Diseguaglianze e vulnerabilità sociale

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Diseguaglianze e vulnerabilità sociale
di ROBERT CASTEL
Per poter parlare di diseguaglianza bisogna che le situazioni
di individui o di gruppi siano confrontabili, che siano cioè
distribuite su un continuum di posizioni. Il padrone e lo schiavo,
o il signore e il servo, non sono situazioni disuguali, ma eterogenee:
qui la diseguaglianza è tale da apparire un dato «naturale». Ancora
all’inizio dell’industrializzazione, le situazioni del padrone e del
proletario sono irriducibili, più che disuguali, sono cioè incomparabili fra di loro sotto qualsiasi profilo, reddito, consumo, modi
di vita, cultura, educazione, tempo libero, ecc. Perché si ponga
la questione delle diseguaglianze, e quindi quella della loro
riduzione, bisogna che una società smetta di essere divisa in blocchi
eterogenei e diventi un insieme di gruppi posti in situazione di
concorrenza. Storicamente, questo è avvenuto attraverso la generalizzazione e la differenziazione del salariato. Una «società salariale» funziona in base a una differenziazione generalizzata e centra
la propria dinamica intorno alla coppia eguaglianza-diseguaglianza:
contrattazione e scontro fra gruppi sociali si cristallizzano intorno
alla ridistribuzione della ricchezza sociale.
Ricordiamo innanzitutto le principali caratteristiche di questo
modello di società che ha dominato la congiuntura sociale del XX
secolo fino agli inizi degli anni ’70, per poi tentare di cogliere
l’ampiezza delle trasformazioni intervenute da allora ai giorni
nostri. Oggi infatti non si parla più tanto di riduzione delle
diseguaglianze, quanto di aumento della povertà, di esclusione, di
frattura sociale, ecc. La mia ipotesi è che un simile cambiamento
di rotta derivi dalla decomposizione della società salariale. Questa
aveva trovato la propria stabilità nel regime di differenziazione
concorrenziale e insieme di protezione del salariato che aveva
istituito. Se invece la vulnerabilità diventa – o ridiventa – il regime
RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XXXVIII, n. 1, gennaio-marzo 1997
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Robert Castel
dominante di settori importanti del salariato, il problema principale
non sta più tanto nei vantaggi collegati al salario, quanto nella sua
degradazione attraverso la disoccupazione, il lavoro precario,
l’aumento di situazioni aleatorie. Voler ridurre le diseguaglianze
significa inscriversi nella traiettoria ascendente di una società
caratterizzata dalla centralità del lavoro salariato e alimentata dalla
crescita economica e dalla fiducia nel progresso sociale. Una volta
spezzata questa dinamica, invece, il problema diventa tentare di
ridurre i rischi di disgregazione sociale. Di qui, l’invadenza della
tematica della «lotta contro l’esclusione» che sembra aver rimpiazzato oggi la lotta contro la diseguaglianza.
Cercherò di far vedere come, da un lato, si possa ricondurre
questo mutamento di tematica alla vulnerabilità che ha investito
la società salariale da vent’anni a questa parte. Ma d’altro canto,
questo comporta degli effetti perversi che inducono a pensare
che la diseguaglianza non sia più un problema, proprio quando
invece tende ad aggravarsi ulteriormente. Si finisce così per
confermare la degradazione del lavoro salariato, la cui consistenza
rimane invece la difesa migliore contro la minaccia d’indebolimento del legame sociale che l’aumento delle diseguaglianze porta
con sé.
1. Diseguaglianze sociali e continuum salariale
Come è avvenuto il collegamento di queste due tematiche,
della promozione del salariato e della lotta contro le diseguaglianze? Schematicamente, direi che la questione delle diseguaglianze
diventa centrale quando una lettura della dinamica sociale in
termini di differenziazione prende il sopravvento su una lettura
in termini di antagonismo fra le classi. Nel corso dello sviluppo
della società industriale, questo processo è stato segnato da due
tappe principali.
1.1. Dallo scontro di classe alla riduzione dei rischi sociali
Il punto di vista dello scontro di classe non si pone il problema
della diseguaglianza, ma quello del cambiamento radicale. Anzi,
respinge come «riformista» ogni tentativo di migliorare marginalmente il sistema capitalistico procurando qualche vantaggio secon-
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dario alle categorie sfruttate. Basti ricordare la ferma opposizione
delle correnti rivoluzionarie del movimento operaio – sindacalismo
rivoluzionario e marxismo – ai primi tentativi di mettere in piedi
una legislazione sociale alla fine del secolo scorso.
