www.supsi.ch/fisco Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana Dipartimento scienze aziendali e sociali Centro competenze tributarie Novità fiscali L’attualità del diritto tributario svizzero e internazionale N° 9 – Settembre 2013 Diritto tributario svizzero La prescrizione dei reati fiscali Procedura di consultazione concernente la Legge federale sull’esenzione di persone giuridiche con scopi ideali 3 7 Diritto tributario italiano Indeducibilità di costi tra difetto di inerenza ed abuso del diritto Voluntary disclosure: scenari attuali e prospettive future Diritto tributario internazionale e dell’UE Stabile organizzazione e stabilimento d'impresa 11 18 23 Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano Considerazioni in tema di rilevanza penale dell’abuso di diritto: la sentenza “Dolce & Gabbana” Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario 30 35 Introduzione Novità fiscali 09/2013 Redazione SUPSI Centro di competenze tributarie Palazzo E 6928 Manno T +41 58 666 61 75 F +41 58 666 61 76 [email protected] www.supsi.ch/fisco ISSN 2235-4565 (Print) ISSN 2235-4573 (Online) Redattore responsabile Samuele Vorpe Comitato redazionale Elisa Antonini Paolo Arginelli Rocco Filippini Roberto Franzè Giordano Macchi Giovanni Molo Andrea Pedroli Sabina Rigozzi Curzio Toffoli Samuele Vorpe Impaginazione e layout Laboratorio cultura visiva In questo numero di Novità fiscali sono trattati sei temi “caldi”. Nel primo articolo, Daniele Fumagalli affronta il tema della prescrizione dell’azione penale in relazione ai reati fiscali ai sensi del diritto penale svizzero, commentando in chiave critica le proposte di riforma contenute nel Messaggio n. 12.036 del Consiglio federale del 2 marzo 2012. A seguire, Simona Genini esamina il recente avamprogetto di Legge federale sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con scopi ideali e ne valuta gli aspetti salienti anche in prospettiva di raffronto con la legge tributaria ticinese in vigore sino al 1995. Nel terzo articolo, Andrea Prampolini trae spunto dalla sentenza n. 4901/2013 della Corte di Cassazione italiana per tracciare i confini tra l’indeducibilità di costi, derivanti da operazioni intercorse con società correlate, per difetto del requisito di inerenza e per violazione del divieto di abuso del diritto. Nel quarto articolo, Pierpaolo Angelucci affronta le possibili ripercussioni dell’autodenuncia in Italia, da parte di contribuenti residenti, dei patrimoni esteri non dichiarati, alla luce della disciplina vigente e dei possibili futuri scenari legislativi. Marco Calcagno analizza poi i requisiti che integrano l’esistenza di una stabile organizzazione ai sensi del’articolo 5 del Modello OCSE di Convenzione fiscale e si sofferma sulla comparazione tra il concetto di stabile organizzazione e quello di stabilimento di impresa, impiegato nella Legge federale sull’imposta federale diretta. Per finire, Angela Monti ripercorre i punti salienti della sentenza n. 77397/2012 della sezione penale della Corte di Cassazione italiana (Dolce & Gabbana), individuando i riflessi che da tale pronuncia potrebbero scaturire in termini di rilevanza penale di fattispecie abusive e di interposizione fittizia. Paolo Arginelli Diritto tributario svizzero La prescrizione dei reati fiscali Daniele Fumagalli Avvocato Manager Legal Services PricewaterhouseCoopers, Lugano Le implicazioni della revisione delle norme sulla prescrizione del Codice penale svizzero in relazione alla prescrizione dei reati fiscali 1. Concetto di prescrizione La sicurezza giuridica del cittadino da una parte e il diritto di perseguire le infrazioni da parte dello Stato dall’altra sono due facce importanti della medesima medaglia. Il concetto chiave che le delimita temporalmente è la prescrizione dell’azione penale, ovvero il momento dopo il quale lo Stato non ha più il diritto di perseguire l’autore di un reato. Attualmente i termini di prescrizione di riferimento in ambito fiscale non sono più quelli indicati dalle leggi fiscali federali e cantonali bensì quelli del Codice penale svizzero (di seguito CP). Conoscere i termini di prescrizione e le loro conseguenze pratiche è importante per le autorità, per i cittadini e, soprattutto, per i professionisti che li consigliano e che si assumono, in tale delicato ambito, delle grosse responsabilità professionali. La prescrizione dell’azione penale è un’istituzione giuridica il cui effetto è di porre fine al diritto dello Stato di punire un’infrazione penale una volta trascorso un certo tempo. Il concetto di prescrizione dell’azione penale, già noto nel diritto romano, è stato ripreso nel Codice penale francese del 1791 e seguito dalle codificazioni del XIX° secolo. La prescrizione mira alla protezione della sicurezza del diritto, poiché, senza norme che tendano a fissare definitivamente uno stato di fatto, non vi sarebbero né certezze né la sicurezza del diritto. La prescrizione dell’azione penale tende a garantire il diritto dell’autore di un’infrazione ad ottenere un giudizio entro un termine ragionevole, mentre la prescrizione della pena mira a che l’effetto preventivo ed educativo della pena sia sempre presente al momento della sua esecuzione e ad impedire quindi l’esecuzione di una sanzione trascorso un certo periodo. Il presente articolo si sofferma sulla prescrizione dell’azione penale. Oltre a questioni di tipo teorico, vi sono ragioni pratiche che sostengono l’istituto della prescrizione, come per esempio il fatto che la personalità del delinquente o contravventore cambi nel tempo o comunque ch’egli sia già sufficientemente punito dai rimorsi o dalla paura di essere scoperto e punito. Il tempo lenisce inoltre il bisogno della collettività di procedere ad una punizione. Non da ultimo vi è la delicata questione relativa alla conservazione dei documenti e quindi delle prove. Se la prescrizione non esistesse e si dovesse giudicare un’infrazione commessa decenni or sono, sarebbe difatti difficile apportarne la prova per l’accusa ma pure per l’imputato per quanto attiene alle prove liberatorie. Questo sarebbe particolarmente delicato nelle situazioni in cui i primi indizi disponibili militassero per la colpevolezza dell’imputato mentre le prove liberatorie che dovrebbe presentare l’imputato, forse addirittura scomparse, dimostrerebbero il contrario. Il compito dell’imputato di inficiare le prove a suo carico e portarne di liberatorie si verrebbe fortemente complicato una volta decorso un lasso di tempo considerevole. Il meccanismo per l’accertamento della verità risulterebbe viziato e claudicante, conducendo ad un errato giudizio. In questo senso, si può anche affermare che una procedura equa (ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) è difficilmente attuabile dopo un lungo periodo. Altri imperativi di tipo pratico che tendono al mantenimento della prescrizione sono lo scarico per la società permettendo per esempio di distruggere periodicamente la vecchia documentazione archiviata una volta trascorso il termine di prescrizione. Se la prescrizione dovesse essere abolita, teoricamente si rischierebbe di dover essere sempre tenuti a presentare prove relative ai propri diritti. Le società, le persone fisiche e le autorità non potrebbero più distruggere i loro archivi poiché i documenti dovrebbero essere conservati per sempre. La prescrizione costituisce così una sorta di garanzia a favore dell’imputato consistente nel non poter più essere indagato e processato dopo il trascorrere di un certo periodo di tempo. Questa garanzia non implica che le obbligazioni o le infrazioni non siano mai esistite, significa unicamente che non hanno più effetti. 3 4 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Le questioni legate alla nozione di prescrizione richiedono una difficile ponderazione degli interessi dell’autore del reato (come per esempio la sicurezza del diritto) e dello Stato (ad esempio il diritto e l'obbligo di punire). 