GLI ULTIMI PRESOCRATICI: INTRODUZIONE AI SOFISTI

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Prof. Monti – a.s. 2016/2017 – Filosofia III – I Sofisti: Protagora e Gorgia
GLI ULTIMI PRESOCRATICI:
INTRODUZIONE AI SOFISTI
1.1 Una novità radicale!
Abbiamo visto che numerosi filosofi presocratici, nel tentativo di spiegare il mondo
attraverso l’arché, il principio, conducono una sorta di battaglia contro la
testimonianza dei sensi in nome della verità razionale, quella verità che solo il
pensiero può cogliere.
Si comincia a distinguere fra “sensi” ed “intelletto”, attribuendo ai primi una
conoscenza mutevole, incerta e relativa, e al secondo una conoscenza certa,
scientifica.
I presocratici, tuttavia, data la loro non ancora completa capacità di astrazione
non riescono mai a distaccarsi del tutto da quel naturalismo di base che li spingeva,
in fondo, a descrivere anche le capacità della mente come simili a quelle dei
sensi.
Anche l’intelletto è “materiale” e, in quanto tale, incapace di sottrarsi del tutto alle
critiche portate alla conoscenza sensibile.
Ecco che una nuova generazione di filosofi non si occupa più di criticare questa o
quella teoria dei presocratici per poi proporre un’altra teoria, riveduta e corretta, ma di
fatto pare voler abbandonare in blocco il tipo di speculazione fino a quel
momento condotta.
Perché questo accadde? Sostanzialmente per due ragioni:
1) si cominciò a pensare che le forze dell’uomo siano insufficienti per giungere a conoscere i
segreti della natura;
2) si ritenne anche che vi siano problemi ben più importanti da affrontare rispetto a quelli posti
dalla natura.
Questo nuovo gruppo di filosofi sono stati chiamati "sofisti" e furono attivi ad
Atene (e anche in altre città) dalla metà del V secolo fino ai primi decenni del
secolo successivo. Non costituirono una vera e propria scuola e, se per certi versi
sono accomunabili fra loro, assolutamente da rimarcare sono le notevoli differenze.
I sofisti proposero, nella città di Atene, una figura di sapiente assolutamente
nuova.
Essi, infatti, intendevano la propria sapienza come qualcosa di insegnabile cioè come un sapere di tipo tecnico - e da cui trarre guadagno.
Già questo consente di capire il perché nessuno di loro fosse ateniese: nessun
cittadino di buoni sentimenti, infatti, e tantomeno un filosofo, avrebbe mai concepito
la sapienza come qualcosa che si potesse insegnare - il sapiente diventa tale per
virtù propria e non grazie all'insegnamento di qualcuno, come se si trattasse di
apprendere una tecnica artigianale! - e tantomeno insegnare in cambio di denaro!
Dovrebbe, a questo punto, essere facile capire come questa caratteristica dei sofisti
avrà come effetto quello di una forte svalutazione delle loro teorie da parte sia dei
contemporanei che dei pensatori dei secoli successivi.
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1.2 Chi erano i sofisti?
I sofisti erano girovaghi senza fissa dimora e il loro insegnamento non era
legato a particolari tradizioni cittadine, ma si configurava come maggiormente
cosmopolita.
Il loro insegnamento, poi, aveva una immediata utilità pratica. Esso, infatti,
consisteva principalmente nell’esercizio della politica, ovvero nel far acquisire alle
persone un metodo efficace a garantirsi il successo sociale.
I sofisti si disinteressavano sia della Verità in quanto tale, sia dell’uso che i
loro discepoli facevano delle conoscenze acquisite. I Sofisti, inoltre, facevano
pubblicità di se stessi, organizzando pubbliche riunioni dove davano dimostrazione
della propria abilità oratoria.
I Sofisti, insomma, si distaccarono in modo nettissimo dalla figura più tradizionale del
sapiente: quella dell’uomo che, ispirato dalla ricerca della Verità, agisce per interesse
della patria o per la difesa di principi e di ideali comuni. La loro visione
dell'intellettuale è, se volete, meno nobile (o, forse, meno astratta!) rispetto a quella
in voga prima di loro.
Comunque sia, il sofista non è e non si presenta come un sophós ("saggio"), ma
come un sophistés ("sofista", appunto).
