein è almeno pre-quantistica se non già ormai quantistica (la prima
apparizione del termine, risale, ricordiamolo, al 1900 da parte di Planck)
in quanto egli attribuisce una energia E=h al fotone incidente che
individualmente (e non come onda) colpisce un elettrone e che, a
seconda del valore della frequenza  può o no estrarlo dal metallo
colpito dalla radiazione incidente. È proprio per l’effetto fotoelettrico
che Einstein riceverà il premio Nobel nel 1921 ma all’epoca, quasi
nessuno dei fisici credette a questa spiegazione che pure era una prima
conferma importante della validità della nascente Meccanica
Quantistica. In questo senso, Einstein non solo fornisce la corretta
interpretazione dell’effetto fotoelettrico ma dà un contributo assai
significativo alla validità di questa nuova teoria. Torneremo su questo
aspetto e sugli sviluppi del pensiero di Einstein in questo campo.
L’ultimo e certo il più celebre dei lavori del 1905 è quello che apre il
vaso di Pandora sull’ultima nuvola, quella della discrepanza tra le leggi
di trasformazione della meccanica classica (dette di Galileo) e quelle
delle equazioni di Maxwell dell’elettromagnetismo che nel frattempo
erano state dedotte da Lorentz: Zur Elektrodynamik bewegter Körper in
Annalen der Physik ovvero Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento.
Ricordiamo che Maxwell aveva dedotto le leggi che portano il suo nome
nel 1864 (cinque anni dopo il lavoro di Darwin che rivoluzionerà le leggi
della natura e cinque anni prima del lavoro con cui Mendeleev porrà su
solide basi la nuova chimica) scoprendo che la predizione della sua
teoria era che le onde elettromagnetiche viaggiassero proprio alla
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velocità della luce (quasi esattamente 300.000 km al secondo) e, quindi,
che la luce era a sua volta un effetto elettromagnetico. Dalle equazioni
di Maxwell, discende poi che si tratta di radiazioni trasversali alla loro
direzione di propagazione e il fatto che queste equazioni non
obbedissero alle leggi di trasformazione ma a quelle di Lorentz fu una
fonte di grande sorpresa. Fu Henry Poincaré che ribattezzò queste
trasformazioni di “Lorentz” nel 1905 in onore di Hendrik Antoon Lorentz
ma in realtà erano state dedotte da Joseph Larmor per la prima volta
nel 1897. Molti erano stati i fisici che avevano in vari modi cercato di
riconciliare o di reinterpretare queste leggi di trasformazione con
qualche adattamento della o alla fisica classica. In ordine arbitrario
Woldemar Voigt, George Francis FitzGerald e molti altri oltre a quelli già
ricordati sopra. Il punto, però, è che, a partire dallo stesso Maxwell per
arrivare, appunto, a Lorentz, tutti partivano dall’assunto che il moto
della luce necessitasse di un supporto materiale che veniva chiamato
“etere” con proprietà che non è esagerato chiamare strane ma la cui
origine come quinto elemento (quintessenza) alcuni fanno risalire
addirittura ai presocratici greci e che era comunque stata invocata da
Aristotele perché, permeando tutto l’Universo, avrebbe evitato che si
dovesse trovare spazio al vuoto (horror vacui). La cosa più
sorprendente, però, è che già nel 1887 i due fisici americani Michelson e
Morley avevano mostrato in un esperimento divenuto poi celebre che
non si trovava traccia di questa sostanza malgrado, dovendo riempire
tutto l’universo, questo dovesse rendersi evidente come base di un
sistema inerziale assoluto.
La grande intuizione di Einstein fu che, invece di cercare ragioni per cui
l’esperimento non riusciva a trovare l’etere, si dovesse semplicemente
procedere eliminando l’etere stesso in quanto entità non necessaria
postulando che tutte le equazioni della fisica fossero le stesse in tutti i
sistemi di riferimento (inerziali, per cominciare). Questo, associato al
postulato ulteriore che la velocità della luce nel vuoto sia la stessa in
tutti i riferimenti, permise ad Einstein nel 1905 di spazzare via l’ultima
delle nubi di Lord Kelvin. Le leggi di trasformazione di Lorentz
discendono dalle premesse fatte e nasce la relatività ristretta (1905) di
cui la meccanica classica si otterrà come limite quando la velocità della
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luce c viene considerata infinita rispetto alle velocità v della vita di tutti i
giorni (v/c 0).
Postulare che la velocità della luce (nel vuoto) sia la stessa in tutti i
riferimenti è davvero un passo fondamentale. Questo significa che la
velocità della luce non muta neppure se il sistema si muove, rispetto
all’osservatore anche a velocità confrontabili con quella della luce
stessa. Il che, ovviamente, rappresenta una differenza sostanziale
rispetto alla tradizionale legge di composizione delle velocità. Nella sua
autobiografia scientifica, Einstein dichiara di aver avuto a sedici anni
l’intuizione della natura particolare della velocità della luce quando si
rese conto che se avesse potuto mettersi a correre alla velocità della
luce, questa gli sarebbe apparsa ferma contravvenendo alle leggi
dell’elettromagnetismo. Come ben sappiamo, conseguenza ineluttabile
di questi paradigmi è che il tempo non è più un parametro assoluto ma
diventa strettamente legato alla natura dell’osservatore. Fra le tante
novità apportate già dalla relatività ristretta, limitiamoci qui a ricordare
come molto presto Einstein si rese conto che la massa è una misura
dell’energia di un corpo. Infatti, già nel settembre del 1905, scriveva un
nuovo lavoro intitolato “L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto
in energia?” che per la prima volta riporta la più famosa di tutte le
equazioni della fisica
(1)
E = m c²
(ma Einstein la scrive L/V² =m dove L è l’energia e V la velocità della
luce).
