Diseguaglianze e vulnerabilità sociale di ROBERT CASTEL Per poter parlare di diseguaglianza bisogna che le situazioni di individui o di gruppi siano confrontabili, che siano cioè distribuite su un continuum di posizioni. Il padrone e lo schiavo, o il signore e il servo, non sono situazioni disuguali, ma eterogenee: qui la diseguaglianza è tale da apparire un dato «naturale». Ancora all’inizio dell’industrializzazione, le situazioni del padrone e del proletario sono irriducibili, più che disuguali, sono cioè incomparabili fra di loro sotto qualsiasi profilo, reddito, consumo, modi di vita, cultura, educazione, tempo libero, ecc. Perché si ponga la questione delle diseguaglianze, e quindi quella della loro riduzione, bisogna che una società smetta di essere divisa in blocchi eterogenei e diventi un insieme di gruppi posti in situazione di concorrenza. Storicamente, questo è avvenuto attraverso la generalizzazione e la differenziazione del salariato. Una «società salariale» funziona in base a una differenziazione generalizzata e centra la propria dinamica intorno alla coppia eguaglianza-diseguaglianza: contrattazione e scontro fra gruppi sociali si cristallizzano intorno alla ridistribuzione della ricchezza sociale. Ricordiamo innanzitutto le principali caratteristiche di questo modello di società che ha dominato la congiuntura sociale del XX secolo fino agli inizi degli anni ’70, per poi tentare di cogliere l’ampiezza delle trasformazioni intervenute da allora ai giorni nostri. Oggi infatti non si parla più tanto di riduzione delle diseguaglianze, quanto di aumento della povertà, di esclusione, di frattura sociale, ecc. La mia ipotesi è che un simile cambiamento di rotta derivi dalla decomposizione della società salariale. Questa aveva trovato la propria stabilità nel regime di differenziazione concorrenziale e insieme di protezione del salariato che aveva istituito. Se invece la vulnerabilità diventa – o ridiventa – il regime RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XXXVIII, n. 1, gennaio-marzo 1997 42 Robert Castel dominante di settori importanti del salariato, il problema principale non sta più tanto nei vantaggi collegati al salario, quanto nella sua degradazione attraverso la disoccupazione, il lavoro precario, l’aumento di situazioni aleatorie. Voler ridurre le diseguaglianze significa inscriversi nella traiettoria ascendente di una società caratterizzata dalla centralità del lavoro salariato e alimentata dalla crescita economica e dalla fiducia nel progresso sociale. Una volta spezzata questa dinamica, invece, il problema diventa tentare di ridurre i rischi di disgregazione sociale. Di qui, l’invadenza della tematica della «lotta contro l’esclusione» che sembra aver rimpiazzato oggi la lotta contro la diseguaglianza. Cercherò di far vedere come, da un lato, si possa ricondurre questo mutamento di tematica alla vulnerabilità che ha investito la società salariale da vent’anni a questa parte. Ma d’altro canto, questo comporta degli effetti perversi che inducono a pensare che la diseguaglianza non sia più un problema, proprio quando invece tende ad aggravarsi ulteriormente. Si finisce così per confermare la degradazione del lavoro salariato, la cui consistenza rimane invece la difesa migliore contro la minaccia d’indebolimento del legame sociale che l’aumento delle diseguaglianze porta con sé. 1. Diseguaglianze sociali e continuum salariale Come è avvenuto il collegamento di queste due tematiche, della promozione del salariato e della lotta contro le diseguaglianze? Schematicamente, direi che la questione delle diseguaglianze diventa centrale quando una lettura della dinamica sociale in termini di differenziazione prende il sopravvento su una lettura in termini di antagonismo fra le classi. Nel corso dello sviluppo della società industriale, questo processo è stato segnato da due tappe principali. 1.1. Dallo scontro di classe alla riduzione dei rischi sociali Il punto di vista dello scontro di classe non si pone il problema della diseguaglianza, ma quello del cambiamento radicale. Anzi, respinge come «riformista» ogni tentativo di migliorare marginalmente il sistema capitalistico procurando qualche vantaggio secon- Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 43 dario alle categorie sfruttate. Basti ricordare la ferma opposizione delle correnti rivoluzionarie del movimento operaio – sindacalismo rivoluzionario e marxismo – ai primi tentativi di mettere in piedi una legislazione sociale alla fine del secolo scorso. Certo, questa prospettiva di scontro radicale non è