Indice Presentazione (di Vincenzo Cesareo) 9 Introduzione Modernizzare il welfare state 15 Capitolo primo La sfida dell’individualizzazione 31 Nella «società a progetto», alla ricerca di nuove connessioni Biografie autoriflessive tra autodeterminazione e incertezza Vulnerabilità diffusa, corsi di vita, disuguaglianze Capitolo secondo Welfare state attivo, welfare state attivante 53 L’active welfare state L’imperativo dell’occupazione nel discorso istituzionale europeo Pluralizzazione, destandardizzazione e personalizzazione delle politiche Capitolo terzo Partecipazione, capacità, capitale umano 79 Oltre la visione ortodossa dell’attivazione Activation policies abilitanti, orientate all’empowerment Lifelong learning e cittadinanza attiva Capitolo quarto Modelli «classici» di welfare attivo Il volto inclusivo del workfare britannico L’apertura workfarista del learnfare danese La convergenza (im)possibile 103 Capitolo quinto Modelli emergenti? 131 La frattura tra insider e outsider nell’Insertionfare francese Il paradosso italiano: un modello, nessun modello I primi passi dell’attivazione Un sistema di apprendimento in formazione continua Piste di innovazione e fattori di inerzia Conclusioni Un welfare delle capacità e delle eque opportunità di apprendimento continuo 163 Su potenzialità e limiti del lifelong learning Ricalibrare il learnfare Bibliografia 183 Presentazione 9 Presentazione Nella società e nell’economia della conoscenza — sostiene l’Unione Europea — lo sviluppo del capitale umano e l’apprendimento permanente costituiscono presupposto per l’accesso all’occupazione, la realizzazione personale, l’inclusione sociale e l’esercizio dei propri diritti. Al punto che le key competences per il lifelong learning identificate proprio in sede europea (imparare a imparare, capacità di comunicazione nella madrelingua e nelle lingue straniere, competenza matematica e competenze di base nelle scienze e nelle tecnologie, competenza digitale, competenze sociali e civiche, spirito di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale e interculturale) sono al tempo stesso considerate come competenze di cittadinanza. Una cittadinanza «attiva», che fa leva sul protagonismo del soggetto nella costruzione di una società del benessere, coesa e giusta, e che per questo promuove la partecipazione responsabile e autonoma alla vita sociale, economica e democratica. Il lavoro è l’ambito per eccellenza di contribuzione al bene comune, di integrazione e inclusione sociale, di realizzazione di sé e di protezione contro la povertà, l’emarginazione, la dipendenza dal welfare. In questo scenario, l’apprendimento che si compie lungo l’arco della vita (lifelong), in qualunque contesto esperienziale (lifewide) e secondo modalità diversamente strutturate e istituzionalizzate (formal, not formal, informal), viene assunto a pilastro di un nuovo modello di welfare — anch’es­ so attivo — teso a promuovere nei cittadini la capacità di autoprotezione 10 Welfare attivo dai rischi sociali, un welfare che trova proprio nell’occupazione la migliore forma di tutela individuale e la leva per l’uscita dalla eventuale condizione di bisogno. Formare, riqualificare, aggiornare le competenze divengono i punti di forza di nuove politiche occupazionali, non per caso definite activations policies, che intrecciandosi con le politiche sociali mirano ad almeno due finalità considerate interdipendenti: migliorare l’impiegabilità degli individui e la loro (ri)collocazione dentro un mercato del lavoro incerto, mobile, in continua evoluzione; scongiurare il rischio che essi rimangano intrappolati nella disoccupazione, nell’inattività, nell’assistenzialismo o in lavori instabili, poco remunerati, mal tutelati, di scarsa qualità. Tali politiche si traducono anzitutto nei programmi di welfare to work, rivolti a sostenere i soggetti nel passaggio dalla percezione passiva di una indennità al reinserimento lavorativo (pur se in un impiego sussidiato o temporaneo), con l’obiettivo di restitui­ re loro la possibilità di guadagnarsi il proprio reddito e di rientrare nella schiera degli attivi, nel rispetto della «condizionalità»: accettare la proposta di formazione o lavoro, pena l’esclusione dagli schemi di protezione. La rilevanza assegnata al capitale umano e all’apprendimento perma­ nente si salda così con la necessità di riforma del welfare state, il quale nella sua configurazione keynesiano-fordista si è da tempo mostrato incapace di rispondere ai bisogni di protezione sociale che sorgono nella società contem­ poranea. Flessibilizzazione e femminilizzazione del lavoro, invecchiamento della popolazione, pluralizzazione dei modelli familiari e indebolimento dei legami sociali e delle istituzioni, individualizzazione delle carriere di vita, diffusione di istanze di autorealizzazione da un lato fanno lievitare la domanda per i servizi di cura (in particolare per bambini, malati e anziani) e per i servizi di formazione e accompagnamento lungo le transizioni nel mercato del lavoro, dall’altro lato richiedono soluzioni personalizzate e flessibili, capacità di adattamento ai corsi di vita, spazi di negoziazione e autonomia per i beneficiari. A queste nuove esigenze cerca di rispondere il welfare state attivo per come è stato definito a livello europeo. Il linguaggio e i principi di fondo di questo modo di intendere le finalità dello stato sociale, il ruolo dei cittadini e delle formazioni sociali, il lavoro e la cittadinanza sono penetrati in modo capillare nel dibatto politico dei Paesi europei, come dimostra emblematicamente anche il caso italiano, ma sappiamo che l’uniformità concettuale, per quanto condizionante, non Presentazione 11 produce necessariamente uniformità di risposte. Se è vero che la definizio­ ne della situazione è capace di costruire realtà, è anche vero che proprio il persistere di uno spazio aperto di definizione (che in materia di welfare gli stati nazionali conservano, nonostante l’accrescimento dei poteri da parte degli organismi sovranazionali e dei territori locali) apre a scenari diversificati nel passaggio dal disegno alle soluzioni istituzionali. Rosangela Lodigiani con questo libro ci invita a osservare più da vicino la varietà dei tipi di welfare attivo effettivamente implementati in Europa, portando allo scoperto quanto gli orientamenti comunitari abbiano sì inne­ scato processi di convergenza e isomorfismo, ma trovino fattori di resilienza nelle caratteristiche socio-economiche, politico-istituzionali e culturali dei singoli contesti, rivelando come lo stesso welfare attivo, assunto a idealtipo, debba poi inscriversi in un quadro di coerenze societarie per concretizzarsi in modo efficace. Né potrebbe essere diversamente nella misura in cui discutere di welfare significa riflettere sul tipo di modello di sviluppo a cui si vuole dare forma; metterne a nudo finalità e presupposti valoriali e normativi; esplicitare la visione del rapporto tra cittadino e Stato, tra bene individuale e bene comune, tra responsabilità individuale e responsabilità collettive. Di qui, l’interesse per l’approfondimento proposto dei casi italiano, francese, britannico e danese, i quali