N. 3 MARZO 2012 • Anno XXVIII RIVISTA MENSILE de Le Nuove Leggi Civili Commentate ISSN 1593-7305 LA NUOVA GIURISPRUDENZA CIVILE COMMENTATA Estratto: PAOLO ZATTI «Parole tra noi così diverse». Per una ecologia del rapporto terapeutico Letture e Opinioni «PAROLE TRA NOI COSÌ DIVERSE» Per una ecologia del rapporto terapeutico di Paolo Zatti Sommario: 1. La comunicazione diseguale. – 2. La dis-eguaglianza nel rapporto di cura. – 3. I ritardi della medicina. – 4. I ritardi del diritto. 1. La comunicazione diseguale. Come si indovina dal titolo, questa breve riflessione non si addentra nelle questioni giuridiche del consenso al trattamento medico, ma intende proporre sinteticamente un metodo di discussione e soluzione del problema. «Parole tra noi così diverse». Qualcuno avrà sentito l’eco di un verso di Montale «parole tra noi leggere» ... e forse qualcun altro di un romanzo di Lalla Romano, ancora «Parole tra noi leggere». Ma la risonanza è casuale, o almeno di secondo grado: si tratta in realtà del titoletto di una scheda di «Tuttolibri» dedicata a «La comunicazione diseguale» di Lucia Fontanella ( 1 ): un piccolo libro (132 pagine) quanto mai lucido e brillante, che svolge un’analisi linguistica (l’autrice insegna Italiano all’Università di Torino) della relazione tra medici, infermieri e paziente nel topos dell’ospedale. Il sottotitolo invece svela qualche piccola ispirazione «batesoniana» che ha influito sul mio modo di vedere il problema del consenso al trattamento medico, dal punto di vista della inadeguatezza dello stato attuale della disciplina e della necessità di una profonda riconsiderazione dell’approccio normativo ( 2 ). L’analisi di Lucia Fontanella rivela i connoIl testo riproduce con modifiche la relazione svolta al Convegno di studi su «Consenso al trattamento medico e tutela della salute: una relazione complessa» (Padova, 14.12.2011). ( 1 ) Il Pensiero scientifico, 2011. ( 2 ) Mi riferisco allo studio dei processi di comunicazione e di apprendimento nelle opere più conoNGCC 2012 - Parte seconda tati della comunicazione dis-eguale, quella cioè che si intreccia su un telaio di autorità-subordinazione; in sintesi, relazione tra un parlante che detta le regole della comunicazione e un altro che ci si deve adattare. Conviene forse precisare subito una distinzione che non sembra sempre chiara o accetta ai medici: una comunicazione dis-omogenea per competenza non è necessariamente diseguale. Se affido a un architetto la progettazione o la ristrutturazione della mia casa, lo investo di un compito che riguarda la sua competenza; la comunicazione sarà efficace tra noi se io non pretenderò di emulare la sua competenza o di contestarne gli apprezzamenti. Ma mia competenza – non sua – sarà di indicargli le mie preferenze e di valutare se il progetto le soddisfi: sarò io a poter dire (se lo ritengo importante) quale esposizione preferisco, quale intensità di luce, quale ariosità, quale calore o frescura; e certamente – se non sono sciocco – avrò scelto l’architetto più o meno classico o innovatore a seconda del mio gusto; a meno che io non sia più a mio agio – è una scelta – nel delegare alla competenza dell’architetto ogni scelta, estetica funzionale abitativa, dicendo: faccia lei, come se fosse per se medesimo. Nel caso che io voglia esercitare la mia competenza, l’elaborazione del progetto esigerà una comunicazione circolare, simile a un processo che si autoregola verso un risultato che compone e soddisfa tanto le esigenze tecniche e valoriali (estetica, qualità) del professionista, quanto le preferenze personali del committente-destinatario dell’opera: la circolarità assicusciute di Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1977 e Mente e Natura, Adelphi, 1984, rist. 2008. 