Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 1 Antefatti: l’ostilità tra Stefano e Apollodoro (§§ 1-16). Nei §§ 1-15 Teomnesto spiega le ragioni che lo hanno indotto a citare in giudizio Neera, nativa di Corinto, ex schiava ed etera, che convive maritalmente con l’ateniese Stefano. Egli ha in tal modo voluto vendicarsi dei gravi torti che Stefano, senza essere stato provocato, ha fatto a lui stesso, al suo cognato Apollodoro – figlio del banchiere Pasione e, come il padre, cittadino ascitizio – e alle loro mogli, cioè, rispettivamente, alla sorella di Teomnesto e alla figlia di Apollodoro. A suo dire, infatti, quando Apollodoro, entrato a far parte della Bulé, in un momento critico per Atene – nel 348 Filippo il Macedone minacciava di conquistare Olinto alleata della città – propose che l’Assemblea decidesse se i fondi residui del bilancio dovessero essere destinati alle spese militari o agli spettacoli pubblici, e il popolo decretò di assegnarli agli armamenti, Stefano, citatolo in giudizio, per mezzo di falsi testimoni ottenne che Apollodoro fosse riconosciuto a[timo~ in quanto debitore dello Stato da venticinque anni, e che il decreto, rientrando nella fattispecie della grafh; paranovmwn, venisse cassato. Quando poi i giudici misero ai voti la penalità da infliggere ad Apollodoro, Stefano, dando prova di accanimento persecutorio, propose un’ammenda di quindici talenti, una somma esorbitante, che il condannato non era assolutamente in grado di pagare e che lo avrebbe esposto alla confisca dei beni. In tal modo lui e i suoi figli avrebbero perduto i diritti civili e tutti i familiari sarebbero stati ridotti all’indigenza più completa. Benché poi, per fortuna di Apollodoro e dei suoi, il collegio giudicante avesse fissato la multa in tre talenti che il condannato poté, sia pure a fatica, pagare saldando così il suo debito verso lo Stato, è naturale, secondo Teomnesto, che nei confronti di Stefano si sia nutrito un profondo rancore e un vivo desiderio di vendetta. Tanto più che anche in un’altra circostanza Stefano cercò di rovinare Apollodoro accusandolo di avere in Afidna percosso una donna fino a provocarne la morte; ma nel processo l’accusa che, se provata, avrebbe comportato per l’omicida l’interdizione e l’esilio, era stata riconosciuta falsa. Per tutte queste ragioni Teomnesto, a ciò indotto anche dalle esortazioni di molti, ha deciso di dare una bella lezione a Stefano per conto dei propri familiari, trascinando davanti ai giudici la sua convivente, rea di aver offeso pubblicamente gli dèi e la città violandone le leggi, e dimostrando che lui stesso illegalmente è marito di una straniera, ha introdotto nella propria fratrìa e nel proprio demo figli non suoi, ha dato in matrimonio come fosse sua la figlia di una straniera, ha peccato verso gli dèi e sottratto al popolo il diritto, inalienabile, di dare la cittadinanza a chi crede. 1 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 2 Teomnesto, infine, data la sua giovane età e la sua scarsa pratica forense, chiede e ottiene il permesso di farsi assistere nel processo da Apollodoro, di lui più vecchio e più esperto di leggi e altrettanto ostile a Stefano. Apollodoro, dunque, in veste di sunhvgoro~, pronuncia la requisitoria che si estende dal § 16 al termine dell’orazione, con il preciso intento di dimostrare che Neera è una straniera e convive illegalmente con Stefano. ÕA me;n hjdikhmevno~, w\ a[ndre~ ÆAqhnai`oi, uJpo; Stefavnou ajnabevbhka kathgorhvswn Neaivra~ tauthsiv, Qeovmnhsto~ ei[rhken pro;~ uJma`~: wJ~ dÆ ejsti; xevnh Nevaira kai; para; tou;~ novmou~ sunoikei` Stefavnw/, tou`to uJmi`n bouvlomai safw`~ ejpidei`xai. Prw`ton me;n ou\n to;n novmon uJmi`n ajnagnwvsetai, kaqÆ o}n thvn te grafh;n tauthni; Qeovmnhsto~ ejgravyato kai; oJ ajgw;n1 ou|to~ eijsevrcetai eij~ uJma`~. Prima di esporre dettagliatamente gli argomenti a sostegno della sua tesi, Apollodoro chiede che sia data lettura della legge in base alla quale Teomnesto ha intentato l’azione. Eccone il testo: Æ Ea;n de; xevno~ ajsth`/ sunoikh`/ tevcnh/ h] mhcanh`/ hJ/tiniou`n, grafevsqw pro;~ tou;~ qesmoqevta~ ÆAqhnaivwn oJ boulovmeno~ oi|~ e[xestin. Æ Ea;n de; aJlw`/, pepravsqw kai; aujto;~ kai; hJ oujsiva aujtou`, kai; to; trivton mevro~ e[stw tou` eJlovnto~. Ò Estw de; kai; eja;n hJ xevnh tw`/ ajstw`/ sunoikh`/ kata; taujtav, kai; oJ sunoikw`n th`/ xevnh/ th`/ aJlouvsh/ ojfeilevtw ciliva~ dracmav~. “Qualora uno straniero conviva maritalmente con una cittadina in qualsivoglia modo o maniera, chiunque, Ateniese e che ne abbia i requisiti, sia libero di denunciarlo davanti ai tesmoteti. Se poi venga riconosciuto colpevole, vengano venduti lui e il suo patrimonio, e la terza parte del ricavato vada all’accusatore. Lo stesso valga per una straniera che conviva con un cittadino: il convivente della straniera condannata paghi inoltre una multa di mille dracme” (§ 16, trad. di E. Avezzù). 1 ajgwvn: il processo veniva, in senso tecnico, chiamato ajgwvn, perché era concepito come una lotta o una gara tra due competitori: l’accusatore (oJ diwvkwn = «colui che insegue») e l’imputato (oJ feuvgwn = «colui che fugge»). 2 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 3 La causa 17 Tou` me;n novmou toivnun ajkhkovate, w\ a[ndre~ dikastaiv, o}~ oujk eja`/ th;n xevnhn tw`/ ajstw`/ sunoikei`n oujde; th;n ajsth;n tw`/ xevnw/, oujde; paidopoiei`sqai, tevcnh/ oujde; mhcanh`/ oujdemia`/: eja;n dev ti~ 17.