ci mostrano come, pur a partire da presupposti condivisi, promuovere il welfare e attivare le persone possano assumere significati e piste di attuazione diverse. Rosangela Lodigiani ci conduce però a un passo ulteriore. Ci spinge a entrare dentro al paradigma dominante dell’attivazione, dell’apprendimento permanente e della società della conoscenza per evidenziarne i lati nascosti, i paradossi di cui occorre essere avvertiti al fine di evitare effetti perversi, imprevisti. Basti pensare alle ambivalenze legate all’imperativo dell’occupazione nei programmi di welfare to work, massima espressione del welfare attivo: la presenza di vincoli più o meno stringenti all’accettazione delle proposte formative e di lavoro inserite in tali programmi delimita la possibilità di voice dei beneficiari e la loro possibilità di partecipare fattivamente alla definizione di percorsi autonomi di reinserimento. Inoltre non tutto il lavoro è buona occupazione, capace di creare inclusione, riconoscimento sociale, stima di sé; né del resto tutto il lavoro si esaurisce nell’impiego retribuito: dunque altre forme di lavoro (da quello domestico a quello volontario di impegno 12 Welfare attivo civile) potrebbero utilmente essere valorizzate come segno di attivazione, con elevate valenze di inclusione sociale, dentro quella che diversi autori definiscono una società pluri-attiva. Si pensi anche alle contraddizioni che indeboliscono la valenza dell’ap­ prendimento permanente come diritto di cittadinanza, la sua possibilità di configurarsi come fattore di protezione rispetto alla discontinuità occu­ pazionale, la marginalizzazione, l’intrappolamento in situazioni di disagio lavorativo e sociale. Un esempio valga per tutti. Quanto più l’accesso alla conoscenza diventa una risorsa capace di discriminare rispetto al lavoro e perfino alla partecipazione attiva alla società, tanto più tale accesso divie­ ne un fattore di stratificazione. Esso finisce col penalizzare le fasce della popolazione più deboli, meno dotate di capitale umano, più difficilmente intercettate da proposte di recupero e di sviluppo di nuove competenze lungo l’arco della vita, rischiando proprio di fallire laddove più vorrebbe incidere: cancellare le disuguaglianze. Viene in evidenza così che l’apprendimento in età adulta è funzione di quello in età scolare e perfino pre-scolare; che la garanzia di sistemi equi di accesso è condizione necessaria ma non sufficiente per la fruizione delle opportunità di apprendimento; che accanto al sistema dei diritti formali vanno sviluppate le capacità (capabilities) di sfruttarli a proprio vantaggio. E la capacità di apprendimento permanente è una di queste. Una capacità cruciale, ci ricorda l’autrice, se e per quanto consente alle persone di svilup­ pare spirito critico, riflessività, e le sostiene nel comprendere e padroneggiare la realtà circostante, così che possano mettere in campo scelte libere e al tempo stesso responsabili, che abbiano significato per la loro realizzazione personale. La riflessione di Rosangela Lodigiani non è dunque finalizzata a mi­ sconoscere i potenziali insiti nel lifelong learning rispetto alle finalità di cui si è detto, piuttosto si concentra sulle contraddizioni che esso possiede per come si sta configurando (soprattutto in Italia) e suggerisce piste concrete per una sua «ricalibratura». Ciò alla luce di quanto sta avvenendo nei sistemi di welfare attivo, nei quali l’esigenza è sia di garantire l’equità delle posizioni di partenza, sia di offrire opportunità per reintegrare lungo i corsi di vita le risorse necessarie per proteggersi nelle fasi di vulnerabilità. Da questa ricalibratura discende non solo la sostenibilità, ma anche la credibilità del learnfare, immaginato come sistema di protezione integrativo a quello di Presentazione 13 welfare to work. L’autrice ci aiuta nelle pagine che seguono a dare sostanza a questa affermazione. È, questo, uno dei tanti meriti che riconosciamo a questa opera e che si aggiunge alla sua capacità di affrontare in maniera critica e mai ovvia un tema tanto attuale e complesso. Vincenzo Cesareo Professore ordinario di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano Partecipazione, capacità, capitale umano 79 Capitolo terzo Partecipazione, capacità, capitale umano Oltre la visione ortodossa dell’attivazione Di fronte alla diversità e alle disuguaglianze che caratterizzano le persone, assumere la responsabilità individuale a criterio normativo e valoriale del nuovo welfare attivo appare quantomeno rischioso e ambivalente, determinando un sovraccarico e una ipervalutazione del soggetto sia in positivo che in negativo: suoi sono i meriti, ma sue sono anche le colpe a fronte di fallimenti che vengono interamente imputati alle carenze individuali e ai demeriti personali, introducendo così una dimensione di valutazione morale che oscura le responsabilità collettive. È questo «individuo per difetto» (Castel, 1995) il beneficiario privilegiato delle politiche di attivazione. Seguendo tale impostazione, due concetti cardine di tali politiche, occupabilità ed empowerment, tendono a essere interpretati solo a partire dal soggetto, e non anche dalle condizioni (istituzionali anzitutto) necessarie per il loro sviluppo. In entrambi i casi fa premio una lettura monodimensionale, di impronta economicista ed efficientista, di cui sembra soffrire l’intero impianto del modello sociale europeo (Crespo e Serrano Pascual, 2005). Il giudizio ci pare — come afferma Barbier (2005) — eccessivo, e non tiene conto della diversità dei modelli di attivazione di fatto emergenti nei contesti nazionali. Quantomeno non appare più del tutto rispondente alla realtà, se è vero che dopo la svolta neoliberista consumatasi negli ultimi venti anni del secolo scorso in molti Paesi europei, oggi è in atto una convergenza 80 Welfare attivo verso il paradigma dell’investimento sociale che — se pure non contraddice molti dei precetti neoliberisti, a partire da quello della centralità del lavoro per il mercato — mette in dubbio la capacità del mercato stesso di creare occupazione sufficiente per tutti (Jenson, 2008). Tuttavia è un giudizio che rileva il contestuale diffondersi degli assunti del workfare, apparentemente del tutto in contrasto con il paradigma dell’investimento sociale, almeno nella sua versione più inclusiva. Proviamo a entrare più nel dettaglio. Pensiamo anzitutto all’occupabilità. A dispetto della lettura prevalente che la intende come funzione delle caratteristiche personali e della responsabilità individuale nel migliorare le proprie capacità di inserimento lavorativo, agendo, oltre che sul piano delle competenze, su quello dell’adattamento e della flessibilità, essa dipende anche dalle reali opportunità che il mercato del lavoro offre (Gazier, 2003), nonché dalle risorse che a livello istituzionale lo Stato riesce a garantire e che non possono ridursi a iniziative che agiscano solo sul fronte dell’offerta (Ferrera, 1998). Coerentemente con tale impostazione, la disoccupazione finisce con l’essere interpretata essenzialmente come un rischio individuale, determinato più dall’obsolescenza delle competenze