143 Letture e Opinioni rerà che la tecnica si pieghi fin dove possibile alle preferenze, e che queste siano selezionate escludendo quelle che non possono essere soddisfatte mantenendo ferme le esigenze di professionalità e il valore tecnico del risultato. Se i criteri che governano le due «competenze» vengono a confliggere in condizioni di rigidità – in quanto le preferenze inderogabili del cliente siano sentite dal tecnico come incompatibili con la sua integrità professionale, o le soluzioni sostenute dal professionista non soddisfino esigenze irrinunciabili per il cliente – il processo circolare non regge e si rende inevitabile la rottura: il committente cambia architetto o l’architetto lascia l’incarico. Ho scelto l’esempio dell’architetto perché altri mi parevano poco adeguati o provocatori: paragonare il medico a chi ripara un’automobile o una caldaia non mi pare rendere giustizia alla medicina, anche se talvolta è il medico a proporre la metafora. Ma anche in questi più ruvidi paragoni, e nella relativa banalità del contesto della «riparazione», la disomogeneità della comunicazione indotta dal suo tessuto tecnico non genera alcuna subordinazione (se non per fatti psichici che non stiamo a considerare): se porto l’automobile a riparare, non ho probabilmente un campo di preferenze e valutazioni da far valere, fino a che non si aprono opzioni diverse con uno spazio valutativo che mi riguarda, per esempio sulla entità della revisione o sulla scelta tra riparare una vecchia caffettiera o rottamarla; se chiamo l’idraulico per un problema alla caldaia, il mio spazio e «potere» sarà quello di indicargli la temperatura che voglio avere in casa, o quello di scegliere tra una riparazione moderatamente promettente e un intervento più radicale ma più duraturo. Anche qui esiste un concorso di «competenze» e una circolarità della comunicazione che è circolarità del processo di decisione. Insomma, le regole della comunicazione disomogenea/non diseguale non sono dettate da una parte «competente», ma reciprocamente da due parti di diversa competenza, e anzi in senso più profondo dall’esigenza che la comunicazione sia bilaterale e circolare. 2. La dis-eguaglianza nel rapporto di cura. La comunicazione osservata da Lucia Fontanella non realizza queste caratteristiche; 144 essa si svolge sul presupposto che il paziente (nomen omen!) non abbia una sua «autorità» – un suo campo di informazioni e valutazioni utili alla decisione – sul problema della propria cura, che si vuole esaurire interamente nella sua rappresentazione tecnica, tale quale nell’intervento del riparatore e anzi in modo meno aperto ad opzioni, la cui convenienza resta alla fine valutata dal medico. Questo connotato di diseguaglianza è pervasivo: investe tutti i momenti e i segnali della comunicazione, e da tutti è asserito e confermato, parole, espressioni, mimica facciale, gesti, posture. Scrutando nella diseguaglianza per capirne i fondamenti, Lucia Fontanella segnala un paradosso in un paradosso. La comunicazione si svolge su un assunto inespresso ma inequivoco, che vede l’ospedale come una proprietà – in senso fattuale – di chi ci lavora, medici e infermieri. Esiste per loro, è la loro casa. Il paziente è in casa d’altri, «ricoverato», come si dice, «ospite» (ospitale) a certe condizioni: seguire le regole, inserirsi nella logica gerarchica, non protestare, accettare il giudizio e il rimprovero, non esercitarli. All’insegna della proprietà si scova un altro paradosso: in una cultura proprietaria, che circonda di riguardi e difese anche sociali ogni appartenenza, che guarda con sconcerto scandalizzato a chi metta le mani nella borsetta o nel cassetto di un’altra persona, l’accesso al corpo da parte del medico o dell’infermiere si pratica spesso, di fatto, senza bussare: si può, come il corpo del «paziente» non avesse un «proprietario». Ma se osserviamo il rapporto dal punto di vista della accettazione o del rifiuto della rispettiva «competenza» delle parti, e dunque della circolarità della comunicazione e del processo di decisione, allora emerge il presupposto culturale che rende il medico diverso dall’architetto della mia piccola parabola: il medico considera sua competenza decidere, su base di scienza, di coscienza, come si usa dire, e di esperienza, il bene della persona curata. Emerge qui il fondamento antico della diseguaglianza, su cui il libro di L. Fontanella