mai stata egemonica, neppure in seno alla classe operaia organizzata. Se per «riformismo» s’intende un insieme di tentativi tesi a migliorare la condizione delle categorie meno abbienti riducendo le diseguaglianze nell’accesso ai vantaggi connessi alla vita sociale, un punto di vista del genere emerge in Francia sin dalla fine del XIX secolo, teorizzato dai pensatori radical-socialisti della Terza Repubblica. Dice Léon Bourgeois: «La società si costituisce fra esseri simili, degli esseri cioè che, al di sotto delle diseguaglianze reali che li distinguono, posseggono un’identità fondamentale indistruttibile» (Bourgeois 1896). Una società di simili non è una società egualitaria, anzi; la solidarietà poggia sulla differenziazione gerarchizzata delle funzioni. Aggiungiamo però, e non è solo un gioco di parole, che per potersi inscrivere in un insieme, i simili non devono essere troppo diversi! Questo significa per l’appunto che bisogna lottare contro i rischi di destituzione che minacciano le fasce meno abbienti: contro le diseguaglianze di fronte agli incidenti, alla malattia, alla vecchiaia, che possono far precipitare i più vulnerabili, e le diseguaglianze nell’accesso all’istruzione, che mantenendo nell’incultura una parte della popolazione, le impediscono di fatto di partecipare alla vita sociale. Questa posizione fa emergere, a mio avviso, i princìpi guida di una politica di lotta contro le diseguaglianze, che è stata peraltro molto moderata, nelle intenzioni come nella portata: riduzione delle diseguaglianze di fronte a certi grossi rischi sociali come l’incidente, la malattia, la vecchiaia, che non sono più coperti semplicemente dalla proprietà patrimoniale, ma competono alla legislazione sociale; accesso per tutti all’istruzione che apre certe opportunità di promozione sociale, ma resta accuratamente limitata, per quanto riguarda le classi popolari, all’insegnamento elementare; sviluppo dei servizi pubblici grazie ai quali, per dirla ancora con Léon Bourgeois, la società comincia «ad aprire a tutti i suoi membri i beni sociali che sono comunicabili a tutti» (Bourgeois 1903). Questi tre orientamenti riassumono abbastanza bene il programma della Terza Repubblica per ridurre le diseguaglianze. È significativo che una politica del genere, in quanto promossa dallo stato, non consideri direttamente il problema dei 44 Robert Castel salari, che rimane invece nell’ambito delle relazioni fra datore di lavoro e lavoratore1. Ci sarebbe molto da dire sulle timidezze di questa politica di riduzione delle diseguaglianze, che comunque avanza fino agli anni ’30 pur fra mille peripezie. Io insisterò soltanto su quelle caratteristiche del salariato che possono aiutarci a capire la specificità di questa politica. Ci si dimentica troppo spesso che fino alla seconda guerra mondiale la definizione sociologica del salariato è costruita essenzialmente a partire dal salariato operaio. Ancora nel 1932, un autore attento e «moderno» come François Simiand si rifiuta di definire salariati perfino gli impiegati più modesti: «l’attributo di salariato ci sembra applicarsi propriamente nel linguaggio corrente, in modo generale e topico al tempo stesso, alla categoria degli operai, distinti dai domestici nell’agricoltura, dagli impiegati nel commercio, nell’industria e nell’agricoltura, dai capi servizio, dai capi fattori, ingegneri, direttori d’ogni sorta» (Simiand 1932, 151). Per Simiand, come poco prima per Maurice Halbwachs (1912) gli operai sono i soli veri salariati, perché sono i soli lavoratori che producono una «pura prestazione di lavoro» trasformando direttamente la materia. Il salario remunera dei compiti esecutivi, riguarda le forme più rudimentali della divisione del lavoro. Una concezione simile è parzialmente giustificata dalle caratteristiche sociologiche dominanti del salariato fino agli anni ’30. Rappresentando allora soltanto la metà della popolazione francese attiva, si compone nella sua larga maggioranza di lavoratori manuali (9.700.000, se si contano anche gli operai agricoli), contro soltanto 2.700.000 salariati non-operai. Per di più, la maggioranza di questi ultimi è composta da piccoli impiegati il cui statuto, benché superiore a quello degli operai, è pur sempre mediocre. Il salariato medio o alto, di difficile quantificazione (la categoria dei «quadri» non esiste ancora), è molto minoritario e non supera il milione, inclusi anche i funzionari – qualcosa insomma come un decimo dell’insieme dei lavoratori salariati2. Complessivamente, il salariato 1 In effetti, lo stato «solidarista» si vieta di entrare nelle relazioni di lavoro, per non interferire con l’autonomia della direzione d’azienda e con le leggi del mercato, ma tenta di regolamentarli dall’esterno. È solo nel 1936, nel quadro del Fronte popolare, che il governo per la prima volta interviene direttamente per imporre ai datori di lavoro un accordo salariale, gli accords de Matignon. 