possedute, dalla scarsa capacità di adattamento, da una debole motivazione al lavoro, che non da fattori di tipo strutturale — per esempio l’assenza di opportunità di impiego di qualità sul piano delle mansioni, della tutela, della retribuzione, come invece predicato dall’Unione Europea («to create more and better job» è il motto della strategia di Lisbona). Lo stesso accade con il concetto di empowerment dal quale dovrebbe originarsi la capacità di partecipazione attiva. In genere rapportato alle «mancanze» e alle lacune che andrebbero recuperate unicamente sul piano personale (formazione, responsabilità, motivazione), ne resta misconosciuta la natura multidimensionale, relazionale, che lega in modo inscindibile individuo e struttura. Ne discende che la responsabilizzazione individuale è interpretata in chiave colpevolizzante e va di pari passo con una sfiducia di fondo nel soggetto, il quale per meritare l’inclusione nei programmi di attivazione deve essere continuamente monitorato e incentivato anche attraverso obblighi stringenti che ne sanzionino i comportamenti giudicati scorretti. Paradossalmente, infatti, l’imperativo dell’attivazione attraverso il lavoro e la condizionalità dell’accesso al welfare, mentre presuppongono un individuo competente e responsabile, inducono a predisporre dispositivi costrittivi e punitivi. Ne sono un esempio i già citati programmi di workfare, Partecipazione, capacità, capitale umano 81 dove l’enfasi è posta sui requisiti lavorativi e altri obblighi come precondizioni per ricevere i sussidi, secondo un orientamento che risulta «punitivo e esplicitamente disciplinante» (Hvinden, 2000, p. 58). Al punto che diversi osservatori vi hanno intravisto una forma di «neopaternalismo» caricato di moralismo, laddove si sostiene che le condizionalità siano poste nell’interesse del soggetto (ibidem; Jepsen e Serrano Pascual, 2005; van Berkel, 2002). Si definisce così quella che van Berkel (2002) chiama la visione «ortodossa» dell’attivazione, incentrata su una sorta di «emancipazione forzata», dove è l’individuo a doversi impegnare nel ricercare la propria autonomia (lavorativa). Lucida e cinica l’analisi di Solow (2001, p. 5): la discussione si è basata finora sulla tacita convinzione che tutti i problemi riguardino il mercato del lavoro dal lato dell’offerta; basta che i cani randagi si comportino come cani da riporto, e la selvaggina comincerà ad abbondare. Ma questo è un errore panglossiano. La quantità di posti di lavoro non è una costante, ma non è neppure probabile che possa aumentare quanto le offerte di lavoro. La lettura monodimensionale di tali due concetti non è però l’unica possibile. Questo semmai è l’esito della trasposizione del principio dell’attivazione dal campo delle politiche sociali e del social work — dove è stato inizialmente applicato — a quello delle politiche di (re)inserimento lavorativo (Geldof, 1999). Trasposizione che ha dato luogo a una vera e propria distorsione di significato, al punto che non è più chiaro nemmeno se il lavoro ne è il fine oppure il mezzo (Borghi, 2005). Infatti, nell’ambito del social work l’attivazione è chiamata in causa a sostegno dei soggetti maggiormente svantaggiati, traducendosi in programmi nei quali il lavoro per il mercato è solo una delle leve per la realizzazione di percorsi di emancipazione individuale, esprimendo così uno stretto legame con la nozione di empowerment. Per contro, nell’ambito delle politiche occupazionali, il lavoro remunerato (e le azioni messe in campo per conseguirlo) risulta come criterio pressoché esclusivo per la valutazione dell’attivazione. Esistono tuttavia i margini per muoversi su un registro diverso, sia enfatizzando l’integrazione tra politiche sociali, del lavoro e della formazione, specie a livello locale, dove meglio si evidenzia la specificità territoriale dei fenomeni di disagio ed esclusione e si palesa l’esigenza di interventi mirati, capaci di agire su più fronti contemporaneamente, sia andando più a fondo 82 Welfare attivo del concetto stesso di attivazione, per esplicitare i suoi diversi significati e il suo nesso con l’idea di partecipazione e cittadinanza attiva, in sintesi andando a ragionare su quale sia il suo obiettivo prioritario: l’occupazione o l’inclusione nel senso più ampio del termine, ricordando che non si può sostenere una equivalenza funzionale tra i due fenomeni. Seguendo Bifulco (2005a), possiamo ritenere quello di attivazione un «concetto ombrello», sotto il quale si ritrovano a coesistere finalità diverse, pur se tutte accomunate da criteri di intervento finalizzati al supporto dell’agency dei destinatari: la partecipazione al lavoro, anche obbligata; la responsabilizzazione individuale rispetto al proprio benessere e a quello dei membri della propria famiglia, che si trovino in condizioni di dipendenza; la libertà di scelta in quanto consumatori dei servizi di welfare; la partecipazione alle scelte pubbliche e l’autorganizzazione delle comunità locali. (Bifulco, 2005a, p. 20) Esso comprende dunque esperienze diverse in relazione agli ambiti in cui si realizzano e al grado di empowerment che implicano. Proprio la sua ampiezza semantica consente di evidenziare come anche nel settore delle politiche del lavoro possa essere valorizzato il nesso originario tra attivazione ed empowerment appena richiamato in riferimento al social work. È un nesso che porta alla luce come il lavoro (retribuito) sia uno dei possibili campi di realizzazione della cittadinanza attiva, forse il più importante, ma non necessariamente l’unico, poiché tale tipo di cittadinanza — a seconda della fase del corso di vita attraversata — si può esplicitare in contesti diversificati, senza per questo determinare il venir meno del dovere (e vorremmo dire anche del diritto) di concorrere in modo «produttivo» alla costruzione di una società del benessere per tutti, inclusiva, coesa, capace di esprimere forme di solidarietà allargata. Ne discende la possibilità di riconoscere la varietà delle «forme di lavoro» e del tipo di risorse che queste ultime garantiscono in termini di inclusione: forme ascrivibili alla nozione ampia di «condizione lavorativa» proposta da Supiot (2003; si veda il capitolo precedente). Se poi si allarga lo sguardo alle politiche sociali più in generale, l’attivazione può divenire anche sinonimo di partecipazione alla produzione del welfare e di esercizio dei diritti politici, civili oltre che sociali, in tutti i casi riconoscendo altre opportunità di inclusione, alternative alla partecipazione Partecipazione, capacità, capitale umano 83 al mercato del lavoro. Prende forma in questo modo una visione «riflessiva» dell’attivazione, che oltrepassa quella ortodossa, valorizzandone il carattere multidimensionale e orientando i servizi a prendere sul serio l’expertise degli utenti rispetto alla loro situazione (van Berkel, 2002). Ciò implica non solo predisporre politiche riflessive nel senso classico del termine, cioè supportate da un monitoraggio continuo e dalla valutazione degli interventi. Richiede altresì di applicare la riflessività a tutto il processo di costruzione delle politiche stesse, compresa la definizione