Il termine “sofista” è in effetti il superlativo di saggio - un po' come dire
"saggissimo" o "sapientissimo" - a voler indicare il possesso di abilità eccezionali.
A poco a poco il termine acquisì un’accezione dispregiativa, accezione che si
conserva anche oggi.
Il “sofista” è, nell’immaginario collettivo, chi fa uso di ragionamenti capziosi e
inutilmente complessi al solo scopo di avere la meglio in una discussione, nel
più totale disinteresse ne confronti della verità.
Quasi tutti i pensatori e gli autori del V e del IV secolo ac accesero una serrata
polemica contro queste figure. Non solo i grandi filosofi Socrate, Platone e
Aristotele, ma anche il commediografo Aristofane, lo storico e scrittore Senofonte, il
retore Isocrate...
In generale, le critiche contro i sofisti sono di due tipi: eccessiva
spregiuticatezza morale (essi, infatti, demolivano principi e credenze tradizionali) e
scarsa serietà scientifica (loro scopo non sarebbe quello di scoprire la Verità, ma
semplicemente quello di avere la meglio sugli altri, di avere successo).
Noi non possediamo le opere dei sofisti (cosa determinata, come è evidente,
anche dalla loro demonizzazione e cattiva fama), ma solo frammenti e
testimonianze. Per di più, le testimonianze ci giungono da chi più degli altri criticava
il loro atteggiamento!
Una seconda ragione che giustifica il discredito dei sofisti è il fatto che, durante i
cento anni del loro operato, si distinguono due generazioni di sofisti.
La prima fu costituita da personaggi di notevole valore intellettuale e, in generale,
rispettati; la seconda però, quella contemporanea a Socrate e al giovane Platone,
effettivamente si segnalò per la capziosità dei ragionamenti e per l’eccessiva
spregiudicatezza.
Al di là di tutti i tradizionali giudizi negativi, giudizi che oggi non sono più condivisi, i
sofisti furono i primi (anticipando Socrate) a spostare il centro dell’indagine
filosofica dalla speculazione sulla natura, la physìs, ed i suoi principi, ai
problemi relativi all’uomo e alla sua vita.
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Sono loro che elaborano le (quasi) prime riflessioni sull’uomo, sul suo ruolo e sul suo
agire, sottraendolo ai miti e alla poesia.
1.3 Un contesto favorevole
Come mai la sofistica si è sviluppata? Cosa favorì la sua nascita?
Bisogna ricordare che l’Atene del V secolo era una città nella quale le istituzioni
democratiche stavano prendendo sempre più piede, andando a completare un
processo che era già iniziato, con Solone, nel VI secolo.
Si giungerà, come sapete, addirittura all’elezione a cariche pubbliche non
specialistiche per puro sorteggio, e a prevedere una retribuzione per chi si
occupava della cosa pubblica, in modo da non escludere i meno abbienti da
questa possibilità.
È evidente che, in questa situazione, non la sola nobiltà di nascita dava la possibilità
di mettere a frutto le proprie capacità. C’era, in questa società più aperta e
democratica, un nuovo individualismo e i sofisti, con la loro proposta di
insegnamento, rispondevano proprio alle esigenze di chi desiderava emergere!
Le qualità personali non erano più qualcosa che solo l'appartenenza a una
importante famiglia consentiva di mettere a frutto, né un dono speciale concesso
dalle divinità, ma qualcosa che "tutti" potevano sviluppare e, in parte, apprendere.
Ciò che assume un’importanza fondamentale è l’istruzione, l’educazione: la
paidéia. Con una opportuna educazione, infatti, qualunque cittadino sarebbe potuto
diventare in una città come Atene uno stimato uomo politico!
L’educazione non nasce certamente in questo momento: sappiamo bene, infatti,
come alla sua base ci fossero tradizionalmente i poemi di Omero e di Esiodo.
L’insegnamento, l’educazione impartita dai sofisti era però radicalmente
diversa. Essi non si curavano di trasmettere valori e verità universali, ma volevano
insegnare delle “virtù” da intendersi come tecniche particolari di pratica utilità.
Non insegnavano, insomma, una dottrina più o meno teorica, ma dei metodi per fare
qualcosa.
In particolare, la “virtù” di cui i sofisti parlavano è l’arte della politica. Essi, cioè,
non insegnavano abilità di tipo pratico-attuativo, artigianale, manuale, ma volevano
insegnare l’arte tipica del cittadino, ovvero quella di sapersi distinguere e imporre
nelle assemblee pubbliche.