2 Per un’analisi di questi dati, si veda Castel (1995, cap. VII). Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 45 corrisponde alle posizioni socialmente meno valorizzate del mondo del lavoro. Una situazione del genere può spiegare il carattere specifico e mirato delle politiche sociali che hanno prevalso fino alla seconda guerra mondiale. Non potendo attaccare la diseguaglianza in generale nella società, tendono soltanto a compensare i gruppi più vulnerabili, cioè essenzialmente i lavoratori manuali3. Così, le prime leggi di assicurazione sociale – le pensioni operaie e contadine del 1910, le assicurazioni sociali fino alla seconda guerra mondiale – hanno riguardato solo il piccolo salariato, al di sotto di una certa soglia di reddito. Non c’è alcuna intenzione ridistributiva, né alcuna volontà di restringere il ventaglio della stratificazione sociale. L’idea direttiva è quella di assicurare un minimo di garanzie a quei lavoratori che l’incidente, la malattia o la vecchiaia costringerebbero ad interrompere l’attività. Questa congiuntura salariale può spiegare anche alcune «resistenze» incontrate da queste prime politiche sociali. Non sono solo le reticenze del padronato e l’ostilità dei rentiers, dei lavoratori indipendenti, degli artigiani, dei piccoli commercianti, ecc., nei confronti di misure che dovrebbero avvantaggiare solo i salariati. Anche molti lavoratori salariati possono pensare che una tale logica in realtà andrebbe a loro svantaggio. Certo, la parte più politicizzata della classe operaia riconosce la sua subordinazione, ma ne denuncia l’ingiustizia: il lavoro operaio che trasforma la natura e l’umanizza è l’essenza dell’uomo e la fonte della ricchezza sociale, mentre invece viene spoliato del prodotto del suo lavoro. Non si tratta tanto allora di ottenere qualche compensazione a caro prezzo, ma di rovesciare le basi dell’organizzazione sociale. Darsi come obiettivo prioritario la riduzione delle diseguaglianze vorrebbe dire rinunciare ad abolire lo sfruttamento capitalistico che continua a separare la società in classi antagoniste. Cosicché i pensatori «borghesi» o riformisti che promuovono le prime politiche sociali e i partigiani più radicali della lotta di classe hanno paradossalmente un punto in comune: condividono la stessa concezione del salariato costruita sul modello del salariato operaio. Per i primi, si tratta di consolidarlo attraverso una politica di compensazioni sociali in modo da stabilizzare le fasce più 3 Un’altra serie di interventi riguarda gli indigenti e gli invalidi, ma inizialmente la specificità delle assicurazioni relative ai lavoratori salariati non emerge facilmente. 46 Robert Castel vulnerabili del lavoratori. Per gli altri, si tratta di abolire definitivamente la subordinazione operaia e d’imporre il predominio dei veri produttori. Ma in entrambi i casi, la questione della diseguaglianza non si pone mai al livello della società tutta. 1.2. Dalla lotta contro la vulnerabilità al problema delle diseguaglianze Solo in una società imperniata sul salariato il problema delle diseguaglianze può collocarsi al centro della questione sociale. Questa trasformazione corrisponde ad una fondamentale trasformazione sociologica dello stesso salariato, che comincia a farsi sentire verso la fine degli anni ’30. Sebbene il modello del salariato operaio sia ancora dominante in quegli anni, è ormai minato da mutamenti interni prodotti dal processo d’industrializzazione. L’identificazione iniziale del salariato con quello operaio viene progressivamente spodestata, man mano che si moltiplicano compiti d’inquadramento, di controllo, di progettazione, e le attività terziarie sia nel settore industriale che al di fuori. Al di là della definizione dell’orario di lavoro, il salariato viene irresistibilmente trascinato da un duplice processo di differenziazione e di generalizzazione che culmina all’inizio degli anni ’70. Differenziazione del salariato. Luc Boltanski ha messo in luce la difficile promozione di un «salariato borghese» attraverso l’emergere della categoria di «quadro» (Boltanski 1982). Si tratta in realtà di costituire tutta una nebulosa di professioni salariate che formano quel che Henri Mendras chiama