dei problemi da risolvere o dei mezzi da sviluppare e mobilitare per risolverli. Presuppone infine di riconoscere il protagonismo dei destinatari (ibidem; Luciano, 2002). La propensione per l’una o l’altra visione — ortodossa e riflessiva — muta a seconda del contesto territoriale, del regime di welfare dominante, delle forme di regolazione del mercato del lavoro, della concezione del patto di cittadinanza, delle finalità attribuite alle politiche sociali, del lavoro (attive e passive), formative e di lifelong learning, ecc., configurando modelli di attivazione diversificati. Assumendo come linea direttrice per l’analisi di tali modelli la relazione che intercorre tra activation policies, processi di partecipazione (cittadinanza attiva), inclusione sociale, emancipazione, lo stesso van Berkel (2002, p. 220, passim) elabora una tipologia di approcci all’attivazione differenziandoli in base all’orientamento politico-istituzionale dei policy makers e ai presupposti normativi a cui si ispira la loro azione. L’autore distingue tra quattro tipi ideali, da intendersi come tipi puri in senso weberiano, come modelli di riferimento: 1. gli ottimisti dell’indipendenza dal welfare, scettici rispetto all’intervento dello Stato, giudicato non solo negativo ma da evitare, in quanto finisce con l’inibire l’iniziativa privata delle persone e la loro cittadinanza attiva, ponendole in una condizione di assoluta dipendenza dai meccanismi di protezione passiva del reddito, riproducendo invece che eliminando i fattori di esclusione: solo il mercato libero da interventi statali può fornire ai soggetti le opportunità per realizzare al meglio l’inclusione nel lavoro remunerato e ottenere un reddito sufficiente a soddisfare le proprie esigenze di vita. Essi mostrano un atteggiamento negativo sia verso le politiche attive del lavoro, sia verso quelle passive, nella misura in cui il cittadino «completo» risulta essere solamente colui che riesce a ottenere l’indipendenza attraverso il mercato (mercificazione) o la famiglia (familizzazione), ritenendo al contrario che i dispositivi di welfare disincentivino 84 Welfare attivo i soggetti nella realizzazione della piena cittadinanza, al punto che il loro ritiro si configura come fattore di incentivo per l’emancipazione; 2. gli ottimisti del paternalismo, secondo i quali lo Stato deve prescrivere e implementare percorsi di integrazione per gli individui all’interno del mercato del lavoro e della società più in generale, in quanto tali percorsi promuovono l’emancipazione dei soggetti, limitando le situazioni di rischio e agendo sulla diminuzione della vulnerabilità di quanti si trovano in difficoltà. Secondo tale approccio, l’insistenza sul tema dell’attivazione degli individui è da ritenere nel loro stesso interesse, in quanto prerogativa di emancipazione che lo Stato deve cercare di favorire, al limite «forzare»: solo coloro che stanno compiendo gli sforzi per conseguire le mete socialmente prescritte riceveranno sostegno economico. Come quelli che appartengono alla tipologia precedente, gli ottimisti del paternalismo definiscono l’inclusione attraverso la partecipazione al mercato del lavoro, ma prevedono il sostegno dello Stato laddove essa non si possa realizzare. Ne consegue un atteggiamento positivo sia verso le politiche attive sia verso quelle passive, queste ultime in particolare viste come un meccanismo di incentivazione e di ricompensa economica per gli sforzi compiuti dai soggetti nell’ottenere l’inclusione attraverso il lavoro; 3. gli ottimisti dell’autonomia, che fanno affidamento sulle capacità e sulla volontà dei soggetti di realizzare opportunità di inclusione e partecipazione alla società attraverso la propria libera iniziativa. Lo Stato, per mettere in grado le persone di agire autonomamente, deve «soltanto» fornire agli individui i mezzi sufficienti per corrispondere alle loro necessità di base — per esempio un reddito minimo incondizionato — nella convinzione che, assicurando ai soggetti il soddisfacimento dei bisogni primari, li si metterà nella condizione di utilizzare al meglio le proprie capacità, producendo su di essi un effetto di attivazione. In questo modo possono essere lasciati liberi di decidere come partecipare alla società, non solo attraverso il lavoro remunerato, ma anche mediante altre tipologie di lavoro non di mercato. Lo Stato non deve dunque prescrivere percorsi di integrazione, ma al contrario sostenere i cittadini nelle loro aspirazioni di inclusione attraverso un insieme di politiche passive, predisposte in chiave di emancipazione. Scettica, generalmente, è la posizione verso le politiche attive reputate a rischio di paternalismo; Partecipazione, capacità, capitale umano 85 4. gli ottimisti dell’attivazione, che enfatizzano il desiderio delle persone di partecipare e contribuire alla società attraverso diverse forme di lavoro: un cittadino «completo» è proprio colui che è attivamente coinvolto in qualche genere di attività, anche non di mercato. Diversamente dagli ottimisti dell’autonomia, con i quali peraltro condividono questa impostazione, sono consapevoli del fatto che una parte dei soggetti destinatari delle politiche per l’impiego non sono in possesso delle risorse necessarie per essere inclusi nel mercato del lavoro, anche quando i loro bisogni economici siano soddisfatti. Da sé sola l’erogazione di un reddito di base non è dunque sufficiente a garantire l’inclusione. Di qui la necessità di intervento delle politiche sociali e in particolare delle politiche attive lette in chiave di empowerment; è massima la rilevanza data alla ricerca attiva e autonoma del lavoro da parte delle persone disoccupate, ma la partecipazione non è ridotta alla sfera lavorativa. I primi due tipi ideali — e segnatamente il secondo, di stampo (neo) paternalistico — sono con tutta evidenza in linea con la visione ortodossa all’attivazione, e sono i più diffusi a livello europeo. I secondi due tipi ideali — e in misura massima il quarto — definiscono lo spazio dell’approccio «riflessivo» che è nella realtà quasi tutto da costruire. Esso è incentrato su politiche attive «abilitanti» (enabling) e «potenzianti» (empowering), orientate a conferire ai soggetti le risorse per soddisfare i propri bisogni, ma anche a riconoscere la loro autonomia e competenza nell’attivazione. Ciò capovolge la prospettiva degli interventi e getta una luce nuova sull’operato dei servizi: i diversi tipi di lavoro e di attività sono presi in considerazione per le risorse a cui danno accesso in rapporto ai bisogni espressi dai soggetti, alle aspettative, agli obiettivi sui quali misurano la loro realizzazione personale, senza dare per scontato che l’occupazione remunerata sia sempre e comunque la mèta preferibile. Due ne sono i presupposti: i cittadini destinatari delle politiche sono «attori competenti», consapevoli e capaci di autodeterminazione nei percorsi di attivazione che li riguardano, o lo possono diventare con gli adeguati strumenti di accompagnamento e sostegno abilitante; le loro responsabilità sono negoziate in un contesto democratico. Ma entrambi i presupposti esigono che essi siano anche forniti delle risorse (informazioni, potere, opportunità di direzione, ma anche conoscenze e capacità autoriflessive) necessarie per partecipare alle pratiche stesse di negoziazione e sulle reali opportunità che hanno di mobilitarle (ibidem). 