- w\ a[ndre~ dikastaiv: «o signori giudici»; le parti erano solite rivolgersi con molta deferenza ai giudici popolari, lusingandone, per piaggeria e timore, la vanità e assecondandone il compiacimento per il potere di cui erano investiti. - th;n xevnhn ktl.: «straniera». Come s’è visto nell’introduzione, la legge vigente ad Atene nel IV sec. a.C., che, sostanzialmente, risaliva a un decreto di Pericle del 451, rinnovato nel 403, vietava il matrimonio tra un cittadino (ajstov~) e una straniera, comminando al primo una multa di mille dracme e alla xevnh che con lui convivesse come legittima moglie la pena d’esser venduta come schiava. Allo stesso modo, era vietato il matrimonio tra una ajsthv e uno xevno~. Sullo sviluppo storico della questione, v. la lettura a p. 5. tw`/ ajstw`/... th;n ajsthvn: «Un ajstov~ non poteva esser polivth~ se non concorressero in lui i necessari requisiti del sesso virile e dell’età maggiore. ... Il sesso muliebre esclude sempre la qualità di polivth~; si deve però distinguere quando il sesso è la causa unica di inferiorità e quando si somma con quella derivante dall’età minore. Anche il diritto attico consente di profilare distintamente la figura della donna minorenne e quella della donna maggiorenne. La donna ateniese, come non deve far maraviglia in una regione meridionale qual è la Grecia, esce di minorità a quattordici anni. Il dato, seb17.- Tou` me;n novmou: è retto da ajkhkovate (2a pl. dell’indic. perf. attivo di ajkouvw).tevcnh/ oujde; mhcanh`/ oujde- bene offertoci da un passo unico e lacunoso (Æ A q. Pol., LVI, 7) è sicuro. Divenendo maggiorenne, la donna anzitutto non era più soggetta al tutore (ejpivtropo~), ma al kuvrio~, per mezzo del quale poteva esercitare i diritti patrimoniali che le erano riconosciuti. Poteva compiere alcuni atti di ordinaria amministrazione, purché non superassero il valore di un medimno di orzo; intervenire ai consigli di famiglia e prendervi la parola; prestare giuramento decisorio; esser personalmente citata in giudizio; è anche probabile che potesse deporre validamente, purché con l’autorizzazione del suo kuvrio~ e, riteniamo, non in giudizio, ma in una deposizione provocata – come avveniva per la bavsano~ dello schiavo – da una provklhsi~ e raccolta in presenza di testimoni, normalmente davanti al diaiththv~. La donna non poteva far testamento, essendo il diritto di testare, entro le limitazioni poste dalla legge attica, riservato ai soli poli`tai; poteva tuttavia redigere un atto concernente lo stato patrimoniale dell’oi\ko~ a cui apparteneva; atto che aveva carattere dimostrativo e non dispositivo. Esso veniva depositato presso una persona di fiducia in presenza di testimoni che vi apponevano il sigillo; gl’interessati potevano estrarne degli ajntivgrafa, che facevano prova in giudizio sinché non fosse dimostrata la falsità delle asserzioni ivi contenute.» (U.E. Paoli, Studi di diritto attico, pagg. 294-296). mia`/: «in nessun modo o contrasto con queste disposimaniera» (Avezzù).- eja;n dev zioni»; protasi dell’eventuati~ para; tau`ta poih`/: lità.«qualora, poi, uno agisca in 3 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 4 para; tau`ta poih`/, grafh;n pepoivhken katÆ aujtw`n ei\nai pro;~ tou;~ qesmoqevta~, katav te tou xevnou kai; th`~ xevnh~, ka]n aJlw`/, pepra`sqai keluvei: wJ~ ou\n ejsti xevnh Nevaira auJthiv, tou`qÆ uJmi`n bouvlomai ejx ajrch`~ ajkribw`~ ejpidei`xai. - grafhvn: un’«azione pubblica» per usurpazione dei diritti civili (cfr. § 1: gravyasqai Neaivran th;n grafh;n tauthniv; § 47: Neaivra~ th`~ nuni; ajgwnizomevnh~). - pro;~ tou~ qesmoqevta~: «davanti ai tesmoteti»; la causa rientrava nella competenza dei tesmoteti, sei magistrati facenti parte dell’arcontato, i quali ne curavano l’istruzione preliminare (ajnavkrisi~). - auJthiv: «qui presente»; ouJtosiv è sempre usato deiktikw`~ e fa supporre un gesto con cui l’oratore indichi l’avversario. Neera fu citata personalmente in giudizio e, assistita da Stefano in veste di sunhvgoro~, fu presente al dibattito. Ciò appare in contrasto col principio che, in Attica, la donna non aveva capacità processuale e che era il suo kuvrio~ a rappresentarne in giudizio gli interessi; sulla questione si vedano: U.E. Paoli, Storia di Neera, pp. 126-127; E. Avezzù, Processo a una cortigiana, pp. 10-12. ka]n aJlw`/: «e, qualora <l’imputato> sia dichiarato colpevole», «... sia condannato»; protasi eventuale (aJlw`/ è la 3a sing. del cong. aor. 3° di - uJmi`n: si tratta degli Eliasti, dinanzi ai quali si svolge il processo, dopo che i tesmoteti, nella cui competenza rientrava la causa, ne avevano curato l’istruzione preliminare (ajnavkrisi~). - ajkribw`~: «in modo rigoroso», «per filo e per segno». In realtà, se gli argomenti che l’oratore adduce per dimostrare il suo assunto non sempre appaiono stringenti e irrefutabili, colpiscono, in tutto il discorso, l’accanimento e l’implacabilità con cui egli, per odio e desiderio di vendetta nei confronti di Stefano, suo avversario personale e politico, fa rivivere, dinanzi a un pubblico attento e compiaciuto, il turbinoso passato di un’etera ormai in disarmo che, vicina alla sessantina, divenuta una «buona e premurosa massaia» (Paoli), dopo tante vicissitudini s’illudeva forse di poter finalmente condurre un’esistenza tranquilla accanto all’uomo che, nel bene e nel male, era stato l’amante del cuore, e ai figli che aveva avuti quando ancora conduceva vita galante. aJlivskomai).- pepra`sqai: va retta da ejpidei`xai, che «sia messo in vendita»; viene ripresa dal tou`to epainfin. perf. pass. di nalettico. pipravskw.