L’AFRICA AUSTRALE
Lia Quartapelle
G
li avvenimenti in Africa australe nel corso del 2012 hanno
sostanzialmente rovesciato le prospettive della regione: il
Sudafrica, il paese più stabile e promettente della regione
e principale partner commerciale italiano in un’area potenzialmente
molto promettente, quella sub-sahariana, sta attraversando una crisi
potenzialmente devastante; in Mozambico, conosciuto come tra i
paesi più poveri al mondo e paese con cui l’Italia ha relazioni molto
positive da anni, sono stati scoperti importanti giacimenti di gas; in
Zimbabwe sembra si stia giungendo alle elezioni che metteranno
fine sia alla crisi iniziata tra il 1999 e il 2000.
L’assetto sostanzialmente miracoloso su cui si è retto il Sudafrica democratico e post-razziale potrebbe essersi incrinato in modo
letale nel corso del 2012. L’uccisione di circa 47 persone nel corso delle proteste presso le miniere della multinazionale del platino
Lonmin, presso gli stabilimenti di Marikana, nell’agosto di quest’anno, è stato infatti il segnale del fatto che il profondo disagio che
attraversa il paese possa essere arrivato a un punto di non ritorno.
Il Sudafrica si conferma nel 2012 l’economia più importante dell’Africa sub-sahariana con un Pil di 408 miliardi di dollari (circa un
terzo di quello del continente) e una popolazione di 48,8 milioni
di persone. Anche per l’Italia, il Sudafrica è il principale partner
commerciale a sud del Sahara, con un interscambio che nel 2011 è
stato intorno ai 3,6 miliardi di euro. Al tempo stesso, la stabilità del
sistema macroeconomico e gli stabili tassi di crescita sperimentati
dal paese dalla fine del regime dell’apartheid, non sono riusciti a
sanare le devastanti contraddizioni in cui la maggior parte della popolazione nera vive, a 20 anni dall’inizio della negoziazione tra Anc
e governo segregazionista: il Sudafrica resta il paese più diseguale al
mondo. L’indice di Gini era del 59,3 nel 1993 e a più di 15 anni dalle
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prime elezioni multipartitiche, nel 2009, era effettivamente aumentato al 63,1, a causa da un lato della persistente concentrazione delle
risorse economiche nelle mani della minoranza bianca e dall’altro
dell’aumento delle sperequazioni di reddito tra la maggioranza nera.
Il massacro di Marikana è avvenuto in un contesto molto teso, e
ha evidenziato vari ordini di problemi. In primo luogo, le violenze
di agosto e il massacro del 16 agosto mostrano la distanza siderale
che si sta insinuando tra le elites politiche e sindacali e le masse di
lavoratori e cittadini neri che non hanno ancora beneficiato dei dividendi della fine del regime segregazionista. Gli scioperi, comuni
in un paese dalla lunga tradizione sindacale, sono stati da subito
caratterizzati dall’antagonismo tra la National Union of Mineworkers (Num), il sindacato membro del Cosatu e vicino al governo, e
la Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu),
un’organizzazione sindacale indipendente. E’ stata la necessità di
dimostrarsi diverso dalla Num – che ha perso la maggioranza tra
i delegati e tesserati nelle miniere perché ritenuta troppo vicina al
governo e alla proprietà delle miniere – che ha spinto l’Amcu verso
posizioni intransigenti durante la trattativa e verso la proclamazione
di picchetti non autorizzati in aperto scontro con la polizia.
L’incapacità di rappresentare la maggioranza dei minatori è uno
smacco per il Cosatu, il sindacato da sempre forza di peso nelle
dinamiche politiche del paese. La distanza tra rappresentanti e rappresentati ha però riguardato anche il potere politico e più direttamente l’esecutivo. Da un lato, infatti, la polizia, il cui vertice era
cambiato da giugno in seguito a scandali di corruzione che ne avevano infangato la credibilità, con l’uccisione dei 36 minatori, molti
dei quali colpiti alle spalle mentre fuggivano, si è macchiata di un
crimine paragonabile solo agli eccessi della polizia dell’apartheid.
