don Luca Balugani A PARTIRE DA ALCUNI RECENTI FATTI DI CRONACA Perché anche i preti si suicidano? Alcuni fatti di cronaca (avvenuti nei mesi scorsi a Livorno e Trieste) hanno riportato alla ribalta la triste evenienza che i preti possano suicidarsi. Con una certa ricorsività i media danno notizia di suicidi connessi a difficili situazioni familiari o a problemi economici e lavorativi: in verità, anche un prete non è così lontano da loro, condividendo con i primi una medesima vocazione cristiana e con i secondi una condizione lavorativa assimilabile. Eppure, il suicidio di un prete è avvertito dal popolo di Dio come un cortocircuito. Perché si tratta di un gesto che lascia interrogativi profondi e lancinanti in familiari e conoscenti: chi sopravvive si ritrova ad interrogarsi in maniera ossessiva sul “perché”, sente di aver ricevuto una ferita profonda dovuta ad un atto di estrema violenza, anche nel caso in cui chi lo compie ritenga di aver usato su se stesso la violenza maggiore. Per uccidersi, infatti, occorre essere capaci di una sorta di brutalità, per arrivare a trattare se stessi come se si fosse un oggetto tra tanti. Nel caso di un sacerdote, i fedeli faticano a reggere una tale violenza su di loro: proprio tale durezza e la cosificazione di sé cui un prete arriva sono avvertiti come totalmente incomprensibili dai suoi parrocchiani. Il suicidio, da un punto di vista psicologico, muove da motivazioni talmente variegate da non potersi ricondurre ad un unico ceppo. Tuttavia, per provare almeno ad abbozzare una comprensione di un gesto tanto grave, si possono individuare tre diverse direzioni: la perdita della speranza, la perdita della fede e la perdita della pace. Perdita di speranza. In ambito clinico, il suicidio viene collegato ai disturbi dell’affetto e, in particolare, alla depressione. Quando la felicità scompare dall’orizzonte di una persona, quando non c’è più nulla che sia in grado di restituire gioia alcuna (piccola o grande che sia), quando gli interessi di un tempo non hanno più spazio, ecco che il suicidio pare rappresentare la residua via d’uscita. Finiscono tanto il passato (con i suoi bei ricordi) quanto il futuro, avvertito come un tempo senza alternative. Forse, ad un prete non si concede di vivere una patologia che intacchi la sua psiche; forse, nell’immaginario collettivo, lo si pensa tutt’al più frustrato ma non passibile di malattia, eccezion fatta per indisposizioni come quella che afflisse papa Giovanni Paolo II: una malattia legata alla senilità è ammissibile, ma non una patologia di altro tipo. E, invece, occorre accettare che la grazia dell’ordinazione non elimini l’eventualità di disturbi mentali, più o meno gravi. Perdita della fede. Una relazione viva e vitale con Dio indubbiamente agevola la capacità di mobilitare risorse e trovare forze inattese. Diversi studi di carattere empirico hanno evidenziato come la presenza di una fiducia ultraterrena sia valido alleato per reggere alcuni urti della vita. È chiaro che non basta paragonare la fede alla pratica religiosa: si tratta di un affidamento esistenziale, di centrare la propria esistenza su Gesù Cristo e sul Dio che ci ha rivelato, di convogliare sentimenti e idee su di lui… Se il ministero si svuota di senso e perde proprio questa dimensione relazionale con il Figlio di Dio, la cosa assume una serietà maggiore di quella che riguarda la vocazione matrimoniale. I surrogati per riempire una vita in cui Cristo non sia più motivo dell’esistenza, nel caso di un presbitero, faticano a colmare il vuoto avvertito. Proprio l’essere celibe per il Regno lo proietta oltre l’orizzonte mondano: non può appoggiarsi all’affetto di una donna, non può lottare per il benessere dei suoi figli e dei nipoti e, dal punto di vista professionale, non può sperare in grandi traguardi (perché diventare vescovi non pare oggi essere una vera promozione). Perdita della pace. Un ultimo fattore lo si potrebbe descrivere come assenza di pace: quando un prete va a paragonare le proprie aspettative con le realizzazioni concrete della sua missione, il malessere può crescere. Mancati riconoscimenti sociali o ecclesiali, oneri eccessivi, compiti assegnati e non supportati da adeguata preparazione, attese irrealistiche di fedeli o superiori... possono andare ad intrecciarsi con bisogni che il presbitero non vede soddisfatti nella condizione in cui si trova. Se, ad esempio, un sacerdote si aspettasse di essere atteso, accolto e amato da una comunità mentre, al contrario, percepisse freddezza e poca partecipazione, ne potrebbe conseguire una spirale