Certo, questa prospettiva di scontro radicale non è mai stata
egemonica, neppure in seno alla classe operaia organizzata. Se per
«riformismo» s’intende un insieme di tentativi tesi a migliorare la
condizione delle categorie meno abbienti riducendo le diseguaglianze nell’accesso ai vantaggi connessi alla vita sociale, un punto
di vista del genere emerge in Francia sin dalla fine del XIX secolo,
teorizzato dai pensatori radical-socialisti della Terza Repubblica.
Dice Léon Bourgeois: «La società si costituisce fra esseri simili,
degli esseri cioè che, al di sotto delle diseguaglianze reali che li
distinguono, posseggono un’identità fondamentale indistruttibile»
(Bourgeois 1896). Una società di simili non è una società egualitaria, anzi; la solidarietà poggia sulla differenziazione gerarchizzata
delle funzioni. Aggiungiamo però, e non è solo un gioco di parole,
che per potersi inscrivere in un insieme, i simili non devono essere
troppo diversi! Questo significa per l’appunto che bisogna lottare
contro i rischi di destituzione che minacciano le fasce meno
abbienti: contro le diseguaglianze di fronte agli incidenti, alla
malattia, alla vecchiaia, che possono far precipitare i più vulnerabili,
e le diseguaglianze nell’accesso all’istruzione, che mantenendo
nell’incultura una parte della popolazione, le impediscono di fatto
di partecipare alla vita sociale.
Questa posizione fa emergere, a mio avviso, i princìpi guida
di una politica di lotta contro le diseguaglianze, che è stata
peraltro molto moderata, nelle intenzioni come nella portata:
riduzione delle diseguaglianze di fronte a certi grossi rischi sociali
come l’incidente, la malattia, la vecchiaia, che non sono più
coperti semplicemente dalla proprietà patrimoniale, ma competono alla legislazione sociale; accesso per tutti all’istruzione che apre
certe opportunità di promozione sociale, ma resta accuratamente
limitata, per quanto riguarda le classi popolari, all’insegnamento
elementare; sviluppo dei servizi pubblici grazie ai quali, per dirla
ancora con Léon Bourgeois, la società comincia «ad aprire a tutti
i suoi membri i beni sociali che sono comunicabili a tutti»
(Bourgeois 1903). Questi tre orientamenti riassumono abbastanza
bene il programma della Terza Repubblica per ridurre le diseguaglianze. È significativo che una politica del genere, in quanto
promossa dallo stato, non consideri direttamente il problema dei
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salari, che rimane invece nell’ambito delle relazioni fra datore di
lavoro e lavoratore1.
Ci sarebbe molto da dire sulle timidezze di questa politica di
riduzione delle diseguaglianze, che comunque avanza fino agli anni
’30 pur fra mille peripezie. Io insisterò soltanto su quelle caratteristiche del salariato che possono aiutarci a capire la specificità
di questa politica. Ci si dimentica troppo spesso che fino alla
seconda guerra mondiale la definizione sociologica del salariato è
costruita essenzialmente a partire dal salariato operaio. Ancora nel
1932, un autore attento e «moderno» come François Simiand si
rifiuta di definire salariati perfino gli impiegati più modesti:
«l’attributo di salariato ci sembra applicarsi propriamente nel
linguaggio corrente, in modo generale e topico al tempo stesso,
alla categoria degli operai, distinti dai domestici nell’agricoltura,
dagli impiegati nel commercio, nell’industria e nell’agricoltura, dai
capi servizio, dai capi fattori, ingegneri, direttori d’ogni sorta»
(Simiand 1932, 151). Per Simiand, come poco prima per Maurice
Halbwachs (1912) gli operai sono i soli veri salariati, perché sono
i soli lavoratori che producono una «pura prestazione di lavoro»
trasformando direttamente la materia. Il salario remunera dei
compiti esecutivi, riguarda le forme più rudimentali della divisione
del lavoro.
Una concezione simile è parzialmente giustificata dalle caratteristiche sociologiche dominanti del salariato fino agli anni ’30.
Rappresentando allora soltanto la metà della popolazione francese
attiva, si compone nella sua larga maggioranza di lavoratori manuali
(9.700.000, se si contano anche gli operai agricoli), contro soltanto
2.700.000 salariati non-operai. Per di più, la maggioranza di questi
ultimi è composta da piccoli impiegati il cui statuto, benché
superiore a quello degli operai, è pur sempre mediocre. Il salariato
medio o alto, di difficile quantificazione (la categoria dei «quadri»
non esiste ancora), è molto minoritario e non supera il milione,
inclusi anche i funzionari – qualcosa insomma come un decimo
dell’insieme dei lavoratori salariati2. Complessivamente, il salariato
1 In effetti, lo stato «solidarista» si vieta di entrare nelle relazioni di lavoro, per non
interferire con l’autonomia della direzione d’azienda e con le leggi del mercato, ma tenta
di regolamentarli dall’esterno. È solo nel 1936, nel quadro del Fronte popolare, che il
governo per la prima volta interviene direttamente per imporre ai datori di lavoro un accordo
salariale, gli accords de Matignon.