Dall’altro, l’immagine del presidente Jacob Zuma che legge un discorso durante una visita ai minatori dopo i funerali delle vittime
sotto un ombrello, circondato da guardie del corpo e giornalisti e
lontano dalla folla, ha in un certo senso certificato in modo grafico
che i rappresentanti eletti dell’Anc non sono più figli del popolo
sudafricano, ma con l’istituzionalizzazione della loro posizione po-
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litica hanno perduto il legame che li lega ai cittadini comuni, che dovrebbero rappresentare. Il fatto che Cyril Ramaphosa, leggendario
segretario generale del Cosatu durante gli ultimi, feroci anni dell’apartheid, scelto da Mandela come capo negoziatore nelle delicatissime fasi della transizione e poi scomparso dalla scena politica, sieda
nel consiglio di amministrazione della Lonmin, esattamente dall’altra parte del tavolo rispetto agli scioperanti, ha di fatto completato il
quadro: la sua situazione è diventata l’icona di come i dirigenti duri
e puri della lotta di liberazione si siano sempre di più allontanati
dalle masse di diseredati dei quali erano avanguardia e leadership
riconosciuta, per approfittare dei benefici derivanti da una selettiva
democratizzazione delle risorse economiche del paese. Il problema
della rappresentatività delle classi dirigenti sudafricane non sancisce
solo la fine del mito della generazione che ha lottato generosamente e coraggiosamente contro la mostruosità dell’apartheid: diventa
anche un problema di tenuta del sistema. Proprio come successo
durante gli scioperi, se a forze politiche e sindacali rese esperte da
anni di pratica politica anche accidentata e aggressiva si sostituiscono forze radicali, riconosciute come rappresentative ma più impreparate a gestire situazioni di scontro e tensione montante, il rischio
che la dialettica politica degeneri in violenza è alto.
Chi esce sconfitta dal massacro di Marikana è l’Alleanza Tripartita,
ovvero il patto di governo tra Cosatu, Anc e Sacp (il Partito comunista sudafricano) che gestisce il Sudafrica dal 1996: già con la
battaglia politica tra Zuma e Thabo Mbeki tra il 2007 e il 2008, l’Alleanza era stata messa in discussione da chi voleva uno spostamento
del suo asse politico (verso sinistra e verso destra). Ora, il patto tra
queste tre forze è sottoposto a spinte di forze esterne radicali, con
un esito imprevedibile. Il congresso dell’Anc di Mangaung, previsto
per dicembre 2012, sarà un importante test per capire l’evoluzione
di questo rapporto. Al tempo stesso, per come va configurandosi,
il congresso dell’Anc sembra ancora una volta un referendum pro
o contro Jacob Zuma: più che un congresso di partito, con il confronto tra linee politiche diverse e la ricerca di una sintesi, sarà un
momento in cui le tensioni personalistiche troveranno una compo-
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sizione.
In questo senso, il fatto che il confronto interno all’Anc, molto vivo
durante la maggior arte dei suoi cent’anni di storia, e molto fecondo
– basti pensare a quanto sia stato importante il dibattito sulla connotazione non razziale del movimento oppure sull’adozione della violenza politica – si stia riducendo al confronto tra personalità
è particolarmente preoccupante. Già durante lo scontro tra Jacob
Zuma e Julius Malema – il focoso leader della Lega giovanile la cui
espulsione proprio nel 2012 per comportamenti razzisti è stata letta
anche come un favore a Zuma, messo in crisi politica dalle posizioni molto radicali di Malema – il fattore personalistico ha giocato
un ruolo superiore a quello politico: se anche durante il congresso
– che avviene in un momento tanto complesso per la democrazia
sudafricana – le ambizioni e le antipatie personali dovessero superare la necessità di confrontarsi, criticare, analizzare la traiettoria del
paese sarebbe un segnale di ripiegamento e di perdita di vitalità del
principale perno del successo della transizione sudafricana.
Infine, le proteste hanno messo di fatto scatenato altre proteste illegali anche nel settore dell’oro: dopo Marikana, altri 75.000 minatori hanno scioperato, e ne sono stati licenziati almeno 13.000.
Secondo il governatore della Banca centrale sudafricana, le proteste
hanno dato un segnale preoccupante agli investitori internazionali:
per questo, secondo il governatore, i 643 milioni di dollari di equity
che sono usciti dal Sudafrica in ottobre sono da interpretare come
un segnale di riduzione della credibilità del paese sui mercati internazionali. Questo è un rischio non solo contingente ma per le stesse
prospettive di sviluppo del Sudafrica: proprio come l’apartheid è
crollato anche a causa dei costi insostenibili della gestione dell’ordine pubblico, il regime del’Anc potrebbe ricevere dei duri colpi dal
versante economico.
