Il fascino dellassenza
- Alessandra Pigliaru, 02.04.2015
Saggi. «Lacuna. Saggio sul non detto» di Nicola Gardini, pubblicato da Einaudi. Tutte le reticenze
narrative della letteratura, da Dante a Calvino passando per James e Yourcenar
«La letteratura è una mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è desiderio di altro ancora,
perché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere tutto. Una scrittura sarà tanto più
letteraria quanto più intenso saprà indurre quel desiderio». È la tesi di Nicola Gardini, docente di
letteratura italiana e comparata a Oxford, che nel suo ultimo libro si dedica a un termine – che
corrisponde anche al titolo capace di sostanziare la mancanza: Lacuna. Saggio sul non detto
(Einaudi, pp. 271, euro 20).
Lacuna, dice Gardini, richiama semanticamente il significato latino di lacus e in italiano il termine
laguna. Se considerassimo dunque la lacuna come una «depressione in cui si raccoglie l’acqua»,
intenderemmo ciò che descrive Virgilio quando, nelle Georgiche, accenna a cavae lacunae, cioè un
luogo – delle fosse – da cui l’acqua dei fiumi straripati evapora. A prescindere dalla più generale
depressione geografica, il termine lacuna sembra comparire nelle principali lingue europee e sta a
indicare, nel suo senso ampio, qualcosa che manca, qualcosa di necessario che non si dà. Se per ogni
campo del sapere, o potremmo dire meglio per ogni gioco linguistico, il termine risente di una
speciale declinazione (per la medicina, la lacuna è uno spazio di interruzione e mancanza, di
dimensioni piccole o grandi che va dal sistema lacunare della cornea alla mnemonica), per la
filologia da cui Gardini sostanzialmente prende le mosse la parola corrisponde a un’assenza nel
testo, seguendo tuttavia una precisa direzione letteraria che gli consenta di concentrarsi
sull’omissione intenzionale di parti del racconto.
In letteratura la lacuna può essere riscontrata in una narrazione ed è un punto preciso che segna
e attiva lo stesso procedimento letterario. In questo senso, il non detto è l’omissione, ciò che
determina riduzioni, abolizioni, cancellazioni, spasmi, eliminazioni, strappi del testo – e quindi della
scrittura – attraverso cui evincere che «si narra non solo dicendo».
La ricerca di Nicola Gardini esclude alcuni tipi di omissione: per esempio quelle imposte come la
censura, o l’incompiuto, le amputazioni, le sparizioni o i guasti meccanici e tutte le altre
manifestazioni secondo cui non si è stati liberi di decidere bensì sono state circostanze esterne a
dettare più o meno forzatamente l’essere mancanti. Non vengono analizzate le scritture diaristiche,
né quelle poetiche, né ancora si discetta di accezioni lacaniane o sacrali (nonostante di tutte queste
forme sarebbe utile continuare a parlare in relazione all’omissione e lo stesso autore auspica che ciò
accada – così come per altre tradizioni).
Andare direttamente ai testi, stringendo all’osso la letteratura secondaria e quindi inchiodando il
più possibile il fuoco della faccenda, autorizza Gardini all’individuazione di ottimi maestri di
lacunosità; tra i tanti vi sono Proust, Flaubert e Henry James. Insieme a moltissimi esempi di lacuna
– annunciata come nel caso dell’apertura del canto XXI dell’Inferno dantesco, o semplicemente agita
come nella mancata descrizione dell’amore tra Vronskij e Anna Karenina nel decimo capitolo del
romanzo di Tolstoj o nell’elisione della morte della signora Ramsay di Gita al faro di Woolf. E poi
Manzoni, Thomas Mann, Stendhal, Nietzsche, Calvino, Yourcenar, altre e altri.
Reticenze e occultamenti sono infatti insufficienti a misurarsi con l’intelligenza dei testi, per questa
ragione l’autore affonda la sua sapienza analitica su alcuni elementi che ci interpellano: intanto
esistono diverse specie di omissioni che necessitano di altrettante speculazioni, riflessioni perché la
lacuna «sta al testo come l’ombra al corpo». E proprio di una doppia materialità ci parla l’autore,
ovvero dell’intenzionalità di chi scrive e dell’intenzione che restituisce il testo. A ben guardare ve ne
è anche una terza che emerge dall’incontro con colui o colei che legge.
In questo gioco di vuoti e di pieni, la lacuna diventa un’arte, «ovvero un procedimento conscio o
calcolato: un non dire al fine di dire». Se esso contribuisce alla rappresentazione essendo essenziale
alla forma come al significato, il volume sceglie di distillare un’estetica dell’omissione sorvegliando
quando, come e perché abbia definito uno sviluppo della letteratura per provare a ridefinire la
fisionomia controversa e multiforme del concetto di realismo.
Per spiegare cosa sia il realismo, l’autore si colloca inizialmente accanto a Lukàcs e ad Auerbach
mostrando maggiori debiti con quest’ultimo seppure verso il primo la corrispondenza sia ascrivibile
alla «capacità educativa» della letteratura, rintracciata come traguardo della coscienza europea. La
realtà di cui si parla non è proporzionata alla sua verificabilità, quanto piuttosto alla sua capacità di
essere completata da chi legge. L’attitudine al domandare, all’immaginare da parte di chi legge
sorgono dinanzi a narrazioni che lasciano aperta una breccia, uno spazio anche piccolo, come
interstizio di accoglienza.
Il senso, ricontrattato ermeneuticamente, si va costruendo nello stesso procedimento
conoscitivo che è la letteratura. Ecco perché la lacunosità transita nell’impianto teorico di Gardini da
idea a metodo. Che un saggio sul non detto custodisca una seduzione straordinaria è innegabile.
Un fascino che non è solo scandito dall’aver saputo coniugare la mancanza alla disciplina delle fonti,
bensì da ciò che viene a riconfigurarsi seguendo questo verso esatto, ovvero che «riconoscere il
valore dell’omissione significa rimettere la parzialità della scrittura nella totalità del mondo.
Significa cercare il senso».
E alla fine della lettura, questa lacuna che apre all’agire e risulta essere una scoperta di libertà così
sontuosamente abitata viene il desiderio di ricominciare a interrogarla.
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