86 Welfare attivo In quest’ultima accezione più ampia possiamo affermare che l’attivazione sia un processo a conclusione aperta, poiché «la partecipazione può assumere […] varie forme: quella del lavoro retribuito e non retribuito, quella della partecipazione economica, culturale e/o sociale. Il punto di partenza è che la persona è titolare di una partecipazione sociale che si conforma all’identità e alla vita quotidiana della persona disoccupata, contribuisce all’organizzazione della sua vita e può essere realizzata dall’individuo interessato, in modo realistico» (Valkenburg, 2005, p. 14). Aprirsi a questa concezione ampia dell’attivazione non significa rigettare l’impostazione dell’active welfare state. Se si prendono alla lettera i documenti europei si scopre che la partecipazione attiva è il requisito costitutivo di una cittadinanza attiva, e che la sua declinazione è multisettoriale, non circoscritta al lavoro retribuito (Vandenbroucke, 1999; 2003). Certo, il primo settore al quale solitamente si dà risalto è proprio quello della partecipazione lavorativa, che si traduce nell’occupazione (retribuita o sussidiata). Un secondo settore è quello della partecipazione politica e civile. Esso riguarda, fra l’altro, la partecipazione alla produzione del welfare, che può essere più o meno attiva, ed è passibile a sua volta di svilupparsi in più direzioni. Due, almeno (Paci, 2005): 1. la costruzione della strategia di emancipazione dalla condizione di bisogno, attraverso l’utilizzo di incentivi, voucher, budget di spesa e altri dispositivi; essa si realizza per esempio nella possibilità di co-partecipare all’elaborazione dell’intervento di formazione o ricollocazione professionale attraverso gli strumenti della negoziazione, della contrattualizzazione e del coinvolgimento diretto o indiretto nelle decisioni circa i programmi sociali. Nei termini di Borghi e van Berkel (2007) tale forma di partecipazione implica un coinvolgimento nel problem solving; 2. la definizione delle politiche sociali (e del lavoro), nel rapporto sia diretto, sia — soprattutto — indiretto, mediante le associazioni sociali, con l’attore pubblico: potremmo dire che la partecipazione arriva a essere mobilitazione della società civile e, restando ai termini di Borghi e van Berkel, implica un coinvolgimento nel problem-setting.1 In questo secondo caso è l’intero regime di welfare, e non solo lo stato sociale che, assumendo l’ottica della parteci Secondo i due autori (ibidem) vi è un altro livello minimale di partecipazione, sostanzialmente passiva (passive participation), rispetto alla quale i cittadini non hanno potere, ma sono al massimo coinvolti come informatori, anche se possono vantare la presenza di propri rappresentanti nelle sedi istituzionali. 1 Partecipazione, capacità, capitale umano 87 pazione attiva, valorizza il ruolo di tutti gli attori in campo: il mercato e le famiglie, il terzo settore, in un quadro di «welfare societario», «plurale» di cui si è già detto (si veda il capitolo 2). Nei termini che stiamo qui utilizzando tale sviluppo può essere visto come espressione di un sistema di welfare attivo, incentrato sul protagonismo dei cittadini variamente organizzati tra loro, nella definizione dei bisogni e nella elaborazione di risposte a essi. Non si tratta certo di immaginare un sistema di delega crescente dallo Stato alla società civile, anche perché l’azione di quest’ultima esige di essere regolata, ma di riconoscerne la capacità innovativa e creativa nel tessere legami di solidarietà allargata e nel trovare modalità efficaci di risposta soprattutto ai bisogni di tipo relazionale (Magatti, 2005). Ne discende una concezione di cittadino non limitata al suo essere destinatario passivo di politiche (spesso coercitive), né al suo essere cliente di servizi concorrenti sul mercato, bensì al suo giocarsi come partner delle istituzioni, di varia natura, e attore protagonista nella costruzione della sua capacità di essere attivo (Newman, 2007) sul triplice piano dell’occupabilità, della definizione del percorso di uscita dalla condizione di bisogno; della programmazione dei servizi. Si ristabilisce così il nesso tra attivazione ed empowerment, partendo dall’assunto che autonomia sociale e partecipazione sono interdipendenti (Chicchi, 2005). Siamo pienamente nell’alveo dell’active welfare state per come è stato disegnato a livello europeo. Il problema è lo iato, la distanza che emerge tra le dichiarazioni di principio, peraltro non prive di ambiguità e paradossi, e la loro attuazione sul piano delle politiche. Activation policies abilitanti, orientate all’empowerment Il riconoscimento della partecipazione come dimensione centrale della cittadinanza attiva è solo il primo passo perché quest’ultima possa esplicitarsi in tutte le sue potenzialità. Se ci si ferma a livello teorico, infatti, non può bastare. Così come indicare l’obiettivo della piena occupazione non può di per sé assicurare in ordine alla scomparsa della disoccupazione e dell’inattività, né la definizione di servizi di attivazione dà la certezza di un reinserimento attivo ai beneficiari. In altri termini, una volta stabilite le mete socialmente apprezzate, tutti devono poter fruire di mezzi e opportunità adeguate per Modelli «classici» di welfare attivo 103 Capitolo quarto Modelli «classici» di welfare attivo Il volto inclusivo del workfare britannico L’impianto neo-liberale e la svolta laburista Emblema dell’approccio individualista e liberale del welfare (EspingAndersen, 1990; 2000), il Regno Unito è stato il Paese europeo sul quale per primo ha attecchito è si è sviluppata la declinazione workfarista del welfare to work sulla scorta dell’esempio statunitense. In linea con i principi normativi che ne informano il sistema di protezione, il mercato è considerato il principale meccanismo di integrazione sociale. Lo Stato ricopre un ruolo residuale, assumendo pochi rischi come collettivi e concentrandosi su politiche selettive, prevalentemente di tipo assistenziale, riservate agli individui fortemente svantaggiati che non raggiungono una soglia di reddito considerata minima e non trovano nel mercato del lavoro le adeguate risorse economiche per il proprio benessere, restando destinati così a ricadere in una situazione di dipendenza dal welfare (superata la verifica dei mezzi). L’occupazione rappresenta in tale scenario il più efficace sistema di protezione, non perché garanzia di accesso a forme di assicurazione sociale su base corporativa (come ad esempio in Italia e in Francia; si veda il cap. 5), bensì in quanto fonte di reddito e dunque garanzia di autonomia nel far fronte ai propri bisogni e garanzia di capacità di acquisto (sul mercato) dei beni e dei servizi di cui si necessita. Ne ricaviamo due implicazioni: anzitutto, la mancata partecipazione al mercato del lavoro si rivela stigmatizzante, mentre 104 Welfare attivo la disoccupazione non viene considerata come