Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono neomelodici… di GIUSEPPE AIELLO Alla prof. di lettere di mia figlia, signora S.M., che la settimana scorsa ha fatto piangere mezza classe facendo ascoltare in aula ‘O pate di Nino D’Angelo. Se non l’avete mai visto, non ho timore di consigliarvi un filmato qualsiasi di Jalacy Hawkins, molto meglio noto come Screamin’ Jay Hawkins, sciamano color catrame dotato di una voce dalla potenza e duttilità sovrumane, neanche ciclopi del blues come Big Joe Turner o Howlin’ Wolf, arrivarono mai a tanto. Uno stregone vudù, o una specie di tamarro al cubo formato centrafricano, che iniziava gli spettacoli uscendo da una bara e continuava cantando brani surreali (tipo Constipation Blues) agitando un bastone con un teschio infilato sopra, mentre canini di qualche animale gli spuntavano dal naso e una mano mozza, solitaria, tamburellava sul pianoforte. Dopo un certo successo alla fine degli anni ’50 la sua stella cominciò a declinare e finì a suonare in club anonimi davanti a poche decine di persone. Forse perché troppo impegnato a seminare figli per il mondo (nell’ultima parte della sua vita dichiarò che dovevano essere 57, ma non era sicuro che il conto fosse giusto), forse perché troppo nero e troppo africano per il palato delicato del pubblico bianco, di Screamin’ Jay quasi nessuno si ricordava più. Poi, pian piano, successe qualcosa: le superstar Creedence Clearwater Revival incisero una cover del suo brano più famoso, andò più volte in tournée in Europa, fino al vero colpo di fortuna. Nel 1984 esce infatti il primo lungometraggio di un giovane regista americano, Jim Jarmusch, dove la protagonista sente a ripetizione I put a spell on you da uno di quei mangiacassette con i quali tutta la mia generazione ha consumato per decenni nastri tdk e sogni anglofoni. E quando uno sta vedendo Stranger than paradise non può fare a meno di pensare «ma chi è questo forsennato che urla?», poi arriva John Lurie che spegne il mangiacassette («odio questa musica») e non puoi fare a meno di pensare «che spegni, deficiente, lo senti come canta quello?» – e la ragazzina ungherese gli dice Giuseppe Aiello «è Screamin’ Jay Hawkins, un uomo selvaggio» e tu non potevi fare a meno di pensare «e perché mai io non ho mai ascoltato, né visto, un disco di questo wild man? Come potrò rimediare?» Con il successo di Jarmusch, Screamin’ Jay, che per fortuna non si era nel frattempo disintegrato con le droghe e con l’alcol come tanti altri, riuscì a non perdere le occasioni che gli si presentarono e si fece restituire dalla fortuna almeno una parte di ciò che gli era stato sottratto nei decenni precedenti, amato e acclamato da un pubblico non immenso ma consistente e fedele fino alla morte, sopraggiunta nel 2000. Bella storia vero? Quasi a lieto fine. Beh, tranquillizzatevi, di storie così nel blues ce ne sono parecchie, nella musica napoletana no. A Napoli, essere un musicista popolare e appartenere al popolo al tempo stesso è un peccato grave, anzi: imperdonabile. La cultura musicale di un paese è un’entità strana, segue dinamiche sfuggenti e i suoi legami con la storia e l’economia dei luoghi e delle persone che li vivono e li hanno vissuti sono a volte difficili da interpretare. È impensabile poter raccontare anche una minima parte della storia musicale degli Usa senza considerare l’apporto degli africani trascinati dagli europei a fare da forza lavoro coatta per il modello di sviluppo della nascente era industriale. Blues, jazz, rhythm’n’blues, funky, hiphop, sono (o sono state) musiche erotiche e volgari – musiche da negri, si diceva un tempo – che hanno rappresentato, in genere dopo qualche operazione di sbiancaggio e riciclaggio, la potenza americana nel mondo. Contraddizione insanabile, gli