2 Per un’analisi di questi dati, si veda Castel (1995, cap. VII).
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corrisponde alle posizioni socialmente meno valorizzate del mondo
del lavoro.
Una situazione del genere può spiegare il carattere specifico
e mirato delle politiche sociali che hanno prevalso fino alla seconda
guerra mondiale. Non potendo attaccare la diseguaglianza in
generale nella società, tendono soltanto a compensare i gruppi più
vulnerabili, cioè essenzialmente i lavoratori manuali3. Così, le prime
leggi di assicurazione sociale – le pensioni operaie e contadine del
1910, le assicurazioni sociali fino alla seconda guerra mondiale –
hanno riguardato solo il piccolo salariato, al di sotto di una certa
soglia di reddito. Non c’è alcuna intenzione ridistributiva, né
alcuna volontà di restringere il ventaglio della stratificazione
sociale. L’idea direttiva è quella di assicurare un minimo di garanzie
a quei lavoratori che l’incidente, la malattia o la vecchiaia
costringerebbero ad interrompere l’attività.
Questa congiuntura salariale può spiegare anche alcune «resistenze» incontrate da queste prime politiche sociali. Non sono
solo le reticenze del padronato e l’ostilità dei rentiers, dei lavoratori
indipendenti, degli artigiani, dei piccoli commercianti, ecc., nei
confronti di misure che dovrebbero avvantaggiare solo i salariati.
Anche molti lavoratori salariati possono pensare che una tale logica
in realtà andrebbe a loro svantaggio. Certo, la parte più politicizzata della classe operaia riconosce la sua subordinazione, ma
ne denuncia l’ingiustizia: il lavoro operaio che trasforma la natura
e l’umanizza è l’essenza dell’uomo e la fonte della ricchezza sociale,
mentre invece viene spoliato del prodotto del suo lavoro. Non si
tratta tanto allora di ottenere qualche compensazione a caro prezzo,
ma di rovesciare le basi dell’organizzazione sociale. Darsi come
obiettivo prioritario la riduzione delle diseguaglianze vorrebbe dire
rinunciare ad abolire lo sfruttamento capitalistico che continua a
separare la società in classi antagoniste.
Cosicché i pensatori «borghesi» o riformisti che promuovono
le prime politiche sociali e i partigiani più radicali della lotta di
classe hanno paradossalmente un punto in comune: condividono
la stessa concezione del salariato costruita sul modello del salariato
operaio. Per i primi, si tratta di consolidarlo attraverso una politica
di compensazioni sociali in modo da stabilizzare le fasce più
3 Un’altra serie di interventi riguarda gli indigenti e gli invalidi, ma inizialmente la
specificità delle assicurazioni relative ai lavoratori salariati non emerge facilmente.
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vulnerabili del lavoratori. Per gli altri, si tratta di abolire definitivamente la subordinazione operaia e d’imporre il predominio dei
veri produttori. Ma in entrambi i casi, la questione della diseguaglianza non si pone mai al livello della società tutta.
1.2. Dalla lotta contro la vulnerabilità al problema delle diseguaglianze
Solo in una società imperniata sul salariato il problema delle
diseguaglianze può collocarsi al centro della questione sociale.
Questa trasformazione corrisponde ad una fondamentale trasformazione sociologica dello stesso salariato, che comincia a farsi
sentire verso la fine degli anni ’30.
Sebbene il modello del salariato operaio sia ancora dominante
in quegli anni, è ormai minato da mutamenti interni prodotti dal
processo d’industrializzazione. L’identificazione iniziale del salariato con quello operaio viene progressivamente spodestata, man
mano che si moltiplicano compiti d’inquadramento, di controllo,
di progettazione, e le attività terziarie sia nel settore industriale
che al di fuori. Al di là della definizione dell’orario di lavoro, il
salariato viene irresistibilmente trascinato da un duplice processo
di differenziazione e di generalizzazione che culmina all’inizio degli
anni ’70.