la «costellazione centrale» della società (Mendras 1988). Nel contesto della «modernizzazione» che s’impone dopo la seconda guerra mondiale, questi nuovi salariati rappresentano la punta di diamante della dinamica sociale. Il salariato esce dalla sua secolare indegnità: può finalmente venir associato a posizioni di prestigio e di potere; anzi, porta i segni della modernità e del successo sociale. Questa trasformazione relega la classe operaia in una posizione subordinata. Per meglio dire, la sua posizione, da sempre subordinata, perde quel carattere centrale che ne faceva la sede della dinamica profonda della struttura sociale (il contesto del 1936 illustra bene, per quanto riguarda la Francia, questa connessione Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 47 fra la subordinazione della classe operaia e la volontà di emancipazione che fa pensare ai suoi difensori di interpretare il futuro del mondo). Dopo la seconda guerra mondiale, il salariato operaio è sempre più dominato da formazioni salariate via via più numerose, che occupano in genere posizioni superiori4. Generalizzazione del salariato. Le professioni salariate che raggruppano all’incirca il 49% della popolazione francese attiva all’inizio degli anni ’30, nel 1975 ne rappresentano l’83%. Il che implica una vera e propria emorragia dalla maggior parte delle professioni indipendenti, artigiani, piccoli commercianti, coltivatori diretti, ecc. Ma il peso preponderante assunto dal salariato è ancora più incontestabile se si tiene conto che esercita ormai un’attrazione anche sulle categorie sociali che gli si sottraggono, come quelle professioni indipendenti che, dopo averlo sempre disprezzato, adesso lo invidiano, lo imitano, tentano di ottenere gli stessi vantaggi sociali, e per lo più ci riescono. Si può dire la stessa cosa dei proprietari, che non si contentano più di posizioni da rentiers, e neppure da imprenditori, ma collocano i loro figli ai livelli più alti del mercato del lavoro salariato, grazie ai diplomi e alle grandes écoles. All’inizio degli anni ’70, si può insomma parlare della realizzazione di una «società salariale». Naturalmente, questo non vuol dire che tutti siano salariati, ma che l’essenziale della dinamica sociale si organizza ormai intorno al lavoro salariato. Né significa che posizioni salariate omogenee coesistano pacificamente (per esempio, che un’ampia classe media lasci fuori solo qualche gruppo di drop-out e al suo vertice qualche vedettes dei media). Rimangono profonde disparità fra i diversi strati sociali; ma l’essenziale della conflittualità sociale si gioca intorno allo statuto dei lavoratori salariati e viene espresso in termini di diseguaglianza. 4 In cifre, la classe operaia raggiunge in Francia l’apice nel 1975 (8.200.000), ma è quasi uguagliata dal salariato non operaio (7.900.000); in particolare, le forme di salariato che sono cresciute più rapidamente sono le categorie superiori (2.700.000 quadri medi, 1.380.000 quadri superiori). Inversamente, la categoria di salariati al di sotto degli operai, cioè gli operai agricoli che rappresentavano ancora ¼ dei lavoratori manuali negli anni ’30, sono praticamente scomparsi. 48 Robert Castel 1.3. La dinamica della riduzione delle diseguaglianze nella società salariale Per società salariale intendo dunque un continuum di posizioni gerarchizzate all’interno del salariato. C’è continuità, in quanto non c’è più una classe in posizione antagonistica che cristallizzi intorno a sé scelte alternative di società. Non ci sono differenze irriducibili di statuto, ma solo differenziazione e diseguaglianze. In questo senso, possiamo dire con Michel Aglietta e Anton Bender che «in una società salariale tutto circola, tutti si misurano e si confrontano» (1984, 98), purché però si aggiunga che questo comparativismo generalizzato è anche una competizione generale. Il principio di «distinzione» elaborato da Pierre Bourdieu rende conto bene di questa logica di differenziazione che polemicamente mette insieme il medesimo e l’altro: io, come il mio gruppo di riferimento o la mia categoria salariale, ci definiamo per confronto e contrapposizione rispetto alla fascia inferiore, da cui siamo distinti, e rispetto a quella superiore, cui aspiriamo. Questa dialettica conflittuale della differenziazione è stata all’origine di un modo controllato di gestione delle diseguaglianze. La società salariale si sviluppa in concomitanza con la crescita economica che segue la seconda guerra mondiale. Assieme all’antagonismo di classe, un altro problema rappresenta la grande posta