ex-schiavi dettano ai padroni il ritmo sul quale ballare; i bianchi possono detestare i neri, ma non possono evitare di ascoltare, comprare, imitare la loro musica. Casi diversi, ma analoghi nella relazione profondamente contraddittoria tra etnia (significherà poi qualcosa questa parola?) dominante ed etnia minoritaria che trova nella musica larga parte della propria identità culturale, sono quelli degli zingari nell’Europa dell’est e soprattutto dei gitani spagnoli. La musica che spiega al mondo cos’è la Spagna è, per ognuno, il flamenco, ma quelli che sono riconosciuti come gli interpreti più autentici del ballo e del canto “nazionali” non sono in genere percepiti come spagnoli a tutti gli effetti. 406 Non siamo noi che siamo razzisti,sono loro che sono neomelodici… La nostra situazione è palesemente più complicata. Quella che fu individuata come canzone rappresentativa di un inesistente popolo italiano era la musica proveniente dall’ex-capitale di una colonia annessa manu militari dopo la metà del XIX secolo. Da quella metropoli provennero le strofe gioiose (‘O sole mio), quelle nostalgiche (Signorinella) e quelle patriottiche (La leggenda del Piave) e soprattutto le musiche che accompagnavano gli emigranti nei loro viaggi, viaggi spesso senza ritorno. I suoi abitanti, i napoletani, venivano e vengono percepiti come tendenzialmente mariuoli (come i neri e gli zingari), non troppo puliti, vittimisti, lagnosi e pigri (come i neri e gli zingari), e, in definitiva, italiani ma fino a un certo punto, come gli afroamericani sono statunitensi e i gitani sono spagnoli, sì, ma fino a un certo punto. La musica di Napoli ha avuto, come tutte le vere musiche popolari, la capacità di rielaborare i linguaggi nuovi senza dimenticare quelli antichi. Nessun cantante italiano conosce le canzoni italiane di un secolo fa, mentre avrebbe breve carriera un neomelodico incapace di eseguire Reginella a un matrimonio. L’idea di sessantamila persone che per festeggiare la vittoria della propria squadra si mettono a cantare all’unisono una canzone antibellicista del 1915 parrebbe insensata, eppure è ciò che accade un paio di volte al mese allo stadio S. Paolo. Napoli comunica e diffonde la sua personalità nel mondo sostanzialmente attraverso la musica, e il valore di questo esprimersi è inestimabile: forse esagerando si potrebbe dire che è la musica che ha mantenuto insieme una città che troppi si impegnavano a fare a pezzi. La produzione è immensa e variegata e si espande dai vicoli, alle periferie fino – una volta che sia stata ben filtrata – al Festival di Sanremo. Tutto bene allora? Mica tanto. Perché nel cuore pulsante della produzione culturale e musicale napoletana, nella vera musica popolare, quella fatta dal popolo che canta se stesso, purtroppo o per fortuna, ci si trova un sacco di gente poco raffinata, poco intellettuale, poco edulcorabile, maledetti neomelodici, irriducibili tamarri. «Oje Pe’, all’intellettuale nce piace ‘e parla’ ‘e ll’operaje, ma nun ce piace si ll’operaje vonno parla’ lloro…» (Franco Cardinale, poeta operaio, 1995) Mi rendo conto che in un contesto in cui si vorrebbe qualche ragguaglio sugli sviluppi della musica popolare urbana di Napoli l’autobiografismo può sembrare 407 Giuseppe Aiello inappropriato se non molesto, purtroppo confesso di non essere capace di fare altrimenti e mi affido alla clemenza di chi legge. Un po’ più di quindici anni fa mi sono imbattuto quasi per caso in un gruppo di persone (Goffredo Fofi e Silvio Perrella tra loro) che cercava qualcuno che sapesse qualcosa della musica che allora veniva definita, quando andava bene, “musica sottoproletaria”. Fofi aveva già scritto qualcosa sui giornali a proposito di Nino D’Angelo, ma restava un problema: non c’era letteralmente nessuno che sapesse