involutiva: l’insoddisfazione fiorirebbe e, contemporaneamente, un modo acido di relazionarsi con i fedeli in un crescendo di reciproche incomprensioni. Dove possano sfociare questi malcontenti è difficile immaginarlo: sicuramente, comunque, non si parla più di pace ma di inquietudine. Non all’improvviso. Se non abbiamo risposte esaustive in ambito clinico e se il dono del ministero ordinato non elimina dal presbitero la possibilità di essere colpito da un disturbo (fisico o psichico che sia), quello che della situazione colpisce è che un suicidio non arriva improvviso, ma viene preparato da una serie di segnali che evidentemente nessuno ha visto. Spesso, infatti, ci sono ansia e panico, insonnia e abuso di alcol, tristezza cronica e brutti pensieri. Prima di togliersi la vita, le ruminazioni sono talmente tante e durano così a lungo che viene da chiedersi perché nessuno se ne accorga. Forse oggi il prete vive una tale solitudine che non c’è nessuno che possa rendersi conto di quello che passa per la sua mente. Chi è in grado di ascoltare le sue grida spesso inespresse a parole, ma assordanti nella sua mente? Va anche aggiunto che, nella psiche del suicida, spesso è presente un “persecutore”: forse è proprio così che egli avverte le richieste che vengono dall’autorità o dai fedeli riguardo al suo ruolo. Come percepisse di essere fuori contesto, sociale ed ecclesiologico e, nello stesso tempo, sovraccaricato di grandi attese. La vita concreta dei preti, quella che si svolge nelle canoniche spesso solitarie, resta poco conosciuta sia dalle comunità sia da molti vescovi. A ciò va aggiunto che il clima ecclesiale si è radicalmente trasformato: di quali comunità cristiane un parroco è oggi pastore? Su quanti collaboratori può contare? Come deve organizzare la pastorale? In base a quali criteri seleziona le domande delle persone e a quali dà risposta? Se volessimo poi leggere la situazione con una chiave di lettura psicosociale, quando un’“organizzazione” deve riconvertirsi, non ci si può aspettare che il proprio personale sia già automaticamente pronto a cambiare identità e ruoli. Ma difettano nelle diocesi luoghi di ripensamento del ministero, spazi di confronto e dialogo, formazioni che non siano meramente informative… Invisibili. Tanto è difficile trovare le ragioni per un suicidio, tanto è semplice mettersi in cerca di un colpevole: lo si può scovare nell’interessato, nella comunità, nei suoi confratelli o, addirittura, nel vescovo… Ma anche in questo caso le cose non sono né semplici né univoche: forse è proprio l’immaginare che le cose si mettano a posto da sole la più grande delle illusioni, il più temibile dei veli che coprono le situazioni di disagio. Nel caso di un prete, l’aggravante è data dall’impossibilità, incapacità o mancanza di volontà di radiografare la situazione reale e concreta della sua vita quotidiana e della sua situazione esistenziale. Forse nemmeno l’interessato è disponibile a lasciare a qualcuno la possibilità di vedere le pieghe della sua vita: il celibato diventa la premessa di una solitudine che porta all’incapacità di comunicare. Del resto, sarà anche vero che i confratelli non si sono accorti del disagio (o, peggio ancora, hanno fatto finta di niente), ma è altrettanto vero che sperimentano il malessere sulla loro stessa pelle e hanno il problema di trovare a loro volta risposte a domande non facili. Il suicidio indubbiamente non è l’unica via d’uscita: ma, quando una persona è sola e non vede alternative, quando il tempo che scorre non porta miglioramento alcuno ma ripropone gli stessi problemi e dilemmi, quando nessuno si accorge del circolo vizioso nel quale sta cadendo, allora i pensieri suicidari aumentano e un gesto disperato li può attuare, magari anche solo nella speranza che a quel punto (in ogni caso troppo tardi per alcun rimedio) qualcuno si accorga di qualcosa. Quale Chiesa. Il nostro è un tempo di profondo ripensamento ecclesiale, perché le difficoltà personali oggi non possono essere disconnesse dal contesto nel quale viviamo. Accanto ad un lavoro personale per rinforzare le motivazioni e le prassi individuali, si rende sempre più necessario ricollocare l’intera missione della Chiesa e interrogarsi su quale prete, quale laico, quale parrocchia e quale evangelizzazione, come ricordava il concilio. Diversamente, il divario tra agito e parlato aumenterà inesorabilmente, con l’illusione che una buona enciclica, una buona inchiesta o un buon progetto di riorganizzazione pastorale possano generare soluzioni miracolose al malessere esistenziale dei presbiteri.