non si sofferma esplicitamente ma che diffusamente dimostra: è la resistenza dell’idea di potestà medica, espunta dal codice deontologico nel NGCC 2012 - Parte seconda Per una ecologia del rapporto terapeutico 1998, dunque recentemente, ma tutt’altro che scomparsa dalla lingua della medicina – basta una ricerca in Google per dimostrarlo – e dalla mente dei medici, che sembrano farne un tutt’uno con l’integrità della professione, cosa logicamente non fondata. Lo schema mentale della potestà vuole che spetti al medico, in base alla sua conoscenza scientifica e alla coscienziosa applicazione delle sue conoscenze, di dire (non in senso descrittivo, ma prescrittivo proprio come in «iuris-dictio») qual è il bene del malato; non come chi da competente fa una proposta fondata, ma come chi si assume la responsabilità e il potere della scelta: fini e mezzi della terapia sono dettati dal medico, e la loro applicazione, in quanto benefica, è in sé giustificata; al malato resta la possibilità di un espresso dissenso, che è eccezionale (cfr. del resto in giurisprudenza Cass. pen., 29.5.2002, n. 26446, caso Volterrani, e Cass. pen., sez un., 21.1.2009, n. 2437 ( 3 )). La potestà crea la comunicazione dis-eguale non solo perché implica il suo contrario, la soggezione, ma perché eleva la lingua della medicina come sapere a lingua del rapporto: è questa lingua che detta l’orizzonte dei significati, e che stabilisce una prima “codificazione del contesto” su cui poggia la codificazione “potestativa”. Certo la comunicazione si svolge; anche il paziente parla, viene richiesto di dire e collaborare; ma il suo orizzonte di significati – e quindi la sua «competenza» – non è incluso nella lingua dominante della relazione. Esiste infatti un connotato tipico della scienza: essa è enunciativa, non comunicativa. Scrive Maria Zambrano: «La Scienza si manifesta in forma enunciativa, impersonale (...) ciò che la scienza non sa ridurre a sé sono certi stati della vita umana, certe situazioni che l’uomo vive, e di fronte alle quali la forma enunciativa della scienza non ha forza né valore» ( 4 ). ( 3 ) La prima decisione è pubblicata in Cass. pen., 2003, 2659 ss.; la seconda anche in questa Rivista, 2009, I, 926 ss., con commento di Riondato-Palermo, ivi, II, 295 ss. ( 4 ) Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina ed., 1996, 65. NGCC 2012 - Parte seconda Se nella relazione prevalgono non tanto e non solo le parole, ma i significati della scienza si crea di necessità una zona di cecità comunicativa. Le parole essenziali al tema della relazione – salute, sofferenza, cura, guarigione, vita buona, vita cattiva, miglioramento, peggioramento, successo, insuccesso, necessità, scelta – sono caricate dei significati propri alla medicina nella sua forma enunciativa. Ma questi significati, pur così importanti anche per la persona ammalata, possono «in certe situazioni che l’uomo vive (...) non avere forza né valore» ( 5 ) rispetto a ciò, che lo stato della vita porta la persona a considerare come sua possibile salute, suo stare bene o stare meglio, sua necessità o scelta. Il medico può farsi mediatore tra i due orizzonti, perché è a casa sua nei significati della scienza; ma per farlo deve accettare che la relazione parli due lingue, non una sola; e che la sua competenza gli dia, di fronte alla persona scientificamente incompetente, non la potestà di scegliere, che non ha, ma il compito di ascoltarla nella lingua dell’esperienza per tradurne i propositi nella lingua della scienza e riproporli al malato. Se la comunicazione è assorbita nell’enunciazione, se la lingua della relazione è quella della medicina, allora il paziente, anche quando chiede, ascolta, risponde, porta in sé nascosta una condizione di ammutolimento. Ciò che gli preme, su cui si orienta, l’orizzonte in cui cerca di conservare la sua serenità e la sua capacità di affrontare il male, infine il suo interiore consenso o dissenso, in una parola la malattia come esperienza, resta in una zona morta alla comunicazione. Ecco perché «parole tra noi così diverse». Questa subordinazione, questo ammutolimento, è il dolore aggiunto alla malattia; alla sofferenza di essere malato si aggiunge quella di essere «paziente». Peter Noll, grande amico di Max Frisch, racconta gli ultimi diciotto mesi della sua vita dopo che ha deciso di rifiutare ogni terapia per un cancro. E a metà dice: «(...) Sono malato (...) sono mortalmente malato, ma so- ( 5 ) Ibidem. 