un fenomeno strutturale connesso al funzionamento del sistema economico, bensì esito di una scelta di opportunità dei singoli che trovano vantaggiosa la condizione di dipendenza dalle prestazioni assistenziali invece della ricerca di un impiego; in secondo luogo, la risposta in termini di policy non è la solidarietà collettiva, ma il condizionamento delle prestazioni sociali all’attivazione del soggetto e al suo rapido reimpiego (ibidem). Come sottolinea Ciarini (2008a), al quale ci riferiremo in questa ricostruzione dell’esperienza britannica, nonostante l’approccio liberale rimanga costitutivo del modello britannico, è pur vero che l’evoluzione del sistema di welfare ha conosciuto fasi di rottura e cambiamento grazie alle quali l’azione regolativa e redistributiva dello Stato si è andata ampliando a discapito del laissez faire (Ciarini, 2008a). Il riferimento va anzitutto al periodo di Governo laburista della metà del secolo scorso, quando il sistema di protezione sociale conobbe una rimodulazione in direzione dell’estensione dell’intervento dello Stato e della promozione della copertura di base pubblica garantita alla fascia di popolazione che si colloca al di sotto di una soglia standard di reddito. Tale impostazione ha lasciato una traccia importante, anche se i successivi Governi conservatori, soprattutto nel corso degli anni Ottanta, «ha[nno] riportato il baricentro della regolazione del welfare e delle politiche del lavoro in particolare verso un più stringente sistema di condizionalità, finalizzato alla riduzione della spesa sociale e delle forme di indennizzazione passiva (erogate cioè attraverso sussidi), che fin lì si erano sviluppate» (ibidem, p. 133). Una traccia rimasta sotterranea, ma recuperata con il ritorno al Governo del partito laburista a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, quando al rafforzamento di alcuni dispositivi di taglio workfarista si affiancano riforme che rivelano un volto più inclusivo, in specie con riferimento ai soggetti più deboli, secondo una linea che è insieme di continuità e di discontinuità con l’impianto neo-liberale dei precedenti Governi conservatori. Questi ultimi, alle prese con le difficoltà derivanti da alcuni cambiamenti socio-economici di natura strutturale — terziarizzazione, deindustrializzazione, espansione dei servizi a bassa qualificazione, flessibilizzazione e segmentazione crescenti del mercato del lavoro, accentuazione delle disuguaglianze di reddito, ecc. — si trovano infatti in prima linea a dovere da un lato contenere una spesa sociale in crescita, in specie per quanto concerne le politiche passive del Modelli «classici» di welfare attivo 105 lavoro, e dall’altro a sostenere l’ingresso delle fasce più deboli e marginali della popolazione attiva in un mercato del lavoro che offre opportunità di impiego sempre più anche al di fuori dei tradizionali segmenti centrali, più protetti e sicuri, meglio remunerati. Due — seguendo ancora l’autore — le direttrici di riforma seguite. La prima, che si è tradotta nell’istituzione dei dispostivi di in work benefit (nello specifico di natura fiscale, come gli sgravi contributivi e i crediti di imposta), mirava a rendere preferibile il lavorare rispetto alla fruizione passiva dei sussidi per i soggetti collocati in una posizione marginale del mercato del lavoro, in bilico tra l’inoccupazione e un impiego a basso salario e bassa qualificazione. In altri termini essa mirava a invertire il rapporto di convenienza esistente (dal punto di vista finanziario, almeno) tra la condizione di assistito e quella di occupato. La seconda direttrice di riforma ha invece messo mano al sistema di indennità e tutele per i lavoratori disoccupati. Nel 1986, a partire dal programma Restart di riordino delle politiche del lavoro, l’intero impianto delle indennità viene rivisto all’insegna di criteri di eleggibilità più stringenti, con condizioni più selettive e vincolanti per l’accesso alle prestazioni.1 L’obiettivo era duplice: anzitutto ridurre il numero dei claimants e quindi anche contrarre la spesa pubblica; in secondo luogo esercitare una forma di controllo sociale rispetto a un fenomeno (la mancata partecipazione al lavoro) socialmente etichettato e per questo da contrastare con opportuni programmi di attivazione e strumenti di monitoraggio dei disoccupati per evitarne il rifugio opportunistico in una situazione di passività, «vittime consapevoli» della cosiddetta trappola dell’inattività. In linea con la visione più «pura» del workfare, le condizioni poste per la fruizione dei sussidi arrivavano sino a costringere il soggetto in cerca di impiego ad accettare una qualunque offerta di lavoro anche se al di sotto delle precedenti qualifica e retribuzione, secondo l’imperativo del work first, che ha reso famoso il modello. In ciò, facendo scivolare la logica del welfare to work (sostenere i soggetti in carico al welfare nel passaggio verso il lavoro) fino a quella del work for welfare (da cui appunto deriva il termine workfare), che sottende uno «scambio» tra welfare e lavoro, come avviene nei lavori sussidiati (Lodigiani, 2006). Sottovalutando — come è Storicamente il Regno Unito è stato il primo Paese dell’Unione Europea ad avere introdotto, nel 1989, un meccanismo sanzionatorio per il godimento di benefits e indennità e, nel 1991, l’obbligatorietà della partecipazione dei disoccupati ai programmi di politica attiva del lavoro (Di Domenico, 2005). 1 106 Welfare attivo stato bene illustrato (Giaccardi, 2001; Solow, 2001) — che la centralità assegnata in questo modo alla dimensione macroeconomica e dei conti pubblici porta a trascurare del tutto altre dimensioni rilevanti per la lotta alla disoccupazione, che attengono al livello micro e sociale e che riguardano la sfera personale, familiare, esistenziale dei disoccupati stessi. In questo scenario, i governi del New Labor si sono a loro volta mossi in due direzioni. La prima, che potremmo definire di carattere universale, ha riguardato la lotta alla povertà e in specie al fenomeno dei working poors, i quali — nonostante i dispositivi di in work benefits già in essere — rappresentavano una emergenza sociale, se è vero che l’eredità più importante del Tatcherismo è il livello di ineguaglianza dei redditi e i suoi effetti in termini di ridotta coesione sociale, impoverimento e criminalità (Rhodes, 2001). Le strategie messe in campo hanno riguardato diversi ambiti: 1. l’innalzamento dei minimi salariali al fine di contrastare i rischi di un’altra trappola, quella della povertà, in cui si trovano confinati i soggetti indotti ad accettare lavori talmente mal retribuiti da non consentire di raggiungere un livello di reddito superiore alla soglia di povertà; 2. la crescita degli investimenti in capitale umano e formazione professionale per favorire e accompagnare il reinserimento dei soggetti in stato di disoccupazione; 3. la riorganizzazione dei livelli amministrativi di governo delle politiche del lavoro e l’innovazione dei soggetti preposti alla gestione degli strumenti di re-inserimento (come i servizi per l’impiego). Tutti fattori che hanno contribuito ad attenuare la lettura colpevolizzante