La tradizionale visione della virtù – l’areté – viene qui stravolta. Come abbiamo
già detto, la virtù non è dono di nascita né ha una connotazione di tipo etico-morale,
ma si configura come una capacità, qualcosa che si sa fare e che si può utilizzare
nelle circostanze più diverse.
Davvero “virtuoso”, per i sofisti, è colui che, grazie all’uso della parola,
dell’oratoria, riesce a far prevalere il proprio parere su quello degli altri.
Tale parere è il “più giusto” e il “più vero”? Questo non è, a loro avviso,
importante!
Non è di questo che i sofisti si occupano! La società greca delle poleìs è una società
della parola, come ben sapete, ed è proprio delle parole che i sofisti si occupano.
Sullo scorcio del V secolo le tecniche, tanto l’artigianato quanto le attività di
carattere tecnico-scientifico, come la medicina, stavano attraversando un
grande momento di sviluppo. Si capisce come i “tecnici” siano significativamente
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diversi da quella che è la figura tradizionale del sapiente e anche da quella del
filosofo.
Il technìtes dimostra facilmente cosa sa fare, egli certamente sa fare qualcosa,
ed è un qualcosa che produce risultati concreti e visibili, immediatamente utili
alla società.
Le tecniche, portatrici di una verità sicura seppure limitata, si contrappongono
così alla speculazione filsoofica precedente che era giunta a conclusioni non
verificabili, né concretamente utilizzabili.
La filosofia cerca, innanzitutto con i Sofisti, di carpire questa caratteristica alle
tecniche. L’insegnamento dei sofisti ha proprio le caratteristiche di una
tecnica, è una tecnica, e in quanto tale non più passibile di quella trasmissione
oracolistica cui poteva essere soggetto, ad esempio, un allievo di Empedocle.
I sofisti valorizzano anche la divulgazione, proprio perché questa non sminuisce il
contenuto dell’insegnamento. Pensiamo a quanto fosse diverso, per esempio,
l’atteggiamento della setta pitagorica!
Lo sviluppo della sofistica è connesso, come abbiamo detto in apertura, anche
alle difficoltà della speculazione presocratica. In particolare, la difficoltà di questi
primi filosofi a distinguere fra la realtà in quanto tale, il pensiero che la riguarda ed il
linguaggio usato per esprimerla. I sofisti sembrano prendere maggior coscienza delle
questioni relative ai rapporti fra queste diverse dimensioni.
I maggiori sofisti, infatti, sembrano intuire l’illusorietà di un unico principio riferibile
alle cose, al pensiero e al linguaggio.
Il pensiero e la parola insomma, non sono affatto identificabili con la realtà, ma
hanno una propria autonomia.
Riassumendo schematicamente quanto detto sino ad ora:
I Sofisti
non della natura (fisica), ma dell'uomo
si occupano
I Sofisti
una nuova visione della sapienza
elaborano
(tecnica e non virtù innata, insegnabile, pagamento)
distinguono
("essere e pensare sono il medesimo", diceva invece Parmenide)
I Sofisti
su piani diversi realtà, pensiero, linguaggio
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PROTAGORA DA ABDERA
490-480 AC - ?
2.1 Assoluto relativismo o Umanesimo?
Nato ad Abdera, la città natale di Democrito, fu uno dei sofisti di maggior fama.
Trascorse lunghi periodi ad Atene dove esercitò con successo la didattica. Pericle
gli affidò l’incarico di redigere le leggi per la colonia ateniese di Turii. La stima
che Protagora seppe conquistarsi, però, venne meno con il regime oligarchico dei
Quattrocento. Fonti narrano che nel 411 ac dovette subire, come già accadde ad
Anassagora, un processo per empietà e che si salvò dalla morte solo grazie alla
fuga.
Diogene Laerzio gli attribuisce molte opere: le più famose sono certamente il
trattato La verità e una raccolta di Antilogie, ovvero di coppie di discorsi
contrapposti. Delle sue opere restano solo pochi frammenti originali, ma numerose
sono le parafrasi.
- Fra le affermazioni attribuite a Protagora la seguente è certo la più famosa.