2. Diritto vigente nella LIFD e nella LAID prima della revisione del CP del 1. ottobre 2002 Prima che l’articolo 333 capoverso 5 del vecchio CP entrasse in vigore il 1. ottobre 2002, nella Legge federale sull’imposta federale diretta (di seguito LIFD) e nella Legge federale sull’armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di seguito LAID), l’azione penale per violazioni di obblighi procedurali si prescriveva in due anni e quella per tentativo di sottrazione d’imposta in quattro anni dopo la chiusura definitiva della procedura nel corso della quale erano stati violati gli obblighi procedurali oppure era stato commesso il tentativo di sottrazione. Nel caso delle contravvenzioni di sottrazione consumata d’imposta, l’azione penale si prescriveva in dieci anni dalla fine del periodo fiscale per il quale il contribuente non era stato tassato o era stato tassato insufficientemente oppure per il quale la ritenuta d’imposta alla fonte non era stata effettuata conformemente alla legge, ovvero in dieci anni a contare dalla fine dell’anno civile nel corso del quale erano stati ottenuti una restituzione indebita d’imposta o un condono ingiustificato d’imposta, oppure erano stati dissimulati o distratti beni nella procedura d’inventario. L’azione penale per delitti fiscali si prescriveva in dieci anni dall’ultima attività delittuosa. Poiché la normativa sulla prescrizione dell’azione penale nella LIFD e nella LAID prima del 1. ottobre 2002 riconosceva motivi d’interruzione, questi termini relativi di prescrizione dell’azione penale potevano essere prolungati della metà della durata per le contravvenzioni e di cinque anni al massimo per i delitti. stati pure abbreviati i termini di prescrizione dell’azione penale anche nel diritto penale accessorio. Quest’abrogazione dei concetti di sospensione e interruzione dei termini ha causato di fatto una riduzione dei termini di prescrizione, con la conseguenza che le autorità avevano meno tempo a disposizione per perseguire un delitto. Poiché l’adeguamento di questi termini in tutte le disposizioni del diritto accessorio sarebbe andato oltre l’ambito della revisione della parte generale del CP, l’Assemblea federale ha posto in vigore al 1. ottobre 2002 l’articolo 333 capoverso 5 lettere da a fino a d CP (articolo 333 capoverso 6 lettere da a fino a d CP dal 1. gennaio 2007) che fino all’entrata in vigore di singoli adeguamenti prolungava sistematicamente i termini di prescrizione dell’azione penale nel diritto accessorio, quindi anche nella LIFD e nella LAID. In materia fiscale questo capoverso ha quindi avuto un impatto che è sfuggito al legislatore federale e che si è dovuto necessariamente correggere. È dunque stato introdotto il nuovo articolo 333 capoverso 5 CP quale norma transitoria. Detta regola dispone che, fino all’adozione di altre leggi federali: ◆ i termini di prescrizione dell’azione penale sono aumentati della metà della durata ordinaria per i crimini e i delitti e raddoppiata la durata ordinaria per le contravvenzioni; ◆ i termini di prescrizione dell’azione penale per le contravvenzioni che superano un anno sono aumentati della loro durata ordinaria; ◆ le regole sull’interruzione e la sospensione della prescrizione dell’azione penale sono abrogate; ◆ la prescrizione dell’azione penale non decorre più se, prima della sua scadenza, un giudizio di prima istanza è stato reso. Il nuovo capoverso 5 dell’articolo 333 CP, entrato in vigore il 1. ottobre 2002, ha introdotto una chiave di conversione dei termini di prescrizione. Detta chiave di conversione è valida fino all’adozione di ogni legge in questione, dopodiché faranno stato le nuove disposizioni relative alla prescrizione adottate da ogni relativa specifica legge. Per le contravvenzioni nella LIFD e nella LAID ciò significa che (articolo 333 capoverso 6 lettera b CP): 3. La revisione del CP Il 1. ottobre 2002 è entrata in vigore la revisione del CP. Lo scopo della modifica legislativa era quello di semplificare e rendere più chiare le norme sulla prescrizione dell’azione penale. Una delle principali modifiche è stata l’abolizione della sospensione e dell’interruzione della prescrizione. La disposizione determinante dell’articolo 72 del vecchio CP è difatti stata abrogata. Con l’abrogazione dell’articolo 72 del vecchio CP sono ◆ per la violazione di obblighi procedurali vi è stato un aumento della durata ordinaria da due a quattro anni; ◆ per il tentativo di sottrazione d’imposta un aumento da quattro ad otto anni; ◆ per la sottrazione d’imposta consumata e per la dissimulazione o la distrazione di beni nella procedura d’inventario un aumento da dieci a vent’anni. L’articolo 333 capoverso 6 lettera a CP stabilisce invece che il termine di prescrizione dell’azione penale per i delitti è aumentato della metà della durata ordinaria e passa da dieci a quindici anni. Questa norma implica quindi un termine della prescrizione dell’azione penale per le contravvenzioni ancora più lungo Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 (passando da dieci ad addirittura vent’anni) rispetto a quello di quindici anni previsto per i delitti. Da quanto precede, appare evidente che il passaggio del termine riguardante la contravvenzione d’imposta consumata da dieci a vent’anni è manifestamente eccessivo. Manca dunque la proporzionalità tra la gravità dell’infrazione e il periodo durante il quale è possibile perseguirne l’autore. Il termine di vent’anni, durante il quale è possibile promuovere procedimenti penali in caso di contravvenzioni, appare sproporzionato anche se confrontato con il termine per il ricupero d’imposta e quello legato all’obbligo di conservazione della documentazione, che si limitano a soli dieci anni. In pratica è data la possibilità di perseguire l’autore di una contravvenzione fiscale anche una volta venuta meno la possibilità di procedere al ricupero dell’imposta sottratta e scaduto l’obbligo decennale di conservazione della documentazione che deve fungere da difesa e prova liberatoria per il contribuente. Da un lato è scioccante che ad una contravvenzione sia assegnato un termine di prescrizione di vent’anni quando ai delitti ne sono assegnati solamente quindici. Mancano la proporzionalità e la connessione tra la gravità dell’infrazione e il periodo durante il quale è possibile perseguirne l’autore. L’autorità fiscale dovrebbe in questo caso resistere alla tentazione di aumentare la pena pecuniaria per incassare malgrado tutto l’imposta sottratta. Va inoltre tenuto conto che dovrebbe invece valere il ragionamento contrario, secondo il quale un lungo lasso di tempo trascorso è un fattore di attenuazione della pena (articolo 64 CP). Un termine di prescrizione di quindici anni appare dunque più appropriato, poiché corrisponderebbe al vecchio termine di prescrizione assoluto di una sottrazione d’imposta e al termine per procedere ad un ricupero d’imposta. In realtà, siccome il ricupero d’imposta deve essere inoltrato nei dieci anni successivi alla fine del periodo fiscale in cui la sottrazione ha avuto luogo, il termine di prescrizione di una sottrazione d’imposta dovrebbe addirittura essere mantenuto a dieci anni. D’interesse attuale e concreto vi è la proposta di ulteriore revisione della legge e dei termini di prescrizione, contenuta nel Messaggio n. 12.036 del Consiglio federale del 2 marzo 2012 concernente la Legge federale su un adeguamento della LIFD e della LAID alle disposizioni generali del CP. Ciò dovrebbe porre rimedio alla trappola involontariamente posta mediante le scorse revisioni legislative. D’altro lato emerge l’inadeguatezza della modifica del termine da dieci a vent’anni se si effettua una comparazione con la durata decennale durante la quale il Codice delle obbligazioni (articolo 962 del Codice delle obbligazioni [di seguito CO]) impone di conservare i documenti. Anche a confronto con il termine decennale della procedura di ricupero d’imposta (che accompagna sempre quella di sottrazione d’imposta), il termine di prescrizione di vent’anni appare spropositato. Il diritto di avviare una procedura di ricupero d’imposta si prescrive dopo il trascorrere di dieci anni a partire dalla fine del periodo fiscale per il quale la tassazione non è stata effettuata o era incompleta. Il diritto di procedere al ricupero d’imposta si estende a quindici anni dopo la fine del periodo fiscale al quale si riferisce. Questi termini di dieci e quindici anni per il ricupero d’imposta, seguivano e rispecchiavano i termini di prescrizione relativa e assoluta dell’azione penale in vigore prima dell’entrata in vigore dell’articolo 333 capoverso 5 CP. Il legislatore ha manifestamente omesso di tenere conto del fatto che il termine di prescrizione delle contravvenzioni che rappresentano una sottrazione d’imposta era già eccezionalmente lungo in quanto era stato allineato al termine della procedura del ricupero d’imposta alla quale la sottrazione è legata. Non vi è dunque alcun rischio che l’amministrazione fiscale difetti di tempo per giudicare dei casi di sottrazione. È invece assurdo chiedere implicitamente al contribuente di conservare dei documenti contabili, al fine di potersi difendere, per la durata di vent’anni, quando il già citato obbligo di conservazione dettato dal CO è di soli dieci anni. È soprattutto assurdo poter perseguire una sottrazione d’imposta dopo quindici anni senza potere ricuperare l’imposta sottratta. 