Fermiamoci ora a fare brevemente il punto della situazione con speciale
riguardo alle nuvole indicate alla fine dell’Ottocento da Lord Kelvin (e
diamo pur per risolta in forma definitiva quella dell’atomismo).
Come già accennato in precedenza, con la soluzione del problema
dell’effetto fotoelettrico, Einstein contribuisce in maniera determinante
allo sviluppo della prima teoria quantistica con cui alla fine del 1900
Planck aveva già risolto il problema dello spettro del corpo nero e che
nell’arco di una ventina d’anni si tradurrà nella nascita della Meccanica
Quantistica. E nel 1926, infatti, Schrödinger dimostrerà l’equivalenza
della sua Meccanica Ondulatoria con la Meccanica delle Matrici di
Heisenberg che verrà poco dopo interpretata e codificata da Bohr.
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Non entriamo adesso sui problemi che questa teoria lascerà aperti e su
cui ritorneremo più tardi almeno per enunciarli (non per risolverli) e qui
limitiamoci a osservare che Einstein, con la sua celebre equivalenza tra
frequenza ed energia per un fotone (E=h), pone una importante pietra
miliare verso la nascita della teoria quantistica. Quindi, a tutti gli effetti,
a spazzare via tutte le nubi che preoccupavano Lord Kelvin.
Ritornando ora alla nostra retrospettiva della fisica del Novecento, già
nel 1907 Einstein si rende conto che, per quanto rivoluzionaria, la
relatività ristretta ha due forti limitazioni. La prima consiste nel fatto
che sia limitata a sistemi di riferimento inerziali e questo non soltanto
perché la stessa definizione di sistema inerziale è ambigua ma perché
quasi tutti i sistemi di riferimento che possiamo immaginare sono
accelerati) ma anche perché, nata nell’ambito dell’elettromagnetismo,
non dice nulla sulla gravità. Ed è, appunto, del 1907 quella che Einstein
stesso dice essere stata “l’idea più felice della sua vita” che porterà a
quello che si chiama il “principio di equivalenza” per cui l’effetto della
gravitazione viene simulato dall’accelerazione. Come racconta Einstein
stesso nella sua Autobiografia (scritta nel 1954) «Stavo seduto in una
poltrona nell’Ufficio Brevetti di Berna, quando all’improvviso mi ritrovai
a pensare: se una persona cade liberamente, non avverte il proprio
peso. Rimasi stupefatto. Questo pensiero così semplice mi colpì
profondamente e ne venni sospinto verso una teoria della
gravitazione». Vari tentativi di Einstein di incorporarla negli anni
immediatamente successivi non ebbero successo. E nel 1912, incapace
di trasformare questa idea in simboli matematici, Einstein chiede l’aiuto
del suo amico Marcel Grossmann matematico da poco divenuto rettore
del Politecnico di Zurigo (a soli 34 anni). Grossmann non è in grado di
aiutarlo ma lo indirizza verso i matematici che in quegli anni hanno
sviluppato l’algoritmo che dovrebbe aiutarlo. Si tratta del calcolo
differenziale assoluto sviluppato dal matematico italiano Gregorio Ricci
Curbastro insieme al suo discepolo Tullio Levi Civita con cui pubblica una
celebre memoria “Méthodes de calcul différentiel absolu et leurs
applications” e a cui Einstein si rivolge intrattenendo un lungo contatto
epistolare.
Non sarà facile tradurre in formule matematiche l’idea apparentemente
così semplice che un uomo in caduta libera non senta più il suo peso
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neppure con l’aiuto di Levi Civita. E passeranno altri tre anni abbondanti
di studio e delusioni prima che Einstein riesca a tradurre in una formula
l’idea più felice della sua vita. Finalmente sul finire del 1915, in piena
guerra mondiale, ormai trasferitosi a Berlino, e sentendo sul collo il
soffio di Hilbert che sta anche lui arrivando al risultato, elabora la teoria
della relatività generale formulando l’equazione (il sistema di equazioni)
che descrive come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo
spazio tempo.
Nella sua forma che include già la cosiddetta costante cosmologica che
Einstein in realtà introdurrà solo alcuni anni più tardi, l’equazione della
Relatività Generale si scrive
(2)
Rμν - ½ R gμν + Ʌ gμν = 8π G/c4 Tμν
dove:
Rμν è il tensore di curvatura di Ricci (Curbastro);
R la curvatura scalare, ossia la traccia del tensore di Ricci
gμν è il tensore metrico
Ʌ è la costante cosmologica
Tμν è il tensore energia-sforzo
c è la velocità della luce;
G è la costante di gravitazione universale.
Il tensore g descrive la metrica dello spazio-tempo ed è un tensore
simmetrico 4x4, che quindi ha 10 componenti indipendenti (ma le
identità di Bianchi, riducono a 6 le equazioni realmente indipendenti).
Per qualificare meglio l’innovatività del pensiero di Einstein però, è
opportuno spendere qualche parola in più per spiegare perché il
passaggio dalle relatività ristretta a quella generale è senza dubbio la
maggior componente di innovazione scientifica proposta da Einstein.
In fondo, già la relatività ristretta cambia (profondamente) i paradigmi
del pensiero scientifico e, come esemplificato sopra, rivoluziona tutta la
fisica newtoniana ma la relatività generale va un lungo passo più in là:
essa “riduce” la gravitazione ad un complesso fenomeno geometrico di
curvatura dello spazio tempo che, di fatto, elimina completamente il
concetto di gravitazione come forza. La massa incurva la traiettoria dei
corpi che le si avvicinano (luce compresa) in modo proporzionale
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proprio alla sua quantità e provoca effetti che vengono predetti e
verificati sperimentalmente. Uno è appunto la deflessione della luce.