Differenziazione del salariato. Luc Boltanski ha messo in luce
la difficile promozione di un «salariato borghese» attraverso
l’emergere della categoria di «quadro» (Boltanski 1982). Si tratta
in realtà di costituire tutta una nebulosa di professioni salariate
che formano quel che Henri Mendras chiama la «costellazione
centrale» della società (Mendras 1988). Nel contesto della «modernizzazione» che s’impone dopo la seconda guerra mondiale,
questi nuovi salariati rappresentano la punta di diamante della
dinamica sociale. Il salariato esce dalla sua secolare indegnità: può
finalmente venir associato a posizioni di prestigio e di potere; anzi,
porta i segni della modernità e del successo sociale.
Questa trasformazione relega la classe operaia in una posizione
subordinata. Per meglio dire, la sua posizione, da sempre subordinata, perde quel carattere centrale che ne faceva la sede della
dinamica profonda della struttura sociale (il contesto del 1936
illustra bene, per quanto riguarda la Francia, questa connessione
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fra la subordinazione della classe operaia e la volontà di emancipazione che fa pensare ai suoi difensori di interpretare il futuro
del mondo). Dopo la seconda guerra mondiale, il salariato operaio
è sempre più dominato da formazioni salariate via via più
numerose, che occupano in genere posizioni superiori4.
Generalizzazione del salariato. Le professioni salariate che
raggruppano all’incirca il 49% della popolazione francese attiva
all’inizio degli anni ’30, nel 1975 ne rappresentano l’83%. Il che
implica una vera e propria emorragia dalla maggior parte delle
professioni indipendenti, artigiani, piccoli commercianti, coltivatori
diretti, ecc. Ma il peso preponderante assunto dal salariato è ancora
più incontestabile se si tiene conto che esercita ormai un’attrazione
anche sulle categorie sociali che gli si sottraggono, come quelle
professioni indipendenti che, dopo averlo sempre disprezzato,
adesso lo invidiano, lo imitano, tentano di ottenere gli stessi
vantaggi sociali, e per lo più ci riescono. Si può dire la stessa cosa
dei proprietari, che non si contentano più di posizioni da rentiers,
e neppure da imprenditori, ma collocano i loro figli ai livelli più
alti del mercato del lavoro salariato, grazie ai diplomi e alle grandes
écoles.
All’inizio degli anni ’70, si può insomma parlare della realizzazione di una «società salariale». Naturalmente, questo non vuol
dire che tutti siano salariati, ma che l’essenziale della dinamica
sociale si organizza ormai intorno al lavoro salariato. Né significa
che posizioni salariate omogenee coesistano pacificamente (per
esempio, che un’ampia classe media lasci fuori solo qualche gruppo
di drop-out e al suo vertice qualche vedettes dei media). Rimangono
profonde disparità fra i diversi strati sociali; ma l’essenziale della
conflittualità sociale si gioca intorno allo statuto dei lavoratori
salariati e viene espresso in termini di diseguaglianza.
4 In cifre, la classe operaia raggiunge in Francia l’apice nel 1975 (8.200.000), ma è
quasi uguagliata dal salariato non operaio (7.900.000); in particolare, le forme di salariato
che sono cresciute più rapidamente sono le categorie superiori (2.700.000 quadri medi,
1.380.000 quadri superiori). Inversamente, la categoria di salariati al di sotto degli operai,
cioè gli operai agricoli che rappresentavano ancora ¼ dei lavoratori manuali negli anni
’30, sono praticamente scomparsi.
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1.3. La dinamica della riduzione delle diseguaglianze nella società
salariale
Per società salariale intendo dunque un continuum di posizioni
gerarchizzate all’interno del salariato. C’è continuità, in quanto non
c’è più una classe in posizione antagonistica che cristallizzi intorno
a sé scelte alternative di società. Non ci sono differenze irriducibili
di statuto, ma solo differenziazione e diseguaglianze. In questo
senso, possiamo dire con Michel Aglietta e Anton Bender che «in
una società salariale tutto circola, tutti si misurano e si confrontano» (1984, 98), purché però si aggiunga che questo comparativismo generalizzato è anche una competizione generale. Il principio di «distinzione» elaborato da Pierre Bourdieu rende conto
bene di questa logica di differenziazione che polemicamente mette
insieme il medesimo e l’altro: io, come il mio gruppo di riferimento
o la mia categoria salariale, ci definiamo per confronto e contrapposizione rispetto alla fascia inferiore, da cui siamo distinti, e
rispetto a quella superiore, cui aspiriamo.
Questa dialettica conflittuale della differenziazione è stata
all’origine di un modo controllato di gestione delle diseguaglianze.