145 Letture e Opinioni no riuscito a non diventare un paziente» ( 6 ). Cosa ha evitato, cosa mai ha guadagnato? Una cosa sola, restare padrone di sé. Cito ancora Maria Zambrano: «La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato come se gli si concedesse a malapena un’opzione e gli fosse a stento possibile scegliere, senza poter prendere alcuna decisione perché qualcun altro, che non si prende la briga di consultarlo, la sta già prendendo al suo posto» ( 7 ). Anche nella storia di Peter Noll c’è un paradosso: è riuscito a morire senza diventare un paziente, perché un medico amico carissimo lo ha aiutato a vivere da malato. I medici sanno cosa vive chi è «paziente»? O piuttosto, quanti medici lo sanno? Un medico (Sergio Livigni, Primario di terapia intensiva dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino) scrive a commento del libro di Fontanella: «Noi che pensiamo di sapere ci accorgiamo che in realtà non sappiamo nulla. (...) Bisogna volere ascoltare (...) Nell’esercizio della professione medica quello che solitamente manca è l’ascolto» ( 8 ). Una tipica esperienza di questi decenni conferma questo non sapere: è l’esperienza del medico che si ammala e si ritrova «paziente». Lo scambio di parti pare essere sempre una sorta di choc emotivo: il medico scopre come ci si sente nel luogo del paziente. Forse non scopre interamente la soggezione, perché è trattato da collega, e partecipa di una circolarità della comunicazione e della decisione altrimenti limitata o preclusa. Ma accade talvolta che la terapia proposta con scientifica conoscenza e coscienza dai suoi colleghi lo conduca verso una condizione che confligge duramente con tutto ciò a cui la sua concezione di sé e della vita lo prepara, e che richiede. Vedere l’altra metà della relazione è tanto sconvolgente o rivelatore, che il medico ci scrive un libro ( 9 ), o che qualcuno ci fa un film. Questa esperienza, di vedere finalmente ciò che non si vedeva quando era sempre davanti ( 6 ) Frisch, Sul morire e la morte, trad. it., Mondadori, 1984. ( 7 ) Zambrano, op. cit., 81. ( 8 ) Fontanella, op. cit., 133. ( 9 ) Uno fra i molti: Bartoccioni-Buonadonna-Sartori, Dall’altra parte, Rizzoli, 2006. 146 agli occhi, si chiama «risveglio». Ma sono illuminazioni che non sembrano avere un effetto diffusivo, cambiano una persona ma non una cultura e un costume. C’è un’altra cosa che i medici sembrano non sapere: quanto la comunicazione diseguale sia insidiosa. Il paziente, nella gran parte dei casi, non è Peter Noll; accetta di essere paziente e molto paziente. Acconsente volentieri alla subordinazione, anzi la cerca, la chiede. Il paziente ammira le enunciazioni della scienza, come formule sacre. Accetta istintivamente la relazione gerarchica, vi si aggrappa volentieri. Venera i grandi medici, l’inarrivabile Primario che gli fa visita è accolto come un tempo il Vescovo. Il paziente medio non chiede che di affidare al medico la propria sorte, e vive il problema del consenso come una pratica burocratica. Non vuole essere più che tanto informato, non fa valere più che tanto proprie convinzioni e preferenze. I medici spesso prediligono questo paziente fanciullo, rinfanciullito, che si consegna. Non vedono o sottovalutano l’insidia della dis-eguaglianza: perché quando l’esperienza reale resta fuori della zona comunicativa, rimane là, non detta; e se gli esiti non sono fortunati, le stesse persone che si sono acquietate accettando o cercando l’autorità medica non esiteranno a rovesciare sul medico la loro delusione, anche aggredendolo in giudizio, non solo per errore tecnico, ma perché «scopriranno» di non essere stati consenzienti. La dis-eguaglianza non è, come certi medici pensano, un