Citiamola per intero e poi diamone due diverse interpretazioni:
" Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono per ciò che
sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono. "
- interpretazione 1 Protagora parrebbe qui negare l’esistenza di una verità oggettiva ed affermare,
al contrario, che ogni uomo, soggettivamente, si crea la propria verità. A confermare
questa interpretazione possiamo citare un altro importante frammento protagoreo:
" Intorno a ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti. "
Poiché non vi è alcuna verità assoluta, è evidente che non esisterà neppure un
discorso univoco sulla realtà, nessuna parola o pensiero che possono, infatti,
riprodurre una verità che, di fatto, non esiste. È legittimo, non esistendo una netta
distinzione fra vero e falso, sostenere tutto e il contrario di tutto.
Accettando questa interpretazione di Protagora si giunge a una conclusione di
assoluto relativismo. “Ogni cosa è bella o brutta, giusta o sbagliata a seconda di
come pare a ciascuno”, criticherà aspramente Aristotele.
- interpretazione 2 L’affermazione di Protagora si può, però, interpretare in maniera diversa, meno
estrema. Egli con il termine “uomo” potrebbe intendere non il singolo
individuo, ma la specie umana nel suo complesso. In questo caso, la sua
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affermazione parrebbe indicare la non esistenza di verità diverse da quelle cui l’uomo
può giungere. Si potrebbe parlare, accettando questa seconda interpretazione, non
di relativismo, ma di umanesimo.
Non abbiamo a disposizione alcuna prova a favore di questa interpretazione, tuttavia
la forte critica di Aristotele potrebbe essere eccessiva.
Protagora non intendeva in alcun modo sostenere tesi assurde, come che una cosa
è e non è al medesimo tempo, violando il principio di non contraddizione, ma puntava
a sostenere le ragioni di una forma di individualismo: visto che le percezioni, le
sensazioni, ma anche i pensieri, sono sempre individuali (e, proprio per questo,
dipendono dalle condizioni in cui ciascuno si trova), com’è possibile giungere ad una
qualche verità che non tenga in alcun conto delle condizioni soggettive di chi la
pronuncia?
2.2 Dalla verità all'utilità
Fin dai tempi di Platone, il relativismo protagoreo era spesso associato
all’eraclitismo che pone la sua maggiore attenzione sul continuo divenire della
realtà. In effetti, se tutto continuamente cambia come si può affermare qualcosa di
certo e duraturo? Sempre diversi saranno gli organi di senso e sempre diverse le
cose percepite. Protagora viene anche accostato a Democrito: la conoscenza
sarebbe solo soggettiva perché risultato secondario dell’interazione tra oggetto
percepito e soggetto che percepisce. La conoscenza accade nell’uomo: è dunque
l’uomo e solo l’uomo lo strumento di misura della verità.
Se dal punto di vista della verità e falsità tutte le opinioni sono uguali, dato che
non si danno una verità e una falsità assolute, questo non significa affatto che
tutte le opinioni si equivalgano! Ce ne saranno, infatti, di migliori e di peggiori.
Facciamo un esempio: se al malato una cosa pare amara e al sano dolce, non ha
senso dire che il primo ha ragione e dunque è saggio mentre l’altro ha torto e dunque
è uno stolto, ma è certamente desiderabile che anche il malato si trovi nella
condizione del sano, perché fra le due questa è la situazione migliore.
Le tesi protagoree dunque non conducono a una forma di solipsismo – ossia di
chiusura in se stessi, l’atteggiamento di chi dice “esiste solo la mia verità e tutto il
resto non ha alcuna importanza” – accade invece che, non esistendo una verità
assoluta, l’uomo deve confrontarsi con molte verità e assumere quella che,
sotto il profilo dell’utilità, si presenti come la migliore.
Interpreti sia antichi che moderni hanno individuato un “punto debole” nella
teoria di Protagora, punto debole che val la pena di sottolineare.
Molti infatti dicono che, senza sapere ciò che è vero e ciò che è falso, non si può ben
distinguere ciò che è davvero utile. Secondo questa opinione la conoscenza della
verità sarebbe il presupposto necessario di qualsiasi ulteriore discorso. Inoltre l’utile
è l’utile di chi? Una medesima cosa potrebbe essere utile per me, ma dannosa per
qualcun altro...
Certo si tratta di una obiezione corretta, ma l’intento di Protagora è volutamente più
modesto: egli invita gli uomini a non cercare verità assolute e a costruire una società
a propria misura. Protagora non voleva sostenere tesi particolari riguardo all’utile.