in gioco di quegli anni e a poco a poco ne prende il posto: la ridistribuzione dei frutti della crescita. Lo capiamo meglio oggi, in un contesto profondamente mutato: la certezza della crescita permetteva un trattamento specifico della questione delle diseguaglianze, combinando rivendicazione e contrattazione in una sorta di «conflitto consensuale». Ogni gruppo rivendica «sempre di più» e ottiene molto meno di quanto non desideri. Ma in un periodo di crescita si può sempre giocare sulla durata: le conquiste di oggi sono altrettanti trampolini di lancio verso altre conquiste domani. L’avvenire è integrato come una dimensione del presente che sdrammatizza le poste che vi si giocano. Così la constatazione che le diseguaglianze esistono, anzi in alcuni casi sono addirittura scandalose, può andar insieme con la speranza che continueranno a diminuire. La crescita inquadrata dalla contrattazione fra i «partner sociali» alimenta un immaginario social-democratico, che tende ad annullare progressivamente le diseguaglianze. Tanto più che il progresso sociale ha degli effetti anche per le altre generazioni: se è troppo tardi perché i genitori vedano la fine del Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 49 processo, i loro figli potranno beneficiare appieno della traiettoria ascendente. La mobilità ascendente rappresenta un altro modo di ridurre le diseguaglianze annettendo l’avvenire al controllo del presente. Bisognerebbe poter fare un bilancio preciso delle realizzazioni concrete di questo modo di gestione delle diseguaglianze nei vari campi cui si è applicato: redditi, accesso ai diritti, all’istruzione, alla cultura, ecc. Con tutta probabilità, vedremmo che all’inizio degli anni ’70 la questione delle diseguaglianze restava aperta, ma veniva trattata nell’ambito di un processo, di cui si poteva di volta in volta denunciare l’ipocrisia o ammirare la saggezza. Per esempio, sappiamo che la «politica dei redditi» pensata in Francia all’inizio degli anni ’70 non ha mai visto la luce; eppure complessivamente, su trent’anni, la progressione dei salari ha seguìto quella della produttività e del reddito nazionale. Si trattava di «condividere dei benefici» (Darras 1965)5 che riproducevano grosso modo la gerarchia sociale e lasciavano sussistere importanti disparità: nel 1975, il rapporto medio fra il salario operaio e quello dei quadri superiori era di 1 a 3,7. I progressi della protezione sociale a partire dagli anni ’30 sono stati decisivi; tuttavia, con il moltiplicarsi dei regimi integrativi, anche il sistema delle pensioni finisce per riflettere le diseguaglianze profonde che sussistono nella società salariale. La protezione sociale ha una debole funzione ridistributiva e conferma perciò di fatto la gerarchia dei salari. Allo stesso modo, l’insegnamento si è «democraticizzato», ma l’eguaglianza reale delle opportunità rimane un ideale remoto rispetto alla «riproduzione» dell’eredità familiare, sociale, ecc. Di qui, due atteggiamenti che, per dirla in modo schematico, hanno diviso l’opinione (e i sociologi) all’inizio degli anni ’70. Gli uni pensano che si debba dar tempo al tempo, e i progressi già notevoli nella riduzione delle diseguaglianze produrranno i loro effetti positivi, purché si perseveri. Per gli altri, vanno messi in moto altri strumenti capaci di portare a profonde trasformazioni politiche, al fine di eliminare disparità indegne degli ideali democratici dichiarati. Questo secondo orientamento è stato quello della sociologia critica dell’epoca, cui resto personalmente fedele. Penso ancora che sia stato ingenuo aspettarsi una riduzione drastica delle 5 Anche se c’è dissenso profondo, soprattutto fra gli economisti e i sociologi, sulle condizioni in cui si effettua la «divisione», c’è un sostanziale accordo sul fatto della crescita e sulle aspettative di riduzione delle diseguaglianze che apre. 50 Robert Castel diseguaglianze dalla contemplazione delle curve di crescita, e che l’ideologia del progresso sia servita spesso a coprire la conservazione di privilegi acquisiti. Ad ogni buon conto, questo passato ancorché recente sembra ormai lontano: non siamo più in quella traiettoria ascendente della società salariale che metteva al centro la questione delle diseguaglianze. 