Pericolosità e trattamento della ipoglicemia

Pericolosità dell’ipoglicemia e uso del Glucagone. La discussione su Portale Diabete del 30-­‐31 dicembre 2013, con 99 interventi più o meno accesi sulla pericolosità dell’ipoglicemia e sull’opportunità di avere il Glucagone a portata di mano mi ha tirato in ballo e, come promesso, desidero precisare la mia opinione in proposito. Su una descrizione dei sintomi, della cura e dei modi per prevenirla, il capitolo 6 “Troppo zelo: l’ipoglicemia” del manuale del 1995: “Il diabete, istruzioni per l’uso” è ancora valido (a differenza di altri capitoli tecnologici) come generosamente ha riconosciuto un partecipante alla discussione, (dopo avere gratificato di “idiozia” una frase estrapolata dal contesto L), quindi invito chi è interessato a (ri)leggerlo con attenzione (http://www.diabete.it/files/Seconda%20parte.pdf). Ferma restando l’esigenza, mia e dei coautori, di dire sempre la verità, la nostra intenzione nello scrivere quel capitolo è stata di sollecitare con forza la prevenzione dell’ipoglicemia e il suo trattamento tempestivo e aggressivo, e al contempo di evitare il panico delle persone interessate (compresi i genitori di bambini piccoli). A distanza di venti anni, su questi argomenti non ci sono state grandi scoperte scientifiche, e le differenze che si possono osservate fra opere divulgative diverse riflettono soltanto lo spirito e l’intenzione con cui sono state scritte. Parlando con un accento leggermente diverso da quello usato nel capitolo citato, posso confermare che sì l’ipoglicemia – anche lieve – può essere molto pericolosa e anche mortale, e sicuramente lo è stata chissà quante volte (molte centinaia sicuramente, anche se forse meno spesso dell’ebrezza alcolica): ma come ha ricordato una partecipante alla discussione, la sua pericolosità è legata alle circostanze in cui si verifica ed è causata soprattutto dalla perdita di concentrazione/equilibrio che l’ipoglicemia può causare (esattamente come l’ebrezza alcolica). Ricordo il racconto di una paziente che riferiva di essere arrivata in auto da sola vicino al mio ambulatorio al centro di Roma e di essersi “risvegliata” -­‐ sempre al volante -­‐ in una coda sul GRA subito dopo avere leggermente tamponato l’auto cha la precedeva: non sapeva come era arrivata fin là. E una coppia di coniugi, di cui lui con il diabete, mi riferì che la moglie si era accorta che il marito, alla guida su una strada di montagna, era in IPO perché su un tornante stava puntando verso il burrone… e di avere appena fatto in tempo a evitare l’incidente. Chissà quante altre volte incidenti mortali in auto, in moto, in bicicletta, in montagna, in mare, in parapendio, ma anche a piedi nel traffico convulso di una città… non sono stati evitati. Sicuramente molte, anche se non sono a conoscenza di statistiche precise, che personalmente considero difficilissime a farsi in modo attendibile e per giunta… inutili. Quello che conta, secondo me, è prevenire questi incidenti in modo efficace, e basti sapere che possono accadere! In base a quanto detto, è evidente che si è più esposti a rischio mentre si è in giro (specie in tutte le situazioni che richiedono equilibrio e riflessi pronti, perfino su un facile sentiero di montagna) piuttosto che nel proprio letto, dove normalmente non si rischia di farsi male (a meno che non si dorma in alto in un letto a castello, oppure ci siano spigoli o ). Spero che sia anche chiaro che chi avverte bene la prima fase dell’IPO, la cosiddetta “reazione di allarme”, essendo perfettamente lucido non corre nessun rischio, purché intervenga prontamente. I rischi iniziano nella seconda fase, quella dell’obnubilamento e della confusione, in cui può arrivare chiunque trascuri la reazione di allarme senza intervenire, ma che costituisce la prima manifestazione per quelle persone che hanno, o hanno sviluppato, una ridotta capacità di percepire l’ipoglicemia (in inglese “hypoglycemia unawareness”): queste persone sono circa il 10% di quelli che hanno il diabete e sono loro che devono prendere le precauzioni maggiori perché corrono il più grande rischio di incidenti. Sottolineo qui che le stesse precauzioni devono essere prese da tutti coloro i quali non sanno ancora come avvertono l’ipoglicemia (loro stessi o il loro bambino piccolo): finché non sono certi della presenza dei sintomi della reazione di allarme, devono essere particolarmente cauti. E veniamo ai danni che l’IPO grave in sé può provocare al cervello. La mancanza del carburante principale delle cellule cerebrali, se