La società salariale si sviluppa in concomitanza con la crescita
economica che segue la seconda guerra mondiale. Assieme all’antagonismo di classe, un altro problema rappresenta la grande posta
in gioco di quegli anni e a poco a poco ne prende il posto: la
ridistribuzione dei frutti della crescita. Lo capiamo meglio oggi,
in un contesto profondamente mutato: la certezza della crescita
permetteva un trattamento specifico della questione delle diseguaglianze, combinando rivendicazione e contrattazione in una sorta
di «conflitto consensuale». Ogni gruppo rivendica «sempre di più»
e ottiene molto meno di quanto non desideri. Ma in un periodo
di crescita si può sempre giocare sulla durata: le conquiste di oggi
sono altrettanti trampolini di lancio verso altre conquiste domani.
L’avvenire è integrato come una dimensione del presente che
sdrammatizza le poste che vi si giocano. Così la constatazione che
le diseguaglianze esistono, anzi in alcuni casi sono addirittura
scandalose, può andar insieme con la speranza che continueranno
a diminuire. La crescita inquadrata dalla contrattazione fra i
«partner sociali» alimenta un immaginario social-democratico, che
tende ad annullare progressivamente le diseguaglianze. Tanto più
che il progresso sociale ha degli effetti anche per le altre
generazioni: se è troppo tardi perché i genitori vedano la fine del
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processo, i loro figli potranno beneficiare appieno della traiettoria
ascendente. La mobilità ascendente rappresenta un altro modo di
ridurre le diseguaglianze annettendo l’avvenire al controllo del
presente.
Bisognerebbe poter fare un bilancio preciso delle realizzazioni
concrete di questo modo di gestione delle diseguaglianze nei vari
campi cui si è applicato: redditi, accesso ai diritti, all’istruzione,
alla cultura, ecc. Con tutta probabilità, vedremmo che all’inizio
degli anni ’70 la questione delle diseguaglianze restava aperta, ma
veniva trattata nell’ambito di un processo, di cui si poteva di volta
in volta denunciare l’ipocrisia o ammirare la saggezza. Per esempio,
sappiamo che la «politica dei redditi» pensata in Francia all’inizio
degli anni ’70 non ha mai visto la luce; eppure complessivamente,
su trent’anni, la progressione dei salari ha seguìto quella della
produttività e del reddito nazionale. Si trattava di «condividere dei
benefici» (Darras 1965)5 che riproducevano grosso modo la
gerarchia sociale e lasciavano sussistere importanti disparità: nel
1975, il rapporto medio fra il salario operaio e quello dei quadri
superiori era di 1 a 3,7. I progressi della protezione sociale a partire
dagli anni ’30 sono stati decisivi; tuttavia, con il moltiplicarsi dei
regimi integrativi, anche il sistema delle pensioni finisce per
riflettere le diseguaglianze profonde che sussistono nella società
salariale. La protezione sociale ha una debole funzione ridistributiva e conferma perciò di fatto la gerarchia dei salari. Allo stesso
modo, l’insegnamento si è «democraticizzato», ma l’eguaglianza
reale delle opportunità rimane un ideale remoto rispetto alla
«riproduzione» dell’eredità familiare, sociale, ecc.
Di qui, due atteggiamenti che, per dirla in modo schematico,
hanno diviso l’opinione (e i sociologi) all’inizio degli anni ’70. Gli
uni pensano che si debba dar tempo al tempo, e i progressi già
notevoli nella riduzione delle diseguaglianze produrranno i loro
effetti positivi, purché si perseveri. Per gli altri, vanno messi in
moto altri strumenti capaci di portare a profonde trasformazioni
politiche, al fine di eliminare disparità indegne degli ideali democratici dichiarati. Questo secondo orientamento è stato quello della
sociologia critica dell’epoca, cui resto personalmente fedele. Penso
ancora che sia stato ingenuo aspettarsi una riduzione drastica delle
5 Anche se c’è dissenso profondo, soprattutto fra gli economisti e i sociologi, sulle
condizioni in cui si effettua la «divisione», c’è un sostanziale accordo sul fatto della crescita
e sulle aspettative di riduzione delle diseguaglianze che apre.
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diseguaglianze dalla contemplazione delle curve di crescita, e che
l’ideologia del progresso sia servita spesso a coprire la conservazione di privilegi acquisiti. Ad ogni buon conto, questo passato
ancorché recente sembra ormai lontano: non siamo più in quella
traiettoria ascendente della società salariale che metteva al centro
la questione delle diseguaglianze.