Come sintetizza molto bene Archibald Weehler, «La materia dice allo
spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi».
Grossolanamente (ed impropriamente), molti dicono che la massa
esercita un’azione di attrazione sulla luce come se fosse anch’essa
massiva ma, appunto, questa è una imprecisione grossolana. La
traiettoria per un corpo non soggetto a forze continua ad essere
lineare ma è lo spazio che diventa curvo.
A conclusione del lungo iter ricordato brevemente sopra, nel Novembre
1915, Einstein proponeva in una serie di 4 conferenze all’Accademia
delle scienze prussiana e in un primo lavoro (Die Grundlage der
allgemeinen Relativitätstheorie) la relatività generale come teoria che
incorporava ma andava molto oltre la relatività speciale. Ma, come
tutte le teorie, anche la RG doveva essere verificata sperimentalmente.
In realtà, nella sua ultima conferenza all’Accademia di Prussia del
novembre 1915, Einstein dava già una prima verifica della sua validità
con il calcolo della precessione del perielio di Mercurio. Un antico
problema che la meccanica newtoniana spiegava gran parte (5600” di
arco in un secolo) della sua variazione ma con un difetto di 43” di
arco. L’astronomo francese Urbain Le Verrier, che aveva previsto
l’esistenza di un nuovo pianeta sconosciuto oltre Urano (poi
effettivamente scoperto e chiamato Nettuno) per spiegare un’altra
anomalia, nel 1859 aveva presentato una memoria all’Académie de
France per ipotizzare l’esistenza di un pianeta (da lui chiamato
Vulcano) interno tra Sole e Mercurio che avrebbe dato conto di tale
anomalia. Pianeta mai trovato. Einstein trova un accordo perfetto e
“per giorni ne restò eccitato”. Questa, inosservata al grande pubblico,
fu la prima grande prova della relatività generale.
La seconda, determinante, fu proprio la prova della deflessione della
luce.
Come osservato sopra, per la relatività generale, una stella visibile in
prossimità del Sole deve apparire in una posizione leggermente più
esterna, poiché la luce deve essere deviata dell'attrazione gravitazionale
14
esercitata dalla massa solare. Durante una eclissi del 1919, Eddington e
collaboratori fecero numerose fotografie delle regioni situate sul bordo
del sole. Le condizioni meteorologiche non erano buone e le immagini
fotografiche furono di qualità scadente presentando qualche difficoltà
d’interpretazione (errori dello stesso ordine di grandezza dell'effetto
osservato) ma furono comunque conclamate accettabili per mostrare la
validità della teoria di Einstein che divenne famoso dalla sera alla
mattina. Anche se, dati i tempi, l’informazione prese alcuni mesi per
passare dall’Inghilterra agli Stati Uniti e al resto d’Europa. Tutto
cominciò il 6 Novembre 1919 data della Conferenza di Eddington alla
Royal Society di Londra. Primo fu il London Times del 7 Novembre. Ma
fu soprattutto il New York Times a fare da cassa di risonanza quando, il
10 Novembre 1919 uscì con il titolo "Lights all askew in the Heavens"
(“Le luci sono tutte deviate nei cieli”) annunciando “La teoria di Einstein
trionfa”. Il giornale continuava poi rassicurando i lettori che non
dovevano preoccuparsi di cercare di capire la nuova teoria perché “solo
dodici uomini al mondo erano in grado di capirla”. E poi, il 14 Dicembre,
le cose sarebbero cominciate a cambiare anche in Germania. La prima
pagina del Berliner Illustrirte Zeitung aveva la foto di un serio signore
con una capigliatura nera ben pettinata e un paio di baffi folti che si
teneva il mento fra le dita aperte della mano destra e che guardava
davanti a sé; la didascalia era “Una nuova celebrità nella storia”.
Una prova ulteriore sarà fornita dallo spostamento verso il rosso della
luce (red shift) determinato dall’effetto Doppler dell’allontanamento
delle galassie peraltro anch’esso molto difficile da verificare in termini
quantitativi. Misurato per primo da Walter Sydney Aduams nel 1925, fu
definitivamente verificato soltanto nel 1959 con l'esperimento di
Pound-Rebka che misurò il minuscolo spostamento verso il rosso di due
sorgenti situate in cima e alla base della torre Jefferson alla Harvard
University utilizzando l’effetto Mössbauer. Il risultato era in ottimo
accordo con la relatività generale.
Un altro effetto rilevante è la variazione della misura del tempo con
l’altezza misurata per la prima volta da ricercatori dell’Università di
Torino, del Politecnico di Torino e dell’allora Istituto Nazionale
Elettrotecnico Galileo Ferraris di Torino (oggi INRiM) quando il
15
compianto Sigfrido Leschiutta insieme a Luigi Briatore fece la misura con
l’orologio atomico al Cesio a Plateau Rosà. Ma oggi la sensibilità degli
strumenti di misura è tale che perfino limitandosi a sollevare l’orologio
di qualche decimetro sopra il tavolo si verifica un ritardo misurabile.