nulla di quel mondo e che fosse capace di scriverne. Silvio sapeva che io quella musica la conoscevo bene e mi chiesero prima un articolo per la rivista Dove sta Zazà e poi un capitolo per il libro Concerto napoletano in cui mettessi giù qualcosa su quello sconosciuto universo. Invece di una rassegna folcloristica e un comodo elenco di luoghi comuni mi sforzai di elaborare una descrizione della struttura della musica a Napoli in base alle esigenze che questa espressione culturale va a soddisfare, e della dicotomia con la musica pop-rock napoletana “alternativa”. In quei modesti contributi sottolineai anche l’esigenza di dover sostituire l’insopportabile terminologia razzistica che contraddistingueva i pochi articoli che sfioravano l’argomento e, in maniera un po’ provocatoria, coniai il termine Neomelodica solo per dare la possibilità a tutti di usare un vocabolo neutro, del tutto privo di intrinseche valutazioni estetiche o etiche. Siccome non ero e non sono giornalista i miei articoli (e la parola stessa) sarebbero rapidamente caduti nel dimenticatoio se non ci fosse stato Federico Vacalebre (che conoscevo solo di vista, per la comune frequentazione dei concerti punk-new wave negli anni ottanta, e di voce per le sue trasmissioni a Radio Spazio Popolare) al quale le cose che avevo scritto piacquero e che rimpallò l’argomento sui giornali e poi nel libro Dentro il vulcano – Racconti neomelodici. In questo modo Vacalebre ottenne il risultato per me stupefacente di far diventare quel neologismo, che avevo inventato senza nessuna convinzione, una parola di uso universale e mi regalò il divertimento, cosa per la quale sempre gli sarò riconoscente, di osservare l’incredulità delle persone che magari mi conoscono da anni quando rivelo (molto di rado, in effetti) le mie responsabilità in merito. Scrissi ancora qualche superfluo articoletto, ma il mondo del giornalismo non mi si addice e pensai, si parva licet, che se Johann Kaspar Schmidt aveva scritto tutto in un libro e gli era bastato (a lui e alla storia del pensiero occidentale), in effetti potevo ritenere che quello che avevo da mettere in campo sulla canzone popolare urbana più o 408 Non siamo noi che siamo razzisti,sono loro che sono neomelodici… meno l’avevo già sistemato in quei due brevi scritti e potevo dedicarmi ad altro (crostacei fossili, cibi tossici, comuni libertarie). Inoltre, un po’ per merito nostro (cioè di Federico, di Fofi e mio) e moltissimo grazie a Nino D’Angelo che in quegli anni aveva intrapreso la sua coraggiosa svolta che lo sta portando a diventare il punto di riferimento per le future generazioni di cantanti napoletani, sembrava che le acque fossero definitivamente smosse, che la Neomelodica non potesse venire ancora trattata come la musica dei tamarri, dei sottoproletari, dei niggaz dei vicoli e dei palazzoni di periferia. Anche perché contemporaneamente era scoppiato il fenomeno Gigi D’Alessio, del quale pare sia obbligatorio parlare male ma senza aver ascoltato i primi cinque dischi che costituiscono un’opera di modernizzazione della canzone napoletana assolutamente fuori dell’ordinario, come del tutto fuori dell’ordinario era la sua voce. Ora che sono stato inopinatamente riesumato quale persona atta a scrivere di musica (di ciò devo ringraziare Anita Pesce e Maria Luisa Stazio), posso dire che la valutazione che feci al tempo, ossia di una Neomelodica di cui si dovesse ormai necessariamente tenere conto nella produzione culturale della città, era irrimediabilmente ottimistica e in buona sostanza errata. Il solo fatto che D’Alessio abbia perseguito con ostinazione per la sua strada commettendo errori madornali (come il non nascondere le sue simpatie centro-destroidi in un mondo dove pure Baglioni – un tempo star di ogni festival