- wJ~: introduce una proposizione dichiarati- 4 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 5 L’appartenenza alla comunità civica nell’Atene classica All’inizio della nostra analisi della democrazia ateniese ai tempi di Pericle abbiamo ricordato i due significati che il termine dèmos assumeva nei testi letterari e nelle iscrizioni: da una parte, il popolo minuto in opposizione ai notabili e ai ricchi, dall’altra, l’insieme dei membri della comunità civica, i polìtai. Questo termine deriva direttamente da pòlis, la città. Ma fu soltanto nel corso del V secolo che esso divenne di uso corrente per designare i cittadini, ovvero gli individui che partecipavano agli affari della città, la koinonìa tòn politòn, “la comunità dei cittadini”, come la definirà nel secolo seguente il filosofo Aristotele. Sarà sempre Aristotele, nella Politica, a definire il cittadino come colui che “partecipa all’esercizio dei poteri di giudice e all’archè”, includendo nel novero delle archài le magistrature che erano di durata illimitata, come la partecipazione alle assemblee (Politica, III, 1275a, 22-23), e precisando che questa definizione si adattava soprattutto al cittadino di una democrazia. Aristotele aggiungeva che normalmente era cittadino chi era nato da due genitori entrambi cittadini (III, 1275b, 21-22). Questa definizione sembra confermata da un sorprendente provvedimento attribuito a Pericle dall’autore della Costituzione degli ateniesi, il quale, se non è Aristotele, è certamente uno dei suoi allievi: “Sotto l’arcontato di Antidoto, a causa del numero crescente dei cittadini, su proposta di Pericle, si decise che avrebbe goduto dei diritti politici soltanto chi risultasse nato da genitori entrambi cittadini” (26,4). Questa misura, che restringeva il numero dei cittadini ed estrometteva dalla cittadinanza coloro che avevano soltanto il padre ateniese, sarebbe stata presa nel 451, vale a dire subito dopo la morte di Cimone, quando Pericle cominciava a dominare la vita politica della città. Bisogna ricordare che Clistene, l’antenato di Pericle, aveva al contrario accresciuto il numero dei cittadini, integrando nel dèmos stranieri residenti e forse anche individui di condizione schiavile. Dobbiamo accogliere la spiegazione fornita dall’autore della Costituzione degli ateniesi, secondo il quale quel provvedimento sarebbe stato preso per evitare una crescita eccessiva del numero dei cittadini? Alcuni studiosi moderni hanno suggerito che si trattasse di una misura di circostanza, adottata quando, in un momento di carestia, la città avrebbe ricevuto un carico di grano dall’Egitto: era dunque necessario limitare il numero di coloro che avrebbero beneficiato della distribuzione gratuita di quel grano. 5 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 6 Altri hanno ipotizzato che quella decisione fosse connessa con l’istituzione della mistoforia, anche in questo caso per restringere il numero dei beneficiari. Altri ancora, infine, hanno avanzato un argomento più sottile: essa sarebbe stata rivolta in primo luogo contro i membri delle grandi famiglie aristocratiche che stipulavano alleanze matrimoniali con sovrani o principi “barbari”. In base alla legge di Pericle, né Temistocle né Cimone sarebbero stati cittadini ateniesi. Evidentemente, non è facile pronunciarsi in proposito. Ignoriamo quale fosse il numero esatto dei cittadini ateniesi intorno alla metà del V secolo, e se l’accrescimento di questo numero fosse tale da giustificare la restrizione. Si può ammettere che lo sviluppo degli scambi, di cui il Pireo era il centro, evocato da Pericle nell’orazione funebre e confermato dal pamphlet del Vecchio Oligarca, abbia potuto attirare ad Atene un numero crescente di stranieri. Del resto, lo stesso Pericle vantava lo spirito di apertura degli ateniesi nei confronti di quegli stessi stranieri (I, 39, 1). Non è dunque impossibile che unioni matrimoniali potessero essere concluse tra ateniesi e stranieri. Bisogna aggiungere, tuttavia, che persino nel IV secolo, quando la legislazione in materia era divenuta più severa, dopo il lassismo che aveva imperversato durante la guerra del Peloponneso, non esisteva niente di comparabile a quel che noi definiamo uno stato civile. Dalle orazioni riguardanti questioni di usurpazione della cittadinanza, risulta che il riconoscimento di una nascita legittima avveniva mediante la presentazione del bambino da parte del padre ai membri della sua fratrìa. È quindi facile intuire che un ateniese potesse aggirare la legge presentando come legittimo un bambino nato da una concubina straniera, purché, beninteso, la cosa fosse ignorata – condizione relativamente facile da ottenere, data la situazione della donna ateniese, solitamente relegata in casa con le sue serve, soprattutto se apparteneva alla “buona società”. Nei processi noti dalle orazioni del IV secolo, l’ateniese il cui status era messo in discussione da un avversario poteva provare la sua nascita legittima soltanto ricorrendo a testimoni che garantissero sotto giuramento che sua madre era figlia legittima di un cittadino ateniese. Poiché i giudici valutavano in base all’affidabilità delle testimonianze, poteva essere relativamente facile, per un uomo che disponesse di una qualche influenza o di risorse tali da poter comprare i testimoni, introdurre nella sua fratrìa un bambino di nascita illegittima, soprattutto se non aveva altri figli maschi e se sua moglie era consenziente. È dunque plausibile che un secolo prima, quando nessuna legge 6 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 7 definiva le condizioni di appartenenza alla cittadinanza, un certo numero di figli o di nipoti di stranieri stabilitisi ad Atene sia stato considerato come ateniese, e che, di conseguenza, abbia potuto possedere i diritti di cittadinanza. Tuttavia, ciò non spiega perché Pericle avrebbe voluto porre fine a una tale situazione esigendo, per l’accesso alla cittadinanza, una doppia ascendenza ateniese. Bisogna forse vedere in questo una conseguenza del “sentimento patriottico” ravvivato dalle guerre persiane? Non si deve dimenticare comunque che i “barbari” non erano i soli