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2.3 L'importanza del linguaggio
Com'è possibile provare a dimostrare la maggiore o minore utilità di una cosa?
Lo si può fare tramite il linguaggio.
Spesso accade che la gente non vede cosa sia veramente utile e si fa allettare da
prospettive che, alla lunga, si riveleranno dannose. Compito del sapiente, quindi, è
quello di far vedere e comprendere ciò che, al di là delle apparenze, sia da
considerarsi migliore. Gli antichi chiamarono questa arte quella di rendere più
forte il discorso più debole: farsi amputare una gamba, per esempio, è il “discorso
debole” (debole perché nessuno, ovviamente, vorrebbe rimanere senza un arto!),
che però diventa forte nella prospettiva della bontà del fine, cioè salvarsi la vita
(potrebbe, infatti, essere necessario tagliare una gamba ferita al fine di evitare la
cancrena e, dunque, la morte).
Successivamente, l’espressione divenne simbolo di capziosità, cioè del far parer utile
ciò che utile non lo è. Quest’ultima cosa non è certo priva di fondamento: l’arte di
Protagora e colleghi è a disposizione di chiunque, quindi anche di chi non voglia
perseguire fini utili alla società, ma solo il proprio tornaconto.
Se, dunque, nelle tesi di Protagora non c’è nulla di assurdo o scandaloso, i
suoi insegnamenti possono essere comunque pericolosi.
Oggetto dell’insegnamento di Protagora era la virtù politica.
Come essere certi che questa “virtù politica” fosse alla portata di tutte le persone e,
dunque, fosse effettivamente insegnabile? Non poteva essere un dono degli déi,
oppure una capacità che pochi individui possiedono? Troviamo la risposta in un
celebre apologo protagoreo riferito da Platone. Si tratta di una versione del mito di
Prometeo.
Protagora dice che Prometeo, allo scopo di permettere all’uomo la creazione e il
perfezionamento delle tecniche, rubò il fuoco agli déi. Poi, quando gli uomini si
riunirono per scambiarsi i rispettivi risultati, sorsero delle discordie. Essi, infatti, non
sapevano organizzarsi in comunità, non possedendo la tecnica adatta, cioè la
politica. Allora Zeus incaricò Ermes di distribuire a tutti i mortali il pudore e la
giustizia: ossia quelle qualità che, insieme, formano la capacità politica. In una polis
tutte le altre arti possono anche essere appannaggio di pochi, purché questi le usino
a vantaggio di tutti, mentre la virtù politica deve essere a tutti comune perché uno
Stato possa mantenersi! Questo mito è una sorta di giustificazione della
democrazia e, inoltre, giustifica l’opera dei sofisti. Il possesso delle due qualità
infatti non significa possedere in pieno l’attitudine politica: per questo sono utili i
sofisti, che aiutano a svilupparla.
2.4 Divinità e religione
Riguardo alla religione e alle divinità, Protagora dice quanto segue:
" Riguardo agli déi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né
che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità
dell’argomento e la brevità della vita umana. "
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Questa idea dovette parere a molti segno di ateismo ed è per questo che
Protagora fu processato e condannato (ammesso che l’episodio sia vero, cosa
non del tutto certa). Si dovrebbe parlare in effetti di agnosticismo, ossia di una
dichiarazione di ignoranza riguardo le cose divine.
Nell’ambito della sofistica emerge anche un primo abbozzo di teoria della
civiltà. C’è una nuova dottrina della storia, che si oppone al classico mito esiodeo
della decadenza progressiva dell’umanità da un’iniziale età dell’oro.
La storia è vista dai sofisti come progresso, dunque in una maniera abbastanza
simile alla nostra. Secondo Protagora, l’uomo supera gli altri animali e le sue naturali
debolezze entrando in società e creando le “tecniche”, cioè quel complesso di arti
mediante le quali trasforma il mondo circostante a proprio vantaggio.
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GORGIA DA LENTINI
485 AC - ?
3.1 "L'estremismo" di Gorgia
Gorgia nasce in Sicilia, a Lentini, attorno al 485 ac. Viaggiò per tutte le città della
Grecia, dove svolse la professione di retore e di insegnante. Quando giunse ad
Atene come ambasciatore della sua patria, con lo scopo di perorarne la causa,
riscuote grande ammirazione per la sua abilità dialettica.