4. Proposte del Messaggio del Consiglio federale del 2 marzo 2012 Mediante il Messaggio citato, il Consiglio federale si è prefisso l’aggiornamento e singoli adeguamenti della normativa sulla prescrizione nella LIFD e nella LAID. È in particolare prevista la riduzione da vent’anni a quindici anni del termine di prescrizione dell’azione penale in caso di contravvenzioni di sottrazione d’imposta consumata e di dissimulazione o distrazione di valori successori nella procedura d’inventario. Detto disegno intende aggiornare nella LIFD e LAID i termini di prescrizione e le sanzioni dei delitti ai sensi della parte generale del CP. Nel quadro dell’indagine conoscitiva che ha preceduto l’emanazione del Messaggio del 2 marzo 2012, numerosi partecipanti hanno espresso l’opinione che il rapporto tra la procedura di ricupero d’imposta e la procedura penale in materia fiscale debba essere sottoposto ad una più approfondita verifica. 5 6 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Tabella 1: Modifiche della durata della prescrizione prima e dopo il 2002 e proposta contenuta nel disegno di legge (Fonte: Foglio federale 2012 2521, pagina 2534) Infrazioni (fattispecie/tipo di reato) Disposizioni sulla prescrizione fino al 30.09.2002 Prescrizione dall’01.10.2002 Disegno di legge Prescrizione relativa Prescrizione assoluta articolo 333 capoverso 6 CP Violazione di obblighi procedurali (articoli 174 LIFD e 55 LAID) contravvenzione 2 anni 3 anni 4 anni 3 anni Sottrazione d’imposta consumata (articoli 175 LIFD e 56 capoverso 1 LAID) contravvenzione 10 anni 15 anni 20 anni 15 anni Tentativo di sottrazione d’imposta (articoli 176 LIFD e 56 capoverso 2 LAID) contravvenzione tentata 4 anni 6 anni 8 anni 6 anni Dissimulazione o distrazione di valori successori nella procedura d’inventario (articoli 178 LIFD e 56 capoverso 4 LAID) contravvenzione 10 anni 15 anni 20 anni 15 anni Frode fiscale (articoli 186 LIFD e 59 LAID) delitto 10 anni 15 anni 15 anni 15 anni Appropriazione indebita d’imposte alla fonte (articoli 187 LIFD e 59 LAID) delitto 10 anni 15 anni 15 anni 15 anni Riscossione e prescrizione delle multe e delle spese (articolo 185 LIFD) 5 anni 10 anni 5 anni (senza validi motivi per la sospensione dei termini); 7.5 o 10 anni (con validi motivi per la sospensione dei termini) 5 anni (termine relativo); 10 anni (termine assoluto) Tale proposta è stata motivata adducendo che, nonostante la prevista riduzione da venti a quindici anni del termine di prescrizione dell’azione penale in caso di sottrazione d’imposta consumata, riguardo a periodi fiscali risalenti a più di dieci anni prima, anche in futuro potrà essere avviata solo una procedura penale in materia fiscale, non però una procedura di ricupero d’imposta (cfr. articoli 152 LIFD e 53 capoverso 2 LAID). Per fare chiarezza riguardo a tale situazione, alcuni partecipanti all’indagine conoscitiva hanno pertanto proposto, riguardo al ricupero d’imposta, di rinunciare alla distinzione tra prescrizione relativa e assoluta e di fissare la durata della prescrizione in quindici anni. Nel Messaggio, il Consiglio federale ha tuttavia rifiutato tale proposta. L’obiettivo della revisione consiste nel proporre, nell’ottica del principio della certezza del diritto, formulazioni inequivocabili e chiare nella LIFD e nella LAID. Per maggiori informazioni: Allidi Claudio/Casella Franco, Le contravvenzioni e i delitti fiscali nel diritto federale svizzero e nel diritto cantonale ticinese, in: Bernasconi Marco/Pedroli Andrea (a cura di), Lezioni di diritto fiscale svizzero, Bellinzona/Agno 1999, pagina 349 e seguenti Consiglio federale, Messaggio n. 12.036 del 2 marzo 2012 concernente la legge federale su un adeguamento della LIFD e della LAID alle disposizioni generali del CP, in: Foglio federale 2012 2521, http://www.admin.ch/opc/it/ federal-gazette/2012/2521.pdf [25.09.2013] Langlo Jan, Prescription des infractions fiscales: le piège de l’article 333 alinéa 6 CP, in: ASA 75, 2006/2007, pagina 433 e seguenti Martin Killias, Précis de droit pénal général, II° edizione, Berna 2001 Roth Robert/Moreillon Laurent, Commentaire romand, Code pénal I, Basilea 2009 Elenco delle fonti fotografiche: http://2.bp.blogspot.com/-w4RPr_ifEwI/UcF788_ JxVI/AAAAAAAAJIY/ km6PwCZGMRk/s320/prescrizione+tasse+tempo.jpg [25.09.2013] http://www.sicurauto.it/upload/dynamic_/1109/img/38-ricorso-giudice.jpg [25.09.2013] Diritto tributario svizzero Procedura di consultazione concernente la Legge federale sull’esenzione di persone giuridiche con scopi ideali Simona Genini Avvocato Responsabile dell’Ufficio giuridico della Divisione delle contribuzioni La scelta del Consiglio federale è quella corretta? 1. Introduzione L’avamprogetto di Legge federale sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con scopi ideali, posto in consultazione il 10 aprile 2013[1], era volto ad attuare la mozione del 20 marzo 2009 del Consigliere agli Stati, on. Alex Kuprecht[2]. Nell’atto parlamentare si invitava il Consiglio federale ad esaminare la possibilità che: ◆ nella LIFD ed eventualmente anche nella LAID le associazioni vengano esentate dall’imposta completamente o fino a un certo importo; ◆ a patto che i loro redditi e la loro sostanza siano destinati a scopi ideali, in particolare alla promozione della gioventù e delle nuove generazioni. Il Consiglio federale, nel suo parere del 13 maggio 2009, aveva proposto di respingere la mozione, malgrado ciò il 27 maggio 2009 il Consiglio degli Stati ha accolto la stessa, così come il Consiglio nazionale nella seduta del 15 marzo 2010. Proprio nella sessione estiva 2009 del Consiglio degli Stati il mozionante ha esplicato il suo atto evidenziando che non si tratta di esentare qualsiasi associazione con interessi economici, bensì quelle con scopi ideali. Egli riteneva che fosse il legislatore a dover decidere se potessero essere esentate completamente (eventualità da accogliere favorevolmente) oppure dovessero essere fissati dei limiti[3]. 2. La proposta del Consiglio federale Il Consiglio federale dopo aver esaminato alcune prassi cantonali in materia di imposizione delle associazioni ha focalizzato quattro possibili soluzioni al fine di adempiere alla mozione, segnatamente[4]: 1) la prima soluzione consisterebbe nell’aumentare l’attuale limite di esenzione dall’imposta sull’utile delle associazioni, fondazioni e altre persone giuridiche, previsto all’articolo 71 capoverso 2 LIFD. A livello di LAID, non sono previste modifiche, poiché i Cantoni non sottostanno all’armoniz- zazione in questo ambito (articolo 129 capoverso 2 della Costituzione federale); 2) la seconda soluzione potrebbe consistere nell’estendere l’elenco delle esenzioni dall’assoggettamento soggettivo delle persone giuridiche con scopi ideali previsto agli articoli 56 LIFD e 23 LAID. In questo caso l’esenzione dall’imposta sarebbe completa; 3) la terza soluzione sarebbe basata sull’oggetto fiscale. Per le persone giuridiche con scopi ideali deve essere fissato un importo esente da imposta di 20’000 franchi. Ciò significa che gli utili sono deducibili se non superano i 20’000 franchi (nuovo articolo 66a dell’avamprogetto LIFD [di seguito APLIFD]). Nella LAID (nuovo articolo 26a dell’avamprogetto LAID [di seguito AP-LAID]) l’ammontare dell’importo esente sarebbe determinato dal diritto cantonale; 4)anche la quarta soluzione sarebbe basata sull’oggetto fiscale. In questo caso per le persone giuridiche con scopi ideali dovrebbe essere fissato un limite di esenzione dall’imposta di 20’000 franchi. Solo chi consegue utili inferiori a questo limite rimane esonerato dall’imposta (nuovo articolo 66a AP-LIFD). Nella LAID (nuovo articolo 26a APLAID) l’ammontare del limite di esenzione dall’imposta sarebbe determinato dal diritto cantonale. Dopo aver analizzato nel dettaglio le possibili attuazioni, il Consiglio federale, è giunto alla conclusione che la soluzione ideale sia la quarta, vale a dire con la definizione di un limite di esenzione dall’imposta per le persone giuridiche con scopi ideali. 