L’ultima verifica sperimentale diretta che è anche la più sensazionale, è
appena stata effettuata ed annunciata nella primavera passata è la
scoperta delle onde gravitazionali. Ricercate attivamente dagli anni ’70
in poi dopo l’annuncio della loro scoperta da parte di Webber et al (mai
riprodotta da altri gruppi sperimentali). Una scoperta indiretta era stata
quella rivendicata da Hulse e Taylor (premio Nobel nel 1993) con
l’interpretazione che la diminuzione del periodo di rotazione di due
pulsar ruotanti una intorno all’altra fosse dovuto ad una perdita di
energia per l’emissione di onde gravitazionali ma, fino a circa un anno fa
mancava la prova diretta avvenuta a cavallo del 2015-16 per merito
degli strumenti costruiti ad hoc per rivelare le onde gravitazionali, LIGO
e VIRGO.
I rilevatori di onde gravitazionali sfruttano il fatto che queste
deformano lo spazio. Vengono costruiti dei lunghi bracci (dell'ordine dei
kilometri) perpendicolari tra loro, i quali al passaggio delle onde
gravitazionali vengono leggermente deformati; utilizzando luce laser
che va avanti e indietro lungo i bracci si può verificare se uno di essi si
sia accorciato o allungato, contratto o dilatato, rispetto all'altro
vedendo se questi creano interferenza tra di loro. Se i bracci restano
uguali i segnali luminosi partiranno e torneranno indietro ogni volta
nello stesso tempo e così facendo formeranno su un monitor una certa
figura; se però uno dei bracci è leggermente più corto o lungo, il tempo
di percorrenza per la luce cambierà e sul monitor si vedrà una figura di
poco distorta; quantificando questa distorsione si può ricavare la
differenza di lunghezza tra i due bracci. LIGO (che ha due sedi negli Stati
uniti) e VIRGO sono degli interferometri di questo tipo! Il primo ha
rilevato per due volte un segnale concorde con un'onda gravitazionale,
il 14 Settembre 2015 e il 26 Dicembre 2015. Mi concentrerò sulla prima
data, la quale vale molto probabilmente un prossimo nobel.
LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) ha
osservato in data 14 settembre 2015, alle 10:50:45 ora italiana, un
16
segnale transiente di onda gravitazionale. E' stupefacente la precisione
con cui è stato rilevato l'evento. La differenza tra le lunghezze dei due
bracci è risultata pari a un milionesimo del diametro di un protone.
Bisogna qui fare qualche paragone. I solidi intorno a noi sono fatti di
atomi; la grandezza di un atomo è centomila volte quella del suo nucleo,
che è la parte che contiene i protoni. Immaginiamo una punta di matita
al centro di una dei più grandi edifici al mondo, allora la punta di matita
rappresenta il nucleo e l’edificio l'atomo. Questo però non basta, perché
dobbiamo andare ad una milionesima parte della punta di matita!
Immaginiamo allora il nucleo, la nostra punta di matita, espanso come
un edificio dieci volte più grande del precedente e una nuova punta di
matita al suo interno; la grandezza della nuova punta di matita sarà la
differenza misurata! Se il paragone ha avuto successo, risulterà di
enorme difficoltà rendersi capaci di comprendere come abbiano fatto a
misurare variazioni di quest'ordine. Ad una conferenza tenutasi poco
dopo la prima rilevazione sono stati utilizzati molti paragoni. Uno tra i
migliori è il seguente: si prenda uno dei grandi laghi degli Stati Uniti e si
aggiunga una goccia d'acqua; è come se fosse stato possibile misurare la
variazione del livello del lago! Non c'è quindi da stupirsi che nel 1916 e
per molto tempo quasi tutta la comunità scientifica ritenesse
impossibile la caccia sperimentale alle onde gravitazionali.
Data la piccolezza dello spostamento prodotto, vale la pena fare un
confronto con l'evento che ha generato il segnale rilevato. Si tratta della
collisione di due buchi neri, uno massiccio come 29 soli e uno come 36, i
quali dopo una rotazione uno intorno all’altro sempre più veloce
(durante la quale è avvenuta l’emissione di onde gravitazionali), si sono
fusi lasciando un unico buco nero massiccio quanto 62 soli, massa che si
discosta dalla somma delle precedenti per il valore di 3 soli. Dove è
finita la massa? È stata interamente emessa come onde gravitazionali!
Non è facile visualizzare l'entità di questa energia emessa. Per
comprendere quanta sia, si pensi che solo una piccola frazione della
massa delle bombe atomiche viene convertita in energia, circa l'un per
mille (dunque per una bomba di 1 kg, si convertirà 1 grammo di
materiale). Uno dei primi ordigni nucleari, “Little Boy”, utilizzato su
Hiroshima, convertì circa 1 grammo in energia. Qui si sta invece
17
parlando di completa conversione della massa di 3 soli, dove ogni sole
conta per circa un milione di volte la massa della terra, in pochi
millisecondi.
Un commento finale divertente sulle prove sperimentali della RG.
Non essendo mai stato un esperto di relatività generale, anzi, avendola
quasi "temuta" per le sue difficoltà matematiche, conservo ancora il
ricordo di una conversazione con un “esperto” che, circa 50 anni fa,
mi pronosticava l'impossibilità di una verifica "semplice" (nel senso
più sofisticato del termine ovviamente) della RG. Qualcosa, tanto per
capirci di simile all'allungamento della vita media di una particella
quando si muove a velocità prossime alla velocità della luce che hanno
permesso una verifica diretta della validità della relatività ristretta.
Mi diceva, il mio amico esperto, che le previsioni della RG erano
troppo sottili, difficili e, in fondo esoteriche perché si potessero
verificare in un esperimento “semplice” (come quello che può essere,
appunto, la dilatazione dei tempi della relatività speciale verificabile
dall’allungamento della vita di una particella instabile relativistica).