2. Frammentazione del salariato, vulnerabilità e diseguaglianze
L’ipotesi che propongo è che la tematica delle diseguaglianze
sia stata messa sotto silenzio per effetto di un rovesciamento di
questo processi di promozione del salariato che ho descritto. Il
timore di una degradazione dello statuto salariale e della disoccupazione sembra prendere oggi il posto della preoccupazione di
migliorare la propria posizione sociale, che la lotta contro le
diseguaglianze aveva appunto espresso. Una prova di questo
cambiamento sta nel rifluire dei conflitti sociali man mano che si
prende coscienza di questi nuovi rischi. Così, il numero delle
giornate di sciopero in un anno in Francia è passato a 3 milioni
in media fra il 1976 e il 1980, contro 4 milioni negli anni
precedenti; a partire dal 1981 scende drasticamente per raggiungere
1 milione e mezzo fra il 1981 e il 1985, meno di un milione negli
anni successivi, e solo mezzo milione nel 1992. Nel 1992 e 1993,
i conflitti che hanno per oggetto il posto di lavoro superano quelli
che hanno per oggetto rivendicazioni salariali6. È come se i
lavoratori salariati dovessero ormai gestire l’incertezza della propria
situazione, invece della promozione sociale e della riduzione delle
diseguaglianze.
Che significa questo cambiamento? Da una parte, corrisponde
effettivamente a delle trasformazioni profonde che da una ventina
d’anni a questa parte tendono a rendere sempre più precarie le
relazioni di lavoro (v. § 2.1). Ma piuttosto che abolire la problematica delle diseguaglianze, questo movimento la ritraduce, nella
misura in cui la diseguaglianza principale diventa quella di fronte
6 Cfr. Premières synthèses, in «Dares», n. 104, agosto 1995. Invece i conflitti importanti
scoppiati nella funzione pubblica in Francia alla fine del 1995 illustrano un’altra èra della
conflittualità sociale: le rivendicazioni non sono più essenzialmente di natura salariale ma
esprimono il timore della degradazione della condizione di lavoratori salariati e la volontà
di difendere le conquiste dei decenni precedenti.
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a questa nuova congiuntura dell’occupazione (v. § 2.2). Di qui,
la necessità d’interrogarsi sull’ampiezza delle trasformazioni avvenute rispetto al modello di gestione delle diseguaglianze nella
società salariale (v. § 2.3).
2.1. I processi di precarizzazione e di individualizzazione
a) Moltiplicazione dei tipi di contratto di lavoro. Al posto
dell’egemonia del contratto di lavoro a tempo indeterminato,
assistiamo oggi al moltiplicarsi di forme «atipiche» di occupazione
(contratto a tempo determinato, lavoro interinale, tempo parziale)
e di contratti «sostenuti» (contratti-solidarietà, misure per i giovani,
ecc.). Se si ragiona in termini di flussi d’ingresso sul mercato del
lavoro, la precarietà dell’occupazione, in forme molto diverse, si
sta sostituendo alla stabilità come regime dominante dell’organizzazione del lavoro7.
b) Parcellizzazione della contrattazione collettiva. Al posto dei
grandi accordi interprofessionali degli anni ’60 e ’70, assistiamo
ad una tendenza alla «micro-contrattazione», fino agli accordi
impresa per impresa. Questo movimento s’accompagna all’indebolimento dei sindacati, il cui ruolo era stato determinante nell’elaborare il «compromesso sociale» di quegli anni.
c) Tendenza ad individualizzare il rapporto salariato. Tempi di
lavoro e retribuzione individualizzati riattivano la relazione diretta
fra datore di lavoro e lavoratore a spese delle regolamentazioni
generali. Quest’orientamento diventa particolarmente significativo
se lo si rapporta alle tendenze che avevano caratterizzato la
regolamentazione del lavoro fino agli anni ’70: il contratto di
lavoro aveva perso progressivamente il carattere personalizzato per
inquadrarsi nelle regolamentazioni collettive (contratti collettivi,
diritto del lavoro, protezioni generali).
7
Per i dati quantitativi, si veda Fourcade (1992).
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2.2. Le diseguaglianze di fronte alla trasformazione delle relazioni
di lavoro
a) La diseguaglianza più grave oggi è con tutta probabilità
quella rispetto al rischio di disoccupazione e di degradazione delle
condizioni di lavoro. I dati statistici mostrano che i rischi di
disoccupazione seguono grosso modo la gerarchia delle categorie
socio-professionali; nel 1993, per esempio, il 21,5% dei disoccupati
in Francia erano operai non specializzati, mentre solo il 4% erano
quadri. Anche la durata della disoccupazione è tre volte superiore
per gli operai che per i quadri; e la precarietà (proporzione di
contratti a tempo determinato o di lavoro interinale) ha la stessa
tendenza. I contratti a tempo determinato riguardano solo un
quadro su cinque che entri oggi in un’azienda, ma tre operai
qualificati su cinque e quattro operai non qualificati (Bihr e
Pfefferkorn 1995, cap. I). Questo carattere labile del rapporto di
lavoro è la causa principale di disoccupazione: circa la metà delle
iscrizioni all’Agence nationale pour l’emploi oggi è motivata dalla
chiusura di contratti a tempo determinato (Dauty e Morin 1992).