abbastanza grave e duratura, può provocare sintomi impressionanti, indimenticabili per i familiari che hanno la sventura di assistervi: si va dalla semplice perdita di conoscenza, alle convulsioni, talvolta con bava alla bocca o con la morsicatura della lingua, fino all’opistotono. È indubbiamente una situazione drammatica di emergenza, che è certo meglio evitare. Ma bisogna sapere che se si riesce a far risalire la glicemia (il modo più rapido ed efficace è una soluzione glucosata endovena) i sintomi gravi e impressionanti cui si è assistito spariscono all’istante. Il problema della soluzione glucosata endovena, può essere… prendere la vena, in una persona incosciente che si sta contorcendo con una forza apparentemente decuplicata. Il personale del 118 è molto preparato e normalmente in due sono in grado di farcela, ma in un ambiente domestico, anche se c’è un operatore sanitario a disposizione, può essere un’impresa impossibile. Ecco allora che viene in soccorso il Glucagone, un po’ più lento e non sempre così efficace come il glucosio endovena, ma certo più facile da somministrare da parte di chiunque si sia minimamente addestrato. Infatti può essere praticato indifferentemente sottocute, intramuscolo o (meglio ancora) endovena: quindi, anche nell’emozione dell’emergenza, può essere “sparato” come e dove capita, avendo solo l’attenzione di tenere ferma per un istante la parte da iniettare, per evitare che una brusca contrazione faccia piegare/spezzare l’ago. Tornando ai danni del cervello, è evidente che la mancanza di carburante provoca un malfunzionamento delle cellule cerebrali, in particolare della corteccia e dei centri superiori. Ma si può parlare di danni permanenti? L’esperienza mia e dei miei colleghi ci porta a dire, credo all’unanimità, che non sono mai stati dimostrati danni cerebrali permanenti dopo un episodio di coma ipoglicemico. Naturalmente, in base al principio che in biologia il 100% non esiste, non posso escludere che un episodio particolarmente grave e prolungato abbia lasciato un danno misurabile, specie grazie ai mezzi molto sensibili a disposizione negli ultimi anni. In proposito ricordo una paziente conosciuta molti anni fa, giunta nel nostro ambulatorio da una città della provincia: la sfortunata signora aveva una storia di coma (!) ipoglicemico notturno tutte le notti da molti mesi. Succedeva poi che al mattino la glicemia era alta per il ben noto fenomeno del “rimbalzo” (descritto per la prima volta da M. Somogy) dovuto alla risposta degli ormoni contro-­‐insulari alla grave ipoglicemia. Il medico che la seguiva, vedendo la glicemia alta al mattino, le aumentava la dose di insulina intermedia serale, perpetuando il meccanismo infernale che la portava in coma ogni notte. A parte il fatto ovvio che risolvemmo il problema riducendo drasticamente la dose di insulina serale, posso riferire che la signora aveva un eloquio alquanto rallentato e noi – non conoscendola da prima – ci limitammo a ipotizzare che forse qualche migliaio (o milione) di neuroni in più persi ogni notte si cominciavano a percepire. Ho riferito questo caso veramente limite per illustrare il concetto che un singolo coma ipoglicemico non lascia danni, quindi non è giustificato vivere nel panico al pensiero che possa accadere, e anche numerosi episodi non lasciano conseguenze… ma decine e decine di episodi di coma non sono certo auspicabili. Inoltre un coma grave con convulsioni può avere conseguenze irreversibili e anche mortali, dovute non tanto all’ipoglicemia in sé quanto a un evento associato. Uno dei partecipanti alla discussione cita una possibile aritmia che può essere scatenata dall’enorme stress del coma ipoglicemico, e sulla stessa linea si può ipotizzare una rottura di preesistente aneurisma o un infarto o un ictus in una persona predisposta. Nella mia esperienza sono venuto a conoscenza di un solo caso di demenza totale in una ragazza di Torino che durante un coma IPO con convulsioni aveva avuto un soffocamento da retroversione della lingua, ed era rimasta priva di ossigeno per un tempo sufficientemente lungo da provocare un danno corticale permanente, ma non – in quel caso – la morte. Quindi il danno permanente che l’ipoglicemia da sola non sembra poter indurre (come se la mancanza di carburante alterasse il funzionamento dei neuroni in modo anche grave ma reversibile), è realizzabile dalla mancanza di ossigeno che riesce inesorabilmente a uccidere qualsiasi cellula. A una domanda “accademica” se non si possa uccidere qualcuno con una dose “stratosferica” di