3. Le reazioni alla procedura di consultazione Il fatto di voler esentare le associazioni con scopi ideali ha raccolto ampi consensi, ma il progetto del Consiglio federale, in quanto tale, è stato criticato[5]. A tal proposito è d’uopo rilevare che la Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali delle finanze (di seguito CDCF), nella sua presa di posizione, ha evidenziato che lo stesso andrebbe riesaminato e rielaborato alla luce delle osservazioni dei singoli Cantoni, sottolineando che andrebbe preferita la prima soluzione, ossia l’aumento dell’attuale limite di esenzione nella LIFD[6]. La CDCF è probabilmente giunta a questa conclusione, come d’altronde altri 7 8 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Cantoni, ritenendo che con questa variante la sistematica attuale della legge sarebbe rimasta invariata e non sarebbe stata di conseguenza creata un’ulteriore complessità nel sistema fiscale. Una tale soluzione è giustificabile anche per il fatto che la maggior parte dei Cantoni (ma non il Canton Ticino come si evidenzierà in seguito) per le imposte cantonali e comunali già attualmente prevede un limite maggiore d’esenzione a livello tariffario rispetto a quelli che sono tutt’ora in vigore nell’ambito dell’imposta federale diretta. A tal proposito è opportuno rilevare che non va trascurato il fatto che tale soluzione presenta lo “svantaggio” che non solo associazioni e fondazioni con scopi ideali ne beneficerebbero, bensì anche quelle con scopi economici/imprenditoriali. 4. La peculiarità del Canton Ticino Nel passato il Canton Ticino già conosceva un’esenzione per associazioni che perseguivano scopi ideali, ma i cambiamenti dettati dalla necessità di adeguare il diritto cantonale alla LAID ed alla LIFD hanno sottratto dal beneficio dell'esenzione dalle imposte ordinarie quegli enti con scopi ideali, attribuendo tale vantaggio unicamente alle persone giuridiche di pubblica utilità o che perseguono scopi pubblici[7]. Segnatamente prima della revisione totale della Legge tributaria, entrata in vigore il 1. gennaio 1995, nel Canton Ticino le società cooperative, le associazioni e le fondazioni che perseguivano degli scopi ideali nel Cantone erano posti al beneficio dell’esonero fiscale dalle imposte ordinarie (articolo 15 capoverso 1 lettera l della Legge tributaria del Canton Ticino del 1976 [di seguito LT-76]). Le imposte di successione e donazione non sono per contro state oggetto di armonizzazione fiscale, ciò che ha permesso di mantenere l’esenzione delle persone giuridiche con scopi ideali[8]. Il Canton Ticino, indirettamente, si è già espresso in modo opposto alla soluzione privilegiata della CDCF. In effetti nel febbraio 2010 era stata presentata un’iniziativa parlamentare generica volta ad innalzare le soglie d’imposizione nei confronti delle associazioni che nel passato erano definite a scopo ideale[9]. Il Parlamento cantonale dando seguito all’atto parlamentare, in data 24 settembre 2012, ha approvato la proposta della Commissione tributaria[10], ed ha scelto di attenuare l’aliquota d’imposta relativa all’utile delle associazioni, fondazioni e altre persone giuridiche (dall’8% al 4%), considerando di offrire un servizio alle associazioni senza scopo di lucro. La legge tributaria in vigore, a differenza di altri Cantoni, prescrive tuttora che è unicamente l’utile inferiore a 5’000 franchi a beneficiare dell’esonero fiscale[11]. È d’uopo altresì rilevare che nel rispondere ad un altro atto parlamentare, che chiedeva di parificare il trattamento ed accettare tutti i contributi versati da contribuenti a scopo benefico (società sportive, culturali, benefiche) quale deduzione dal reddito[12], il Consiglio di Stato faceva riferimento al fatto che in base alla legislazione in vigore non era possibile procedere in tal senso, ma rendeva attenti sulla possibile modifica legislativa, proprio a seguito della mozione depositata dall’on. Alex Kuprecht[13]. 5. Il Canton Ticino non potrebbe essere da esempio? La vecchia legge tributaria ticinese potrebbe essere presa in considerazione al fine di attuare la mozione Kuprecht e la volontà delle Camere federali Come già rilevato, in materia d’imposte di successione e donazione il legislatore ticinese ha mantenuto l’esenzione fiscale per le persone giuridiche che perseguono degli scopi ideali nel Cantone o d’interesse della Comunità svizzera, per le devoluzioni e le liberalità esclusivamente e irrevocabilmente destinate a tali fini (articolo 154 capoverso 1 lettera d LT). Sotto l’egida di detta norma è stata promulgata diversa giurisprudenza, dalla quale si evince che la nozione di “scopo ideale” è molto più ampia di quella di “pubblica utilità” e si oppone a quella di scopo di lucro. La principale differenza rispetto alla pubblica utilità è rappresentata dall’assenza dell’interesse generale e del disinteresse, che si è visto essere proprio dello scopo di pubblica utilità. È il caso, in particolare, delle associazioni, che si reggono sì sul solo sacrificio finanziario dei membri, ma che non perseguono il bene di terzi[14]. La giurisprudenza cantonale ha comunque evidenziato che anche se la nozione di scopo ideale è meno restrittiva di quella di pubblica utilità, la stessa dev’essere opposta a quella di scopo di lucro, di conseguenza l’esenzione in questo caso va negata[15]. Anche in tempi recenti la Camera di diritto tributario del Tribunale di Appello del Canton Ticino (di seguito CDT) ha ribadito che, “in linea di principio, la nozione di scopo ideale si contrappone a quella di scopo di lucro. Si tratta dunque di un concetto più ampio rispetto a quello della pubblica utilità, che non presuppone lo svolgimento in modo disinteressato di un’attività per il bene generale della collettività. Vi rientrano anche quegli enti che, pur fondandosi sul sacrificio finanziario dei propri membri, perseguono fini non necessariamente meritevoli di promozione, con l’intenzione di migliorare la condizione dei loro aderenti. È il caso, in particolare, delle associazioni, che si reggono sì sul solo sacrificio finanziario dei membri, ma che non mirano al bene di terzi. L’esenzione fiscale degli enti che perseguono scopi ideali era stata introdotta con un’apposita modifica della lettera l dell’articolo 15 relativo alle imposte ordinarie e della lettera e dell’articolo 120 relativo alle imposte di successione e donazione LT-76, con effetto a contare dal 1. gennaio 1987: il Consiglio di Stato aveva infatti ritenuto di concedere l’esonero anche a quegli enti che, quale attività principale, promuovevano gli interessi ideali specifici dei loro membri. Secondo le indicazioni contenute nel messaggio, beneficiavano allora della qualifica di associazioni a scopo ideale, fra le altre, le società sportive (calcio, tennis, aeroclub, eccetera), le società per il tempo libero (foto, cine e radioamatori, eccetera), le società amato- Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 riali (canto, teatro, filodrammatica, carnevale, bande, eccetera) e le società locali (di quartiere, studentesche, eccetera)”[16]. Da questa giurisprudenza si evince che è possibile dare una definizione di scopo ideale e che quest’ultimo dev’essere posto in contrapposizione agli scopi economici o ai fini di lucro, di conseguenza si può delimitare il concetto di scopo ideale, a differenza di quanto sostenuto dal Consiglio federale[17]. La creazione di una nuova norma, come prospettato dal Consiglio federale, crea un sistema più complesso sia dal profilo amministrativo sia da quello della gestione, come anche rilevato dalla CDCF. Ma vi è di più, l’ente sarà posto al beneficio dell’esenzione, ma la persona fisica o giuridica che farà una devoluzione volontaria a questa persona giuridica non potrà beneficiare della relativa deduzione fiscale, situazione che, a mio modo di vedere, potrà dare adito a ulteriori atti parlamentari