rapporto realmente accettato – l’intera cultura del presente va in altra direzione; né una base sana e sicura di relazione. L’insidia di questa convivenza ambigua e sofferta tra rapporto dis-eguale e pratica del «consenso informato», se esplorata, assume molteplici aspetti. E di uno, fondamentale, vorrei fare un cenno, perché non mi è mai capitato di vederlo esplicitato. Inserire la richiesta e la prassi del «consenso informato» in un rapporto di comunicazione dis-eguale non è soltanto una dissonanza comunicativa e psicologica, ma è un errore logico che produce effetti relazionali e cognitivi distorti e che rende praticamente impossibile trovare soluzioni adeguate in termini di equilibrio ed efficacia ai problemi di gestione dei NGCC 2012 - Parte seconda Per una ecologia del rapporto terapeutico conflitti. Come ben dimostra l’analisi linguistica di Fontanella, l’insieme dei messaggi nella lingua della diseguaglianza diviene un potente metamessaggio sul contesto, che lo qualifica come un contesto di subordinazione: proporre e richiedere al «paziente», in un tale contesto, un atto di consenso è un esempio, credo perfetto, di quel «doppio vincolo» che Bateson considerava la chiave della schizofrenia, e soprattutto un esempio di quell’errore che attiene alla «confusione di tipi logici» ( 10 ): regolare isolatamente uno dei messaggi – quello del consenso – senza incidere sul contesto, senza ricodificarlo nel suo insieme includendo la «competenza» del malato e creando le condizioni di una circolarità di comunicazione e decisione, significa perseguire un obiettivo logicamente sfalsato, monco e contraddittorio. 3. I ritardi della medicina. L’idea che il medico sia investito dell’autorità di dettare il bene e la via per raggiungerlo ha origine, credo, nella nascita stessa della medicina. La modellizzazione è l’attitudine dominante del pensiero greco ( 11 ). È nelle vene della medicina, fin dall’antico, il pensare alla salute come a un modello, che contiene una verità valida anche per il paziente. Nel grande paradigma ippocratico, che connota la medicina fino alla modernità e oltre, il bene del malato è cercato in una verità: scopo comune di medico e paziente è quello di recuperare un ordine del microcosmo vitale iscritto nell’ordine dato del macrocosmo. Il riferimento a questa verità benefica condivisa da medico e paziente poteva rendere superfluo, perché in re ipsa, il consenso del malato. La medicina di oggi infrange i limiti «naturali» del suo intervento, si apre a scelte non riferibili a un «ripristino» di un ordine dato e necessario, a scelte opinabili, spesso di dubbio valore vitale: in questo nuovo spazio la scienza può prevedere, descrivere, offrire, proporre, non può dettare il bene, non dispone di una lingua certa rispetto all’esperienza. ( 10 ) Bateson, Mente e Natura, cit., rist. 2008, 155 ss. ( 11 ) Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, 2008, passim. NGCC 2012 - Parte seconda Anzi: la stessa analisi della scienza ci avverte non solo dei suoi margini di incertezza, ma della inerzia insidiosa di questa macchina potente che si autoalimenta, che si autoprefigge, per i suoi stessi meccanismi interni, obiettivi sempre più avanzati. L’opinabilità del «bene» enunciato dalla scienza non si manifesterà nelle situazioni banali o ordinarie, neppure in quelle ardue ma certamente connotate da necessità e beneficità attesa. Ma molte, proposte mediche impegnative, in questo nuovo orizzonte, sono più che mai opinabili alla luce di una concezione di bene che esige l’accordo del paziente. Siamo lontani dalla sintonia ippocratica, e siamo in un punto in cui è messa a dura prova l’idea troppo facilmente enunciata della «alleanza terapeutica»: c’è un problema serio di accordo tra l’integrità professionale del medico e la concezione che il paziente ha della propria integrità. Nel momento in cui non siamo più certi di trovare il nostro bene nei «beni» conseguibili dalla medicina, dobbiamo rivedere i passi del rapporto tra medico e paziente per garantire a ogni persona malata di dire il suo proprio