stranieri presenti ad Atene e al Pireo, e che il termine xènoi designava anche i greci provenienti da altre città e da altre regioni del mondo greco. Siamo dunque costretti a riconoscere la nostra ignoranza sul vero movente della decisione di Pericle. Restano da chiarire le conseguenze di quel provvedimento e i mezzi che furono adoperati per renderlo efficace. Quel che si è detto in precedenza a proposito delle testimonianze degli oratori del IV secolo lascia supporre che non fu agevole. E non avrebbe potuto essere altrimenti. Certo, in una città del “face to face” come Atene, per riprendere la formula del grande storico Moses Finley, la gente aveva numerose occasioni di conoscersi, nei demi, nei tribunali, in occasione delle manifestazioni che riunivano i fedeli di uno stesso santuario, o durante le operazioni militari. Tutto questo ebbe probabilmente un suo peso, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’approvazione del decreto. Ma si sa anche che gli anni di guerra dell’ultimo trentennio del secolo furono segnati dall’abbandono più o meno rapido del requisito della doppia ascendenza ateniese per ottenere la cittadinanza. Lo stesso Pericle avrebbe violato le norme da lui introdotte riconoscendo – vale a dire introducendolo nella sua fratrìa –, dopo la morte dei suoi due figli legittimi, il figlio che aveva avuto dalla sua concubina milesia, la celebre Aspasia, al quale aveva dato il proprio nome. Constatiamo dunque, ancora una volta, quanto sia difficile pronunciarsi sul senso di un provvedimento come questo, e discernere il peso di un diritto ancora fluido, e dei comportamenti tipici di una società che conosciamo soltanto attraverso testimonianze parziali (i poeti comici...) o più tarde, come i testi del IV secolo. Resta comunque un fatto: ciò che univa quei cittadini, che fossero di nascita legittima o più o meno contestata, era l’appartenenza a una città che, nel giro di pochi anni, subito dopo la vittoria riportata sui “barbari”, si era imposta su gran parte del mondo greco... (C. Mossé, Pericle. L’inventore della democrazia, Roma-Bari, 2006, pp. 72-76) 7 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 8 Inizi di una “carriera” 18 ïEpta; ga;r tauvta~ paidivska~ ejk mikrw`n paidivwn ejkthvsato Nikarevth, Carisivou me;n ou\sa tou` H j leivou ajpeleuqevra, IJ ppivou de; tou` mageivrou tou` ejkeivnou gunhv, deinh; de; [kai; dunamevnh] fuvsin mikrw`n paidivwn sunidei`n eujpreph`, kai; tau`ta ejpistamevnh qrevyai kai; paideu`sai ejmpeivrw~, tevcnhn tauvthn kateskeuasmevnh kai; ajpo; touvtwn to;n bivon suneilegmevnh. 18.- ejk mikrw`n paidivwn: quando, presso un mercante specializzato, furono acquistate da Nicarete, queste sette ragazzine, tra cui vi era Neera, non dovevano avere più di quattro o cinque anni (paidivon è diminutivo di pai`~), l’età ritenuta più adatta per una perfetta iniziazione al mestiere che le attendeva. Nella Grecia antica la frequente esposizione di neonati, soprattutto di sesso femminile, e 1a diffusione della pirateria alimentarono un fiorente traffico di piccoli schiavi, spesso destinati alla prostituzione (cfr. C. Salles, I bassifondi dell’antichità, pp. 47-53). - ajpeleuqevra: «schiava affrancata». È probabile che, quand’era più giovane, Nícarete fosse stata prostituita anche lei dal suo padrone, Carisio di Elea, e che, una volta affrancata, continuasse a versargli – com’era consuetudine – una parte dei profitti che traeva dalla prostituzione delle sue schiave. - mageivrou: in Grecia, il cuoco era un uomo libero, un professionista specializzato nell’arte della gastronomia, che, quando in una casa si doveva allestire un banchetto di livello superiore al regolare pranzo quotidiano – di solito assai frugale –, si andava a prendere a nolo nell’agorà, dov’egli, pavoneggiandosí tra i suoi inservienti e gli utensili 18.- sunidei`n: «riconoscere», «distinguere»; come complemento di aggettivi indicanti attitudine o capacità (qui, deinhv) si può trovare del suo mestiere, messi in bella mostra, stazionava in attesa di clienti, smaliziato tanto da saper distinguere a fiuto chi fosse disposto a spendere bene e da sapersi adattare ai suoi gusti e alle sue esigenze (cfr. U.E. Paoli, La donna greca nell’antichità, pp. 72-75: Idem, Come vivevano i Greci, pp. 18 e 66-68). Il personaggio del cuoco orgoglioso per la propria abilità, curioso e pettegolo, è particolarmente caro ai poeti della «Commedia di mezzo» (mevsh), ma si ritrova, sia pure con minor frequenza, anche in Menandro e in altri autori della commedia nuova (neva). - tou` ejkeivnou: «celebre», «famoso»; questa è anche l’interpretazione del Gernet, che traduce «le cuisinier bien connu», e della Mossé. Altri (per es. F. Mariotti, U.E. Paoli, E. Avezzù) intendono, invece: «cuoco di quello», cioè di Carisio. - tevcnhn tauvthn: «questo mestiere» di mezzana. Per Nicarete, a cui la professione del marito assicura già una certa agiatezza, l’attività di mezzana costituisce un’ulteriore fonte di guadagno, non una primaria necessità, come per altre donne di misera condizione. Il personaggio del mastropov~, maschio («lenone») o femmina («mezzana»), cinico e senza scrupoli, esperto di in greco l’infinito determinativo o limitativo.- ajpo; touvtwn: femminile, «da (o «con») queste ragazze».suneilegmevnh: partic. 8 perf. medio-passivo di sullevgw; to;n bivon aullevgesqai significa «guadagnarsi la vita», «procurarsi i mezzi per vivere». Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 9 19 Proseipou`sa dÆ aujta;~ ojnovmati qugatevra~, i{nÆ wJ~ megivstou~ misqou;~ pravttoito tou;~ boulomevnou~ plhsiavzein aujtai`~ wJ~ ejleuqevrai~ ou[sai~, ejpeidh; th;n hJlikivan ejkarpwvsato aujtw`n eJkavsth~, sullhvbdhn kai; ta; swvmata ajpevdoto aJpasw`n eJpta; oujsw`n, Ò Anteian kai; Stratovlan kai; ÆAristovkleian kai; Metavneiran kai; Fivlan kai; Æ Isqmiavda kai; Nevairan tauthniv. 