ANTONIO LIVI
Dizionario critico
della filosofia
ANTONIO LIVI
DIZIONARIO CRITICO
DELLA FILOSOFIA
SOCIETA’ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
PRESENTAZIONE
Tutta la mia produzione filosofica, tanto quella di carattere scientifico quanto
quella di carattere didattico, dimostra quanto io sia persuaso dell’importanza del
lessico filosofico e quanto sia consapevole dei problemi che esso suscita ogni
qual volta ci si trova a dover interpretare e valutare dei testi nei quali i filosofi
introducono nuovi termini per esprimere le loro proposte teoretiche o storiografiche, oppure usano termini classici ma dando loro un significato diverso. Per
di più, la mia esperienza di insegnamento della filosofia e la frequente partecipazione a dibattiti interdisciplinari mi hanno consentito di constatare quanto
sia stato difficile, per i miei stessi studenti e anche per gli interlocutori di estrazione culturale diversa dalla mia, non dico accettare le mie tesi ma addirittura
comprenderne il senso: e non tanto per i concetti in sé quanto per il linguaggio
che mi trovavo a dover usare per esprimerli. Proprio per questo, ho ritenuto
necessario corredare di un glossario di termini tecnici della filosofia alcune
mie opere, alcune di carattere teoretico (1) e altre di carattere storiografico (2);
inoltre, ho scritto anche delle opere filosofiche a carattere propriamente lessicale, che costituiscono i precedenti di questa che sto adesso presentando: una si
intitola semplicemente Lessico della filosofia (3), mentre l’altra vuole indicare già
dal titolo (Dizionario storico della filosofia) l’intenzione di illustrare il significato
dei termini filosofici attraverso la loro evoluzione nel tempo (4). Il titolo che
ho scelto per questo nuovo lavoro lessicografico - Dizionario critico della filosofia
- risponde a un ulteriore passo avanti nell’impegno didattico di rendere sempre più intelligibile il linguaggio usato dai filosofi antichi e moderni nelle loro
(1) Cfr Antonio Livi, «Dizionario critico dei termini filosofici», in Idem, Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, Editrice Massimo, Milano 1992, pp. 150-168; Idem, «Glossario epistemologico».
In Idem, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Armando Editore, Roma 1997, pp.
167-189; Idem, «Indice analitico e glossario», in Idem, La ricerca della verità. Dal senso comune alla
dialettica, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005, 423-461.
(2) Cfr Antonio Livi, La filosofia e la sua storia, 3 voll., Società Editrice Dante Alighieri, Roma
1995-1998; Idem, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1997; Idem, Storia sociale della filosofia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 20022004.
(3) Cfr Antonio Livi, Lessico della filosofia. Etimologia, semantica e storia dei termini filosofici, Edizioni
Ares, Milano 1995.
(4) Cfr Antonio Livi, Dizionario storico della filosofia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2005;
Idem, Nuovo Dizionario storico della filosofia, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2008.
PRESENTAZIONE - V
opere. La “critica” cui faccio qui riferimento è infatti un elemento essenziale
della comprensione dei testi filosofici. I motivi sono questi.
1. Innanzitutto, la filosofia nasce e si comunica attraverso il linguaggio, che
è una componente essenziale della vita sociale. I rapporti tra le persone
all’interno di un gruppo sociale necessitano di un linguaggio, sia simbolico
e gestuale sia soprattutto verbale, che permetta la più ampia e continua
comunicazione di dati e di intenzioni tra i soggetti. L’episodio biblico di
Babele è la conferma, da parte della rivelazione divina, di quanto sia essenziale per la società assicurare una adeguata comunicazione interpersonale.
Nella società, poi, ci sono diverse funzioni, anche cognitive, e tra queste la
funzione culturale e scientifica della filosofia, che è sempre opera di alcuni
individui, detti “filosofi” (i nome astratto di “filosofia” trae la sua origine dal
concreto di chi la elabora), i quali si dimostrano capaci di riflettere sui dati
del senso comune e delle altre forme di conoscenza, sia ordinaria che scientifica, problematizzandoli e cercando di sistematizzarli (5). Questi individui
non possono che servirsi, per la loro riflessione, dei dati e delle valutazioni
che vengono loro fornite dagli altri nel contesto sociale nel quale si trovano a operare. Non basta la personale esperienza del mondo e non basta
nemmeno l’autocoscienza, ossia l’esame dei propri contenuti di coscienza:
occorre avvalersi dell’esperienza altrui, che arricchisce infinitamente la propria e consente anche di esercitare la capacità inferenziale attraverso il ragionamento induttivo, ricavando dall’analogia delle diverse esperienze alcune
importanti leggi generali (cosmologiche, psicologiche, etiche). Inoltre, ogni
persona impara a capire il mondo e se stesso e poi impara a ragionare proprio attraverso il linguaggio, il che avviene a ogni livello della conoscenza,
compresa quella propriamente filosofica; anzi, ogni filosofo ha cominciato la
sua personale riflessione proprio studiando quello che altri filosofi avevano
detto, esprimendo e volendo comunicare quello che avevano pensato.
2. Ma ogni comunicazione di dati e di valori attraverso il linguaggio è anche,
per i filosofi, una provocazione a verificare l’attendibilità di quanto viene
trasmesso. Ecco allora che viene chiamato in causa l’intelletto nella sua funzione propriamente “critica”, ossia di valutazione. La funzione critica nei
confronti di quanto viene comunicato dagli altri non però sostanzialmente
differente dalla medesima funzione quando viene esercitata in proprio, ossia
nella valutazione della possibilità di affermare o negare qualcosa. In entrambi
(5) Vedi, sulla natura della riflessione filosofica e sul suo rapporto con il senso comune, Antonio
Livi, Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia¸ Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma
2007.
VI - PRESENTAZIONE
i casi, infatti, si tratta della percezione intellettuale della “giustificazione epistemica”. Ogni volta che l’individuo si trova a dover formulare il suo assenso
a una ipotesi di giudizio, egli deve valutare se ha nella sua coscienza tutti
i dati che giustificano l’assenso, e questa operazione intellettuale si chiama
appunto verifica della “giustificazione epistemica”. Poco importa, ai fini della
“giustificazione epistemica”, che l’ipotesi da esaminare sia stata formulata dal
soggetto stesso, all’interno della sua ricerca della verità, o sia stata proposta
da altri soggetti (6). La differenza sta però nel fatto che il soggetto che riceve
da altri soggetti la proposta di credere a una altrui esperienza o di condividere un’opinione viene impegnato alla verifica due volte: prima infatti deve
verificare, in base alla logica stessa della comunicazione linguistica, se quello
che gli viene detto è comprensibile (ossia, se si capisce a che cosa ci si riferisce); solo dopo passerà a verificare se quello che gli viene detto è plausibile
(ossia, se è possibile che sia vero). La filosofia non sfugge a queste esigenze
semantiche (della comunicazione) ed epistemiche (della certezza).
3. Di conseguenza, chi legge o ascolta un discorso filosofico, prima di tutto ha
il problema di capire quello che viene detto, e poi sentirà anche il bisogno
di verificare se quello che viene detto, nuovo o vecchio che sia, è accettabile, condivisibile. Ecco spiegata allora la necessità di un esame del linguaggio filosofico che non si limiti all’aspetto semantico ma prepari il terreno
anche alla funzione propriamente epistemica. Ecco perché non bastava un
Dizionario storico della filosofia ma si rendeva necessario anche un Dizionario
critico della filosofia.
Con queste o con simili ragioni tutti ammettono ormai che lo studio della
filosofia e la stessa produzione filosofica originale richiedono un serio confronto
con i testi che contengono il pensiero altri, e in particolare quello dei classici
dell’antichità, del Medioevo e dell’epoca moderna. Non si fa filosofia senza la
storia della filosofia. Il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele, inizia una
delle sue opere più celebri, la Metafisica, proprio con un primo tentativo di
confronto critico con i filosofi che lo avevano preceduto, dai “fisici” a Platone.
E lo stesso Platone, oltre a consegnare alla storia il pensiero di Socrate, che
nulla aveva lasciato di scritto, aveva illustrato le sue teorie metafisiche attraverso
la critica di Parmenide e dei Sofisti. Dunque, la necessità di comprendere ciò
che i filosofi hanno detto nel passato e dicono oggi, con un approccio critico al testo filosofico che non si limiti alla comprensione dei termini nel loro
significato astratto ma arrivi a comprendere come quei termini sono inseriti in
(6) Cfr Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Casa editrice Leonardo
da Vinci, Roma 2005.
PRESENTAZIONE - VII
un determinato discorso – fatto di proposizioni, ossia di asserti o giudizi - con
pretese di verità (7).