2. Frammentazione del salariato, vulnerabilità e diseguaglianze L’ipotesi che propongo è che la tematica delle diseguaglianze sia stata messa sotto silenzio per effetto di un rovesciamento di questo processi di promozione del salariato che ho descritto. Il timore di una degradazione dello statuto salariale e della disoccupazione sembra prendere oggi il posto della preoccupazione di migliorare la propria posizione sociale, che la lotta contro le diseguaglianze aveva appunto espresso. Una prova di questo cambiamento sta nel rifluire dei conflitti sociali man mano che si prende coscienza di questi nuovi rischi. Così, il numero delle giornate di sciopero in un anno in Francia è passato a 3 milioni in media fra il 1976 e il 1980, contro 4 milioni negli anni precedenti; a partire dal 1981 scende drasticamente per raggiungere 1 milione e mezzo fra il 1981 e il 1985, meno di un milione negli anni successivi, e solo mezzo milione nel 1992. Nel 1992 e 1993, i conflitti che hanno per oggetto il posto di lavoro superano quelli che hanno per oggetto rivendicazioni salariali6. È come se i lavoratori salariati dovessero ormai gestire l’incertezza della propria situazione, invece della promozione sociale e della riduzione delle diseguaglianze. Che significa questo cambiamento? Da una parte, corrisponde effettivamente a delle trasformazioni profonde che da una ventina d’anni a questa parte tendono a rendere sempre più precarie le relazioni di lavoro (v. § 2.1). Ma piuttosto che abolire la problematica delle diseguaglianze, questo movimento la ritraduce, nella misura in cui la diseguaglianza principale diventa quella di fronte 6 Cfr. Premières synthèses, in «Dares», n. 104, agosto 1995. Invece i conflitti importanti scoppiati nella funzione pubblica in Francia alla fine del 1995 illustrano un’altra èra della conflittualità sociale: le rivendicazioni non sono più essenzialmente di natura salariale ma esprimono il timore della degradazione della condizione di lavoratori salariati e la volontà di difendere le conquiste dei decenni precedenti. Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 51 a questa nuova congiuntura dell’occupazione (v. § 2.2). Di qui, la necessità d’interrogarsi sull’ampiezza delle trasformazioni avvenute rispetto al modello di gestione delle diseguaglianze nella società salariale (v. § 2.3). 2.1. I processi di precarizzazione e di individualizzazione a) Moltiplicazione dei tipi di contratto di lavoro. Al posto dell’egemonia del contratto di lavoro a tempo indeterminato, assistiamo oggi al moltiplicarsi di forme «atipiche» di occupazione (contratto a tempo determinato, lavoro interinale, tempo parziale) e di contratti «sostenuti» (contratti-solidarietà, misure per i giovani, ecc.). Se si ragiona in termini di flussi d’ingresso sul mercato del lavoro, la precarietà dell’occupazione, in forme molto diverse, si sta sostituendo alla stabilità come regime dominante dell’organizzazione del lavoro7. b) Parcellizzazione della contrattazione collettiva. Al posto dei grandi accordi interprofessionali degli anni ’60 e ’70, assistiamo ad una tendenza alla «micro-contrattazione», fino agli accordi impresa per impresa. Questo movimento s’accompagna all’indebolimento dei sindacati, il cui ruolo era stato determinante nell’elaborare il «compromesso sociale» di quegli anni. c) Tendenza ad individualizzare il rapporto salariato. Tempi di lavoro e retribuzione individualizzati riattivano la relazione diretta fra datore di lavoro e lavoratore a spese delle regolamentazioni generali. Quest’orientamento diventa particolarmente significativo se lo si rapporta alle tendenze che avevano caratterizzato la regolamentazione del lavoro fino agli anni ’70: il contratto di lavoro aveva perso progressivamente il carattere personalizzato per inquadrarsi nelle regolamentazioni collettive (contratti collettivi, diritto del lavoro, protezioni generali). 7 Per i dati quantitativi, si veda Fourcade (1992). 52 Robert Castel 2.2. Le diseguaglianze di fronte alla trasformazione delle relazioni di lavoro a) La diseguaglianza più grave oggi è con tutta probabilità quella rispetto al rischio di disoccupazione e di degradazione delle condizioni di lavoro. I dati statistici mostrano che i rischi di disoccupazione seguono grosso modo la gerarchia delle categorie socio-professionali; nel 1993, per esempio, il 21,5% dei disoccupati in Francia erano operai non specializzati, mentre solo il 4% erano quadri. Anche la durata della disoccupazione è tre volte superiore per gli operai che per i quadri; e la precarietà (proporzione di contratti a tempo determinato o di lavoro interinale) ha la stessa tendenza. I contratti a tempo determinato riguardano solo un quadro su cinque che entri oggi in un’azienda, ma tre operai qualificati su cinque e quattro operai non qualificati (Bihr e Pfefferkorn 1995, cap. I). Questo carattere labile del rapporto di