bene, garantendo al medico il rispetto della sua identità professionale e della sua coscienza. Più che mai è necessaria una medicina capace di mediazione tra scienza ed esperienza, che implica come necessità, oltre che come dovere etico e giuridico, il rispetto dell’autodeterminazione del malato tanto quanto dell’integrità professionale del medico. In realtà, questo modo di vedere non è in contrasto con la tradizione medica, anzi, ne valorizza la parte migliore. La medicina è una scienza che ha sempre conservato una attitudine sperimentale nel senso di attenzione alla concretezza empirica del caso. La medicina cura la malattia nel malato. Il caso clinico non oscura il modello, ma lo include. In questa attitudine c’è il principio di un ascolto attento della persona malata, fino a integrare il significato di salute e cura come modello e di salute e cura come esperienza. Eppure, i medici si mostrano insofferenti verso le nuove posizioni dell’etica medica e del diritto. Criticano aspramente la definizione di salute dell’OMS, con il suo tentativo di integrazione delle dimensioni interiori della persona. L’accoglienza quasi testuale nei Codici 147 Letture e Opinioni deontologici viene sentita come un ossequio formale o ideale, una impraticabile utopia. La tendenza delle Corti ad affermare che la beneficità «secondo scienza» di una terapia non basta a giustificarla, e che il consenso del paziente deve essere effettivo e non formale, fondato su informazione reale, adeguata, verificata, è stata attivamente e direi accanitamente contrastata. Le vicende giudiziarie portano i segni di una guerra di trincea, in cui la lenta avanzata del principio dell’autodeterminazione, è interrotta da fiammate di ritorno alla rassicurante idea che la terapia si autogiustifica: dunque alla potestà eliminata dai codici deontologici. Nessuno sottovaluta le difficoltà di adeguare la prassi, e in particolare quella ospedaliera, ai principi affermati da moralisti e giuristi. Ma credo che altrettanto realistico sia segnalare il rischio di ritardo culturale della medicina. I medici dovrebbero ritrovare, in termini nuovi, il loro ruolo antico di mediatori tra scienza ed esperienza: conoscere le parole della scienza e capire le parole dell’esperienza dette dall’altro parlante, la persona malata. Ma questo non è solo un dono attitudinale, che non a tutti è dato, ma è anche un tema di preparazione e di apprendistato. Perché si continua, oggi, a sfornare medici che in dieci anni di preparazione non hanno dedicato due settimane al problema di cosa significhi avvicinare una persona in difficoltà? Da quale presunzione deriva l’idea che l’investitura scientifica o la prassi in sé facciano sapere al medico come si tratta un malato? Farsi le ossa in corsia non significa di per sé sviluppare le ossa giuste. Perché si rimane fermi a quelle massime di falsa saggezza, che il medico deve farsi il pelo sullo stomaco per non venire travolto dal contatto con la sofferenza? Perché non si valutano le attitudini di chi fa il medico anche sul versante della relazione? Perché un ufficiale degli alpini deve avere attitudine al comando, e un medico non deve avere attitudine alla comprensione? Più oggettivamente, se il tempo in ospedale è così tiranno, perché non si valutano e non si affrontano le ragioni di questa tirannia, sceverando anzitutto le complicità mediche alla riduzione dei tempi di assistenza pubblica? 4. I ritardi del diritto. Ma è tempo di guardare anche al diritto e ai suoi ritardi. Si di148 ceva che il medico deve essere mediatore tra scienza ed esperienza nella singola relazione. Ma al diritto spetta di propiziare questa mediazione con regole che la preparino e che la garantiscano. Una volta il diritto rimetteva alla scienza il criterio di bene e di verità. Lo deve certamente fare per quanto riguarda alcune definizioni di stati biologici, di strumenti terapeutici; anche se per molti aspetti ormai si profila una co-produzione medico-giuridica, ad esempio per la definizione di morte, o per la validità delle sperimentazioni scientifiche. Ma quanto alle parole