20 ÕHn me;n ou\n e{kasto~ aujtw`n ejkthvsato kai; wJ~ hjleuqerwvqhsan ajpo; tw`n priamevnwn aujta;~ para; th`~ Nikarevth~, proi>ovnto~ tou` lovgou, a]n bouvlhsqe ajkouvein kaiv moi periousiva h\/ tou` u{dato~, dhlwvsw uJmi`n: wJ~ de; Nevaira auJthi; Nikarevth~ h\n tutti i segreti della sua professione e dotato di fine intuito nel procurarsi la «merce» più adatta e nello spillar denaro dai suoi clienti, compare di frequente nella commedia e nel mimo; basti pensare a Gillide e Battaro, protagonisti dei primi due mimíambi di Eroda (Prokukli;~ h] mastropov~, e Pornoboskov~). V. scheda sulla prostituzione nell’Atene classica a p. 15. suo dire, essa si espone violandola. 20.- a]n... moi periousiva h\/ tou` u{dato~: per il dibattito forense era, ad Atene, stabilita per legge una durata che variava in ragione dell’importanza della causa, e ad ognuna delle parti, per pronunciare il discorso di accusa e di difesa – e la replica, ove questa fosse prevista –, veniva concesso un determinato tempo, che si calcolava mediante clessidre funzionanti ad acqua. Il flusso dell’acqua veniva interrotto quando, a richiesta delle parti, il cancelliere dava lettura dei documenti allegati (testi di legge, decreti, dichiarazioni raccolte in periodo istruttorio) e quando venivano chiamati a deporre i testimoni. Si veda, su ciò, Aristotele, ÆAqhnaivwn politeiva, LXVII. - dhlwvsw uJmi`n: la promessa non verrà mantenuta. 19.- i{nÆ... tou;~ boulomevnou~: facendo credere che le bambine siano figlie sue e di suo marito e, per conseguenza, di nascita libera (tale, infatti, era lo status giuridico dei figli degli affrancati), Nicarete ottiene prezzi molto alti, poiché, giocando su una legislazione probabilmente simile a quella in vigore ad Atene, molto severa nei confronti di chi prostituisse bambini «liberi», può addebitare ai clienti anche il pericolo cui, a 19.- ojnovmati: dat. di limitazione.- qugatevra~: compl. predicativo dell’oggetto aujtav~.- i{nÆ ... tou;~ boulomevnou~: «per esigere i più alti compensi da coloro che volevano...»; proposizione finale, all’ottativo (pravttoito) per la dipendenza da un tempo storico.- wJ~... ou[sai~: «col pretesto che fossero libere», «asserendo...»; wJ~ + participio esprime causa soggettiva, cioè pensiero di persona diversa da chi parla o scrive.ejpeidh;... ejkarpwvsato: «dopo che ebbe sfruttato la prima giovinezza», «... ebbe tratto profitto dalla tenera età».- sullhvbdhn: «in blocco».- ajpevdoto: «vendette»; indic. aor. medio di ajpodivdwmi. come siano state affrancate»; proposizioni interrogative indirette dipendenti da dhlwvsw.- proiovnto~ tou` lovgou: «nel prosieguo del discorso», «nel seguito dell’orazione», lett. «procedendo il discorso»; genitivo assoluto.- a]n... moi periousiva h\/ tou` u{dato~: «se mi resterà tempo per parlarne», 20.- }Hn... hjleuqerwvqh- lett. «qualora a me sia una san: «Orbene, quale di loro rimanenza dell’acqua»; prociascuno abbia acquistato e posizione ipotetica dell’e- 9 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 10 kai; hjrgavzeto tw`/ swvmati misqarnou`sa toi`~ boulomevnoi~ aujth`/ plhsiavzein, tou`qÆ uJmi`n bouvlomai pavlin ejpanelqei`n. 21 Lusiva~ ga;r oJ sofisth;~ Metaneivra~ w]n ejrasthv~, ejboulhvqh pro;~ toi`~ a[lloi~ ajnalwvmasin oi|~ ajnhvlisken eij~ aujth;n kai; muh`sai, hJgouvmeno~ ta; me;n a[lla ajnalwvmata th;n kekthmevnhn aujth;n lambavnein, a} dÆ a]n eij~ th;n eJorth;n kai; ta; musthvria uJpe;r aujth`~ ajnalwvsh/, pro;~ aujth;n th;n a[nqrwpon 21.- Lusiva~: si tratta proprio del celebre retore e logografo. L’anno in cui, accompagnando Metanira per la sua iniziazione ai misteri eleusini, Neera venne per la prima volta ad Atene, è congetturalmente posto dal Paoli (Storia di Neera, p. l24) «verso la metà del secondo decennio del secolo IV, il 385 circa: Lisia avrà avuto poco più di sessant’anni, Neera circa dodici». Ma il Paoli, accettando, con la maggior parte degli studiosi, le argomentazioni del Blass (Attische Beredsamkeit, I, Leipzig, l868, pp. 332 e sgg.), ritiene che Lisia sia nato intorno al 444 a.C., contro la concorde testimonianza delle fonti antiche (Dionigi di Alicarnasso, Lisia; Pseudo-Plutarco, Vita di Lisia; il lessico bizantino Suda), che ci inducono a collocare la sua nascita nel 459. - muh`sai: «iniziarla ai misteri»:si tratta dei misteri di Eleusi, dedicati alle dee della fertilità, Demetra e Core (Persefone), e precisamente dei misteri maggiori, che si svolgevano nel mese di Boedromione (settembre-ottobre) e duravano dodici giorni (i misteri minori, che costituivano la preiniziazione, avevano invece luogo in primavera ad Agrai, sul fiume Ilisso). La cerimonia più spettacolare era la solenne processione con cui si trasportavano da Atene ad Eleusi gli oggetti sacri, ma l’intensità religiosa raggiungeva il culmine durante le due notti d’iniziazione, sui cui riti, rigorosamente segreti, abbiamo scarse informazioni. Poiché i culti misterici promettevano agli iniziati la felicità nell’altra vita, senza distinzione di classe sociale o di sesso, si comprende agevolmente che essi abbiano avuto tanta presa sulle varie categorie di esclusi dalla società (schiavi, barbari naturalizzati, prostitute ecc.), i quali, insoddisfatti della religione urania di Stato e della pietà corrente, trovavano nella promessa di una vita oltremondana felice e priva delle differenze stabilite dalla gerarchia sociale una sorta di compensazione e di riscatto dal loro presente stato di emarginazione (cfr. A. Hus, Le religioni greca e romana, pp. ventualità (a[n + congiuntivo), come la precedente a]n bouvlhsqe.