lavoro è la causa principale di disoccupazione: circa la metà delle iscrizioni all’Agence nationale pour l’emploi oggi è motivata dalla chiusura di contratti a tempo determinato (Dauty e Morin 1992). Queste diseguaglianze di fronte alla disoccupazione e alla precarietà del lavoro non sono diseguaglianze qualsiasi; molto spesso determinano una degradazione generale dei redditi, delle condizioni di vita e di abitazione, delle protezioni, dello status sociale. b) Ancor più profondamente, forse, l’individualizzazione dei rapporti di lavoro mette l’una contro l’altra delle categorie di lavoratori, a seconda che siano o no capaci di mobilitare delle risorse per far fronte alle trasformazioni in corso. Naturalmente ci sono sempre diseguaglianze di statuto e di retribuzione, ma ci sono ormai più chiaramente di prima dei «vincenti» e dei «perdenti». Le nuove norme del lavoro, che si traducono in un’esigenza generalizzata di flessibilità, impongono in effetti ai lavoratori salariati una mobilità, un’attenzione costante, la capacità di adattarsi a situazioni nuove e di riciclarsi; mettono insomma in primo piano le qualità personali di mobilità del soggetto, invece di conoscenze standardizzate. Una simile personalizzazione delle competenze professionali produce effetti opposti a seconda delle categorie di lavoratori. Alcuni si sentono liberati da quadri collettivi che potevano essere rigidi e paralizzanti, come nel caso dell’organizzazione tayloristica del lavoro; possono esprimersi nel lavoro, sviluppare iniziative personali e strategie professionali individua- Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 53 lizzate. Insomma, i «forti», coloro che dispongono di una formazione diversificata, di competenze sociali e relazionali, e non soltanto di preparazione tecnica, sono favoriti. Per gli altri, però, può significare la destituzione di antichi saperi, la segmentazione dei compiti, la perdita delle protezioni collettive, fino all’espulsione dal posto di lavoro per i più sfortunati. Le nuove esigenze della competitività disegnano così due profili contrapposti di lavoratori, ovviamente con tutta una gamma di posizioni intermedie. La mano d’opera si scinde in due, in seno all’azienda (flessibilità interna) come fuori (flessibilità esterna, cioè ricorso generalizzato all’appalto, per lo più affidato a lavoratori più precari e meno protetti di quelli dell’azienda che commissiona il lavoro). Certo, questa tendenza non è radicalmente nuova. Il tema della segmentazione del mercato del lavoro o del «lavoratore periferico» emerge sin dalla fine degli anni ’70, e in primo luogo negli Stati Uniti. Ma significativamente, almeno in Francia, quest’apparire della precarietà era stato inizialmente tradotto in termini di aumento delle diseguaglianze, o di maggior sfruttamento dei lavoratori – basti pensare alle discussioni degli anni ’60 intorno alla «pauperizzazione assoluta» o relativa della classe operaia. Oggi non è più così. Il successo della tematica dell’esclusione esprime la coscienza generalizzata di questa vulnerabilità sociale e dell’incertezza del rapporto con il lavoro. Secondo un recente sondaggio, il 53% della popolazione francese dice di temere di essere escluso; ma questa percentuale è nettamente più alta fra i giovani e la popolazione attiva (60-70% fino a cinquant’anni), e ancor più fra le categorie professionali più minacciate (74% degli operai, 68% degli impiegati, contro 46% dei quadri)8. La paura dell’esclusione è dunque una specie di barometro che traduce la consapevolezza dolorosa del rischio di degradazione sociale dovuta all’incertezza della situazione lavorativa. 2.3. Il rapporto fra precarietà e diseguaglianze Diventa chiaro, allora, perché il problema di gestire l’incertezza del lavoro abbia prevalso su quello di ridurre le diseguaglianze, 8 Sondaggio realizzato per la rivista «La rue», n. 23, ottobre 1995. 