Étienne Gilson, un grande filosofo francese del Novecento, ha polemizzato
negli anni Trenta con quanti sostenevano la necessità di respingere l’idealismo e
di ammettere quindi il realismo metafisico, ma a patto che esso fosse presentato
in forma «critica»: ma il realismo è una posizione filosofica, e come tale è sempre necessariamente critico, ossia giustificato razionalmente, mentre l’idealismo
non lo è. Così in quella occasione Gilson ha avuto modo di chiarire, una volta
per tutte, che la filosofia, se è veramente tale, è sempre critica, lo è per la sua
stessa natura (8). Si può riprendere oggi questa lezione del filosofo francese utilizzando un termine attualmente molto usato per influsso della scuola analitica
anglosassone: il termine di “giustificazione epistemica”. Infatti, la filosofia è
fatta di proposte teoretiche che debbono esibire, di fronte alla ragione critica,
la propria giustificazione epistemica, dicendo chiaramente come si sia giunti a
pensare che ciò sia vero: tutte le asserzioni di un filosofo dovrebbero insomma
mostrare in termini espliciti le ragioni per cui si è arrivati a quella determinata
conclusione ritenuta vera, e anche le ragioni per le quali tale conclusione, una
volta compresa per quello che veramente vuol dire, dovrebbe essere condivisa da
tutti. Il filosofo non può dunque pretendere di imporre una sua teoria facendo
leva, non su motivi razionali ma su motivi emotivi e inconsci (è l’arte della
persuasione retorica); egli è tenuto a far leva unicamente sulla razionalità di ogni
interlocutore, spiegando il senso di quello che egli propone come verità da condividere e sottoponendosi alla critica di chi lo ascolta e analizza il suo discorso,
il quale avrà poi la possibilità di formulare un suo personale giudizio, positivo
o negativo. Etimologicamente, il termine “giudizio” è l’equivalente latino del
termine greco “critica”, quindi è logico che la lettura di un testo di filosofia
– che consta di una serie di giudizi teoretici e storici proposti al pubblico con
la speranza che siano giudicati validi - sia in definitiva l’esercizio più sistematico
e più rigoroso della funzione critica. E il primo, immediato oggetto di questa
critica è costituito dalle parole (vocaboli e frasi) che intendono veicolare quel
(7) «La verità che il pensare della filosofia è sempre un “pensare in atto” o “pensiero pensante”, vale
non soltanto per la teoresi filosofica ma anche per la storiografia filosofica. Sorge da qui l’importanza
metodologica di tenere strettamente unite, nella storiografia filosofica, “teoria” e “filologia”, comprensione delle questioni speculative e conoscenza critica delle differenze tra le varie epoche e i
distinti filosofi, sia per quanto riguarda il piano della semantica – cioè del diverso significato che
po’ essere annesso a termini identici – sia a riguardo delle pre-comprensioni originarie delle singole
filosofie e, infine delle novità concettuali in esse presenti» (Leonardo Messinese, Il problema di Dio
nella filosofia moderna, Lateran University Press, Città del Vaticano 2001, p. 18).
(8) Cfr Étienne Gilson, Le Réalisme méthodique, Téqui, Parigi 1935 (trad. it.: Il realismo, metodo della
filosofia, ed. Antonio Livi, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008).
VIII - PRESENTAZIONE
messaggio: perché occorre innanzitutto comprendere il loro significato alla luce
del contesto e delle intenzioni speculative dell’autore (comprensione semantica),
per poi verificare (comprensione epistemica) se si tratta di un neologismo arbitrario o che ha una sua giustificazione, oppure se si tratta di un termine classico
usato secondo il suo significato proprio.
I lettori di questo Dizionario critico della filosofia si renderanno conto di
come ogni lemma sia pensato e scritto con l’intenzione di agevolare la comprensione critica dei termini o delle frasi che si trovano nei testi filosofici.
Ciò, naturalmente, non si può fare in forma “neutra” o assurdamente “imparziale”: neutralità e imparzialità non sono dei valori positivi quando si tratta
della verità, e l’essenza della filosofia è appunto la pretesa di dire la verità sul
mondo, sull’uomo e su Dio. Chi insegna la filosofia o aiuta gli altri a fare
filosofia non può assumere, nei confronti di una tesi filosofica, l’atteggiamento
di Pilato, il quale, essendo un romano educato alla scuola degli scettici greci,
non intendeva prendere posizione di fronte alla pretesa di Gesù di essere la
verità in Persona, e pertanto si trincerò dietro a una ipocrita: «Che cosa è mai
la verità?». Così, mentre si dichiarava incompetente a risolvere il problema
teoretico, ritenne invece di avere, riguardo al problema pratico del giudizio
penale, la piena competenza giurisdizionale per ordinare la condanna a morte
per uomo che sapeva innocente. Di fronte a una tesi autenticamente filosofica
– che intende quindi proporre una verità razionale che investe tutta l’esistenza dell’uomo - non si può rimanere indifferenti o assumere atteggiamenti di
frivolo disimpegno riguardo alla verità, come fanno quelli che qualificano un
discorso filosofico dicendo solo che è «interessante». Di un discorso filosofico,
infatti, non si può giudicare solo gli aspetti “formale” - ossia se è qualcosa di
nuovo oppure qualcosa di già detto da altri, se è innovativo o tradizionale,
se risulta attraente oppure contrario al gusto attuale - ma occorre giudicare
anche e soprattutto l’aspetto “materiale”, ossia se appare vero o verosimile.
Questo dizionario indica dunque lealmente se ogni termine è convincente
dal punto di vista razionale, se cioè la teoria nella quale è inserito è sostenuta
da una persuasiva “giustificazione epistemica”.
Per segnalare questo aspetto fondamentale del linguaggio filosofico io ho
utilizzato soprattutto l’accorgimento - tipicamente realistico – della verifica del
vero referente del singolo termine all’interno del suo specifico contesto sintattico.
L’individuazione del reale referente del discorso mira in effetti a mettere bene
in evidenza di che cosa parla quel filosofo, a che cosa si riferisce, su che cosa vuole,
in definitiva, che si sia d’accordo con lui. La teoria del referente, insomma, è
un’applicazione logico-linguistica della mia filosofia del senso comune, essendo
il senso comune il terreno di comune esperienza immediata e incontrovertibile
che permette la comunicazione tra soggetti: purché, beninteso, nella comunicazione ci si serva di un linguaggio che esprima chiaramente a che cosa ci si
riferisce, e ci si riferisca innanzitutto a ciò che tutti sanno (certezze di ambito
PRESENTAZIONE - IX
universale e necessario) e poi eventualmente anche a ciò che sanno cloro ai
quali il discorso si rivolge nella concretezza della contingenza storica (9).
Un esempio di questo metodo al servizio della comprensione critica dei
termini filosofici è il modo con cui presento il termine “essere”, che è il termine essenziale del discorso metafisico. Esso è immancabilmente presente sia nei
filosofi (pochi) che si continuano a professare metafisici – convinti cioè della
possibilità e della necessità di fare metafisica anche dopo Kant, il neopositivismo e Heidegger – sia in quelli che invece dichiarano la metafisica superata o
addirittura impossibile. Qual è il referente del termine metafisica in ciascuno
di essi? Nel caso di Heidegger e di tanti suoi discepoli, soprattutto di scuola
ermeneutica, io non trovo espresso, né chiaramente né confusamente, il referente
di questo termine: non si può sapere che cosa esso significhi in sé, nella mente
di quei filosofi, si può solo immaginare che cosa possono pensare gli ascoltatori
se hanno presente il significato del termine “essere” così com’è usato da altri
filosofi, ad esempio dai metafisici dell’epoca moderna o anche dagli idealisti
tedeschi. Ma Heidegger e i suoi discepoli dicono di non voler riprendere il
discorso di quegli altri filosofi, perché li ritengono completamente in errore
(Heidegger, ad esempio, accusa tutta la filosofia occidentale, da Platone fino a
lui stesso, di una disastrosa «Seinsvergessenheit», ossia di aver parlato solo degli enti
e di aver così «dimenticato l’essere»). Lo stesso dicasi della metafisica razionalistica antica di Plotino, Spinoza e Hegel (10), come della metafisica razionalistica
contemporanea di Emanuele Severino (11). Io sono costretto, per l’idea che ho
della filosofia e della metafisica (12), a dichiarare incongruo, arbitrario e in definitiva vuoto ogni utilizzo del termine “essere” che non abbia come referente gli
enti realmente esistenti e presenti nell’esperienza originaria: così l’essere è una
(9) Cfr Antonio Livi, Senso comune e logica aletica, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 20052;
Idem, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Casa editrice Leonardo da Vinci,
Roma 20092.