democristiano – risulta ormai essere uno di sinistra) e sia nonostante tutto arrivato a vendere milioni di dischi e a imporre la sua presenza nei grandi media, non gli sarà mai perdonato. L’episodio del concerto di Pino Daniele in piazza Plebiscito, nel 2008, con i fischi del pubblico tutti rivolti all’ospite D’Alessio, ha dato l’ennesima conferma del fatto che il ghetto c’è sempre, e ci sono sempre una serie di ricatti ai quali un cantante che viene da Napoli deve sottostare. Edoardo Bennato si lamentava perché «gli impresari di partito / mi hanno fatto un altro invito / e hanno detto che finisce male…», D’Alessio ha compreso che per raggiungere certi risultati doveva smettere di cantare in napoletano, come d’altronde aveva già fatto in precedenza lo stesso Pino Daniele, con risultati che ci lasciarono sgomenti («che dio ti benedica / che fica»). Mentre Nino D’Angelo (ri)scopriva che l’identità, la personalità, la ricchezza delle nostre musiche crescono e si sviluppano con un utilizzo rigoroso della lingua madre, l’idea che per avere successo si doveva cantare per forza in italiano ha avuto degli 409 Giuseppe Aiello effetti curiosi su una piccola schiera di parolieri neomelodici che hanno indirizzato una gran parte della loro produzione verso un linguaggio impoverito oltremisura. «Giuvannenie’ Giuvanne già tiene mente ce sta chi parla bbuono e chi malamente» (Roberto De Simone, Giuvanneniello, 1977) Uno dei problemi centrali della nostra identità è proprio il rapporto con la lingua. Napoli è l’unica grande città italiana dove l’italiano sia ancora la seconda lingua e dove i bambini la cui lingua madre è il napoletano vengono pervicacemente osteggiati e perseguitati dal corpo docente della scuola dell’obbligo affinché la smettano di parlare ciò che si parla a casa. Nei Paesi Baschi o in Catalogna durante il franchismo le lingue autoctone venivano represse con la polizia, a Napoli invece delle guardie ci sono le maestre elementari. Del napoletano va bene infilare qualche parola colorita qui e lì, ma parlarlo davvero non sta bene. Gli intellettuali non sanno come sono il singolare e il plurale della parola piede, non sanno come si dice culla, datti da fare, cammina più in fretta, tovaglia, asciugamano, in effetti non sanno nulla, però si permettono di disdegnare il napoletano della canzone neomelodica, che non è quello di Bovio né quello di Viviani – ma che strano. Allo stesso modo, ci si può recare a un convegno sulla canzone napoletana con la chiara percezione che gran parte dei relatori non saprebbe fare un discorso, neppure elementare, in napoletano. Però se un neomelodico che viene intervistato molla qualche strafalcione ciò diviene immediatamente oggetto di derisione, perché in nessun momento vi viene il dubbio che stia parlando una lingua straniera, e che voi sareste molto, molto più ridicoli se provaste a parlare nella sua lingua. Perché, nonostante tutto, quella lingua c’è ancora, e in suo aiuto è arrivato un piccolo esercito di parlatori scorretti e confusi ma altrettanto pieni di energie che sono i ragazzi, molti dei quali davvero giovanissimi, del rap napoletano. Alcuni sono stati quasi famosi, altri hanno giusto un po’ di visibilità, ma quelli che sono per noi più interessanti sono sconosciuti, sono davvero tanti e si sono dedicati integralmente al vituperato blà-blà-blà («ma po’ ‘a musica addo’ stà?») che aveva reso 410 Non siamo noi che siamo razzisti,sono loro che sono neomelodici… James Senese ‘ngazzato niro. I loro versi a volte sono forti ed emozionanti, altre volte fanno veramente schifo, ma, consapevolmente o per istinto, molti rapper napoletani coltivano una conoscenza preziosa. Come il primo Pino Daniele, come l’ultimo Nino D’Angelo, come Viviani, la maggior parte di loro (purtroppo non tutti) hanno