54 Robert Castel soprattutto per chi si trova in situazione più precaria. È paradossale, dato che in genere i più precari sono anche coloro che maggiormente subiscono le diseguaglianze: non solo sono meno pagati, ma anche meno protetti, sia in situazione lavorativa (perdono per esempio le prerogative legate all’anzianità di servizio) che quando cessi l’attività (indennità di disoccupazione o trattamento pensionistico). Possiamo perciò avanzare l’ipotesi che le diseguaglianze si approfondiscono proprio quando si è smesso di parlarne. Cosa si può dire a sostegno di un’ipotesi del genere? Innanzitutto, è incontestabile che la «crisi» attuale non dipende da un impoverimento generalizzato. Fra il 1982 e il 1992, il prodotto interno lordo della Francia è cresciuto di oltre un quarto (Bihr e Pfefferkorn 1995). Invece, i modi di ripartizione della ricchezza sociale sembrano in via di trasformazione, e gli effetti più spettacolari di questo mutamento si manifestano principalmente ai due estremi della scala sociale. È aumentato il divario fra i più ricchi e i più poveri: dal 1984 al 1990, il rapporto fra il reddito fiscale del 10% delle famiglie più ricche e quello del 10% delle famiglie più povere è passato dal 13,9 al 17,9 (Clerc 1994)9. Questi dati sembrano confortare l’ipotesi di un’evoluzione «duale» della società. In cima alla scala sociale troviamo soprattutto l’aumento dei redditi da capitale, che crescono in media del 10% fra il 1989 e il 1993. All’estremo opposto, vediamo svilupparsi una sorta di neo-pauperismo che si traduce in sacche di povertà, specie nelle periferie urbane, nell’aumento del numero degli assegnatari del reddito minimo d’inserimento sociale (RMI) e di chi ricorre agli aiuti sociali in genere. Il numero delle persone che sfuggono all’estrema povertà solo grazie a questi aiuti è stimato in Francia intorno ai 7 milioni. Una simile rappresentazione duale della società va comunque messa in discussione. Probabilmente, dà un’immagine più o meno esatta della situazione attuale, ma sottovaluta il ruolo dell’instabilità professionale (disoccupazione e lavoro precario) i cui effetti cominciano soltanto a farsi sentire. Che succede esattamente fra questi estremi, che rimette in questione il continuum della società salariale? La contrapposizione statica fra gli in e gli out nasconde l’erosione delle posizioni intermedie. In una prospettiva dinamica, 9 Si considera il reddito fiscale in quanto include l’insieme dei redditi non da salario. Si veda anche il numero speciale del CERC (1989). Diseguaglianze e vulnerabilità sociale 55 vediamo delinearsi tre tendenze di cui bisognerebbe studiare l’evoluzione. La destabilizzazione di chi è stabile. È il caso dei lavoratori che avevano una solida posizione professionale e sono stati espulsi dai circuiti produttivi. All’inizio, questo processo ha toccato una parte della classe operaia classica, in particolare nel settore delle grandi industrie dal prospero passato, come il tessile, le miniere, la siderurgia, ma non si è affatto limitato a questi settori. Si tratta di lavoratori troppo vecchi per riciclarsi ma troppo giovani per la pensione, che rappresentano i residuati che la modernizzazione dell’apparato produttivo ha abbandonato per via. L’insediamento nella precarietà. Periodi di disoccupazione si alternano a periodi di lavoro temporaneo, di piccoli lavoretti, di ricorso agli aiuti sociali, o semplicemente di tentativi di sbarcare il lunario in qualche modo. Questa precarietà tocca soprattutto i giovani, condannati ad una «cultura dell’aleatorio» ossessionata dall’idea del domani. Alcuni ce la fanno, ma per molti che si abituano a vivere «alla giornata» la precarietà tende a diventare il regime normale. La ricomparsa di una popolazione che potremmo definire «in sovrannumero». C’è un deficit di posti di lavoro socialmente utili nell’attuale divisione sociale del lavoro: i disoccupati di lunga durata, o molti dei beneficiari delle politiche d’inserimento sociale, che le stime rivelano per lo più incapaci di reinserirsi nel circuito ordinario del lavoro. L’alta improbabilità di un ritorno al pieno impiego fa sì che queste situazioni tendano a stabilizzarsi. Queste tre tendenze convergono a minare le basi della società salariale. È probabilmente impossibile oggi misurarne gli effetti o predirne la portata. Ma certo spingono a riformulare il problema delle diseguaglianze in modo diverso sia dal modello di promozione del salariato, sia dal modello duale dell’esclusione, contrassegnato da una contrapposizione fra gli in e gli out. Per valutare le diseguaglianze oggi abbiamo bisogno perciò di analisi precise dei fattori di vulnerabilità sociale e dei loro effetti su quelle diseguaglianze che più ci sono note, relative ai redditi, al prelievo dei contributi, alla salute, alle condizioni abitative, all’istruzione, ecc. – analisi che rappresentano il compito della sociologia critica oggi. [Traduzione dal francese di Giovanna Procacci] 56 Robert Castel RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aglietta, M. e Bender, A. 1984 Les métamorphoses de la société salariale, Paris, Calman-Lévy. Bihr, A. e Pfefferkorn, R. 1995 Déchiffrer les inégalités, Paris, Syros. 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