(10) Vedi quanto scrive sull’argomento, riportando il pensiero di Michele Federico Sciacca,
il suo allievo Carlo Lupi: Metafisiche non creazionistiche e metafisica creazonistica, in Pier Paolo
Ottonello (ed.), Sciacca. La necessità della metafisica, Leo Olschki Editore, Firenze 2004, pp. 109114.
(11) Si veda in proposito l’acuto saggio di Valentina Pelliccia, Emanuele Severino e la critica razionalistica del senso comune e della fede, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2009.
(12) Cfr Antonio Livi, Metafisica e senso comune. Sullo statuto epistemologico della filosofia prima, Casa
editrice Leonardo da Vinci, Roma 2007. In questa opera sostengo, argomentando adeguatamente
questa tesi, che la metafisica altro non è che la formalizzazione, con un linguaggio razionale e nel
quadro logico di un sistema scientifico, delle nozioni (concetti) e delle certezze (principi) che
sono propri del senso comune. Sono queste nozioni e queste certezze il referente naturale del
discorso metafisico, e il lessico della metafisica deve saper stabilire chiaramente il nesso semantico
con questo necessario referente.
X - PRESENTAZIONE
maniera linguistica di designare la realtà di tutte le cose in ciò che tutte hanno in
comune, cioè il fatto di essere. Quando uno dei filosofi moderni parla di «essere»,
io ritengo il suo discorso comprensibile e accettabile solo se nel suo contesto
il termine “essere” equivale alla nozione tomistica di «esse commune rerum», la
quale permette l’ascesa della metafisica dall’esperienza del mondo («res sunt») alla
necessaria “posizione” di Dio come prima causa del mondo e pertanto «ipsum
esse subsistens». Chi consulta il mio Dizionario critico della filosofia avrà modo di
capire perché non riesce ad afferrare, ad esempio, il senso di espressioni come
questa, famosa, di Hans-Georg Gadamer: «L’essere di cui si può parlare è solo il
linguaggio». È una frase che nessuno può comprendere, e tanto meno prendere
per vera, perché non dice nulla di comprensibile alla luce della comune esperienza metafisica, in quanto il termine “essere”, nel contesto dell’ermeneutica
di Gadamer, si riferisce a qualcosa è all’interno del linguaggio e si identifica con
esso, e quindi non è un più il referente del linguaggio stesso, non ciò di cui
si parla. Per chiarire ulteriormente questo discorso critico, io ho poi collegato
il lemma “essere” ai lemmi che sono logicamente collegati tra loro per via di
un comune referente: oltre “ente”, a “res”, a “esse commune rerum”, a “ipsum esse
subsistens”, anche a “esistenza”, a “essenza”, a “actus essendi”, senza tralasciare un
necessario raffronto critico con il termine Heideggeriano “Dasein”.
Ho fatto solo un esempio di come questo Dizionario critico della filosofia presenta i termini e le frasi del linguaggio usato dai pensatori antichi e moderni. Il
metodo potrà sembrare a qualcuno dogmatico e “di parte”, come se io volessi
imporre ai lettori un’interpretazione ideologica della dottrina dei diversi filosofi.
Ma, se ci si pensa bene, è proprio questo, per le ragioni che ho appena esposto,
l’unico metodo adeguato alla materia, l’unico che possa presentare il lessico
della filosofia con serietà scientifica e con efficacia didattica.
PRESENTAZIONE - XI
GUIDA ALL’USO
DEL DIZIONARIO
1. Oltre ai termini strettamente fi losofici, sono stati inclusi in questo Dizionario storico anche quei termini della teologia (cattolica e protestante), delle
scienze umane (storia, politica, economia, sociologia, diritto, antropologia,
psicologia, pedagogia) e delle scienze biologiche e fisico-matematiche che
nel corso dei secoli hanno fatto parte del discorso fi losofico sull’uomo, sulla
natura, sulle scienze, sulla morale, sulla politica e sulla religione.
2. Questo Dizionario storico consta di tre parti. Nella prima (“Vocabolario”), sono elencati in ordine alfabetico e spiegati i termini semplici, ossia le
parole: sostantivi, aggettivi e verbi sostantivati. Nella seconda parte (“Fraseologia”), sono invece elencati – sempre in ordine alfabetico – i termini composti
e le frasi o detti che ricorrono frequentemente nel linguaggio fi losofico (in
greco, in latino o in italiano e nelle lingue moderne). La ricerca dei termini
va condotta pertanto sia nella prima che nella seconda parte: nella prima se si
tratta di un termine semplice, nella seconda se si tratta di una frase o di una
locuzione o di qualche altro termine composto. Conclude il Dizionario storico
una terza parte (“Itinerari semantici”), dove sia i termini semplici che quelli
composti vengono inquadrati in dieci percorsi storici che servono a evidenziare
l’evolversi del linguaggio fi losofico in ciascuna delle aree di ricerca della filosofia, giacché tutte nel tempo hanno finito per dotarsi di un loro lessico
specifico.
3. Si tenga presente che i rimandi da un termine all’altro - con la sigla
“(v.)” - servono a inquadrare ogni definizione nel contesto dottrinale che
le è proprio e nel sistema linguistico relativo a ciascuna disciplina fi losofica
(metafisica, logica, cosmologia, psicologia, etica, estetica eccetera). Se il termine al quale si rimanda è “semplice”, se cioè è un vocabolo, lo si troverà nella
prima parte del Dizionario, denominata appunto “Vocabolario”; se invece se
tratta di un termine “composto”, ossia se è un modo di dire o una frase, allora
lo si troverà nella seconda parte, denominata appunto “Fraseologia”.
4. La traslitterazione dei termini greci, tra parentesi quadre, ha lo scopo
di facilitarne la lettura a chi non conosce il greco: per questo sono segnalati
anche gli accenti tonici ed è stata trascurata la differenza quantitativa delle
sillabe (ossia la differenza tra l’epsilon e la eta, e tra l’òmicron e l’oméga). Il
dittongo “ou” è traslitterato con “u”, e la vocale ýpsilon con la “y”, mentre
le consonanti phi e theta sono traslitterate secondo l’uso classico, cioè rispettivamente con “ph” e “th”. Lo spirito dolce non ha traslitterazione, mentre
quello aspro è reso con l’”h”.
XII - PRESENTAZIONE
PRIMA PARTE
VOCABOLARIO
(TERMINI SEMPLICI)
A-a
Abalietà (dall’espressione latina “[esse] ab alio = [dipendere] da un altro”):
è il sostantivo che esprime sinteticamente la caratteristica di base di
tutti gli enti (v.), i quali hanno l’essere (v.) per partecipazione, ossia
sono creati e - appunto perché creati - hanno origine e dipendono in
tutto e per tutto dall’Altro, cioè dal loro Creatore, che è Dio (v.). Cfr
Creazione, Concorso divino, “Il totalmente Altro”, Relazione
trascendentale. Il contrario logico di “a.” è la proprietà, esclusivamente divina, di essere “a se”(v.); cfr Aseità.
Abduzione (dal latino “abductus, -a, -um”, part. pass. del verbo “ab + ducere = portar fuori”, quindi: “risultato dell’azione di estrarre”): termine della logica corrispondente al greco “παγωγ [apagoghé]”; per
Aristotele e gli Scolastici l’ab. è un sillogismo (v.) non apodittico (v.)
ma meramente ipotetico (v.), in quanto la “premessa minore” (v.) non
è assolutamente certa ma solo probabile; per il fi losofo americano
Charles Sanders Peirce, tra la fi ne dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il termine “abd.” (abduction) non indica più una dimostrazione
bensì l’elaborazione di ipotesi (v.), ossia di congetture cui la scienza
fa ricorso per spiegare nuovi fenomeni, in attesa di avere gli elementi
sufficienti per l’induzione (v.); scrive infatti Peirce: «Abduction, usually
called adopting a hypothesis [= Abduzione, che si suol denominare “ricorso a una ipotesi”]».
Abito (dal latino “hábitus, -a, -um”, part. pass. del verbo “habére = possedere”; pertanto: “ciò che si possiede”): può essere la disposizione o il
“rivestimento” di un corpo, e in questo senso è il nome di uno dei
nove accidenti (v.) della sostanza (v.); ma può anche essere una specie
di un altro accidente, la “qualità”, ossia la disposizione stabile delle
facoltà (v.) dell’anima a compiere determinati atti moralmente buoni,
nel qual caso si parla di “virtù” (v.), o atti moralmente cattivi, nel qual
caso si parla di “vizio” (v.). In questa seconda accezione, come tipo
di qualità, l’a. corrisponde al termine greco “ξις [héxis]”, tipico delParte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 3
l’etica aristotelica. Cfr Comportamento, Morale. Si tenga presente,
per stabilire la differenza, il termine affi ne “abitudine” (v.).