Mi chiedo cosa penserebbe oggi questo mio amico se fosse ancora vivo
quando quotidianamente chiunque ha a disposizione la possibilità di
effettuare un esperimento la cui validità è strettamente legata alla
validità della RG. Parlo, ovviamente, della misura della posizione di
un'automobile che permette il GPS (Global Positioning System) e che
permette all'automobilista di avere in tempo reale dai satelliti
geostazionari l'informazione che gli permette di dirigersi verso un
indirizzo stradale preassegnato.
Il progetto GPS è stato sviluppato nel 1973 per superare i limiti dei
precedenti sistemi di navigazione, integrando idee di diversi sistemi
precedenti. È stato creato e realizzato dal Dipartimento della Difesa
statunitense (originariamente disponeva di 24 satelliti) ed è diventato
pienamente operativo nel 1994.
Senza la RG e basandosi solo sulla RS, per esempio, l'errore nella
localizzazione dell'automezzo da parte del sistema di satelliti sarebbe
dell'ordine di qualche chilometro invece dei pochi metri che è in realtà.
Questo, perché la RS non prevede che il tempo misurato dall'orologio
sui satelliti possa essere diverso da quello misurato a terra mentre la RG
sì. L’osservazione di tale anticipo è una verifica della teoria di Einstein in
18
un'applicazione al mondo reale. E quindi, gli orologi a bordo dei satelliti
vengono corretti per gli effetti della teoria della relatività che porta a un
anticipo del tempo sui satelliti. E anche se si tratta di "ridicole" frazioni
di secondo data la velocità della luce (c= 300.000 km /s) che trasmette
l'informazione, l’anticipo di un orologio del satellite rispetto ad un
orologio sulla terra per effetto della RG, questo si tradurrebbe in
chilometri di errore (ricordiamo che 1 microsecondoluce è circa 1/3 di
km!).
L'effetto relativistico rilevato corrisponde a quello atteso in teoria, nei
limiti di accuratezza della misura e risulta dall’effetto combinato di due
fattori: la velocità relativa di spostamento rispetto a terra rallenta il
tempo sul satellite di circa 7 microsecondi al giorno, ma il potenziale
gravitazionale, minore sull’orbita del satellite rispetto a terra, compensa
largamente questo squilibrio anzi lo rovescia perché lo accelera di 45
microsecondi. Il bilancio, quindi, è che il tempo sul satellite accelera di
circa 38 microsecondi al giorno. Per correggere la differenza tra orologi
a bordo e a terra, gli orologi sul satellite sono corretti per via
elettronica. Senza queste correzioni, il sistema GPS genera errori di
posizione dell’ordine dei chilometri su un giorno di utilizzo mentre, con
le opportune correzioni il sistema realmente riesce ad arrivare al livello
centimetrico.
La cosa più divertente, è che, mi è stato detto (ma non son sicuro che sia
vero), i generali Americani (o meglio i loro tecnici) non conoscendo la
relatività generale hanno dovuto simulare e correggere con software a
terra l’errore che, di fatto, non potevano correggere sui satelliti inviati
in orbita senza le necessarie conoscenze di RG!
Tornando brevemente alle equazioni della RG di Einstein, ricordiamo
che Stephen Hawking sosteneva che la teoria contiene in sé il germe
della sua autodistruzione. Ma solo nel senso che contiene in sé i
presupposti per il proprio superamento a opera di una teoria più
generale.
Il punto è questo: la relatività generale può essere applicata all’universo
intero, come fece Einstein nel 1917 formulando le cosiddette “equazioni
cosmologiche” (con cui, sia detto per inciso, ha inaugurato la moderna
cosmologia scientifica). Ma non ha senso pretendere invece che spieghi
19
fenomeni alle piccolissime distanze. Ebbene oggi sappiamo che da 13,7
miliardi di anni il nostro universo, rispettando la relatività generale, si
espande. Creando continuamente nuovo spazio, anzi nuovo
spaziotempo. Ma se riavvolgiamo il film della storia cosmica lo
vedremmo contrarsi, il nostro universo, ripiegare su se stesso e
concentrarsi nella “singolarità iniziale”. In un punto piccolissimo,
densissimo e caldissimo dove tutti i parametri fisici sembrano voler
assumere valore infinito. Ma per i fisici i parametri con valore infinito
sono ingestibili e, dunque, indigeribili: un assurdo. Ecco perché, sostiene
Hawking, la relatività generale contiene in sé il messaggio che occorre
superare la relatività generale. In soldoni: occorre una nuova teoria, più
generale, che eviti la “singolarità iniziale”; cioè che eviti l’assurdo.
C’è poi la stessa autocritica di Einstein quando descrive la duplice natura
della sua formula. C’è una parte dell’equazione (che Einstein definisce
marmo pregiato) che descrive il campo gravitazionale: un’entità diffusa
nello spazio in modo continuo. L’altra parte dell’equazione (legno
scadente) è la massa, ovvero l’insieme di quelle unità discrete, le
particelle, il cui comportamento viene descritto, con precisione dalla
meccanica quantistica e dalle teorie quantistiche di campo a essa
correlate. Einstein, con la sua spiegazione nel 1905 dell’effetto
fotoelettrico e la scoperta dei “quanti di luce” (i fotoni) e della loro
ambigua dualità (si comportano sia da onde che da corpuscoli), è stato
uno dei padri fondatori della fisica quantistica. La teoria dei quanti è
stata formalizzata nella seconda parte degli anni ‘20 del secolo scorso.
Da quel momento la fisica poggia su due pilastri: la relatività generale e
la meccanica quantistica. E tuttavia le due grandi teorie non risultano, a
tutt’oggi, conciliabili.