- wJ~: introduce una proposizione dichiarativa, retta da ejpanelqei`n e ripresa dal tou`to epanalettico.- h\n: «apparteneva a».misqarnou`sa: «concedendosi dietro compenso». che per la sua funzione logica doveva trovarsi in accusativo, è stato attratto dal sostantivo ajnalwvmasin, il quale con ajnhvlisken costituisce una figura etymologica.- kaiv: «anche», intensivo.- th;n kekthmevnhn aujthvn: «la sua proprietaria», «colei che la possede21.- pro;~... eij~ aujthvn: va», cioè Nicarete; th;n «oltre alle...», «in aggiunta kekthmevnhn (participio soalle altre spese che sostene- stantivato) funge da soggetto va per lei»; il relativo oi|~, della proposizione oggettiva 10 dipendente da hJgouvmeno~ e regge il compl. ogg. aujthvn (che si riferisce a Metanira); il perf. di ktavomai ha valore di presente: «mi sono procurato», quindi «ho», «possiedo».- a} dÆ a]n ... ajnalwvsh/: proposizione relativa eventuale (a[n + congiuntivo).eij~ th;n eJorth;n kai; ta; musthvria: «per la festa e per <l’iniziazione a> i misteri».- pro;~ aujth;n... kataqhvsesqai: «gli avrebbero Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 11 cavrin kataqhvsesqai. Æ Edehvqh ou\n th`~ Nikarevth~ ejlqei`n eij~ ta; musthvria a[gousan th;n Metavneiran, i{na muhqh`/, kai; aujto;~ uJpevsceto muhvsein. 22 Æ Afikomevna~ dÆ aujta;~ oJ Lusiva~ eij~ me;n th;n auJtou` oijkivan oujk eijsavgei, aijscunovmeno~ thvn te gunai`ka h}n ei\ce, Bracuvllou 63-67; C. Salles, I bassifondi dell’antichità, pp. 75-77). A Metanira, dunque, che ha già partecipato ai misteri minori, il ricco amante, versando la somma di denaro occorrente al miste (muvsth~) per accedere al rango degli epopti (ejpovptai), consente di raggiungere il grado supremo dell’iniziazione. - eij~ th;n eJorth;n kai; ta; musthvria: il Paoli (Storia di Neera, p. 90) descrive efficacemente l’animazione che doveva esservi ad Atene in tali circostanze: «... l’imminenza dei Misteri Eleusinii riempie le strade di brusìo e le case di ospiti. Da tutte le parti della Grecia accorre gente desiderosa di vedere e di divertirsi: chi ha in Atene un parente, un amico, un ospite, un corrispondente d’affari, se può trovare il modo di essere invitato, se ne ingegna. Finito ormai, da quasi venti anni, l’incubo della guerra del Peloponneso, si respira aria nuova, e la gente pensa a svagarsi. E poi gli Ateniesi, quando ricorrevano certe solennità, non intendevano ragioni: fosse peste, fame, guerra, fosse anche il finimondo, i loro dèi dovevano essere onorati in letizia». 22.- aijscunovmeno~ thvn te gunai`ka... kai; th;n mhtevra th;n auJtou`: la delicatezza di cui dà prova Lisia evitando di imporre alla giovane moglie e alla madre la presenza della sua piccola etera viene messa in rilievo come cosa procurato merito presso lei stessa», o, considerando a} come accusativo di relazione, «per ciò che avesse speso... si sarebbe fatto un merito proprio con lei»; diversa è, però, l’interpretazio- singolare. Ad Atene, l’uomo poteva tenere presso di sé una concubina (pallakhv), che differiva dalla moglie legittima solo per il fatto che veniva introdotta nella casa senza l’ejgguvhsi~ o un atto giuridico che la legasse al suo compagno e, per conseguenza, la sua era un’unione revocabile in qualsiasi momento: e ciò spiega perché la pallakhv fosse quasi sempre una schiava o la figlia di un uomo libero ma povero. Va, peraltro, ricordato che la legge riconosceva al cittadino il diritto di uccidere, in caso di flagranza (occasionale, non ricercata con inganno), non solo chi avesse commesso adulterio con la sua legittima sposa, ma anche il seduttore della concubina da lui scelta per avere figli liberi (qualora sua moglie non avesse potuto o non potesse più dargliene). Nella sua casa, inoltre, l’uomo greco poteva ospitare delle etere senza incontrare opposizioni in famiglia e senza provare la minima vergogna: le fonti antiche (in particolare Plutarco, Vita di Alcibiade, 8) citano come eccezionale (oltre che vano) l’atto di ribellione contro questa abitudine compiuto da Ipparete, moglie di Alcibiade, la quale, non potendo più sopportare la continua presenza di prostitute ateniesi o straniere accanto a suo marito, abbandonò il domicilio coniugale e presentò personalmente all’arconte la richiesta di separazione. Ma Alcibiade, forse per ne che da altri viene proposta: «c’était un cadeau personnel» (Gernet), «sarebbe stato un regalo per Metanira soltanto» (Avezzù).- a[gousan: participio congiunto, da riferire al sogg. sottinteso 11 di ejlqei`n (Nicarete).uJpevsceto: indic. aor. 2° di uJpiscnevomai. 22.- aijscunovmeno~ thvn te gunai`ka h}n ei\ce... kai; th;n mhtevra th;n auJtou`: Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 12 me;n qugatevra, ajdelfidh`n de; auJtou`, kai; th;n mhtevra th;n auJtou` presbutevran te ou\san kai; ejn tw`/ aujtw`/ diaitwmevnhn: wJ~ Filovstraton de; to;n Kolwnh`qen, h[/qeon e[ti o[nta kai; fivlon aujtw`/, kaqivsthsin oJ Lusiva~ aujtav~, thvn te Metavneiran kai; th;n Nikarevthn. Sunhkolouvqei de; kai; Nevaira auJthiv, ejrgazomevnh timore di perdere la dote della moglie, la trascinò a casa con la forza, senza che nessuno osasse sbarrargli il passo per strappargliela di mano. Su ciò si vedano C. Mossé, La vita quotidiana della donna nella Grecia antica, pp. 53-58; C. Salles, I bassifondi dell’antichità, pp. 73 e sgg. Pur tenendo conto di tutto questo, tuttavia, nel caso che ci viene presentato in questo paragrafo, non si trattava solo di accogliere in casa propria una prostituta, ma di dare ricetto a sette giovinette di facili costumi e alla loro mezzana; sicché non ha torto il Paoli (Storia di Neera, p. 92) ad osservare argutamente che «con tutte quelle bellezze peregrine per casa, con la folla di adoratori che avrebbero attirato, c’era da aspettarsi un diavoleto tale che Lisia, vecchio, marito e zio, si sarebbe trovato in un bell’imbarazzo a darne spiegazione alla moglie». - Bracuvllou... auJtou`: «figlia di Brachillo, che era anche sua nipote». Il termine ajdelfidh` (= «nipote») può indicare tanto la figlia del fratello, quanto la figlia della sorella: ora, poiché né Dionigi di Alicarnasso (nel suo Lisia) né Platone (nella Repubblica) conoscono un figlio di Cefalo a nome Brachillo (oltre a Polemarco, Lisia, Eutidemo e ad una figlia) e, d’altra parte, lo Ps.Plutarco, che lo menziona, sembra inferire la sua esistenza proprio da questo passo dell’orazione Contro Neera, è «per riguardo verso sua moglie... e verso la propria madre».