Abitudine (dal sostantivo latino “hábitus, -us”, derivante dal part. pass. del
verbo “habere”; quindi: “qualità che si possiede in quanto la si è acquisita”): il termine vuole indicare la facilità a compiere certi atti (v.)
per via di una loro ripetizione; può comportare anche l’effettuazione
di certi atti senza riflessione o addirittura senza piena coscienza; molti
aspetti della vita pratica dell’uomo sono regolati dall’a., che permette
di prestare attenzione ad aspetti più importanti L’a. è stata studiata agli
inizi dell’Ottocento dal fi losofo francese Maine de Biran (cfr Mémoire
sur l’habitude, e De l’influencede l’habitude sur la faculté de penser: Oeuvres,
ed. Victor Cousin, vol. I, Parigi 1841) e agli inzi del Novecento da un
altro francese, Jacques Chevalier (cfr L’habitude: essai de métaphysique
scientifique, Parigi 1929). Cfr Automatismo
Accidente (dal latino “àccidens, -ntis”, part. pres. del verbo “ac-cìdere = cadere addosso”, quindi: “ciò che sopravviene o si aggiunge”): è un termine tecnico coniato da Aristotele per distinguere nell’ente (v.) empirico l’elemento mutevole da quello sempre identico a sé stesso, cioè
la sostanza (v.). Secondo la definizione aristotelica, è da considerarsi
ac. ( συμβεβηκς [symbebekòs]) tutto ciò che accompagna la sostanza,
qualificandola nella sua essenza (v.) o determinandone il divenire (v.).
Mentre la sostanza gode di una propria sussistenza (v.), ossia ha un
proprio atto d’essere e pertanto sussiste in sé stessa, l’ac. deriva il proprio atto d’essere dalla sostanza alla quale inerisce. Secondo la classificazione di Aristotele, tutte le sostanze (materiali) si manifestano
attraverso nove classi di ac.: 1) la “qualità”, che comprende le proprietà essenziali e le facoltà; 2) la “quantità”, che comprende la quantità “estesa”, cioè l’estensione, e la quantità “discreta”, cioè il numero;
3) la “azione”, che indica la causalità esercitata dalla sostanza su altri
enti; 4) la “relazione”; 5) la “passione”, che indica gli effetti della causalità esercitata da altri enti sulla sostanza; 6) il “luogo”, che indica il
“dove” della sostanza materiale; 7) il “tempo”, che indica il “quando”
della sostanza soggetta a mutamento o divenire; 8) la “situazione”,
che indica la posizione dela sostanza materiale nel luogo; infine, 9)
l’“abito”, nel senso non di “disposizione stabile” o “abitudine”, bensì
di “rivestimento” o “possesso”. Le sostanze spirituali (le anime separate e gli angeli) non hanno ovviamente l’ac. “quantità”. Modernamente, l’aggettivo “accidentale” connota qualcosa di casuale o di poco
importante: non è questo il senso fi losofico del termine aristotelico,
che – come abbiamo detto – può riferirsi anche alle dimensioni neces4 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
sarie dell’ente (per esempio, la corporeità nell’uomo) e alle proprietà
essenziali (come ad esempio l’intelligenza nell’uomo).
Accademia, accademici (dal nome proprio greco “Ακδημος
[Akàdemos]”): nome della scuola fi losofica istituita da Atene da Platone
presso i giardini dedicati al dio Academo; nell’età ellenistica si conoscono due scuole che si richiamano a quella di Platone: l’Ac. “media”,
con a capo Arcesilao (315 – 240 av.Cr.) e Carneade di Cirene (214
– 129 av. Cr.), e quella “nuova”, con Filone di Larissa e Antioco di
Ascalona (entrambi del I sec. av.Cr.), ai quali si aggiunsero poi i romani
Marco Terenzio Varrone e Marco Tullio Cicerone (di quest’ultimo
cfr le Academicæ disputationes). In rapporto a queste scuole elenistiche,
il termine “ac.” venne a significare, nell’antichità, una fi losofia che
professava lo scetticismo (v.), e a questo infatti intende riferirsi sant’Agostino quando scrive il suo Contra Academicos. Nel Rinascimento,
il termine “ac.” venn e usato di nuovo per indicare i cenacoli letterari
e fi losofici, come l’”Ac. platonica” di Firenze, fondata da Marsilio Ficino nel 1462. Attualmente sta a indicare l’ambiente universitario, con
le sue attività di ricerca e di insegnamento.
Acculturazione (neologismo scientifico, dal latino “cultura”, part. futuro
del verbo “còlere = coltivare”, + il prefisso “ad = verso, asieme a”;
quindi: “le cose da coltivare assieme ad un’altra cosa”): per metafora,
si intende per ac. il processo di aggregazione nel campo della cultura
(v.); il termine, in uso nell’antropologia culturale, indica in particolare l’insieme dei fenomeni nuovi derivanti dall’incontro tra culture
diverse: ad esempio, la cultura dei popoli americani, africani e asiatici
durante la colonizzazione da parte dei popoli europei. Si distingue
pertanto da “inculturazione” (v.).
Acosmismo (neologismo ricavato dal sostantivo greco “κσμος [kòsmos]
= mondo”, preceduto dall’alfa privativo, quindi: “dottrina di chi dice
che non c’è il mondo”): viene così chiamata da Hegel una teoria filosofica come quella di Spinoza, che ammette solo l’esistenza di Dio
(v.), facendo del mondo (v.) un “modo” di Dio stesso. Cfr “Deus sive
natura”, “Natura naturata”. Cfr anche Panteismo, che – sempre secondo Hegel – esprime un altro concetto, quello che Dio è il mondo
stesso.
Acroamatico (dall’aggettivo greco “κροαματικς [akroamatikòs]”, de-
rivante dal verbo “κροομαι [akroàomai] = ascoltare”, quindi: “[discorso] da ascoltare”): così erano dette le lezioni private di Aristotele,
ossia il suo insegnamento “esoterico” (v.).
Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 5
Adeguazione (dal latino “adæquatus, –a, -um”, part. pass. del verbo “adæquare”, derivante dall’aggetivo “æquus, -a, -um” = giusto”; pertanto:
“risultato di un giusto rapporto con qualcosa”): per l’uso di questo
termine nella fi losofia della conoscenza, v. Corrispondenza.
Afasia (dal sostantivo greco “φασα [aphasìa] = non poter parlare”): è
l’impossibilità di parlare - nel senso di formulare giudizi (v.) - che
hanno quanti adottano la posizione dello scetticismo (v.). Di tale a.
parla Aristotele nella Metafi sica.
Affermazione (dal latino “adfirmatus, -a, -um”, part. pass. del verbo “adfirmare = consolidare”, quindi: “atto di stabilire fermamente qualcosa”): per l’uso linguistico e gnoseologico di questo termine, v. Giudizio, Proposizione.
Affettività, Affetti (dal latino “affectus, -a, -um”, part. pass. del verbo
“afficere = agire su qualcosa”; dunque: “il risultato di un influsso”):
termine che viene usato modernamente per indicare alcune passioni
(v.) o le risonanze sensibili di alcune disposizioni della volontà: ad
esempio, l’amore (v.), l’amicizia (v.).
Affezione (dal latino “affectus, -a, -um”, part. pass. del verbo “afficere =
modificare, influire”, dunque: “influsso, modifica”): è la traduzione
latina del vocabolo greco “πθη [pathe]”, che in Aristotele significa
“ciò che accade nell’anima”. Dalla Scolastica medioevale questo termine è passato al razionalismo moderno (Leibniz, Christian Wolff ),e
da lì a Immanuel Kant, che lo usa spesso nel parlare della conoscenza
(v.); cfr Rappresentazione, Sensibilità.
Affinità (dall’aggettivo latino “affinis, -e”, derivante dal sostantivo plurale
“fines = confini” + la preposizione “ad = rapporto”, dunque: “contiguità tra due cose confinanti”): termine polisemico; nel Medioevo,
sant’Alberto Magno (sec. XIII) chiamava “aff.” (“affinitas”) l’attrazione
fisica tra particelle che porta alle combinazioni chimiche; nell’età moderna, la Scuola scozzese del Settecento (con a capo Thomas Reid)
denomina “af.” (“affinities”) le “associazioni di idee” (v.), mentre
Goethe, in sintonia con il Romanticismo, parla di particolari sentimenti (v.) che legano le persone, chiamandoli “Wahlverwandtschaften [=
af. elettive]” (cfr Die Wahlverwandtschaften, 1778).