Torneremo brevemente su questo problema più avanti ma molti fisici
teorici oggi pensano che occorre rimetterli in fase, quei due pilastri
divergenti, se si vuole evitare che l’intero e maestoso edificio della fisica
crolli su se stesso (come diceva amaramente Einstein pochi mesi prima
di morire, nell’ultima lettera scritta all’amico di penna, l’ingegnere
triestino Michele Besso). Il che significa che l’una o l’altra o entrambe le
teorie (la relatività generale e la meccanica quantistica) sono
incomplete e, dunque, da modificare.
20
Ebbene, per quarant’anni lo stesso Einstein si è impegnato in questo
tentativo e ha cercato una teoria unitaria – una teoria unitaria di campo
continuo – che trasformasse il legno scadente in marmo pregiato. Non
c’è riuscito. Ma ancora oggi quello della conciliazione tra le due teorie è
il più grande problema aperto della fisica. Molti (tutti?) ritengono che
risolvendo il problema della compatibilità tra relatività generale e
meccanica dei quanti si darebbe soddisfazione anche al problema della
“singolarità iniziale” posto da Hawking (e da tanti altri).
Come già detto, questa lucida analisi lo porterà a cercare per il resto
della sua vita, con la stessa determinazione che lo aveva portato a
spalancare la porta dell’ufficio dell’amico Marcel e a chiedere aiuto, una
teoria ancora più generale della relatività generale. Una nuova teoria
dello spazio e del tempo. Una teoria del tutto di campo continuo, in
grado di unificare in maniera completa e organica tutte le forze note
dell’universo. Non ci riuscirà. Ma la strada seguita sarà battuta da molti
altri (finora sempre senza successo) e continua a sembrare quella giusta.
Resta la domanda se gli sarebbe di qualche consolazione sapere che in
questa ricerca, anche dopo la sua morte – sopravvenuta il 18 aprile 1955
– si sono impegnati schiere di fisici teorici, tra i più bravi e geniali.
Ad oggi, l’unica fra le previsioni einsteiniane sulla RG non ancora
verificata è anche la più esoterica, quella del cosiddetto “Ponte di
Einstein Rosen” più noto come “buco di verme” (il termine “wormhole”
è di Wheeler del 1957) proposto da Rosen nel 1935 (ma ne esistono
tutta una varietà anche anteriore a partire da Ludwig Flamm nel 1916).
Questo “ponte” è essenzialmente una "scorciatoia" fra due punti
dell'universo, che permetterebbe di viaggiare tra essi più impiegando
meno tempo di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza
attraverso lo spazio normale.
Avendo dedicato così tanto tempo alle straordinarie scoperte di Einstein
nel campo della relatività, non possiamo, però, non soffermarci anche
su alcuni altri aspetti del suo lavoro che sono di assoluta straordinarietà.
Parlo, è chiaro, di quelli che riguardano l’altra grande rivoluzione della
fisica del Novecento e cioè la Meccanica Quantistica di cui Einstein fu
uno dei più grandi pionieri e che sempre lo preoccupò (“Dio non gioca a
21
dadi”) ma allo stesso tempo l’affascinò e che, di fatto, contribuì quasi
più di chiunque altro a lanciare.
Ricordiamo che tra Ottobre e Dicembre del 1900, Planck, messo
sull’avviso da suo collega sperimentale che la formula di Wien per
l’irraggiamento da corpo nero si discosta dai dati sperimentali alle
grandi frequenze, scopre la formula che porta il suo nome che si accorda
perfettamente con i dati e segna la nascita dei “quanti” cioè del
“discreto” e quindi di quella che nel 1926 verrà chiamata “Meccanica
Quantistica”. Usando quello che lui considera un artificio temporaneo in
cui l’energia emessa per radiazione è proporzionale per multipli interi
alla frequenza stessa della radiazione, Planck arriva a proporre per la
distribuzione di energia radiata (da qualunque “corpo nero”!) alla
temperatura T
(3)
I() d = 2 h 3/c2
1/(eh/kT – 1)
Il postulato alla base del successo di questi sviluppi è che emissione ed
assorbimento di energia radiante da parte della materia avvenga solo
per multipli interi di una quantità elementare che Planck chiama
“quanto di energia” proporzionale ad una costante denotata da Planck
con la lettera “h” (iniziale della parola tedesca “hilfe” cioè “aiuto”)
(4)
E=h
Come si vede, h ha le dimensioni di una “azione” (energia per tempo).
Questa ipotesi risolve tutti i problemi dello spettro del corpo nero
purché ad h si attribuisca il valore
-34
(5)
h = 6,626 269 57(29) • 10
Joule • sec
Si tratta, come è evidente, di un valore talmente piccolo da poter essere
considerato nullo sulle scale di “azioni” della fisica classica di cui, infatti,
si ricava la formula mettendo h=0. Ma, mentre far tendere h a zero
permette di recuperare la fisica classica da quella quantistica, questo,
allo stesso tempo ripropone i problemi della sua discrepanza con i dati
dello spettro del corpo nero. Altrimenti detto, in questo limite la
formula di Planck prima ricordata si riduce alla formula di Rayleigh
Jeans che non riproduce i dati sperimentali e, quindi, NON è permesso.
22
L’escamotage di Planck (come lui lo considera), non convince però né i
fisici del tempo né Planck stesso che la considera un artificio da risolvere
e contro cui lotterà tutta la vita per capirlo.