Queste diseguaglianze di fronte alla disoccupazione e alla precarietà del lavoro non sono diseguaglianze qualsiasi; molto spesso
determinano una degradazione generale dei redditi, delle condizioni di vita e di abitazione, delle protezioni, dello status sociale.
b) Ancor più profondamente, forse, l’individualizzazione dei
rapporti di lavoro mette l’una contro l’altra delle categorie di
lavoratori, a seconda che siano o no capaci di mobilitare delle
risorse per far fronte alle trasformazioni in corso. Naturalmente
ci sono sempre diseguaglianze di statuto e di retribuzione, ma ci
sono ormai più chiaramente di prima dei «vincenti» e dei
«perdenti». Le nuove norme del lavoro, che si traducono in
un’esigenza generalizzata di flessibilità, impongono in effetti ai
lavoratori salariati una mobilità, un’attenzione costante, la capacità
di adattarsi a situazioni nuove e di riciclarsi; mettono insomma
in primo piano le qualità personali di mobilità del soggetto, invece
di conoscenze standardizzate. Una simile personalizzazione delle
competenze professionali produce effetti opposti a seconda delle
categorie di lavoratori. Alcuni si sentono liberati da quadri collettivi
che potevano essere rigidi e paralizzanti, come nel caso dell’organizzazione tayloristica del lavoro; possono esprimersi nel lavoro,
sviluppare iniziative personali e strategie professionali individua-
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lizzate. Insomma, i «forti», coloro che dispongono di una formazione diversificata, di competenze sociali e relazionali, e non
soltanto di preparazione tecnica, sono favoriti. Per gli altri, però,
può significare la destituzione di antichi saperi, la segmentazione
dei compiti, la perdita delle protezioni collettive, fino all’espulsione
dal posto di lavoro per i più sfortunati.
Le nuove esigenze della competitività disegnano così due profili
contrapposti di lavoratori, ovviamente con tutta una gamma di
posizioni intermedie. La mano d’opera si scinde in due, in seno
all’azienda (flessibilità interna) come fuori (flessibilità esterna, cioè
ricorso generalizzato all’appalto, per lo più affidato a lavoratori
più precari e meno protetti di quelli dell’azienda che commissiona
il lavoro).
Certo, questa tendenza non è radicalmente nuova. Il tema della
segmentazione del mercato del lavoro o del «lavoratore periferico»
emerge sin dalla fine degli anni ’70, e in primo luogo negli Stati
Uniti. Ma significativamente, almeno in Francia, quest’apparire
della precarietà era stato inizialmente tradotto in termini di
aumento delle diseguaglianze, o di maggior sfruttamento dei
lavoratori – basti pensare alle discussioni degli anni ’60 intorno
alla «pauperizzazione assoluta» o relativa della classe operaia. Oggi
non è più così. Il successo della tematica dell’esclusione esprime
la coscienza generalizzata di questa vulnerabilità sociale e dell’incertezza del rapporto con il lavoro. Secondo un recente sondaggio,
il 53% della popolazione francese dice di temere di essere escluso;
ma questa percentuale è nettamente più alta fra i giovani e la
popolazione attiva (60-70% fino a cinquant’anni), e ancor più fra
le categorie professionali più minacciate (74% degli operai, 68%
degli impiegati, contro 46% dei quadri)8. La paura dell’esclusione
è dunque una specie di barometro che traduce la consapevolezza
dolorosa del rischio di degradazione sociale dovuta all’incertezza
della situazione lavorativa.
2.3. Il rapporto fra precarietà e diseguaglianze
Diventa chiaro, allora, perché il problema di gestire l’incertezza
del lavoro abbia prevalso su quello di ridurre le diseguaglianze,
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Sondaggio realizzato per la rivista «La rue», n. 23, ottobre 1995.
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Robert Castel
soprattutto per chi si trova in situazione più precaria. È paradossale, dato che in genere i più precari sono anche coloro che
maggiormente subiscono le diseguaglianze: non solo sono meno
pagati, ma anche meno protetti, sia in situazione lavorativa
(perdono per esempio le prerogative legate all’anzianità di servizio)
che quando cessi l’attività (indennità di disoccupazione o trattamento pensionistico). Possiamo perciò avanzare l’ipotesi che le
diseguaglianze si approfondiscono proprio quando si è smesso di
parlarne. Cosa si può dire a sostegno di un’ipotesi del genere?