Aforisma (dal sostantivo greco “φορισμς [aphorismòs]”, derivante dal
verbo “φορζειν [aphorìzein] = determinare, rinchiudere in uno
spazio ristretto”; dunque: “breve sentenza”): si tratta di un termine
6 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
fi lologico, stilistico (enunciati brevi a carattere sapienziale), che ha
interesse per la fi losofia in quanto genere letterario usato da alcuni
pensatori: nell’antichità, ne è esempio soprattutto Marco Aurelio; nell’epoca moderna, prima Blaise Pascal (cfr Pensées, 1655) e poi Friedrich
Nietztche (cfr Die fröhliche Wissenschaft, 1882, e Also sprach Zarathustra,
1884). Cfr Massima.
Agente (dal latino “agens, agentis”, part. pres. del verbo “àgere = agire,
muovere”, dunque: “colui che agisce”): indica, in metafisica, la cosa
o la persona che esercita un’azione (v.), che può essere di tipo fisico
o anche di tipo morale. Si contrappone a “paziente”, così come l’accidente “azione” si contrappone all’accidente “passione”. Cfr Causa,
Concorso divino, Intelletto agente, Omne agens agit propter finem,
Omne agens agit sibi simile.
Agire (dal latino “agere”): come sostantivo equivale a “azione” (v.) o “prassi”
(v.).
Agnosticismo (dall’aggettivo greco “γνωστος [àgnostos]”, formato da
“γνωστς [gnostós] = conoscibile”, preceduto dal prefisso “a”, indicante privazione, dunque: “inconoscibile”): è un termine moderno,
coniato nell’Ottocento da Thomas Huxley per indicare una dottrina
che sostiene l’insuperabile limitatezza della conoscenza (v.), per cui
possono essere conosciuti solo i dati dell’esperienza immediata ma non
le realtà metafisiche (l’essere delle cose nella loro universalità, l’anima
con la sua immortalità, la legge morale obiettiva, l’esistenza di Dio).
In termini espliciti, l’a. si ritrova modernamente in Kant; ma anche
nella fi losofia antica e medioevale si riscontrano posizioni analoghe.
Cfr Empirismo, Relativismo, Scetticismo.
Aggressività (dal latino “aggressus, -a, -um”, part. pass. del verbo “àggredi
= andare verso [qualcosa o qualcuno]”): per l’antropologia classica è
un aspetto positivo dell’animo (v.), una parte della virtù della fortezza
(v.), utile soprattutto per affrontare un dovere (v.) che si presenta come
“bonum arduum [= bene difficile da realizzare]”; invece, per Sigmund
Freud l’agg. è un istinto (v.) primario che porta ad attaccare e distruggere persone e oggetti del proprio ambiente (v.).
Alchimia (dal sostantivo arabo “al-kimiya = pietra fi losofale”): è l’arte della
trasformazione, mediante il fuoco e la distillazione, delle sostanze naturali. L’al. ha origine in Persia ma già dal Medioevo questo termine
passò dalle zone di cultura araba all’Occidente latino per indicare una
scienza sperimentale, la moderna “chimica”, ma con prevalente apParte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 7
proccio esoterico, affi ne alla magia (v.). Nel Rinascimento l’al. si sviluppa assieme alla nuova scienza (v.), e così sarà almeno fino a Isaac
Newton compreso. Cfr “Pietra fi losofale”. Secondo alcuni psicanalisti il linguaggio simbolico dell’al. rivelerebbe gli “archetipi” presenti
nell’inconscio (v.), cfr Carl Gustav Jung, Psicologia e alchimia, 1944.
Aldilà : avverbio italiano di luogo, usato come sostantivo per indicare la
realtà ultraterrena, quella che la Bibbia chiama “vita eterna” (v.); è una
nozione strettamente connessa a quella dell’immortalità (v.) e di Dio
(v.) come creatore e giudice; cfr Trascendenza.
Aleatorio (aggettivo derivante dal sostantivo latino “alea = dado [per il
gioco d’azzardo]”): equivale a “precario”, “imprevedibile”, “casuale”.
Cfr Caso, Fortuna.
Algebra (dal sostantivo arabo “al-Gebr = restaurazione”, nel senso di “rimettere ordine”): parte dell’aritmetica, ossia della matematica (v.) che
si occupa dei numeri, ossia della “quantità discreta” (v).
Algoritmo (dall’arabo “al-Kuwaritzmi”, poi latinizzato in “Algorithmus”,
nome di un matematico arabo del IX sec.): termine introdotto nella
logica da Post e da Turing per indicare un procedimento sistematico
di calcolo (v.) mediante il quale si perviene alla soluzione di un problema (v.) applicando una serie finita di regole e compiendo un numero finito di passaggi logici.
Alienazione (dal latino “alienatus, -a, -um”, part. pass. del “alienare”, derivante dall’aggettivo “alienus, -a, -um = altrui”, ossia “appartenente ad
altri”; pertanto: “atto di passare una proprietà ad altri”): in origine,
nel linguaggio giuridico dei Romani, significava la vendita o cessione
ad altri (alius) di qualche cosa. È entrato nella letteratura fi losofica a
partire dall’intuizione di san Tommaso della «reditio completa subiecti in
seipsum [= ritorno completo del soggetto in sé stesso]», ovvero dell’autocoscienza (v.) che non può avvenire se non attraverso la “alienatio”,
cioè il rapporto intenzionale della coscienza con l’altro da sé (aliud),
costituito dal mondo delle cose e dagli altri: con la conoscenza il soggetto distingue sé stesso dal mondo come oggetto e si autopossiede;
cfr “Fieri aliud in quantum aliud”, Intenzionalità, “Io e te”. Successivamente, il termine ha assunto un significato negativo a opera di
Hegel, per il quale il termine “a.” sta a indicare la separazione dell’Idea o Coscienza da sé stessa, la sua oggettivazione come natura (v.);
in questo stesso senso negativo usano il termine Ludwig Feuerbach
(1804 – 1872), per il quale la religione (v.) è “a. dell’uomo”, e Karl
8 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
Marx, per il quale “a.” significa l’espropriazione dell’uomo dei propri
diritti fondamentali, in particolare del lavoro (v.) e del suo guadagno.
In psicologia, per “a.” si intende invece uno stato mentale di confl itto
con la società (v.).
Allegoria (dal sostantivo greco “λληγορα [allegorìa] = parola o immagine
che portano a conoscere altro”): termine classico, usato nella poetica
greca, nella fi losofia dell’arte platonica e aristotelica, e anche nella teologia cristiana, soprattutto ad Alessandria di Egitto (Clemente Alessandrino, Origene). La base gnoseologica dell’all. è l’analogia (v.); cfr
Metafora. Nell’Ottocento, Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832)
ha distinto concettualmente “all.” da “simbolo” (v.).
Alterità (dal pronome latino “alter = l’altro”): può essere sinonimo di “oggetto” (v.) in quanto esso deve esere “altro” rispetto al soggetto (v.);
cfr Alienazione, “Fieri aliud in quantum aliud”. In altri contesti
può essere sinonimo di “differenza” (v.) o di distinzione tra individui
(v.). Cfr “Il totalmente Altro”, “Tu e io”. Nella fi losofia platonica,
l’“al.” è uno dei cinque generi supremi che regolano i rapporti tra le
Idee (v.). Nella fi losofia di Hegel, invece, l’al. significa che ogni determinazione (v.) che rende una cosa “qualcosa” costituisce un rapporto
di negatività con tutto il resto, che risulta “altro” da sé; cfr “Omnis
determinatio est negatio”. Vedi anche Identità.
Altruismo (dal francese “altruisme”): termine coniato nell’Ottocento dal
fi losofo francese Auguste Comte (1798 – 1857), in opposizione a
“egoismo” (v.), per indicare l’interesse di una persona per il bene altrui (di altre persone del proprio ambiente e poi di tutta la società).
Cfr Amicizia, Amore, Empatia, Filantropia, Solidarietà.
Ambientale, Ambientalismo,: termini che si rifanno al significato
fi losofico di “ambiente” (v.). Nel Novecento, i movimenti ideologici
e politici di ispirazione ambientalistica si sono proposti di promuovere
una «coscienza ambientale». Cfr Ecologia, Ecologismo.
Ambiente (dal latino “ambiens, -tis”, part. pres. del verbo “ambire = abbracciare”, “includere”; dunque: “ciò che include dentro di sé”): nel
linguaggio dell’antropologia è sinonimo di “mondo” (v.) in rapporto a
particolari gruppi sociali; corrisponde al tedesco “Umwelt”, all’inglese
“environment” e al francese “milieu”. Cfr Ecologia, Natura. In sociologia, è quella parte o settore della società (v.) nella quale un soggetto
vive (ad es., “l’am. scolastico”).
Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 9
Ambiguità (dall’aggettivo latino “ambiguus, -a, -um”, derivante dal verbo
“ambigere = dubitare”; pertanto: “[discorso] di dubbio significato”): è
la forma latina di esprimere il concetto di “anfibolia” (v.), che equivale, in logica, a “equivocità” (v.). alcuni fi losofi contemporanei,
come Pietro Prini, hanno voluto parlare della nozione di essere (v.)
non come fondata sull’analogia (v.), ma addirittura come caratterizzata
dall’am. (cfr L’ambiguità dell’essere, Ed. Marietti, Casale M. 1990). Cfr
Equivocità.
Amicizia (dall’aggettivo latino “amicus, -a, –um” = persona o cosa a cui
si vuol bene”): è il legame derivante dall’ affetto reciproco tra due
o più persone (v.), in quanto espressione dell’amore (v.) di “benevolenza”. L’importanza fi losofica di questo termine deriva soprattutto
dal ruolo assegnato all’amicizia (φιλα [philìa]) dai fi losofi greci (Pitagora, Platone, Aristotele, Epicuro e gli Stoici), che fanno di essa una
condizione essenziale per il progresso morale, ossia il raggiungimento
della virtù (v.), con la conseguente felicità (v.). Una sintesi di questa
dottrina si trova nell’opera di Cicerone, Lælius, seu de amicitia, dove
l’a. è definita “omnium divinarum et humanarum rerum cum benevolentia et
caritate consensio [= accordo su tutte le cose umane e divine, con benevolenza e affetto]” (cfr cap. 6); Cicerone comunque dipende dalla
prima trattazione fi losofica dell’a., che si trova in Aristotele (cfr Etica
a Nicomaco, libri VIII e IX). L’a è stata poi esaltata dalla fi losofia cristiana; sant’Agostino la definisce come «una anima in duobus corporibus
[= un’anima sola in due corpi]» (Confessionum libri, IV, 4). Cfr Affinità.
Ammirazione (dal latino “admiratus, -a, -um”, part. pass. del verbo “admirari = meravigliarsi”): meraviglia, ossia capacità di notare la presenza di qualche cosa di nuovo e di straordinario; è anche senso della
bellezza (v.) e del sublime (v.); cfr Contemplazione. Per Aristotele
il senso della meraviglia (“θαυμζειν [thaumàzein]”) è il principio di
ogni fi losofare, in quanto la “ricerca della sapienza” è innanzitutto
ricerca delle cause (v.) di ciò che accade e che non ha una ragione
evidente per cui accade; cfr Filosofia. Nell’epoca moderna, René Descartes considera l’am. come una passione (v.), fonte di tutte le altre
passioni (cfr Traité des passions, II, art. 53).
Amoralismo (dall’aggettivo latino “moralis, e = morale” + il prefisso greco
“a”, con senso privativo; dunque: “negazione della morale”): dottrina,
come quella di Friedrich Nietzsche (1844 – 1900), che svaluta la morale (v.), come ogni altro valore metafisico; cfr Nichilismo.
10 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
Amore (dal sostantivo latino “amor”): nome comune a ogni tipo di inclinazione o appetito (v.) verso qualsiasi tipo di bene (v.). Si distinguono
due tipi fondamentali di a.: l’“a. di concupiscenza” (che in greco è
detto “"ρος [eros]”), quando si basa sul desiderio (v.) di qualcosa e si
mira al possesso di questa cosa; e l’“a. di benevolenza” (che in greco
è detto “philìa”), quando “si vuole bene a qualcuno”, ossia quando l’a.
ha come oggetto una persona, della quale si desidera la crescita nell’essere. L’a. è la categoria suprema dell’etica (v.), la quale, essendo lo
studio del bene e dei mezzi principali per conseguirlo, deve necessariamente far riferimento all’a. L’a. di concupiscenza mira a ottenere un
bene per il soggetto stesso, e quindi è sempre interessato, anche se non
sempre si riduce a mero egoismo (v.); cfr Eros, Libido. Invece l’a. di
benevolenza è essenzialmente altruista; all’a. di benevolenza per Dio
(v.) come Padre e per “gli altri” come fratelli la teologia cristiana dà
il nome di “carità”, corrispondente al greco “γπη [agàpe]”. Quando
l’a. di una persona verso l’altra è corrisposto, si crea una reciprocità di
affetti che dà luogo all’amicizia (v.). L’a. può essere anche – sia pure in
modo indiretto – riflessivo: cfr Amore di sé, Amor proprio. Fin
dagli inizi della fi losofia l’a. è stato visto come una forza metafisica che
muove il mondo: così alcuni fi losofi presocratici, come Empedocle di
Agrigento, e così anche e soprattutto Platone, che nei suoi dialoghi
descrive il démone Amore (Eros), figlio di Povertà (Penìa) e di Risorsa
(Poros), destinato a colmare un vuoto, a rimediare a una carenza (cfr
Simposio e Fedro). I fi losofi dell’epoca romantica, come anche Arthur
Schopenhauer e Giacomo Leopardi, mettono in correlazione necessaria l’a. con la morte (v.); questa correlazione verrà poi ripresa da
Sigmund Freud, con i termini mitologici di Eros e Thànatos.
Anagogia (greco: “ναγωγα [anagoghìa]”, composto da “ν [anà]” +
“γωγε#ν [agoghéin] = portare da un’altra parte”; dunque: “ciò che
porta altrove”): per l’uso del termine nella logica, v. Induzione.
Analisi (dal sostantivo greco “νλυσις [anà-lysis]”, derivante dal verbo
“lyein = sciogliere”; dunque: “scomposizione”): è un termine consueto nella chimica, ma anche in fi losofia è importante, sia per quanto
riguarda la logica aristotelica che pedr quanto riguarda la fi losofia
kantiana. L’a., come termine fisico consiste nello scomporre un insieme nelle sue parti, nei suoi elementi; applicato alla logica, il termine
indica il procedimento per cui dall’esame di un concetto (v.) o di una
proposizione (v.) si risale ai suoi presupposti (v.) o princìpi (v.). Un
procedimento logico basato sull’a. è l’induzione (v.). Immanuel Kant
ritiene che l’a., a differenza della sintesi (v.), non implichi un accresciParte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 11
mento della conoscenza; cfr “Giudizio analitico”. Nel Novecento,
dopo Freud, “a.” è il nome di un certo metodo di indagine e di terapia
psicologica (cfr Psicologia del profondo). Contemporaneamente,
si è venuta chiamando “a. linguistica” la scuola di “fi losofia del linguaggio” (v.) che fa capo a Wittgenstein e al “Circolo di Vienna”
(v.).
Analitica, analitico: aggettivo derivante da “analisi” (v.) e che ha assunto nel tempo significati assai diversi: Aristotele denomina “a.”,
come aggettivo sostantivato, quella parte della logica che riguarda la
dimostrazione (v.), in opposizione alla “dialettica” (v.), mentre Kant
usa questo medesimo termine – “a. trascendentale” - per indicare la
gnoseologia (v.); sempre Kant usa l’aggettivo “a.”, in contrapposizione
a “sintetico”, per distinguere una classe di giudizi (v.); infi ne, nel Novecento, viene chiamata “fi losofia a.” (v.) l’analisi del linguaggio secondo la metodologia avviata da Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951)
e sviluppata dalle scuole fi losofiche di Oxford e Cambridge in Inghilterra e da gran parte dei fi losofi americani contemporanei, fino a Hilary Putnam. Cfr “Analitici e continentali”. In logica si parla anche
di “ragionamenti a.” in contrappposizione a quelli “sintetici”.
Analogato (dal latino “analogatus, -a, -um”, part. pass. del verbo di origine
greca “analogare = mettere in rapporto logico”): in logica, indica un
oggetto mentale messo in relazione con altri per via di analogia (v.).
Nella “analogia di attribuzione” si parla di un “a. principale” e di “a.
secondari”.
Analogia, analogico (dal sostantivo greco “ναλογα [analoghìa]”,
composto da “anà = in rapporto a” + “lògos = discorso”; dunque: discorso che stabilisce un rapporto, una proporzione”): in logica designa
sia una forma di ragionamento (v.) sia un tipo di predicazione (v.).