capito che la forza sta nel linguaggio del popolo, e che se vogliono produrre qualcosa di vero e di originale devono farlo nella lingua che si parla per strada. Marracash o Fabri Fibra hanno fatto i soldi parlando in italiano (o quello che è), giusto, è la loro lingua, ma per quanto riguarda gli mc napoletani se volete capire cosa dicono dovete impegnarvi, farvi spiegare da chi è padrone della loro, della nostra lingua, studiarvi i testi. Proprio come facevamo noi con quelli dei Clash trenta anni fa. Hanno nelle loro mani un potenziale comunicativo enorme, un abbozzo di percorso già tracciato anni fa da Franco Ricciardi con Luca Persico, unire il potere melodico viscerale della canzone napoletana con la consapevolezza dell’hip hop, come dire Patrizio + Scott La Rock (tutti e due morti giovani, peccato), ma il sentiero è disseminato di trappole. La prima è la solita, quella che mette un solco tra una città e l’altra, quella perbene e quella permale. Ed è veramente strano perché i rapper si ispirano a modelli originali dove ci si faceva punto d’onore di essere i più duri, i più criminali, gente tutt’altro che per bene. Eppure… «‘A cosa strana ca je nun aggio maje capito e vulesse c‘a gente ce pensasse, cioè pecché dint’a colonna sonora d’o film ca è addivintato ‘o rigalo ‘e Natale ‘ell’anno passato ca, dicimmo, avessa denuncià, avessa dicere certi cose, avessa fa’ capì all’Italia che succere cà abbascio, pecché stanno sulo neomelodici? Vintitré tracce, una d’e’ Massive Attack ca nun c’azzeccano niente cu’ Napule e ati vintidoje ‘e neomelodici. Je vulesse domandà stu fatto, ma pecché è tutta ‘na denuncia e po’ aropp’ ce stà ‘a collaborazione?» (Co’Sang, Momento d’onestà, 2009) Dopo quindici anni io continuo a chiedere perché Snoop Dogg e Notorious Big sì e Tommy Riccio e Nello Amato no? E le risposte che ottengo non sono soddisfacenti, dietro tante chiacchiere riesco a percepire solo un contenuto, tangibile, solido, per me intollerabile oggi come allora, cioè che, parafrasando il vecchio adagio, «non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono neomelodici». 411 Giuseppe Aiello Ma ho il sospetto che il problema sia molto più grande, e non è possibile parlarne qui: se dopo trent’anni dal sequestro Cirillo ci sono ancora dei buontemponi che parlano di camorra come “antistato”, come posso io pretendere che abbiano le idee chiare ragazzi che non sanno manco chi era Ammaturo? Però una cosa avrei voglia di pretenderla, una cosa molto più modesta. Un po’ più di rispetto per le persone che vivono, da generazioni, in questa città e per chi canta, per loro, le loro vite. Passione, ovvero una cartolina da Broccolino Non vado al cinema, ma per Passione non potevo rifiutare l’invito di Lucia: Turturro che fa un film sulla canzone napoletana, irresistibile. Tra l’altro nella mia memoria Turturro era il pizzaiolo razzista di Fa’ la cosa giusta, un film cruciale per la storia dell’hiphop, con Fight the power dei Public Enemy – più che una canzone un manifesto politico-culturale degli afroamericani, e non solo, del secolo passato – pompata tutto il tempo. Sono entrato scevro di pregiudizi e sono uscito con il fegato marcio. Non perché il film sia fatto male, né perché la musica contenuta sia brutta, tutt’altro. Ha dei meriti grandissimi, come dare finalmente il giusto spazio a personaggi che ho sempre amato, su tutti James Senese e Peppe Barra, il cui immenso contributo alla nostra musica è stato costantemente sottovalutato; come riscoprire un Fausto Cigliano in magnifica forma o filmati d’epoca straordinari (un Carosone pianista, non più giovane, da restare a bocca aperta). Ottima la scelta anche quella di inserire bravi cantanti un po’ collaterali rispetto alla canzone napoletana come Rino Della Volpe o la