dello stato di disoccupazione e a sviluppare misure di carattere più promozionale e meno stigmatizzante (Ciarini, 2008a). L’elemento caratterizzante di questo nuovo corso è certamente costituito dal programma New Deal, al quale si può dare atto di aver cercato di conferire un aspetto maggiormente inclusivo alle politiche di workfare come insito, almeno in linea di principio, nel welfare to work. Le condizioni forti dell’attivazione e i suoi correttivi Il New Deal, avviato dall’amministrazione Blair tra il 1997 e il 1998, punta ad agire sui quattro assi di intervento costitutivi del welfare to work: rendere attrattiva l’occupazione più della percezione dei sussidi; restringere la fruizione dei benefits, sanzionando il mancato rispetto delle regole di Modelli «classici» di welfare attivo 107 accesso; migliorare la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata; rendere la transizione dall’assistenza al lavoro socialmente sostenibile e soggettivamente accettabile (Giaccardi, 2001). Ne è derivato un piano di interventi di attivazione e reinserimento variegato e diretto in primo luogo ai soggetti più deboli: disoccupati di lungo periodo, giovani, donne (tra le più attive in Europa, grazie al diffuso ricorso al part-time, ma anche tra le più penalizzate sia sul piano della disparità di trattamento economico rispetto agli uomini, sia sul piano della qualità dell’impiego e delle possibilità di carriera), persone con disabilità, genitori soli (una categoria particolarmente consistente nel Paese). Tuttavia, i quattro assi di intervento appena richiamati non sono stati perseguiti con la stessa intensità, a discapito del secondo e soprattutto del quarto. Gli interventi implementati hanno mirato a distinguere in modo netto tra soggetti ritenuti in grado o meno di integrarsi stabilmente nella società attraverso la partecipazione al mercato del lavoro. Ai primi vengono offerte soprattutto opportunità di formazione professionale orientate a svilupparne l’occupabilità; ai secondi è rivolto un pacchetto integrato di misure di tipo fiscale (crediti di imposta), monetarie (indennità e sussidi) e occupazionale (impieghi sussidiati). La dichiarazione di non abilità al lavoro può dare accesso all’indennità di incapacità (Brookes et al., 2005). In altre parole, il lavoro, anzi la capacità di lavorare è rimasta una precondizione della cittadinanza, al punto da divenire obbligatoria l’accettazione delle proposte di impiego formulate dai servizi competenti, anche se lo stesso New Deal ha introdotto qualche correttivo con riferimento ai soggetti più vulnerabili. Il perno attorno a cui ruota il modello di welfare attivo britannico è rappresentato dai centri per l’impiego, i JobCentre, riformati e trasformati all’inizio del Duemila nei JobCentrePlus, posti sotto le dipendenze del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, e deputati a gestire in modo integrato una serie di dispositivi: collocamento, politiche per l’occupazione, sussidi di disoccupazione e invalidità, sussidi abitativi, contributi previdenziali previsti per le persone in situazione di disoccupazione, contributi per l’assistenza e la cura diretti alle famiglie povere e ai genitori single; ma anche iniziative di formazione professionale, azioni di supporto psicologico e sociale. A qualificarne l’azione è proprio il raccordo che in tali servizi si realizza tra politiche del lavoro e politiche sociali, benché le seconde siano subordinate 108 Welfare attivo alle prime nella misura in cui l’obiettivo resta in tutti i casi il reinserimento lavorativo e la conciliazione vita-lavoro2 (Ciarini, 2008a). Nello specifico, i programmi di reinserimento gestiti dai JobCentrePlus (i New Deal Programme e Pathway to Work Programme) prevedono una diversa combinazione delle misure che, come abbiamo visto, fanno parte del pacchetto delle activation policies e sono diretti a specifici target di utenti. Nel dettaglio riguardano per esempio: giovani di età compresa tra i 18 e 24 anni (New Deal for Young People); disoccupati di lungo periodo con tra i 25 e i 49 anni (New Deal 25 Plus); disoccupati over50 (New Deal 50 Plus); partner di soggetti beneficiari di sussidi (New Deal for Partner); soggetti portatori di disabilità (New Deal for Disabled People); genitori soli con figli a carico (New Deal for Lone Parents); musicisti disoccupati (New Deal for Musicians); tossicodipendenti, homeless, ex carcerati (Progress to work); soggetti che chiedono o che già godono dell’indennità di incapacità al lavoro (Pathway to Work).3 A fondamento di questi programmi si ritrova il «patto di servizio», che lega in un rapporto contrattuale il beneficiario e il centro per l’impiego, vincolando i due contraenti a obblighi reciproci: il primo deve ricercare attivamente una occupazione e accettare le proposte che gli vengono formulate (siano di formazione o di impiego), pena l’incorrere in sanzioni che comprendono la decurtazione (tra il 20 e il 40% dell’ammontare complessivo) o perfino la revoca dell’irrogazione dei sussidi; i secondi devono garantire le prestazioni secondo i tempi e le modalità previste dalla normativa. L’orizzonte temporale che definisce per quanto il soggetto possa rimanere inattivo o in carico al welfare ed entro quanto debba ricevere (e accettare) una proposta Di rilievo sono al riguardo alcuni dispositivi: il Working Family Tax Credit, imposta negativa per fasce di reddito per chi ha un salario basso, sia genitore o abbia più di 25 anni, e lavori a tempo pieno; l’integrazione del reddito prevista dalla Child Tax Credit per i genitori che lavorano, sotto retribuiti o sotto impiegati, o del tutto disoccupati; l’estensione dei benefici previsti per la maternità anche agli uomini e i nuovi housing benefit che destinano aiuti per la copertura (in taluni casi sino al 100%) delle spese abitative dei disoccupati che vivono in affitto, e si inseriscono nei programmi di reinserimento attivo; l’istituzione di un dispositivo dedicato per i partner dei beneficiari dei sussidi (New Deal for Partner): la loro presa in carico non rientra più nelle misure previste per il fruitore della Jobseeker’s Allowance, ma avviene in modo diretto con misure di re-inserimento che riguardano soprattutto la consulenza nella ricerca del lavoro, il sostegno al pagamento dei servizi all’infanzia, e la formazione (Department of Work and Pensions, 2006). 