- presbutevran: «assai vecchia», comparativo assoluto. L’avverbio «assai» è preferibile ad «alquanto» o «piuttosto», se probabile che Brachillo fosse, non già fratello, ma cognato di Lisia. «L’incesto non era proibito, ad Atene, da una legge della città, ma l’unione fra ascendente e discendente era considerata abominevole e tale da attirare il castigo degli dei. La stessa interdizione religiosa e sociale si estendeva all’unione fra fratello e sorella nati dalla stessa madre, ma un fratellastro poteva sposare una sorella nata dallo stesso padre... Il principio dell’endogamia, cioè del matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, faceva sì che l’unione fra parenti fosse non solo autorizzata ma raccomandata dall’uso... Non era raro che ci si sposasse fra cugini germani o che uno zio sposasse la propria nipote, mentre il fratello diventava suo suocero. La fanciulla epiclere, cioè che ereditava da suo padre in assenza di eredi maschi, doveva sposare il più prossimo parente di suo padre, se questi acconsentiva: in questa prescrizione appare in primo piano la preoccupazione di continuare la razza e il culto familiare» (R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, pp. 84-85; si veda, inoltre, J.P. Vernant, Il matrimonio, in Mito e società nell’antica Grecia, pp. 50-75). - to;n Kolwnh`qen: «del demo di Colono». Risale a Clistene l’uso di indicare, nelle menzioni ufficiali, accanto al nome personale di ciascuno solo il demotico: egli, infatti, si rese conto che si accetta come anno di nascita di Lisia il 459 a.C. anziché il 444.- ejn tw`/ aujtw`/: «con lui», lett. «nello stesso luogo», cioè nella casa di Lisia.- wJ~: «in casa di ...», «presso...»; wJ~ + acc. 12 (solo di persona) esprime, nell’uso attico, un compl. di moto a luogo.- h[/qeon e[ti o[nta: «che non era ancora sposato», «che era ancora scapolo».- kaqivsthsin: presente storico.- newtevra: Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 13 me;n h[dh tw`/ swvmati, newtevra de; ou\sa dia; to; mhvpw th;n hJlikivan aujth`/ parei`nai. 24 Pavlin toivnun, w\ a[ndre~ A j qhnai`oi, meta; tau`ta Si`mo~ oJ Qettalo;~ e[cwn Nevairan tauthni; ajfiknei`tai deu`ro eij~ ta; Panaqhvnaia ta; megavla. Sunhkolouvqei de; kai; hJ Nikarevth aujth`/, kathvgonto de; para; Kthsivppw/ tw`/ Glaukwnivdou tw`/ l’uso del patronimico, potendo perpetuare distinzioni tra famiglie e porre in condizioni di inferiorità forestieri e schiavi liberati che di recente avessero acquisito il diritto di cittadinanza, sarebbe stato in contrasto con l’orientamento più spiccatamente democratico che egli voleva dare alla costituzione della città. 24.- oJ Qettalov~: era, infatti, nativo di Larissa (cfr. il § l08 di questa orazione). - eij~ ta;... megavla: «per le grandi Panatenee». Queste feste, che si celebravano ad Atene in onore della dea protettrice della città, secondo la tradizione furono istituite da Erittonio e successivamente riordinate da Teseo, ma solo da Pisistrato (527 a.C.) ricevettero una struttura organica, suddividendosi in due distinte manifestazioni: le «piccole Panatenee», che si svolgevano ogni anno, ma con minore solennità, e le «grandi Panatenee», che si celebravano ogni quattro anni (precisamente nel terzo anno di ogni olimpiade), dal 24 al 29 del mese di Ecatombeone (agosto), con una grande processione. In un primo tempo ebbero carattere prevalentemente atletico (le gare ginniche comprendevano la corsa, la lotta, il pentatlon, il pugilato e il pancrazio), poi si arricchirono di agoni poetici, musicali e ippici (questi ultimi consistevano nella corsa delle bighe, delle quadrighe, dei carri da cerimonia e nella corsa al galoppo). Vi si svolgeva anche un «con«assai giovane», comparativo assoluto; si ritiene, infatti, che avesse circa dodici anni.- dia; to; mhvpw th;n corso di bellezza» fra giovani selezionati da ogni tribù: un toro del valore di cento dracme spettava alla squadra che si fosse distinta per statura, prestanza fisica e bellezza. L’ultimo giorno dei festeggiamenti si disputava una specie di palio marinaro, con un premio di cinquecento dracme per la tribù che avesse riportato la vittoria (cfr. V. Domenici, Olympia, l’epopea dello sport, p. 88). - sunevpinen... ou\sa: il semplice fatto che una donna partecipasse a un banchetto in compagnia di uomini ne faceva, per la mentalità corrente, una prostituta. La donna di buona famiglia, cui solo in rare occasioni (feste religiose, nozze, funerali ecc. ) era concesso di uscir di casa, e che viveva relegata con le sue ancelle nel gineceo, situato, in genere, nella parte meno facilmente accessibile dalla strada e precluso persino ai parenti più stretti (si veda, per es., Lisia, Difesa contro Simone, 6), non poteva accompagnare il marito ad una riunione conviviale fuori casa, né prender parte ad un banchetto che si svolgesse nella propria abitazione alla presenza di estranei (cfr. U.E. Paoli, Come vivevano i Greci, p. 70; M.A. Levi, La Grecia antica. Società e costume, pp. 250-25l e 255; C. Mossé, La vita quotidiana della donna nella Grecia antica, p. 36; E. Avezzù, Processo a una cortigiana, p. l59; K.J. Dover, Il comportamento sessuale dei Greci in età classica, in L’amore in Grecia, pp. 8-9). hJlikivan aujth`/ parei`nai: implicita, espressa con dia; «poiché non aveva ancora tov e l’infinito. raggiunto la maturità sessuale»; proposizione causale 24.