Pare che Gorgia fu il sofista che più di tutti riuscì ad arricchirsi, forse anche per
merito della sua lunga vita: le fonti lo indicano più che centenario.
La sua figura colpisce i contemporanei più di quella di Protagora: vuoi per il suo
carattere con tratti di eccentricità – pare si divertisse a sfidare le folle a discutere con
lui su qualunque argomento, senza preparazione alcuna – vuoi per la
spregiudicatezza delle sue tesi e la sottigliezza dei suoi ragionamenti.
Fra le sue opere, quasi in tutto perdute, si ricorda l’opera filosofica Sulla natura o
sul non essere. Possediamo due declamazioni: L’encomio di Elena e L’apologia
di Palamede, oltre a un frammento di un’orazione composta in onore degli ateniesi in
occasione della guerra del Peloponneso.
Nella sua opera Sulla natura o sul non essere – e è già indicativo il titolo, in voluta
contrapposizione all’opera di Melisso (Sulla natura o sull'essere) – Gorgia si pone
come obiettivo quello di distruggere le tesi della scuola eleatica. Gorgia prova a
dimostrare tre tesi assolutamente (e, notate bene, volutamente) paradossali:
"Nulla esiste; se poi esiste è inconoscibile; se poi anche esiste ed è conoscibile non
è però manifestabile ad altri."
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.1. "Nulla esiste"
Riguardo alla prima tesi: prendendo le mosse da alcune tradizionali coppie di opposti
(uno e molteplice, generato e ingenerato, finito e infinito...) Gorgia dimostra che sia
attribuendo all’Essere una delle caratteristiche, sia concedendo l’altra, si giunge
comunque, attraverso il ragionamento, a esiti assurdi.
Facciamo un solo esempio: Gorgia immagina che l’Essere sia ingenerato ed eterno
--> da ciò deriva che deve essere illimitato (visto che ogni cosa generata è limitata) -> ma se è illimitato non è in nessun luogo preciso --> ciò che non è in nessun luogo
non esiste! Dopo di che Gorgia assume l’esatto opposto, cioè che l’Essere sia
generato e limitato, e giunge alla medesima conclusione...
- Certo ricorderete che Parmenide e Melisso, anche se per molte altre tesi sono
in accordo fra loro, giungono, entrambi grazie a procedimenti logico-razionali,
a conclusioni opposte sulla finitezza o meno dell’essere. L’essere è finito per
Parmenide, mentre è infinito per Melisso, ricordate?
È proprio questo il fatto che attira l’attenzione di Gorgia: egli, sviluppando a sua
volta ragionamenti logici, giunge a ipotizzare che su questa base sia possibile
dimostrare tutto e il contrario di tutto!
Non c’è, insomma, un unico procedimento logico-discorsivo valido: nessun
ragionamento, a parere di Gorgia, è mai così perfetto da non essere confutabile. Ecco:
proprio perché l’Essere non è univocamente affermabile sulla base della ragione, Gorgia
afferma che nulla è.
.2. "[...] se poi esiste è inconoscibile"
Perché Gorgia dice che l’Essere, se anche esistesse, non si potrebbe conoscere?
Questo avviene perché fra l’Essere ed il conoscere non c’è una, a suo modo di vedere, chiara
corrispondenza: lo dimostra il fatto, assai semplice, che si possono pensare cose che
manifestamente non esistono, come i draghi o le chimere.
In questo modo Gorgia nega l’identità fra Essere e pensiero che stava alla base
dell’eleatismo (ricorderete la celebre affermazione di Parmenide al riguardo!).
.3. "[...] se poi anche esiste ed è conoscibile non è però manifestabile ad altri."
Il fatto, poi, che la conoscenza sia esprimibile attraverso il linguaggio è, per
Gorgia, altrettanto problematico: pretendere di rendere un oggetto con delle
parole sarebbe, sostiene lui, come voler sentire con la vista, o vedere con
l’udito. Ci deve essere affinità fra i sensi e la realtà percepita (cosa che, come
abbiamo studiato, venne messa in evidenza dai fisici pluralisti), mentre fra parole e
cose non vi è alcuna affinità:
" Non dunque realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola,
che è altro dall’oggetto [...] così l’essere, in quanto è oggetto esterno a noi,
non può diventare la nostra parola. "
Il linguaggio, dunque, è qualcosa di puramente umano e non una specie di “ponte”
che ci conduce in presenza delle cose dicendo come esse sono.