chiave della relazione terapeutica, salute, terapia, consenso, spetta al diritto di garantire la mediazione, di regolare e assicurare l’interazione tra il bene della scienza e il bene dell’esperienza, tra l’integrità della professione medica e l’integrità della persona e della sua libertà. Il diritto ha il compito di garantire con i propri significati l’integrazione tra i significati della medicina e i significati dell’esistenza individuale. Al centro di questo compito sta il problema del consenso. Ma anche «consenso» è una parola che richiede mediazione, questa volta tra diritto ed esperienza, tra diritto e realtà vitale. Non possiamo più permetterci di proporre e imporre alla relazione medico-paziente un’idea di consenso e dei modelli applicativi assolutamente inadeguati al terreno, gravidi di effetti perversi. Il diritto che trasferisce in sala operatoria – o nel corridoio – le forme che valgono per un contratto bancario fa piangere. Come può, un diritto pensante, accettare che a una persona ricoverata per peritonite, mentre entra in sala operatoria in preda a un dolore che non riesce a sopportare, sia richiesto della firma di un modulo di consenso? E come può sostenere che quello sia un atto di autodeterminazione valido ed efficace, e che questo modello sia un accettabile e ragionevole modo di regolare la questione del consenso? Davvero pensiamo che i criteri con cui si dà per acquisita l’informazione di chi acquista una Sim card siano estensibili alla informazione su quanto ci sarà fatto nel corpo, e ai relativi rischi e probabilistiche previsioni? Cosa ci induce a pensare che i vecchi paradigmi siano praticabili, affidabili in un contesto ad essi totalmente estraneo? NGCC 2012 - Parte seconda Per una ecologia del rapporto terapeutico Una raccolta di saggi di Simone Weil, segnati dalla sua severa e particolarissima spiritualità, ma che i giuristi dovrebbero rileggere, si intitola «Il diritto è estraneo al bene. Lo scandaloso pensiero di Simone Weil» ( 12 ): estraneo in ultima analisi perché, secondo S. Weil, inesorabilmente legato alla forza, che traduce in potere, cioè in rapporti di forza giuridicamente stabiliti. Io non credo a questa condanna, ma prendo molto sul serio l’ammonimento. Se non rinnoviamo i nostri strumenti, saremo solo capaci di stabilire fragili rapporti di forza tra medico e persona malata; e avremo tradito il nostro ruolo di giuristi. Occorre ritrovare il legame tra soluzioni giuridiche ed esigenze etiche e umane specifiche al rapporto tra medico e paziente. Non si tratta di adattare, di ritoccare; si tratta di ricostruire i tessuti vitali dell’esperienza attorno agli schemi che la tradizione ci consegna. Il consenso che eticamente è richiesto al medico di costruire con il paziente – non di acquisire confezionato – è molto di più del consenso giuridico; ma il consenso giuridicamente inteso deve essere molto di più che l’atto formale, e più dell’atto di manifestazione di una volontà secondo lo schema del negozio; lo schema dell’atto giuridico va incluso ma trasceso, integrato in una regolazione della costruzione e gestione del consenso. Io non ho certo in mente qui e ora tutte le linee di un nuovo paradigma; ma penso ad alcuni vettori, che obbediscano a un principio operativo: quello di incidere non sull’aspetto del consenso in sé considerato, ma sul rapporto terapeutico nel suo insieme; non su uno dei messaggi, ma sul contesto che va ri-codificato. Nelle relazioni esiste un apprendimento del contesto ( 13 ), e l’obiettivo di un insieme di prescrizioni dirette a indirizzare una relazione verso alcuni criteri fondamentali deve essere quello di favorire un certo vettore di apprendimento, che nel nostro caso deve essere quello del riconoscimento reciproco delle «competenze» e della accentuata circolarità, condizioni e insieme fattori di rispetto delle prerogative giuridiche del medico e della persona curata. ( 12 ) Il libro, di M. Papini, è pubblicato da Cittadella, 2009. ( 13 ) Bateson, Mente e natura, cit., 181. NGCC 2012 - Parte seconda Elenco sinteticamente alcuni punti. 