- kathvgonto: «alloggia- 13 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 14 Kudantivdh/, kai; sunevpinen kai; sunedeivpnei ejnantivon pollw`n Nevaira auJthi; wJ~ a]n eJtaivra ou\sa. Kai; o{ti ajlhqh` levgw, touvtwn uJmi`n tou;~ mavrtura~ kalw`. ... rono».- tw`/ Kudantivdh/: «del pinen... ou\sa: «partecipò a senza di molte persone, demo di Cidantide».- sunev- simposi e banchetti alla pre- come poteva fare un’etera». 14 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 15 La prostituzione nella Grecia classica In Grecia, il mestiere di prosseneta di solito veniva esercitato da donne, le quali, madri o padrone che fossero, insegnando alle loro ragazze a valorizzare – con ogni sorta di artificio ma anche con una certa formazione culturale (musica, danza, conversazione ecc.) – le proprie attrattive fisiche, le mettevano in grado di diventare le piacevoli e decorative compagne (eJtai`rai) di uomini – mercanti, politici, artisti, filosofi – che si distinguevano per ricchezza, potere o fama ed erano disposti a spendere enormi somme allo scopo di assicurarsene i favori e di poterle esibire in pubblico come uno «status symbol» nelle varie occasioni della vita sociale. Con uomini di tal genere le etere – sia che, in quanto schiave, dipendessero da un prosseneta, sia che, in quanto donne di condizione libera ma prive di tutori tenuti per legge a provvedere ad esse, costrette dal bisogno esercitassero in proprio la prostituzione (ma queste ultime erano un’esigua minoranza) – intrecciavano relazioni che, sebbene temporanee (ma si citano anche casi di lunga durata...), potevano trascendere il semplice soddisfacimento sessuale e fondarsi sulla potenza dell’eros e, comunque, assicuravano ad esse un’esistenza priva di ogni preoccupazione materiale e spesso lussuosa; finché l’inesorabile avanzare dell’età, togliendo loro impietosamente attrattiva e valore commerciale, non le condannava a una vita di umiliazioni e di stenti, spesso al limite della sopravvivenza, a meno che, nel momento del loro splendore, non avessero provveduto a garantirsi una vecchiaia tranquilla. Su un gradino inferiore rispetto a queste cortigiane d’alto bordo, c’erano poi le giovani prostitute che, abituate dalla loro educazione a danzare armoniosamente e a suonare vari strumenti musicali (flauto, lira, cetra), venivano date a nolo dal loro prosseneta (o dal tenutario di un postribolo) per allietare i banchetti. Ad Atene, il prezzo del noleggio, su cui lo Stato prelevava tasse a carico del prosseneta, non poteva superare le due dracme per serata: gli ajstunovmoi (i capi della polizia del buon costume, cinque al Pireo e cinque nella stessa Atene) anche su questo esercitavano un rigoroso controllo, e severe pene erano comminate ai trasgressori; ma, naturalmente, questo non impediva che talvolta ci si mettesse d’accordo col cliente per spuntare una tariffa più alta né che avvenissero transazioni segrete fra gli organizzatori dei banchetti e mezzani clandestini, desiderosi di non pagare diritti al fisco. Al più basso livello nella gerarchia della prostituzione si trovava- 15 Contro Neera4.qxd 21/04/2012 11.48 Pagina 16 no, infine, le pensionanti dei postriboli (povrnai). Proprio ad Atene fu escogitata un’organizzazione del piacere a pagamento che, sorta dall’aristocratica sollecitudine di preservare la razza, finì per corrispondere a una filosofia del piacere senza rischi, facile e a buon mercato, e per costituire un modello sia alle civiltà antiche sia a quelle moderne. Secondo la tradizione, per dare sfogo all’esuberanza dei giovanotti ateniesi senza danno per la castità delle donne libere né per la purezza della stirpe, Solone avrebbe acquistato giovani schiave, per metterle a disposizione di chi volesse intrattenersi con loro, in case situate nei diversi quartieri della città. Fondati in nome dell’interesse pubblico, i postriboli di Atene rimasero sotto il controllo dello Stato che, per mezzo di esattori incaricati dalla Bulé, riscuoteva la speciale tassa posta su di essi (il pornikovn) e, per mezzo degli ajstunovmoi, vigilava affinché, per il reclutamento dei loro pensionanti – maschi e femmine –, generalmente schiavi, non venissero trasgrediti i limiti fissati dalla legislazione soloniana (era comminata un’ammenda di venti dracme a chi avesse prostituito una donna libera, addirittura la pena di morte a chi avesse prostituito un bambino nato libero e ai procacciatori «clandestini»). Queste case di piacere, che in Atene sorgevano soprattutto nei quartieri malfamati del Ceramico e del Pireo ed erano frequentate da una clientela di infimo rango, erano dirette da uomini (più raramente da donne), che, pur esercitando una professione riconosciuta dalla legge, erano tuttavia oggetto di grande discredito e venivano reclutati tra gli schiavi affrancati o i cittadini di più basso livello; peraltro, questi tenutari spesso si limitavano a gestire un postribolo per conto di cittadini «rispettabili» che ne avevano la proprietà. Accanto alla prostituzione esercitata nei postriboli fondati dallo Stato, sottoposti alla sorveglianza e alla protezione di magistrati ufficiali, e tenuti al pagamento di un canone al Tesoro pubblico, ad Atene e al Pireo fioriva anche una prostituzione «selvaggia», più o meno occasionale. (cfr. C. Salles, I bassifondi dell’antichità, pp. 15-19; 22-24; 55-56; 71-75; A. Lesky, Le etere, in L’amore in Grecia, pp. 63-64). 16