per il riconoscimento della deduzione della devoluzione. Nel Canton Ticino come già evidenziato al considerando precedente è già successo. Probabilmente anche a livello federale potrà accadere, in quanto è importante rilevare che molto spesso degli enti chiedono di essere posti al beneficio dell’esonero fiscale, non tanto perché essi stessi risultano imponibili (non superando il valore soglia di 5’000 franchi di utile e di 50’000 franchi di capitale per l’imposta cantonale), ma bensì per incentivare le devoluzioni, in quanto queste sono deducibili dall’imponibile dei contribuenti che effettuano la liberalità. Si osserva inoltre che il Parlamento federale ha lasciato ampio spazio di manovra su come implementare la norma, dai dibattiti parlamentari si evince che lo scopo è quello di sostenere le piccole associazioni con scopi culturali, sportivi e senza interessi lucrativi. Di conseguenza una soluzione più praticabile potrebbe consistere nella modifica degli attuali articoli 56 capoverso 1 lettera g LIFD e 23 capoverso 1 lettera f LAID, nel senso di concedere l’esenzione fiscale a tutte le persone giuridiche (in virtù della parità di trattamento) che perseguono degli scopi pubblici, di pubblica utilità o scopi ideali, per quanto concerne l’utile esclusivamente e irrevocabilmente destinato a tali fini, escludendo scopi imprenditoriali e di lucro. Per quanto riguarda il Canton Ticino si avrebbe un allineamento con l’esenzione in materia d’imposte di successione e donazione e si ristabilirebbe la situazione ante armonizzazione. Si potrebbe esplicitare, in un nuovo messaggio che attui questa variante, che l’esenzione sarebbe così concessa a quelle persone giuridiche, che operano senza scopo di lucro, negli ambiti amatoriali, per il tempo libero, locali e sportivi. In quest’ultimo settore si rileva che è difficile giustificare l’esenzione fiscale delle federazioni sportive internazionali[18], e non concederla a delle associazioni sportive locali che si fondano sul volontariato. Questa situazione ha già dato, in effetti, adito a diversi atti parlamentari federali[19]. In conclusione la vecchia legge tributaria ticinese, e la giurisprudenza sviluppata in quest’ambito, potrebbero essere un modello per attuare la mozione Kuprecht. Disclaimer: le considerazioni del presente contributo sono espresse dall’autore a titolo personale e non vincolano in alcun modo la Divisione delle contribuzioni. Elenco delle fonti fotografiche: http://www.npo-forum.ch/wp-content/uploads/Steuerbefreiung.jpg [25.09.2013] http://images.nzz.ch/app.php/eos/v2/image/view/643/-/text/inset/72f2 3ad1/1.18114092.1373442973.jpg [25.09.2013] 9 10 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 [1] Dipartimento federale delle finanze (di seguito DFF), Esenzione fiscale di associazioni con scopi ideali: il Consiglio federale avvia la procedura di consultazione, Comunicato stampa, Berna 10 aprile 2013, in: http://www.news.admin. ch/message/index.html?lang=it&msg-id=48440 [25.09.2013]. L’avamprogetto di legge, il Rapporto esplicativo concernente la legge federale sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con scopi ideali, nonché i risultati della consultazione, che si è chiusa il 10 luglio 2013, sono disponibili al seguente link: http://www.admin.ch/ch/i/ gg/pc/ind2013.html#DFF [25.09.2013]. [2] Mozione depositata dall’on. Alex Kuprecht il 20 marzo 2009, n. 09.3343, dal titolo: Esenzione fiscale delle associazioni, in: http://www. p a r l a m e n t . c h/ i/s u c h e /p a g i n e /g e s c h a e f t e . aspx?gesch_id=20093343 [25.09.2013]. [3] Kuprecht Alex, intervento al Consiglio degli Stati, sessione estiva 2009, terza sessione, 27 maggio 2009. [4] DFF, Rapporto esplicativo concernente la legge federale sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con scopi ideali, Berna, 10 aprile 2013, pagina 19 (citato: Rapporto esplicativo). [5] Corriere del Ticino del 10 luglio 2013, Fiscalità a favore delle associazioni; Comunicato stampa del 18 giugno 2013 del Centre Patronale (exonération des personnes morales poursuivant un but idéal: une solution qui n’est pas une); Canton Basilea campagna, comunicato stampa del 18 giugno 2013; Canton Soletta, presa di posizione del Consiglio di Stato del 18 giugno 2013; Canton Neuchâtel, Informations brèves sur la séance du Conseil d’Etat du 21 juin 2013 (affaires fédérales) pagina 4; Canton Uri: presa di posizione del Consiglio di Stato del 25 giugno 2013; Canton Lucerna: risposte al questionario “Fragenkatalog zum Bundesgesetz über die Steuerbefreiung von juristischen Personen mit Ideellen Zwecken” del 25 giugno 2013; Canton Zurigo, Auszug aus dem Protokoll des Regierungsrates del 26 giugno 2013, n. 740; Canton Ginevra, Point de Presse du Conseil d’Etat du 26 juin 2013, pagina 6; Canton Friborgo, Réponse à la consultation del 1. luglio 2013; Canton Vaud: presa di posizione del Consiglio di Stato del 3 luglio 2013 (ref. PM/15014141). [6] Presa di posizione del 28 giugno 2013 della CDCF, in: http://www.fdk-cdf.ch/fr-ch/130628_ steuerbefreiung_vereine_stn_fdkvb_uz_f.pdf [25.09.2013]. [7] Messaggio del Consiglio di Stato concernente il progetto di nuova legge tributaria del 13 ottobre 1993, n. 4169, pagina 49. [8] Barbuscia-Genini Simona, Esenzioni di persone giuridiche che perseguono scopi pubblici o di pubblica utilità, Deduzione delle devoluzioni, in: RtiD I-2008, pagina 334. [9] Iniziativa parlamentare generica depositata dall’on. Giovanni Jelmini e confirmatari per il gruppo PPD e ripresa da Raffaele De Rosa, del 21 febbraio 2010, intitolata: Associazioni a scopo ideale: innalzare le soglie d’imposizione sull’utile e sul capitale. Lo Stato sostenga fattivamente il volontariato, in: http://www.ti.ch/CAN/SegGC/ comunicazioni/GC/inizgeneriche/pdf/IG460.pdf [25.09.2013]. [10] Rapporto del 7 settembre 2012 della Commissione speciale tributaria del Gran Consiglio. [11] L’articolo 78 capoverso 2 della Legge tributaria del Canton Ticino del 1994 (di seguito LT) prevede che, per le associazioni, fondazioni e altre persone giuridiche, l’utile inferiore ai 5’000 franchi non è imponibile. [12] Interrogazione presentata dall’on. Fabio Badasci, del 27 settembre 2012, n. 231.12, intitolata: Le varie società sportive, culturali e a scopo benefico attive sul nostro territorio non vengono trattate tutte allo stesso modo davanti al fisco in merito ai versamenti ricevuti dal contribuente, in: http://www.ti.ch/CAN/SegGC/comunicazioni/GC/interrogazioni/pdf/231.12.pdf [25.09.2013]. [13] Risposta del Consiglio di Stato del 30 gennaio 2013 all’interrogazione presentata dall’on. Fabio Badasci, n. 231.12, in: http://www.ti.ch/ CAN/SegGC/comunicazioni/GC/interrogazioni/ risposte/pdf/r231.12.pdf [25.09.2013]. [14] RDAT n. 13t/I-1998, cfr. inoltre RDAT n. 5t/ II-1993. [15] RDAT n. 10t/II-1999. [16] Sentenza CDT del 26 settembre 2012 n. 80.2012.34/36 e giurisprudenza ivi citata. [17] DFF, Rapporto esplicativo, pagine 22 e 27. [18] Consiglio federale, Tassazione delle federazioni sportive in Svizzera – mantenere lo status quo, Comunicato stampa, Berna 5 dicembre 2008, in: http://www.news.admin.ch/message/ index.html?lang=it&msg-id=23681 [25.09.2013]. [19] Interpellanza depositata dall’on. Louis Schlebert, del 24 settembre 2008, n. 08.3511, intitolata: UEFA. Federazione sportiva di pubblica utilità?, in: http://www.parlament.ch/i/suche/ pagine/geschaefte.aspx?gesch_id=20083511 [25.09.2013], Interpellanza depositata dall’on. Hans Fehr, del 15 giugno 2011, n. 11.3552, intitolata: La FIFA non è di utilità pubblica, in: http:// www.parlament.ch/i/suche/pagine/geschaefte. aspx?gesch_id=20113552 [25.09.2013]. Diritto tributario italiano Indeducibilità di costi tra difetto di inerenza ed abuso del diritto Andrea Prampolini Studio Maisto e Associati, Milano Brevi note sulla recente sentenza n. 4901/2013 della Suprema Corte di Cassazione 1. Sintesi Con la recente sentenza n. 4901 del 27 febbraio 2013, la Corte di Cassazione ha negato la deducibilità della minusvalenza realizzata per effetto della cessione infragruppo di una partecipazione, preceduta dal ripianamento delle perdite della società partecipata da parte della società cedente. La sentenza offre lo spunto per tracciare i confini tra l’indeducibilità di costi per difetto del requisito di inerenza, da un lato, e per violazione del divieto di abuso del diritto, dall’altro. 