Ma, nel 1905, contemporaneamente al suo proporre la teoria della
relatività ristretta, come già ricordato sopra, è proprio Einstein che
risolve il problema della discrepanza della fisica classica con i dati
dell’effetto fotoelettrico postulando che la radiazione sia costituita da
corpuscoli (che nel 1926 Lewis chiamerà “fotoni”) la cui energia è data
proprio dalla formula di Planck E = h ! Con il senno di poi, in questo
postulato (che, detto per inciso sembra far tornare alla visione
corpuscolare di Newton della luce), Einstein userà esplicitamente il fatto
che il fotone, nell’interazione in cui trasmette la sua energia ad un
elettrone e, se questa è sufficientemente elevata, lo strappa dal metallo
(effetto fotoelettrico, appunto) assume il suo aspetto corpuscolare.
Cosa che gli è permessa proprio dalla duplicità onda/corpuscolo della
sua natura quantistica.
Con la sua soluzione del problema dell’effetto fotoelettrico, Einstein, di
fatto, ripropone la validità della nascente Meccanica Quantistica per
interpretare fenomeni che sfuggono alle leggi della fisica classica. Ma
lui, Einstein, ovviamente non lo sa al momento in cui propone questa
soluzione. E, non per caso, sarà proprio per l’effetto fotoelettrico che
nel 1921 gli verrà conferito il premio Nobel come non sarà per caso che
questo avvenga 16 anni di ripensamento più tardi. Non è, in effetti,
stupefacente che Einstein non abbia avuto il premio Nobel per la
relatività (che, a maggior ragione per la RG sarebbe stato strameritato).
I fisici, soprattutto quelli italiani ma non solo loro, mantennero a lungo
un atteggiamento critico nei confronti della relatività al contrario dei
matematici. Si pensi, per esempio, che la proposta di nominare Einstein
membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, non fu approvata dai
soci della medesima! Mentre, invece, Planck fu accolto nell’Accademia
stessa (anche se solo nel 1933).
Ma la Meccanica Quantistica deve ancora e di nuovo ad Einstein la
spinta che le farà fare il decollo definitivo. È, infatti, il 1924 quando il
poco più che trentenne Louis de Broglie propone che ad ogni particella
materiale sia associata una lunghezza d’onda data dalla formula
(6)
 = h/p
23
dove h è sempre la costante di Planck e “p” è l’impulso della particella.
Si noti che la relazione di sopra segue direttamente mettendo assieme
la relazione fondamentale dell’elettromagnetismo
(7)
c = 
con la formula relativistica
(8)
E = pc
e con la stessa formula di Einstein per l’effetto fotoelettrico (4). Salvo
che (1) e (4) sono proposte per fotoni (particelle di massa zero) mentre
de Broglie la (6) la propone per particelle materiali. Quindi, si tratta di
attribuire una lunghezza d’onda a particelle con massa! de Broglie,
consapevole della carica rivoluzionaria della sua proposta la sottopone
ad Einstein che entusiasta ne raccomanda la verifica. Verifica che arriva
pochi anni dopo con la celebre esperienza di Davisson e Germer (1927).
Ma non basta, oltre a tutte le critiche della MQ che Einstein sottoporrà
nel corso degli anni e a cui Niels Bohr puntualmente risponderà, c’è
ancora un terzo e forse più fondamentale punto nel quale Einstein farà
una considerazione che, in tempi debiti si rivelerà fondamentale per
sostenere nuovi aspetti della MQ.
Sono passati molti anni da quando la MQ è stata accolta dalla fisica ed è
diventata il suo futuro. Siamo nel 1935 (anno della mia nascita) e
Einstein continua a considerarla una teoria insoddisfacente, incompleta
e da rivedere malgrado non sia riuscito a mettere il dito su qualcosa che
lo dimostri in maniera che Niels Bohr non riesca a superare. Insieme ad
altri due fisici, Boris Podolsky e Nathan Rosen, Einstein fa una serie di
osservazioni (che verranno recepite dalla comunità scientifica come il
paradosso EPR) concludendo che la teoria o è incompleta (e avrebbe
quindi bisogno di un completamento tipo variabili nascoste per renderla
deterministica), oppure deve essere non locale, cioè aver bisogno di
azioni a distanza per renderla coerente con sé stessa. Il modo più
semplice per rendersene conto è quello che all’inizio è un gedanken
experiment (esperimento ideale che però nel frattempo è diventato
reale) che possiamo esemplificare nel modo seguente (dovuto a David
Bohm nel 1951).
Supponiamo di avere una particella instabile di spin zero che decade in
due di spin ½. Per la conservazione del momento, le due particelle
prodotte nel decadimento devono avere terza componente del
24
momento angolare opposta ma questo può avvenire in due modi che,
all’atto del decadimento sono equiprobabili e di cui, quindi, la funzione
d’onda sarà sovrapposizione con probabilità uguale. Se però, molto
lontano dal decadimento, noi misuriamo lo spin di una delle due
particelle prodotte e troviamo per esempio “spin su”, automaticamente
sappiamo che l’altra particella prodotta deve avere “spin giù”. Questo,
in effetti, è proprio quello che si verificherà sperimentalmente. Se un
osservatore misura lo spin di una delle due particelle (che poteva essere
con la stessa probabilità “su” o “giù”) e trova, per esempio “su”,
invariabilmente si troverà che lo spin dell’altra particella sarà “giù” e,
ovviamente, viceversa. La domanda che pone il cosiddetto paradosso
EPR è se questo avvenga perché c’è una interazione a distanza o se ci
siano delle informazioni nascoste che noi non conosciamo. La chiave per
rispondere in pratica a questo quesito la fornirà, molti anni dopo, nel
1964, un fisico scozzese, John Bell che farà vedere come una teoria che
abbia bisogno di variabili nascoste, richiederà che il valore di una certa
diseguaglianza (nota come diseguaglianza di Bell) NON coincida con
quello che prevede la MQ. E il bello è che questa diseguaglianza
riguarda grandezze misurabili. Per fare breve una storia molto
complessa, l’esperimento (molto delicato e difficile) effettuato per la
prima volta da Alain Aspect e collaboratori e ormai ripetuto da molti, ha
dimostrato al di fuori di ogni dubbio che la diseguaglianza di Bell è
proprio in accordo con la MQ. Cadono, quindi, le teorie di variabili
nascoste, permane la non località quantistica e nasce quello che oggi si
chiama l’entanglement quantistico e cioè, di fatto l’impossibilità che in
questo tipo di esperimenti la funzione d’onda sia semplice (come dire
fattorizzabile). Permane, cioè una forma di non località nella MQ che la
rende sostanzialmente diversa dalla fisica classica ma che non viola la
relatività perché, per restare sul semplice schema sperimentale discusso
sopra, per accertare che non si trasporta energia violando il principio di
relatività, l’informazione che in effetti la seconda particella aveva lo spin
previsto dalla misura della prima non è istantanea.