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Ma qual è l’Essere che Gorgia nega?
Non si tratta, sia chiaro, dell’essere delle cose che formano l’esperienza quotidiana,
cioè dei fenomeni, cioè ciò che noi esperiamo con i nostri sensi, ma dell’Essere
assoluto di cui i presofisti erano andati alla ricerca.
A questo punto il pensiero e il linguaggio, visto che non hanno un riferimento
sicuro nella realtà, acquistano il diritto di crearselo da soli, o almeno di creare
le proprie regole.
Non ci sono norme fisse su ciò che si deve pensare e dire. In questo modo il
discorso diventa disponibile a qualsiasi uso, la parola può esprimersi in assoluta
libertà ed esercitare tutto il suo potere di persuasione indipendentemente da una
qualunque realtà. Cade, ovviamente, anche la distinzione fra ragionamenti veri e
ragionamenti falsi. Esiste invece un’infinità di tesi, che possono essere
sostenute o negate da argomenti tutti equivalenti fra loro.
Con Protagora non si poteva certo parlare di verità univoca, oggettiva: per lui ognuno
aveva una propria verità soggettiva, nonostante ciò "vero" e "falso" mantenevano
comunque un senso. Per Gorgia invece tutto è, nello stesso modo, dimostrabile vero
e, allo stesso tempo, falso.
Gorgia, date queste premesse, sviluppa idee di virtù e di retorica assai più
spregiudicate di quella di Protagora. Questi si proclamava maestro di virtù e
riteneva che la persuasione fosse finalizzata ad uno scopo sociale di rilievo: l’utile.
Per Gorgia cadono anche questi obiettivi: né lui né altri possono insegnare una virtù,
non esistendone alcuna che possa essere applicata a tutti (come, per esempio, il
pudore e la giustizia che nel mito Zeus avrebbe donato a tutti gli uomini). Ci sono
solo virtù particolari: la virtù dell’uomo e quella della donna, la virtù del bambino e
quella dello schiavo... La virtù è una specie di disposizione o di attitudine variabile a
seconda delle circostanze e per questo non è insegnabile. Se la virtù non è
insegnabile, Gorgia dice che l’unica cosa insegnabile è l’arte della persuasione
e questa non ha nulla a che vedere con la virtù.
Lo stile che Gorgia impiegava nelle sue declamazioni era carico di giochi verbali, di
figure retoriche, di ornamenti linguistici vari. Attraverso questi mezzi, l’oratore doveva
essere in grado di produrre quel piacevole inganno che seduce gli uditori. Mentre
l’inganno, la convinzione, era per Protagora mezzo per condurre verso l’utile, per
Gorgia esso è solo mezzo per giungere a quel godimento artistico, a quel piacere
che il saggio prova di fronte a una rappresentazione tragica. La parola, per Gorgia,
ha un potere assoluto, cioè slegato da qualunque altra cosa:
"[...] la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e
invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura,
e a eliminare il dolore, e a suscitare gioia, e ad aumentar la pietà."
Come può la parola avere così grandi poteri? C’è tra la potenza della parola e la
disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmaci e la natura
del corpo.
Pharmakon aveva in greco il significato di “medicina”, ma anche di “veleno”.
La parola soggioga l’anima e non è solo uno strumento per dire delle cose,
vere o false che siano, ma è utile all’esercizio del potere. Non è necessario
pensare che Gorgia esercitasse la sua arte con malizia, ma certo essa era utilizzabile
per qualunque cosa. Inoltre, pare che il sofista siciliano abbia dichiarato
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apertamente il suo disinteresse per i possibili usi dell’arte che insegnava,
citando l’esempio del professore di medicina: egli è incolpevole se l’alunno prepara
veleni per uccidere la gente.
- Protagora non dimostra uno scetticismo conoscitivo, non nega il valore
dell’esperienza né l’esistenza del vero e del falso, almeno in termini soggettivi. Se
invece, come accade con Gorgia, nulla esiste e il vero e falso non hanno senso,
l’uomo si aggira solo in una marea di discorsi che, in quanto al valore, sono identici.
Questa è una forma di solipsismo radicale.
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