2. La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte La vicenda processuale ha riguardato la società Alfa S.p.A., che all’epoca dei fatti (1990) deteneva una partecipazione pressoché totalitaria nella società Beta S.r.l. Quest'ultima società aveva maturato perdite superiori al proprio patrimonio netto, versando così in una situazione di deficit patrimoniale (patrimonio netto negativo). In tale contesto, Alfa S.p.A. aveva effettuato versamenti a favore di Beta S.r.l. per importo idoneo a coprire integralmente le perdite della società partecipata e a ricostituirne il capitale sociale nell’ammontare originario. Alfa S.p.A. aveva registrato tali versamenti ad incremento del valore contabile della propria partecipazione in Beta S.r.l., che aveva poi immediatamente ceduto ad un’altra società del gruppo (Gamma S.p.A.) per un corrispettivo pari al patrimonio netto contabile di Beta S.r.l. risultante dopo la copertura delle perdite (nonché pari all’originario valore contabile della partecipazione). Per effetto della cessione, Alfa S.p.A. aveva realizzato una minusvalenza equivalente ai versamenti effettuati per ripianare le perdite della società partecipata. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di appello, ha negato la deducibilità della minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A. per importo corrispondente al versamento effettuato a copertura del deficit patrimoniale di Beta S.r.l. (cosiddetto “sottozero”)[1]. Occorre osservare che i Giudici non hanno ravvisato alcuna violazione delle norme del testo unico disciplinanti la determinazione e la deduzione delle minusvalenze, in specie con riguardo all’impossibilità di incrementare il costo fiscale della partecipazione per importo pari al cosiddetto versamento sottozero. Né tale violazione era stata contestata dall’Ufficio, presumibilmente perché, secondo la dottrina pressoché unanime, l’articolo 61 comma 5 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917/1986 (di seguito TUIR), nella formulazione applicabile ratione temporis, avrebbe comunque consentito ad Alfa S.p.A. la deduzione immediata del cosiddetto versamento “sottozero” come spesa di esercizio, quand’anche la partecipazione non fosse stata ceduta[2]. Per quale ragione, dunque, la Corte ha negato la deducibilità di un componente negativo che, almeno in linea di principio, Alfa S.p.A. avrebbe comunque potuto dedurre nello stesso periodo di imposta se non avesse ceduto la partecipazione, seppure ad altro titolo (cioè quale spesa di esercizio, anziché quale minusvalenza)? La risposta alla questione ora prospettata emerge dalla motivazione contenuta nella prima parte della sentenza: i Giudici hanno ritenuto che la minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A. fosse indeducibile “per difetto di inerenza del costo di ripianamento della società partecipata”. 3. Il principio di inerenza all’attività di impresa L’inerenza esprime la relazione che deve intercorrere tra un determinato atto, dal quale derivi un costo, e l’attività dell’impresa, quale condizione necessaria affinché tale costo sia deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa. La regola dell’inerenza è priva di una disposizione espressa nel TUIR[3] , sebbene negli avvisi di accertamento e nelle sentenze (inclusa quella ora in commento) sia fortemente radicata l’abitudine ad individuarne il fondamento positivo nell’articolo 109 (già 75), comma 5 TUIR, che attiene invece ad un profilo distinto e logicamente successivo (il cosiddetto principio di correlazione dei costi ai proventi imponibili)[4]. La regola dell’inerenza esprime il concetto secondo cui il “reddito 11 12 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 che deriva dall’esercizio dell’attività di impresa”, termine anch’esso non definito ma riconducibile alla disposizione dell’articolo 55 TUIR, è strutturalmente al netto dei costi necessari a produrlo[5]. La regola dell’inerenza agisce come “spartiacque”, perché ha la funzione di separare i costi che attengono alla produzione del reddito dai costi che sono meri “veicoli” per porre in essere un atto di erogazione di un reddito già prodotto (spese sostenute nell’interesse personale dell’imprenditore o dei suoi famigliari, dei soci, di terzi), cioè costi sostenuti per finalità “extraimprenditoriali”. Tale distinzione è formulata chiaramente, ad esempio, nella sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012 della Corte di Cassazione: “quella di inerenza è una nozione pre-giuridica, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione. Sotto tale profilo, pertanto, inerente è tutto ciò che – sul piano dei costi e delle spese – appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore, ovvero del socio o del terzo”. Fatte queste premesse è opportuno esaminare i tre argomenti principali utilizzati dalla Suprema Corte per giungere a valutare come “del tutto carente del nesso di inerenza” l’operazione da cui deriva la minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A.: a) Alfa S.p.A. non aveva alcun obbligo giuridico di ripianare le perdite della società partecipata; b) il ripianamento delle perdite della società partecipata, con esborso di una somma pari a otto volte il valore di carico originario della partecipazione, seguito dall’immediata cessione di tale partecipazione ad altra società del gruppo per un corrispettivo pari a tale valore di carico originario “danno luogo, nel loro complesso, ad un’operazione assolutamente antieconomica, per la società partecipante, e già in astratto oggettivamente priva di qualsiasi potenziale idoneità ad incidere positivamente sulla sua capacità di produrre utili”; c) al fine di valutare la sussistenza del nesso di inerenza occorre fare riferimento esclusivo all’attività propria del soggetto giuridico che ha posto in essere l’operazione (Alfa S.p.A.), mentre è irrilevante che l’operazione persegua finalità di riassetto complessivo del gruppo societario cui tale soggetto appartiene, nell’ambito della discrezionalità manageriale della capogruppo. 3.1. Inerenza ed obbligatorietà o necessità della spesa Il primo argomento non è di per sé dirimente. È certamente vero che Alfa S.p.A. non aveva alcun obbligo giuridico di ripianare le perdite della società partecipata, in quanto soggetto limitatamente responsabile. La riduzione del capitale di Beta S.r.l. al di sotto del minimo legale e la sua mancata ricostituzione ad una cifra non inferiore al predetto minimo avrebbero comportato lo scioglimento della società ai sensi degli articoli 2447 e 2448 (ora 2484) primo comma n. 4 del Codice Civile[6] e l’eventuale dichiarazione di fallimento. Tuttavia, non è affatto indispensabile che una determinata spesa, per risultare inerente, debba essere anche obbligatoria (cioè imposta da un vincolo giuridico). Prova ne sia la riconosciuta inerenza e deducibilità di costi certamente discrezionali e che hanno un’utilità solo indiretta e non immediata per l’impresa, come i costi sostenuti per la revisione volontaria (quindi, non obbligatoria) del bilancio di esercizio[7] , per la pubblicità effettuata in proiezione futura (cioè, prima dell’immissione in commercio di un bene)[8] , per la difesa di amministratori coinvolti in un procedimento penale (ove risulti provato il collegamento con l’attività dell’impresa e la volontà di tutelarne l’immagine presso la clientela)[9]. Pertanto, affinché un costo sia inerente è sufficiente verificare la sussistenza di un interesse economico, sia pure prospettico, che lo leghi all’attività dell’impresa. Si aggiunga che, se un costo è sopportato nell’interesse dell’attività dell’impresa non vale, ad escluderne l’inerenza, la mera circostanza che di esso possa direttamente o indirettamente beneficiare anche un altro soggetto[10]. Solo in carenza di un interesse economico per l’impresa si ricade nelle erogazioni di reddito (liberali o meno), che sono non inerenti e perciò indeducibili, salvo che per disposizione espressa[11]. 