Innanzitutto, è incontestabile che la «crisi» attuale non dipende
da un impoverimento generalizzato. Fra il 1982 e il 1992, il
prodotto interno lordo della Francia è cresciuto di oltre un quarto
(Bihr e Pfefferkorn 1995).
Invece, i modi di ripartizione della ricchezza sociale sembrano
in via di trasformazione, e gli effetti più spettacolari di questo
mutamento si manifestano principalmente ai due estremi della scala
sociale. È aumentato il divario fra i più ricchi e i più poveri: dal
1984 al 1990, il rapporto fra il reddito fiscale del 10% delle famiglie
più ricche e quello del 10% delle famiglie più povere è passato
dal 13,9 al 17,9 (Clerc 1994)9.
Questi dati sembrano confortare l’ipotesi di un’evoluzione
«duale» della società. In cima alla scala sociale troviamo soprattutto
l’aumento dei redditi da capitale, che crescono in media del 10%
fra il 1989 e il 1993. All’estremo opposto, vediamo svilupparsi una
sorta di neo-pauperismo che si traduce in sacche di povertà, specie
nelle periferie urbane, nell’aumento del numero degli assegnatari
del reddito minimo d’inserimento sociale (RMI) e di chi ricorre agli
aiuti sociali in genere. Il numero delle persone che sfuggono
all’estrema povertà solo grazie a questi aiuti è stimato in Francia
intorno ai 7 milioni.
Una simile rappresentazione duale della società va comunque
messa in discussione. Probabilmente, dà un’immagine più o meno
esatta della situazione attuale, ma sottovaluta il ruolo dell’instabilità
professionale (disoccupazione e lavoro precario) i cui effetti cominciano soltanto a farsi sentire. Che succede esattamente fra questi
estremi, che rimette in questione il continuum della società
salariale? La contrapposizione statica fra gli in e gli out nasconde
l’erosione delle posizioni intermedie. In una prospettiva dinamica,
9 Si considera il reddito fiscale in quanto include l’insieme dei redditi non da salario.
Si veda anche il numero speciale del CERC (1989).
Diseguaglianze e vulnerabilità sociale
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vediamo delinearsi tre tendenze di cui bisognerebbe studiare
l’evoluzione.
La destabilizzazione di chi è stabile. È il caso dei lavoratori che
avevano una solida posizione professionale e sono stati espulsi dai
circuiti produttivi. All’inizio, questo processo ha toccato una parte
della classe operaia classica, in particolare nel settore delle grandi
industrie dal prospero passato, come il tessile, le miniere, la
siderurgia, ma non si è affatto limitato a questi settori. Si tratta
di lavoratori troppo vecchi per riciclarsi ma troppo giovani per
la pensione, che rappresentano i residuati che la modernizzazione
dell’apparato produttivo ha abbandonato per via.
L’insediamento nella precarietà. Periodi di disoccupazione si
alternano a periodi di lavoro temporaneo, di piccoli lavoretti, di
ricorso agli aiuti sociali, o semplicemente di tentativi di sbarcare
il lunario in qualche modo. Questa precarietà tocca soprattutto
i giovani, condannati ad una «cultura dell’aleatorio» ossessionata
dall’idea del domani. Alcuni ce la fanno, ma per molti che si
abituano a vivere «alla giornata» la precarietà tende a diventare
il regime normale.
La ricomparsa di una popolazione che potremmo definire «in
sovrannumero». C’è un deficit di posti di lavoro socialmente utili
nell’attuale divisione sociale del lavoro: i disoccupati di lunga
durata, o molti dei beneficiari delle politiche d’inserimento sociale,
che le stime rivelano per lo più incapaci di reinserirsi nel circuito
ordinario del lavoro. L’alta improbabilità di un ritorno al pieno
impiego fa sì che queste situazioni tendano a stabilizzarsi.
Queste tre tendenze convergono a minare le basi della società
salariale. È probabilmente impossibile oggi misurarne gli effetti o
predirne la portata. Ma certo spingono a riformulare il problema
delle diseguaglianze in modo diverso sia dal modello di promozione
del salariato, sia dal modello duale dell’esclusione, contrassegnato
da una contrapposizione fra gli in e gli out. Per valutare le
diseguaglianze oggi abbiamo bisogno perciò di analisi precise dei
fattori di vulnerabilità sociale e dei loro effetti su quelle diseguaglianze che più ci sono note, relative ai redditi, al prelievo dei
contributi, alla salute, alle condizioni abitative, all’istruzione, ecc.
– analisi che rappresentano il compito della sociologia critica oggi.
[Traduzione dal francese di Giovanna Procacci]
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Robert Castel
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