Le difficoltà interne non sono per fortuna riuscite ad oscurare i
successi ottenuti dal Sudafrica sul piano internazionale. Dopo l’ammissione nel club dei BRICS, nel dicembre 2010, Pretoria ha ottenuto un’importantissima vittoria a livello continentale: Nkosazana
Dlamini-Zuma, già ministro degli Esteri con Thabo Mbeki e Kga-
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lema Mothlante, è stata nominata presidente della Commissione
dell’Unione africana. Un riconoscimento non scontato della leadership che il paese può proiettare su tutto il continente africano, a
testimonianza che il Sudafrica è effettivamente la porta privilegiata
per accedere all’Africa subsahariana.
Le evoluzioni delle scoperte di gas in Mozambico possono portare
invece elementi più promettenti per una strategia africana dell’Italia.
Nell’ottobre 2011, infatti l’Eni ha scoperto il più grande giacimento
di gas della sua storia, al largo delle isole Quirimbas, nel nord del
paese, all’interno del pozzo Mamba sud 1. Dopo pochi giorni, le
stime Eni sulla quantità di gas presente nel giacimento sono più che
raddoppiate, mentre a marzo (Mamba nord est 1), maggio (Coral 1)
e agosto (Mamba nord est 2) nuove scoperte, sempre di Eni, hanno
confermato l’eccezionale potenziale del bacino di Rovuma.
Seppure il gas del Mozambico non sarà destinato al mercato italiano o europeo, quanto piuttosto al mercato asiatico, la presenza
dell’Eni contribuirà al consolidamento della posizione dell’Italia
nel paese – e potrebbe addirittura fungere da interessante volano
per l’esplorazione di direttrici di politica estera meno tradizionali. Il
Mozambico è da prima della decolonizzazione un partner di primo
piano dell’Italia in Africa e la scoperta dei giacimenti di gas va ad
aggiungere un tassello, quelli dei rapporti economici, nelle già ricche relazioni tra Maputo e Roma. Nel 2012 si sono inoltre tenuti i
festeggiamenti per il ventennale degli accordi di pace di Roma, tra
Frelimo e Renamo, un’occasione per rinsaldare i rapporti tra Italia
e Mozambico. Sempre nel 2012, l’Italia è entrata a fare parte della
troika di donatori che, in partnership con il governo del Mozambico, gestisce il programma di supporto diretto al bilancio dello stato
in Mozambico, fornendo le risorse per circa la metà del bilancio
pubblico del paese. Se è vero che gli aiuti vedranno diminuire la
propria rilevanza con l’aumentare delle entrate derivanti dalle risorse minerarie, gas in primis, l’Italia si trova comunque in una posizione di dialogo strategico privilegiato, sia sul versante energetico
che su quello degli aiuti, con il governo di Maputo per il triennio
2012-2014. Per rafforzare e espandere la presenza italiana in Afri-
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ca, il Mozambico può essere un’interessante base, dati i rapporti
esistenti, le nuove sfide a cui il paese è chiamato ad affrontare – a
partire dalla gestione dei proventi del petrolio – e soprattutto dato
il riorientamento degli interessi strategici di Maputo da nord a est,
lungo le rotte commerciali del gas.
Vi è infine la vicenda dello Zimbabwe, un paese con cui l’Italia non
ha relazioni privilegiate ma che rimane una chiave per la stabilità
dell’Africa meridionale. Nel maggio 2013 scade il mandato del parlamento eletto nel 2008, tra brogli, violenze e accuse reciproche:
nonostante il governo di unità nazionale tra lo Zanu-Pf di Robert
Mugabe e il Mdc di Morgan Tsvangirai non abbia ancora trovato un
accordo sulla nuova Costituzione e sulle nuove regole elettorali, la
data di scadenza del parlamento potrebbe essere il momento in cui
il presidente Mugabe deciderà di indire nuove elezioni, sostanzialmente aprendo la porta alla possibilità di risolvere elettoralmente
lo stallo tra Zanu-Pf e Mdc. I momenti elettorali nel paese sono
sempre stati occasione per un aumento delle tensioni tra le forze
governative e l’opposizione e i loro sostenitori, e non è quindi chiaro se e come un appuntamento elettorale possa incidere sul fragilissimo equilibrio dello Zimbabwe. D’altro canto, la situazione nel
paese dovrà trovare una composizione, perché è dalla soluzione di
alcuni dilemmi dello Zimbabwe – a partire dalla questione della distribuzione delle terre, passando per la successione al potere di un
movimento che non è quello che ha condotto la lotta di liberazione
– che dipende anche l’evoluzione di altri paesi della regione, tra cui
il Sudafrica, con vicende speculari.
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