1. Consenso deve significare giuridicamente il risultato di un processo di cui si garantisce per via normativa l’effettività, che significa le condizioni reali, l’accadimento lungo il tempo, che si contorna di garanzie e soluzioni alternative per ogni caso di difficoltà o di impossibilità di formazione. Informazione deve significare una comprovata acquisizione di conoscenza, che va non solo regolata ma verificata. Di consenso e informazione, dunque, il diritto deve occuparsi, integrando la relazione bilaterale con la disciplina della gestione dell’organizzazione ospedaliera in modo da consentire la maturazione del consenso in un contesto adeguato (cfr. la disciplina del consenso alla sperimentazione, secondo le direttive europee, peraltro insufficiente). 2. Là dove lo schema della consensualità diviene comunque impraticabile, si deve valorizzare con propri strumenti il criterio, concorrente e suppletivo, del rispetto assoluto verso l’identità della persona, intesa come convinzioni, concezione di vita, preferenze comunque manifestate: è più facile per un paziente fare una dichiarazione di identità, che dice in modo semplice qual è il suo criterio di bene e di vita, che non una disposizione anticipata di trattamento. 3. La mediazione tra previsioni e circostanze reali va assicurata, valorizzando il ruolo del fiduciario anche sulla base di un affidamento spontaneo del malato; e occorre farlo anche al di là degli schemi tradizionali della rappresentanza. 4. Il vincolo del medico al rispetto delle volontà, delle preferenze, della identità del malato, in una parola all’integrità della persona, non va costruito avendo in mente solo lo schema dell’obbligo di puntuale adempimento, che è spesso – non sempre – improprio e insensato nell’ambito delle situazioni terapeutiche, e non va lasciato alla formula vaga e ipocrita del «tener conto» che crea solo incertezza e discussione. La via è ancora quella della mediazione tra disposizioni, indicazioni e desideri del paziente e circostanze concrete, affidata all’intesa tra medico e paziente o medico e protettore (cfr. la disciplina tedesca sulle disposizioni del paziente nel § 1901 a BGB, Patientenverfügung). 5. Menziono appena altri punti critici che vanno assolutamente riveduti, come l’infernale 149 Letture e Opinioni meccanismo che parte dallo stato di necessità, costruito senza riguardo a un bilancio di costi e benefici, e arriva alla tagliola della equiparazione, epistemologicamente fallace, tra interruzione delle cure e atto commissivo. Ci vuole creatività e concretezza, collaborazione ideativa tra competenza sanitaria e diritto; occorre integrare la disciplina civilistica e penalistica con norme di organizzazione. Può essere che si debba individuare in ogni reparto un responsabile della consensualità a cui il malato o i familiari possano rivolgersi. Può essere che si debbano videoregistrare i colloqui. Quel che conta è proporsi di realizzare una effettività delle regole, costruendole in modo praticabile e incisivo. Occorre fare una rivoluzione che rimetta in sintonia etica, medicina, diritto per la più piena umanità della relazione terapeutica. Occorre evitare di essere tutti, medici compresi, soggetti a una sola potestà, quella della tecnologia autoreferenziale: quella che crea trappole, come la sopravvivenza assistita – ma molte altre se ne potrebbero elencare – di cui sono egualmente prigionieri medico e malato. La rivoluzione, si è detto ( 14 ), dovrebbe esse- re fatta d’intesa tra due figure: il malato esperto e il medico ammalato. Ne aggiungo una, di servizio: il giurista paziente, in tutti i sensi, purché sappia e voglia costruire un diritto che conosce, vede e avvalora la sostanza vitale della relazione. Offrire schemi giuridici presi dallo scaffale della dogmatica per regolare la situazione di sofferenza è dare sassi come se fossero pane; significa mantenere il diritto, come sempre più spesso tristemente avviene, «lontano dal bene». ( 14 ) L. Guarneri, La cosa più stupefacente al mondo. Avventure di un malato esperto, Anima, 2004. 150 NGCC 2012 - Parte seconda