3.2. Inerenza e antieconomicità. Inerenza e utilità potenziale Il secondo argomento utilizzato dalla Suprema Corte è quello più incisivo e può essere riproposto con il seguente interrogativo: per quale ragione una società dovrebbe effettuare un ingente investimento aggiuntivo nella propria partecipata (di importo pari al cosiddetto versamento "sottozero") per poi cedere immediatamente la partecipazione a favore di un altro soggetto senza ottenere alcun ristoro per tale investimento aggiuntivo? La sequenza di atti posta in essere da Alfa S.p.A. appare, sotto questo profilo, come una condotta antieconomica. L’antieconomicità può certamente venire in rilievo sul piano della prova dell’inerenza, come significativo indizio del carattere erogatorio (anziché produttivo) di reddito dell’atto che ha generato un determinato costo e, quindi, del difetto di inerenza del costo stesso[12] [13]. Peraltro, come ribadito dalla dottrina e talora riconosciuto dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte, l’antieconomicità di un singolo atto non è sufficiente a negare l’inerenza del costo, perché essa potrebbe giustificarsi in funzione di benefici economici su altri fronti e, quindi, dell’economicità dell’attività di impresa nel suo complesso[14]. Ad esempio, il trasferimento della proprietà di un bene effettuata in assenza di un corrispettivo espresso o per corrispettivo irrisorio potrebbe giustificarsi con l’esigenza del cedente di evitare maggiori futuri aggravi all’attività di impresa mediante la liberazione da fideiussioni, garanzie, eccetera[15]. Tuttavia, nelle argomentazioni difensive svolte dal contribuente, per come riportate nella sentenza in commento, non v’è traccia di eventuali benefici economici o utilità, anche solo potenziali o indirette, che sarebbero potute derivare ad Alfa S.p.A. dall’operazione posta in essere. Né risulta il tentativo di Alfa S.p.A. di valorizzare una nozione di inerenza in senso ampio, ad esempio rappresentando un eventuale interesse della società Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 ad evitare il danno di immagine che le sarebbe potuto derivare dal fallimento della partecipata[16] (tentativo dall’esito comunque assai incerto nel caso di specie, data l’assenza di una reale terzietà tra i soggetti coinvolti in ragione dell’appartenenza allo stesso gruppo). Di qui la conclusione della Suprema Corte, che ha ritenuto la minusvalenza non inerente all’attività realizzata da Alfa S.p.A., sancendone l’indeducibilità. Si potrebbe ora completare il ragionamento della Cassazione, evidenziandone alcuni corollari rimasti impliciti: se Alfa S.p.A., dopo avere ripianato le perdite di Beta S.r.l., avesse mantenuto la proprietà della partecipazione, essa avrebbe potuto beneficiare economicamente del proprio investimento aggiuntivo (ad esempio, tramite l’incasso di futuri dividendi da Beta S.r.l. o la cessione plusvalente della partecipata, una volta ritornata in bonis). In tale ipotesi, l’onere sostenuto da Alfa S.p.A. (il cosiddetto versamento “sottozero”) sarebbe risultato certamente inerente all’attività di impresa svolta da tale ultima società e, almeno in linea di principio, avrebbe potuto trovare immediata deduzione[17]. Per converso, l’avere ceduto la partecipazione subito dopo il ripianamento, senza la prospettiva di ottenere alcun ristoro per l’esborso aggiuntivo effettuato né future utilità, avrebbe reso manifesta la carenza di interesse di Alfa S.p.A. al sostenimento del relativo onere, se tale interesse è valutato nell’ottica di un investitore che intenda trarre vantaggio dal proprio investimento[18]. In altri termini, nel particolare caso di specie il versamento del “sottozero” avrebbe soddisfatto un interesse esclusivo della società partecipata (e, indirettamente, della società acquirente e della capogruppo), non già di Alfa S.p.A. Tale versamento avrebbe pertanto comportato una sostanziale erogazione di reddito in favore della stessa partecipata (non anche della società acquirente, se si assume che il corrispettivo della cessione riflettesse il valore normale della partecipazione post-copertura). Ciò avrebbe palesato il carattere erogatorio dell’operazione posta in essere da Alfa S.p.A. e, quindi, il difetto di inerenza del costo che ne è derivato. singola operazione), non è comunque possibile dedurre costi che soddisfano l’interesse esclusivo di soggetti diversi da quelli cui il reddito prodotto va riferito, solo perché appartenenti allo stesso gruppo[19]. In termini del tutto generali, occorre anzi osservare che, se si accetta la tesi secondo cui l’inerenza va riferita esclusivamente al soggetto che ha sopportato il costo e non ha la funzione di recuperare vantaggi fiscali indebiti (bensì di depurare componenti negative estranee all’impresa), deve necessariamente concludersi che un costo non inerente non diviene inerente (e deducibile) per il solo fatto che un corrispondente ricavo risulti “simmetricamente” imponibile in capo alla controparte (contrattuale), quand’anche quest’ultima sia un soggetto residente ed appartenente al gruppo[20]. La conclusione non muta neppure dopo l’introduzione dell’istituto del consolidato fiscale di cui agli articoli 117 e seguenti TUIR. Infatti, poiché il “gruppo” consolidato non è elevato ad autonomo soggetto di imposta[21], la società che aderisce alla tassazione di gruppo non perde la propria soggettività tributaria ed è pertanto tenuta a determinare il proprio reddito secondo le regole ordinarie, ivi inclusa la regola dell’inerenza[22]. Né, d’altro canto, è rinvenibile una disposizione espressa (ancorché da alcuni auspicata, in mancanza di danno per l’Erario) che imponga all’amministrazione finanziaria, quando disconosca la deducibilità di un componente negativo per difetto di inerenza in capo ad una consolidata, di tenerne conto (quale maggior costo o minore ricavo) in capo ad altra società partecipante al consolidato, cui tale componente avrebbe dovuto essere imputato in quanto inerente[23]. Rimane tuttavia un dubbio: a stretto rigore, nel caso di specie il costo del ripianamento delle perdite della partecipata, isolatamente considerato, non pare in sé sprovvisto del requisito di inerenza, ma è solo il collegamento con la successiva cessione della partecipazione ad evidenziare il carattere erogatorio dell’intera sequenza di operazioni. Su tale aspetto torneremo nel capitolo 4. 3.3. Inerenza e gruppo societario Il terzo argomento utilizzato dalla Suprema Corte può riassumersi come segue: non esiste una “inerenza di gruppo”. Poiché infatti l’ordinamento tributario considera ciascuna società come un autonomo soggetto passivo di imposta, a prescindere dalla sua appartenenza ad un gruppo, un costo sostenuto nell’interesse del gruppo è deducibile in capo alla singola società solo se e in quanto soddisfi anche l’interesse di questa. Ne consegue che, per quanto nell’ambito di un gruppo il concetto di inerenza possa, almeno in linea di principio, assumere contorni più ampi (dovendosi considerare anche eventuali vantaggi compensativi che giustifichino l’apparente economicità della 4. Difetto di inerenza versus abuso del diritto Fin qui il ragionamento logico-giuridico della Suprema Corte appare lineare. Tuttavia, nella seconda parte della sentenza la Corte propone una diversa ricostruzione della fattispecie sottoposta al suo esame, affermando che “l’evidente antieconomicità dell’operazione per Alfa S.p.A. […] consente, peraltro, di qualificare la fattispecie – con identico risultato con riguardo alla valutazione della legittimità della ripresa – anche nella diversa prospettiva dell’abuso del diritto”. 