Questi brevi cenni mostrano come, in effetti, il legato di Einstein si
estende ben oltre il suo secolo se pensiamo che oggi la grande ricerca si
rivolge al cercare di capire in che modo MQ e RG possano essere rese
25
compatibili. L’una, la MQ, presiede ai fenomeni che avvengono alle
piccole distanze (il cosiddetto infinitamente piccolo) e l’altra, la RG, a
quelli che avvengono alle grandi distanze (il cosiddetto infinitamente
grande). La domanda è, possono le due teorie essere rese compatibili?
Malgrado non sappiamo ancora come ciò avvenga, la risposta è
certamente sì se siamo passati dal Big Bang da distanze infinitesime ai
tempi attuali dove, dopo 13 miliardi di anni, le distanze sono dell’ordine
di 1026 cm, certamente deve essere avvenuta una fase intermedia nella
quale le due teorie sono coesistite. È stata l’epoca della inflazione?
Prima? Dopo? Possiamo solo dire che deve esserci stata una fase nella
quale sono state attive simultaneamente ma la mia attuale percezione è
che esistono molti tentativi di conciliarle ma nessuno è al momento
accettato da tutti.
Un discorso compiuto su “Einstein in prospettiva” non può prescindere
almeno dal nominare il ruolo che le sue teorie hanno avuto sul
presiedere alla nascita di una intera nuova affascinante disciplina fisica:
cosmologia e astrofisica sono, infatti, figliazioni dirette della RG che
hanno raggiunto ormai una maturità straordinaria suscitando un
interesse e una curiosità che hanno poche altre discipline. Un Universo
che sembra(va) calmo e placido è così diventato tumultuoso e pieno di
misteri inaspettati.
Si pensi che all’inizio del Novecento si riteneva che la nostra galassia
fosse l’intero Universo e si ignorava che quelle che venivano chiamate
“nebulose” fossero nella stragrande maggioranza altre galassie e tali
verranno riconosciute solo a Novecento avanzato. Solo dopo gli anni ’20
si riconosce che l’Universo si espande e che oggi si sa che vi sono circa
100 miliardi di galassie con ciascuna, in media, circa 100 miliardi di stelle
(quindi siamo a numeri confrontabili con un numero di Avogadro di
stelle per non parlare dei pianeti oggi molto di moda). Le soluzioni della
RG di Einstein, hanno portato per primo Aleksander Fridman nel 1925 a
proporre che il nostro Universo fosse un sistema in espansione e questo
in prima battuta non piacque molto ad Einstein che per evitare questo
evento introdusse (pentendosene più tardi) nelle sue equazioni la
costante cosmologica. “Il più grande errore della ia vita”, dirà in seguito
dopo che nel 1927 George Eduard Lemaitre per primo interpretò il red
26
shift come prova della espansione dell’Universo e questo poco dopo fu
usato da Edwin Hubble (1929) per enunciare la legge di espansione delle
galassie proporzionale alla loro distanza. Legge che porta il suo nome.
Dopo un secolo di RG il numero delle nostre informazioni, pur cresciuto
in modo smisurato, lascia ancora ampissimi spazi a nuove scoperte.
Sappiamo dell’esistenza di una varietà tumultuosa e variegata di entità
nello spazio, citando a caso, da giganti rosse a pulsar a stelle di neutroni,
da supernove a buchi neri. Per finire (solo in ordine di tempo) con le
onde gravitazionali discusse brevemente sopra. Ma sappiamo anche che
la materia che noi conosciamo (e che chiamiamo luminosa) è una
frazione piccolissima (un quarto scarso) della materia totale. Quella che
manca, chiamata “materia oscura” è ancora di origine ignota anche se,
come sempre, non mancano proposte.
Infine, è della fine del secolo scorso la scoperta che non solo l’Universo
si espande ma che si espande ad una velocità superiore a quella
compatibile con l’attrazione gravitazionale che fa sì che debba esserci
una forza ancora sconosciuta che vince l’attrazione gravitazionale e che
ha portato i fisici a parlare di “quinta forza” (per la quale si è tornati alla
“quintessenza” di Aristotele) o di “energia del vuoto” (peraltro già nota
come effetto Casimir). Questa energia del vuoto poi, sarebbe addirittura
il 75% del totale e di questa il 20% circa sarebbe materia oscura. Come
dire, quella conosciuta sarebbe solo il 5% circa del totale!
Insomma, diciamo pure che Einstein, in prospettiva, ha lasciato delle
pesanti eredità da sviluppare e comprendere che hanno influenzato
tutto il secolo anche al di là della percezione di chi l’ha vissuto in prima
persona. Complessivamente, diciamolo pure, un caso piuttosto unico
nella storia dell’umanità.
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