3 Per i dettagli si possono consultare due siti in particolare: www.newdeal.gov.uk/home_job.asp; www. jobcentreplus.gov.uk/pdfs/JPS1.pdf. 2 Modelli «classici» di welfare attivo 109 di formazione/impiego dipende dal target di riferimento (Brookes et al., 2005). Le condizioni più stringenti sono definite per i giovani tra i 18 e i 25 anni d’età e per i disoccupati di lungo periodo tra i 25 e i 49 anni, per i quali il programma di attivazione è obbligatorio ed entra in funzione al massimo entro sei mesi per i più giovani ed entro 18 mesi per gli adulti, calcolati dal momento dell’acquisizione dello status di disoccupazione. Nel corso dei primi quattro mesi (periodo Gateway) si prevede l’erogazione di iniziative brevi di formazione e azioni di consulenza e supporto nella ricerca attiva dell’impiego. Al termine di questa prima fase, le opzioni tra le quali il soggetto è chiamato a scegliere sono quattro: un lavoro sussidiato; un’iniziativa di formazione a tempo pieno; un’attività di volontariato, con una integrazione reddituale pari all’ammontare del sussidio; un’attività di pubblica utilità nel settore della tutela ambientale. Se il programma di attivazione non ha esito positivo o il risultato è solo temporaneo si procede a una nuova fase di consulenza e assistenza nella ricerca del lavoro: come ricorda Freud (2007), la quinta opzione (rimanere in stato di passiva dipendenza dal welfare) non è contemplata! Per le altre categorie di destinatari la partecipazione ai programmi è volontaria e le clausole meno serrate. Per tutti i beneficiari, comunque, l’eventuale revoca del sussidio è temporanea, reversibile e riprende in modo automatico trascorso un certo periodo di tempo (in genere tre mesi). È quest’ultima una norma introdotta a inizio decennio dopo una prima valutazione del New Deal e dà conto della capacità del Governo di confrontarsi in modo serio con le questioni più critiche. La definizione di criteri severi per la revoca di benefici e servizi in caso di inadempienza è peraltro molto contrastata, e c’è chi ha rilevato quanto essa possa produrre effetti perversi, come l’innalzamento del numero dei soggetti che fanno richiesta delle indennità di incapacità (Brookes et al., 2005). Del resto, pur a fronte di una valutazione a una prima lettura complessivamente positiva, rispetto ai risultati attesi sul fronte occupazionale e dei soggetti dipendenti dal welfare (misurabile nella drastica riduzione del numero dei percettori di indennità), emerge una diversa efficacia dei programmi in base ai target di riferimento e alla tipologia di condizionalità che prevedono. Per esempio, i giovani tra i 18 e i 25 anni e i disoccupati di lungo periodo tra i 25 e i 49 anni, e altre categorie più deboli come i genitori soli o i percettori dell’incapacity 110 Welfare attivo benefit mostrano tempi di dipendenza più lunghi (Freud, 2007). Al di là di questa notazione, non meno importante è sottolineare come, in molti casi, il passaggio dal welfare al lavoro è temporaneo, e dunque, pur orientati a rompere la dipendenza del disoccupato dal sistema di protezione pubblico, questi stessi programmi innescano una spirale di dipendenza nella quale il soggetto sperimenta la reversibilità nel tempo di tale passaggio, avendo difficoltà a trovare tramite i percorsi di attivazione una collocazione occupazionale stabile e sufficientemente remunerata. Su questo pesa certamente la bassa dotazione di competenze e qualificazione che per lo più i soggetti attivati (che appartengono in maggioranza a categorie svantaggiate e deboli) portano in dote, ma incidono anche le difficoltà delle imprese a investire in essi, appiattendo spesso le proprie aspettative solo sulle opportunità di risparmio sul costo del lavoro che deviano dalla loro assunzione (ibidem). L’individualizzazione, anzi, la personalizzazione è l’anima dell’azione dei JobCentrePlus, che si concretizza nell’assegnazione a ciascun utente in cerca di impiego di un Personal Advisor. Quest’ultimo segue passo passo (attraverso colloqui con cadenza al massimo quindicinale) il percorso di reinserimento, offrendo azioni di tipo consulenziale ma anche, di fatto, esercitando una funzione di controllo e valutazione a partire dal patto di servizio stipulato. Inoltre, in virtù della possibilità che gli viene conferita di gestire in modo autonomo politiche diverse, egli di fatto possiede margini di potere e discrezionalità. Margini che certo rendono flessibile il suo operato e gli consentono di ritagliare su misura percorsi adatti alle necessità individuali (Brookes et al., 2005), ma che rendono nel contempo asimmetrico il rapporto con l’utente. Il Personal Advisor resta così vincolato al raggiungimento di obiettivi quantitativi (misurabili nel numero di soggetti ricollocati in un dato arco di tempo) che o inducono a interferire sulle preferenze del beneficiario senza tenere conto delle sue effettive esigenze, oppure portano a selezionare tra i potenziali beneficiari quelli più occupabili (Bonvin e Farvaque, 2005). Non per caso, diverse indagini di valutazione hanno evidenziato come i partecipanti ai programmi ne denuncino i risvolti coercitivi e paternalistici (Cantalupi, 2003; Fergusson, 2004). Come nota Ciarini (2008a), il tratto comune ai diversi programmi di attivazione (in continuità quindi con la tradizionale impostazione workfarista) è il generale orientamento all’offerta di queste politiche, con l’enfasi data ai dispositivi di potenziamento dell’occupabilità e di accesso Modelli «classici» di welfare attivo 111 immediato al lavoro. In tale scenario, la presenza del volontariato nel pacchetto dei percorsi di reinserimento è di particolare interesse. Tale opportunità infatti estende l’idea di lavoro al di fuori dai confini dell’impiego salariato per il mercato, per ricomprendere attività che comunque possono contribuire a formare delle skills utili nel percorso di rientro nel mercato. Nel modello di welfare to work che emerge negli ultimi anni, dunque, il «rapporto tra utente e amministrazione non appare più solo sanzionatorio o stigmatizzante (così come emergeva nell’indirizzo di riforma dei governi conservatori), ma anche calibrato sull’ampliamento dei canali di accesso alla attività lavorativa e delle opportunità di sviluppare occupabilità» (Ciarini, 2008a, p. 144). L’approccio funzionalistico alla formazione Nell’ottica dell’occupabilità e dell’occupazione si declinano anche le politiche formative e di sviluppo del capitale umano inscritte nei programmi di attivazione. Questa finalizzazione è resa evidente dalla ripartizione dell’investimento pubblico in politiche per il mercato del lavoro, di cui tre quarti confluiscono nella formazione per l’occupabilità erogata da enti e agenzie formative, contro il 12,1% dedicato agli incentivi per l’impiego, il 7,8% alle misure di integrazione per i soggetti portatori di disabilità e il 4,3% alla creazione di nuovi posti di lavoro (dati Eurostat riferiti al 2005; Riva, 2008). L’elevata percentuale di spesa in formazione sul totale di quella in politiche attive nasconde peraltro il basso investimento effettivo, fermo allo 0,08% del Pil, sempre nel 2005, contro una media europea dello 0,21%. Per questa via vengono finanziate iniziative di aggiornamento e riqualificazione con finalità strettamente occupazionali, decisamente funzionali all’impiego. Esse risultano improntate sul breve periodo, in vista di un rapido reinserimento lavorativo. Alla formazione è affidato il compito di migliorare la corrispondenza tra le competenze domandate e offerte sul mercato del lavoro, laddove da più parti si denunciano le conseguenze negative dello skills shortage e dello skills mismatch sia per le imprese, che non trovano risposta ai propri fabbisogni né in termini quantitativi né soprattutto sotto il profilo qualitativo (fenomeno evidente se si considera l’elevata incidenza di soggetti a bassa qualificazione tra gli occupati), sia per i lavoratori, che soffrono difficoltà