insulina, come si legge credo nei libri gialli, rispondo che non lo so e non mi interessa (ma non è l’arma che sceglierei per essere sicuro del risultato!). Come in fondo trovo poco interessante il quesito se l’ipoglicemia in sé possa essere mortale: può esserlo in talmente tanti modi indiretti, sia attraverso altre patologie preesistenti, sia soprattutto in relazione alle circostanze in cui avviene, che trovo superfluo esaminare l’improbabile evento (mai descritto a mia conoscenza) che i neuroni che regolano le funzioni vitali smettano di funzionare per effetto di un’IPO. Veniamo al Glucagone. Ho già accennato a come può essere risolutivo per risolvere una grave ipoglicemia con riduzione o annullamento dello stato di coscienza. Trovo quindi importante che sia sempre a disposizione di chi ha il diabete, specialmente se tende a non avvertire bene le ipoglicemie. E’ molto importante che sia disponibile nelle scuole e in tutti i luoghi dove può essere necessario soccorrere una persona in coma IPO. Ricordo che il Glucagone è un farmaco innocuo e può essere iniettato in qualsiasi modo, da chiunque. L’unico limite alla sua efficacia è dovuto al fatto che non fa risalire la glicemia direttamente, ma stimola il fegato a produrre glucosio: nella norma quindi non può essere iniettato ripetutamente, se non due volte: alla terza iniezione consecutiva è normale che non funzioni più perché le riserve di glicogeno del fegato sono state quasi esaurite. Analogamente potrà non funzionare in presenza di una grave malattia epatica o (teoricamente) in seguito a stress grave e prolungato, che potrebbe già avere intaccato le riserve epatiche di glicogeno. Appena ripreso lo stato di coscienza, comunque, sarà bene far ingerire (anche con forte insistenza!) alla persona interessata qualche alimento contenente zuccheri a rapido assorbimento e in seguito anche cibi misti contenenti zuccheri a lento assorbimento. In conclusione, come possono andare a dormire tranquilli i genitori di un bambino con diabete? Credo che la tranquillità possa essere il punto di arrivo di un attento studio di come l’ipoglicemia si presenta di giorno (di notte tende a presentarsi nello stesso modo), della glicemia al momento di andare a letto, di qualche occasionale profilo notturno (tanto più frequente quanto più l’andamento è instabile), di una copertura insulinica notturna prudente, e di riduzioni prudenziali delle dosi di insulina di base in occasione di aumenti dell’attività fisica diurna. Appendice: Il dilemma del diabetologo. Tutti noi siamo diversi gli uni dagli altri, anche per il particolare modo che ciascuno ha di porsi di fronte al pericolo. C’è chi in aereo non vola neppure (o stringe per tutto il volo il braccio del vicino) e chi continua la sua lettura e non guarda nemmeno le gentili hostess che mimano le operazioni da effettuare per salvarsi in caso emergenza. Anche riguardo alla malattia e alle sue conseguenze, c’è chi le ignora bellamente (o finge di ignorarle), e chi si terrorizza talmente da paralizzarsi, arrivando paradossalmente a comportamenti ugualmente trascurati nei confronti delle cure quotidiane. In una malattia complessa come il diabete, dove non si parla che di “equilibri” anche chi si impegna molto, a volte, non ottiene i risultati sperati ed è soggetto a forti frustrazioni, sia per l’impegno profuso invano, sia – a volte – per l’incredulità di operatori sanitari poco umani. Ma il diabete è una malattia seria: se ben curato si riduce a una condizione di vita che non preclude nessun tipo di realizzazione, mentre ignorarlo, fingere di non averlo, ovvero farsene un'ossessione, sono atteggiamenti "a rischio": prima o poi se ne possono pagare le conseguenze. Il dilemma del diabetologo è spesso quello di quale pedale premere di più: il freno della tranquillizzazione e della eliminazione di paure e terrori vari (spesso controproducenti), o l’acceleratore di una maggiore attenzione ai vari aspetti della cura e dei controlli che la persona mostra di accettare malvolentieri. Per un diabetologo che ha un minimo di sensibilità, parlare con un paziente, o anche con un piccolo gruppo che ci sta di fronte, è facile e si capisce subito su quale pedale premere maggiormente. Ma di fronte a un vasto pubblico che non si vede in faccia, come i lettori di un libro o di un post, il problema è delicato per un diabetologo responsabile. Primum non nocere… La mia esperienza insegna che il terrore fa solo danni, e che per iniziare a costruire (insieme) buona cura e buoni risultati bisogna partire sereni.