Montecorvino; molto meno buona la scelta di altri inutilissimi e scialbi interpreti. È un film gradevole e divertente se non ci fosse il piccolo inconveniente di un continuo sproloquiare su quanto sia importante la musica per la città, su quanto la città e la musica costituiscano un corpo unico. Verissimo, il concetto, ma l’amara verità è diversa: Turturro è venuto da Broccolino e ha fatto l’ennesima Cartulina ‘e Napule. Tutto il film è girato nel nostro meraviglioso (sì, un po’ logoro) centro storico, ma in quei vicoli e in quelle piazze dove nel film si esibiscono gli interpreti, nella vita di ogni 412 Non siamo noi che siamo razzisti,sono loro che sono neomelodici… giorno forse solo due dei personaggi citati vengono ancora oggi ascoltati, cioè Sergio Bruni e Angela Luce. Quando scendo di casa la mattina io per strada sento altra musica e questa musica nel film non c’è affatto. Il fatto che proprio i personaggi più amati dalla gente, quelli che per la musica popolare urbana sono il legame tra il passato e il presente – prima di ogni altro, Mario Merola e Pino Mauro – non vengano neanche nominati, ha per me dell’incredibile. La neomelodica non esiste, non esiste Nino D’Angelo né Gigi D’Alessio. La musica popolare nella rappresentazione di Napoli può dunque essere solo quella del passato, oggi l’unica che si possa filmare è musica non-popolare. E se in Passione di musica popolare urbana vera non ce n’è, dove sarà mai? Basterebbe aprire le orecchie. In questi ultimi anni il cambiamento più macroscopico riguarda il mezzo di diffusione, che prima era essenzialmente la radio. Le centinaia di microemittenti che in maniera straordinariamente orizzontale sintonizzavano la città – comprese le stanze di Poggioreale e Secondigliano – con i loro idoli in un rapporto simbiotico, sono state quasi del tutto sterminate dalla politica delle frequenze, sostituite da un certo numero di televisioni che passano neomelodici a getto continuo. A questo si vanno a sommare i filmati disponibili su youtube (nel momento in cui scrivo il più vecchio dei video di Ma si vene stasera di Alessio, con il solo testo, senza immagini, conta 4.847.288 visualizzazioni), a diffondere modelli ben diversi da quelli imperanti, con ragazze protagoniste che certo hanno poco in comune con le modelle anoressiche delle riviste patinate, budget evidentemente assai contenuti, classiche storie d’amore e tradimento o piccoli capolavori surreali. A chi si dimostrasse scettico di quest’ultima affermazione consiglio la visione, solo a titolo d’esempio, di ‘E carrub di Gianni Dany, una specie di Police on my back, però iperbolica e multirazziale. Nei vicoli continua a sentirsi tanta musica, un po’ meno di una volta, molta roba singalese, dell’Europa dell’est, magrebina, africana, un’internazionale neomelodica, bellissima, peccato i cinesi non partecipino. E sempre tanta musica napoletana, canzoni di oggi, di dieci anni fa – da qualche parte spunta fuori inevitabilmente Ragione e sentimento di Maria Nazionale, esempio primigenio e insuperato di rap neomelodico – canzoni di molti anni fa, da un basso si sente la voce inconfondibile di Pino Mauro che canta Nun t’aggia perdere. E sentendola per l’ennesima volta penso che in fondo va bene così, questa è una musica che non sopravvive grazie ai media o alle sovvenzioni statali, ma vive perché è capace di scandire le giornate della gente, quelle di festa, 413 Giuseppe Aiello quelle gioiose come quelle terribili. È una musica che quei giorni sa come raccontarli, che è partecipe delle emozioni quotidiane, che assolve al suo compito. Che fa cioè quello che deve fare, quello per cui è nata tutta la musica popolare, di ogni tempo, di ogni paese. E il popolo lo sa, e se la tiene stretta, anche se a molti di voi forse questo non piace. 414