Il ragionamento per a. si distingue sia dalla dimostrazione propriamente detta, che può essere di tipo deduttivo o induttivo, in quanto
procede dal particolare per giungere ugualmente al particolare (da un
caso simile ad un altro caso simile), mentre la deduzione (v.) procede
dall’universale al particolare, e viceversa l’induzione (v.) dal particolare all’universale. Come forma di predicazione, l’a. si distingue dall’univocità e dall’equivocità: infatti, mentre nell’univocità (v.) un termine
viene applicato a molti soggetti in senso identico, e nell’equivocità (v.)
in senso totalmente diverso, nell’a. è applicato in senso parzialmente
eguale e parzialmente diverso. Si distinguono tre tipi principali di a.
predicativa: la “a. di attribuzione”, la “ a. di proporzionalità propria” e la
12 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
“a. di proporzionalità metaforica”. Nell’a. di attribuzione si parla di un
soggetto - l’“analogato principale” (v.) - cui il concetto è attribuito di
per sé, mentre ad altri soggetti – gli “analogati secondari” - è attribuito in rapporto a quello (come il concetto di “sano”, che di per sé si
dice dell’organismo, ma si può dire anche del clima e di altre cose, in
rapporto sempre all’organismo). L’a. di proporzionalità propria si basa
sulla somiglianza di rapporti (come quando si dice che la verità è per
l’intelletto ciò che la luce del sole è per la vista). Per l’a. di proporzionalità metaforica, vedi Metafora. Cfr “Analogia entis”.
Anamnesi (dal greco “νμνησις [anàmnesis] = “ricordo, memoria”): in
fi losofia è un termine tecnico che permette di rifarsi immediatamentre
alla dottrina platonica della “reminiscenza” (v.). Anche la liturgia cattolica utilizza il termine .per indicare l’Eucaristia (v.), il rito sacramentale istituito da Cristo “in sua memoria”.
Anapodittico: non “apodittico” (v.), ossia che non risulta come conclusione di un sillogismo (v.) ma è di per sé evidente (v.). Cfr Principi
primi, Senso comune.
Anarchia, anarchico, Anarchismo (dal verbo greco “ρχε#ν [archéin] = governare”, preceduto dal prefisso privativo “a”, e quindi:
“non-governo”): si tratta di termini della fi losofia greca, ripresi modernamente dai fautori dell’ideologia politica che combatte ogni autorità (v.): «Né Chiesa, né Stato, né padroni», gridavano nell’Ottocento i
seguaci di Michail Bakunin, i quali furono i primi a usare, nel 1839, il
termine “a.”. Nel secondo Novecento l’epistemologo Paul Fereyabend,
autore del saggio Contro il metodo, propone una «epistemologia anarchica». Cfr Nichilismo, Individualismo.
Anfibolia (dal sostantivo greco “μφιβολα [amphibolìa] = ciò che si può
intendere in due modi”, quindi: “equivoco”): v. Ambiguità, Equivocità.
Angelo (dal sostantivo greco “γγελος [ànghelos] = messaggero”): con
questo nome vengono designate in teologia delle creature dotate di
intelligenza e incorporee; di esse si ha conoscenza solo per Rivelazione (v.), anche se la cultura precristiana parla di figure mitologiche
in qualche modo assimilabili agli a. La fi losofia scolastica ne ha preso
atto – come dato teologico – per farne un oggetto di studio comparato, ossia per confrontare la natura degli a. (così come è stata rivelelata) con la natura dell’uomo (cfr la celebre questione de spiritualibus
creaturis, magistralmente trattata da Tommaso d’Aquino). Nozioni in
Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 13
qualche modo affi ni, nella storia della fi losofia, sono il “dàimon” di
cui parlava Socrate (come spirito divino che lo incitava testimoniare
la verità) e il “genio maligno” di René Descartes. Anche nel secondo
Novecento, un fi losofo di estrazione marxista come Massimo Cacciari
ha dedicato un suo libro a L’angelo necessario (1989).
Angoscia (dal sostantivo latino “angustia = strettoia”, derivante dal verbo
greco “νχειω [ànchein] = soffocare”): nella fi losofia di Soeren Kierkegaard (cfr Il concetto dell’angoscia, 1844), e poi in quella di Martin
Heidegger (che usa il termine tedesco “Angst”), indica la sofferenza
morale dell’uomo che sente il problema della libertà (v.) e il mistero
della morte (v.). Cfr Nausea, Pessimismo.
Anima (dal sostantivo latino “anima”, proveniente forse dal greco “%ναγμα
[anàigma] = senza sangue”, o da “νεμος [ànemos] = soffio, vento”):
il termine viene universalmente adoperato per significare il principio
primo della vita. I pensatori antichi e medioevali solevano distinguere
tra anima meramente vegetativa, quella anche sensitiva e infi ne quella
che include i gradi inferiori e possiede ache il livello razionale. Secondo molti scolastici, nell’uomo le tre a. sono formalmente distinte;
invece secondo san Tommaso si dà nell’uomo soltanto l’a. razionale, la
quale svolge anche le attività inferiori. Il termine“a.” è affi ne ma non
identico al termine “spirito” (v.) in quanto è più comprensivo (infatti
“spirito” si applica soprattutto alle operazioni intellettuali). Anche
nel greco classico e neotestamentario si distingue “ψυχ [psyché] =
anima”, da “πνε'μα [pnéuma] = spirito”. Per René Descartes (1596
- 1650) l’a. è ridotta a pensiero (v.) e denominata «res cogitans» (v.), in
contrapposizione al corpo (v.) e al mondo (v.), denominati entrambi
«res extensa» (v.). Cfr Anima del mondo, Animo, Immortalità
dell’anima, Spirito, Spiritualità dell’anima.
Animalismo (dall’inglese “animalism = movimento in difesa degli animali”): termine che indica il tentativo di biologi e antropologi di equiparare nella dignità e nei diritti (v.) gli animali “bruti” agli uomini
(v.); capofi la di queste teorie è lo studioso australiano Peter Singer,
autore del saggio intitolato Animal Liberation (1975); successivamente,
in collaborazione con Tom Regan (autore del saggio Animal Rights,
1975), ha fondato il Movimento per i diritti degli animali e ha pubblicato Animal Rights and Human Obligations (1989). Anche in Italia l’a. si
è fatto strada, ed è stato pubblicato un saggio di AA.VV., a cura di S.
Castiglione, I diritti degli animali (Ed. Il Mulino, Bologna 1988).
14 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
Animismo (neologismo dall’inglese “animism”): viene così chiamata dagli
etnologi quella visione del mondo (v.) che postula un elemento vitale,
come un’anima (v.) in tutte le cose; la visione diametralmente contraria è quella del meccanicismo (v.). Nel linguaggio dell’etnologia,
“a.” indica quella religione primitiva che ritiene esserci un’intenzione
soprannaturale o un’anima in ogni evento naturale. Cfr Universo,
Teleologia.
Animo (dal sostantivo latino “animus = intenzione, sentimento”): è un termine vago, che indica per lo più il mondo interiore dei sentimenti
(v.) e delle intenzioni; nel mondo latino, è celebre la distinzione che
Lucrezio ha fatto tra “anima” e “animus” (cfr De rerum natura, III, 94
ss.); precedentemente, nel mondo greco, Epicuro aveva definito l’a.
(“thymos”) come “la natura senza nome dell’uomo”. Il termine italiano
corrisponde al tedesco moderno “Gemüt”.
Anipotetico: è il contrario di “ipotetico” (v.), e indica di solito le “premesse” di un sillogismo (v.) “apodittico” (v.).
Anomia (dal neologismo “νομα [anomìa]”, composto con il sostantivo
greco “νμος [nòmos] = legge”, preceduto dall’alfa privativo; quindi:
“assenza di legge”): terrmine tecnico dell’antropologia culturale; per il
sociologo positivista francese Emile Durkheim, l’a. è lo stato di molti
gruppi etnici primitivi.
Anticipazione (dal sostantivo greco “πρληψις [pròlepsis] = qualcosa
collocato davanti”): termine specifico della fi losofia stoica ed epicurea che sta a indicare una forma di conoscenza (v. ) che precede
e rende possibile l’esperienza (v.); può sembrare qualcosa di analogo
all’”a priori” (v.) di Kant, ma in realtà è collegato alle “koinài énnoiai
[= nozioni comuni]” degli stessi Stoici, ossia al “senso comune” (v.).
Per il fi losofo romano Marco Tullio Cicerone, di indirizzo prevalentemente stoico, le an. sono «notiones nobis insitæ [= nozioni insite nella
nostra mente]» e «fundamenta scientiæ [fondamenta delle scienze]» (cfr
De legibus, I, 9).
Antidialettici : così venivano denominati nel Medioevo quegli autori teologi e maestri di spiritualità, mistici (v.) - che diffidavano degli
studi di fi losofia, e in particolare della logica (v.), chiamata allora “dialettica” (v.); tra questi “an.” risalta la figura di san Pier Damiani. Un
esempio di fi losofo avversato dai mistici (tra i quali san Bernardo di
Chiaravalle) è Pietro Abelardo (1079 – 1142), autore di Sic et non, sospettato di eresia (v.).
Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 15
Anti-intellettualismo: è la posizione di quanti fanno fi losofia cercando
di evitare gli estremi del razionalismo (v.); essi cadono facilmente nell’estremo opposto, ossia nel disprezzo per le esigenze della logica (v.) e
della dialettica (v.), il che porta a privilegiare modi espressivi più letterari che non propriamente fi losofici, come ad esempio l’autobiografia,
il teatro, la narrativa. Un esplicito rappresentante di questa posizione è
il francese, di origine ebraica, Vladimir Jankélévitch, la cui fi losofia è
chiamata “an. etico” (v.).
Antinomia (dal sostantivo greco “ντινομα [anti-nomìa]”, derivante da
“νμος [nómos] = legge”, preceduto dal prefisso “ντ [antí] = contro”;
quindi: “legge che va contro [sé stessa]”): a cominciare da Zenone di
Elea, è una critica fi losofica che evidenzia la contraddizione (v.), apparente o insuperabile, di altre dottrine. Cfr Achille e la tartaruga,
Antinomia del mentitore. Kant ha usato questo termine per indicare i limiti della ragione (v.), che secondo la Critica della ragion pura,
cade in contraddizione riguardo alle entità metafisiche.
Antitesi, antitetico (dal sostantivo greco “θ(σις [thésis] = affermazione”,
con il prefisso “ντ [antí] = contro”, dunque: “la tesi contraria”): in
logica è l’opposizione di contrarietà tra due termini (v.) o due proposizioni (v.). Cfr Principio di non contraddizione. Per Hegel è il secondo momento della dialettica (v.), che prima afferma una posizione
(“tesi”), poi la nega (“an.”), e infine, mediante la “Aufhebung”, realizza
la “sintesi” (v.).
Antropocentrismo (neologismo formato con il sostantivo greco
“νθρωπος [ànthropos] = uomo” + “κ(ντρον [kéntron] = centro”): indica una ideologia che fa dell’uomo (v.) il centro unico di tutti i valori
(v.), sia metafisici che morali, e quindi il fine (v.) dell’universo (v.).
Tale ideologia si può far risalire in qualche modo all’Umanesimo (v.),
ma si manifesta in maniera esplicita alla “svolta antropologica” (v.) di
Ludwig Feuerbach (“L’uomo è dio per l’uomo”) e poi a quella di Karl
Marx, il quale scrive: “L’uomo è per l’uomo l’essere supremo” (Per
la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione). Naturalmente,
l’an. implica il superamento dei limiti di un mero “umanesimo” (v.),
perché pretende di esaltare l’uomo con la negazione di Dio (v.) come
reale Causa e fondamento di tutto, come ultimo Fine e come autore
della “legge morale” (v.); cfr Ateismo.
Antropologia (neologismo formato con il sostantivo greco “νθρωπος
[ànthropos] = uomo” + “λγος [lògos] = discorso”): termine coniato
da Immanuel Kant nel 1781 per indicare lo studio critico della na-
16 - Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici)
tura dell’uomo (v.). Dopo Kant, però, l’an. non è più considerata, generalmente, come una disciplina fi losofica: essa è piuttosto una delle
“scienze umane” (v.) che operano sulla base di rilevamenti empirici
e si propongono di ricostruire gli elementi costitutivi delle culture
primitive o tradizionali. Comunque, la fi losofia ha sempre cercato,
da parte sua, di risolvere con la riflessione e il ragionamento l’enigma
umano in tutti i suoi molteplici aspetti (ontologico, etico, politico,
religioso, storico). Anche la teologia ricerca una comprensione sistematica del mistero dell’uomo, per quanto è dato di comprendere alla
luce della Rivelazione (v.). Nell’antichità, l’an. fi losofica o “fi losofia
dell’uomo” (v.) ha origine con Socrate ed è sviluppata incessantemente
fino al neoplatonismo; con la Patristica ha inizio l’an. teologica, con i
suoi riflessi nella fi losofia cristiana; Kant distingue tra «an. teorica»,
«an. pragmatica» e «an. morale». Tra le moderne scienze dell’uomo
trovano posto oggi l’”an. culturale” (v.) e l’”an. strutturale” (v.).
Antropologismo: vedi Antropocentrismo.
Antropomorfismo (da due sostantivi greci: “νθρωπος [ànthropos] =
uomo” + “μορφ [morphé] = forma”): indica la tendenza umana a
rappresentarsi Dio (v.) in forma umana, ossia con le caratteristiche e le
limitazioni proprie dell’uomo. I primi fi losofi greci (a partire da Senofane, iniziatore della scuola eleatica) intesero proprio superare l’an.
della mitologia e del politeismo del tempo; e molti secoli dopo, in
epoca ellenistica, il poeta-fi losofo romano Tito Lucrezio Caro riprese
questa polemica nel suo poema De rerum natura. Lo stesso intesero fare,
in polemica con le religioni rivelate basate sulla Rivelazione (v.), i filosofi del Settecento appartenenti alla corrente denominata “deismo”
(v.). In un certo senso, è di questo tenore anche la critica al cristianesimo (v.) di Ludwig Feuerbach; cfr Antropocentrismo.
Antroposofia (neologismo, composto da “νθρωπος [ànthropos] =
uomo” + “σοφα [sophìa] = sapienza”, quindi: “sapienza dell’uomo e
sull’uomo”): nome che designa le dottrine dello gnosticismo (v.); modernamente è stato riproposto da Rudolf Steiner.
Apatia (dal sostantivo greco “πθεια [pàtheia] = sofferenza”, preceduto
dalla “alfa” privativa): il risultato, secondo gli Stoici, della sapienza
fi losofica, che porta a non lasciarsi coinvolgere dalle vicende del
mondo, a evitare ogni preoccupazione o sofferenza, ogni passione e
ogni desiderio. Qualcosa di simile insegna, nell’Ottocento, Arthur
Schopenhauer, accogliendo suggestioni fi losofico-religiose provenienti
dal buddismo (v.). Cfr Atarassia.
Parte I • VOCABOLARIO (termini semplici) - 17
Àpeiron (aggettivo greco derivante dal sostantivo “π(ρας [péras] = limite”,
preceduto dall’alfa privativo; quindi: “illimitato”): termine tipico di
Anassimandro di Mileto (ca. 610 – 546 av.Cr.), il quale parla – con
questo nome – di una materia (v.) primordiale ingenerata e incorruttibile, formata da elementi diversi, combinati in una certa proporzione.
Apocatastasi (dal sostantivo greco “ποκατστασις [apokatàstasis] =
restaurazione”): concetto tipico dello gnosticismo (v.), presente però
– con un significato diverso – anche nella teolgoia cristiana; il termine è testualmente usato in un luogo del Nuovo Testamento (I Lettera di Pietro, 1, 2) ed è connesso con l’escatologia (v.) cristiana. Cfr
Parusia.
Apodittico (dall’aggettivo greco “ποδεικτικς [apodeiktikòs] = dimostrato, provato”): è l’aggettivo con cui Aristotele designa l’asserto che
è stato provato in modo inconfutabile attraverso un sillogismo (v.) formalmente perfetto. Cfr Certezza, Dimostrazione.
Apofantico (dal greco “ποφαντικς [apophantikós] = dichiarativo, evidente”): è il termine con cui Aristotele designa il sillogismo (v.), come
ragionamento (v.) chiaro ed evidente. Cfr Evidente, evidenza.
Apofatico (aggettivo derivante dal sostantivo greco “πφασις [apóphasis]
= silenzio, impossibilità di dire una certa cosa”): termine utilizzato
dalla fi losofia ellenistica e da quella cristiana per indicare le verità conosciute nella loro esistenza ma inesprimibili col linguaggio umano
per quanto si riferisce alla loro natura, come il caso di Dio (v.); si tratta
della cosiddetta “teologia negativa” (v.). Cfr Mistero, Mistica.
Apologia (dal verbo greco “πολογε#ν [apologhéin] = difendere, giustificare”): è la difesa fatta dall’imputato o dal suo avvocato, per ottenere il
riconoscimento di non colpevolezza; una delle prime opere di Platone
è appunto l’Apologia di Socrate, che riferisce la sua autodifesa davanti ai
giudici ateniesi; tra i “Padri della Chiesa” (v.), alcuni sono detti “Apologisti” perché difesero la fede cristiana dalle critiche degli Ebrei e dei
pagani; tra questi vanno ricordati san Giustino martire (100 – 165),
autore di due Apologie in greco, e Tertulliano (160 – 240), autore del
celebre Apologeticum, in latino. Successivamente fu detta “apologetica”
quella parte del lavoro teologico che serve a dimostrare la ragionevolezza della dottrina cristiana e la sua credibilità (v.).
Aporetico, Aporia (dal sostantivo greco “πορα [aporìa] = strada senza
uscita”, “incertezza”): termini relativi allo stato della mente di fronte a
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