13 14 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Secondo la Corte, quindi, la deduzione della minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A. potrebbe essere disconosciuta anche sulla base del principio di matrice giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto, ritenuto insito nell’ordinamento come diretta derivazione delle norme costituzionali. In base a tale principio “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n. 30055 del 23 dicembre 2008). Ebbene, il citato passaggio della sentenza qui in commento non potrebbe essere condiviso se fosse inteso nel senso che la deducibilità di un costo può essere disconosciuta affermando contemporaneamente il difetto di inerenza dello stesso e la natura elusiva o abusiva dell’operazione che l’ha generato. Si tratterebbe di un’indebita sovrapposizione concettuale tra due fenomeni che devono rimanere ben distinti. Infatti, la deduzione di un costo non inerente configura “evasione fiscale”, fattispecie che implica la diretta violazione di una norma fiscale (ancorché eventualmente inespressa, come la regola dell’inerenza) riguardante il presupposto, mentre l’abuso del diritto attiene piuttosto all’area dell’“elusione fiscale”, che non è violazione diretta bensì “aggiramento” di una norma fiscale, giacché si risolve in un comportamento che formalmente è conforme alla norma impositiva, ma ne tradisce lo spirito e la finalità (cioè, la ratio). Una sovrapposizione (quella tra evasione ed elusione) che peraltro non sarebbe nuova nella recente giurisprudenza della Cassazione[24]. L’“antieconomicità” di un’operazione è solo un sintomo che accomuna le due fattispecie del difetto di inerenza e dell’abuso del diritto, ma nulla più. L’antieconomicità, infatti, può essere indizio rivelatore di fenomeni affatto diversi tra loro (fittizietà dei costi, occultamento di corrispettivi, difetto di inerenza di costi, simulazione, elusione) e proprio per tale ragione non dovrebbe mai costituire un argomento sufficiente di per sé ad avallare la contestazione contenuta in un avviso di accertamento[25]. In conclusione, delle due l’una: o il costo è indeducibile perché non è inerente, oppure è indeducibile perché, sebbene inerente, è originato da un’operazione elusiva o abusiva. 4.1. Le (solo apparenti) aree di convergenza Ciò premesso, non sembra tuttavia potersi escludere che la deduzione di un costo formalmente inerente possa, in collegamento con altri atti o negozi, consentire il conseguimento di vantaggi tributari di natura abusiva, come la Cassazione sembra avere già affermato nei propri precedenti, seppure in termini piuttosto generali ed astratti[26]. Questa ipotesi potrebbe configurarsi, ad esempio, quando una società sostenga un costo che, isolatamente considerato, risulta formalmente inerente ma che, in collegamento con altri successivi atti o negozi, si rivela un “tassello” di un’operazione più complessa finalizzata a realizzare indirettamente un risultato finale sostanzialmente erogativo di reddito, sempreché nel caso specifico tale erogazione non possa essere presidiata da una disposizione ad hoc, come quella che colpisce le destinazioni di beni a finalità estranee all’impresa (comportando l’eventuale emersione di plusvalenze imponibili determinate a valore normale[27]), ad esempio perché la destinazione a finalità estranee non riguarda un bene, ma un servizio, denaro oppure un’altra utilità[28] [29]. Con riferimento al caso di specie, si potrebbe allora sostenere che il costo per il ripianamento delle perdite sostenuto da Alfa S.p.A., considerato di per sé, è inerente anche per la parte riferita al cosiddetto “sottozero”, perché il ripianamento non comporta di per sé alcuna erogazione di reddito, ma configura un investimento aggiuntivo nella partecipata. Tuttavia, con l’immediata successiva cessione a Gamma S.p.A. della partecipazione in Beta S.r.l. (per un corrispettivo che può assumersi coincidente con il valore normale della partecipazione alla data della cessione) Alfa S.p.A. realizza indirettamente il risultato di erogare a Beta S.r.l. (anche nell’interesse di Gamma S.p.A.) un’utilità economica pari al costo del cosiddetto "sottozero", perché si induce nella condizione di non potere più trarre alcun vantaggio dall’esborso effettuato. Tale erogazione indiretta non verrebbe allora contrastata negando ex-post l’inerenza del costo del ripianamento sostenuto da Alfa S.p.A. (né potrebbe essere contrastata, nel caso in commento, argomentando la destinazione a finalità estranee della partecipazione), bensì invocando il divieto dell’abuso del diritto. Sostenendo, cioè, che la sequenza di atti realizzata da Alfa S.p.A. si inserisce in un “disegno unitario” finalizzato non già a violare direttamente la regola dell’inerenza del costo sostenuto per il ripianamento, bensì ad “aggirarla”, al fine di ottenere la deduzione di un costo che, seppur formalmente è inerente, sostanzialmente non lo è più se si considera l’intera operazione, perché ogni utilità da esso potenzialmente derivante viene meno per effetto di un negozio immediatamente successivo[30]. È peraltro doveroso osservare che la sentenza in commento omette numerosi passaggi logico-giuridici essenziali per potere giustificare l’inquadramento della fattispecie esaminata nella violazione del divieto di abuso del diritto: a) Quale è il vantaggio tributario indebito ottenuto? La deduzione del costo del cosiddetto "sottozero" da parte di Alfa S.p.A.? Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 b) Quale norma è stata “aggirata” nel caso di specie? La regola (inespressa) dell’inerenza? c) Quale comportamento alternativo e “fisiologico” avrebbe dovuto tenere Alfa S.p.A.? Cedere la partecipazione a Gamma S.p.A. senza previo ripianamento delle perdite della partecipata, cosicché alla ricapitalizzazione di questa provvedesse direttamente Gamma S.p.A.? d) Nel comportamento effettivamente tenuto da Alfa S.p.A. potevano escludersi (o non sono comunque state dimostrate) ragioni economiche apprezzabili, diverse dall’aspettativa di ottenere quel vantaggio tributario, così da fare ritenere che Alfa S.p.A. non avrebbe avuto alcun apprezzabile interesse a ripianare le perdite della partecipata qualora non avesse potuto dedurre la minusvalenza successivamente realizzata? Elenco delle fonti fotografiche: h t t p : // w w w . p r o g e t t o a d s . n e t / % 5 C a l l e g a t i % 5 C A D S _ t _ notizie%5C1069%5CFILE_Immagine_Cassazione.jpg [25.09.2013] http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Norme%20e%20 Tributi/2010/09/bilancio-societa-672x351.jpg?uuid=c9796636-c4f211df-a6bc-5bca700c7b62 [25.09.2013] 5. Conclusioni Le citate omissioni nella parte motivazionale della sentenza non fugano il sospetto che il riferimento all’abuso del diritto sia stato utilizzato dai Giudici come mero obiter dictum, cioè quale preteso rafforzativo (concettualmente erroneo, se così fosse) di conclusioni di fatto già raggiunte dai giudici sul piano del difetto di inerenza del costo[31]. Tuttavia, la sentenza ha il pregio di stimolare la riflessione sui rapporti reciproci che intercorrono tra difetto di inerenza ed abuso del diritto, quali motivazioni alternative (mai concorrenti) che, in fattispecie distinte, possono condurre al disconoscimento della deduzione di un costo effettivamente sostenuto. [1] Più in dettaglio, Beta S.r.l. versava in una situazione di deficit patrimoniale per circa 22 miliardi, avendo maturato perdite per circa 25 miliardi di lire a fronte di un patrimonio netto contabile di 3 miliardi di lire, corrispondente al proprio capitale sociale. Alfa S.p.A. aveva quindi effettuato versamenti a favore di Beta S.r.l. per circa 25 miliardi di lire (incrementando dello stesso importo l’originario valore di carico della propria partecipazione), al fine di ripianare integralmente le perdite della partecipata e ricostituirne il capitale sociale in 3 miliardi di lire. Immediatamente dopo il ripianamento, Alfa S.p.A. aveva ceduto a Gamma S.p.A. la partecipazione in Beta S.r.l. per un corrispettivo di circa 3 miliardi di lire, corrispondente al patrimonio netto contabile della stessa Beta S.r.l. dopo la copertura delle perdite (e corrispondente, altresì, al valore di carico originario della partecipazione), realizzando in tal modo una minusvalenza di circa 25 miliardi. La Corte di Cassazione ha ritenuto che tale minusvalenza fosse fiscalmente indeducibile per un ammontare di circa 22 miliardi (pari alla differenza tra la minusvalenza realizzata e il valore di carico originario della partecipazione), che di fatto corrisponde al versamento effettuato da Alfa S.p.A. a copertura del deficit patrimoniale di Beta S.r.l. (cosiddetto versamento “sottozero”). [2] In vigenza dell’articolo 61, comma 5 TUIR, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal Decreto Legge (di seguito D.L.) n. 557/1993, convertito con modificazioni nella Legge (di seguito L.) n. 133/1994, era normativamente preclusa la possibilità di incrementare il costo della partecipazione per importo pari al cosiddetto versamento "sottozero". Era quindi sorta la questione dell’immediata deducibilità di tale versamento quale spesa di esercizio. La vexata quaestio era stata risolta positivamente, tra i molti, da Assonime, circolare n. 60 del 27 aprile 1988; ABI, circolare n. 8 del 25 gennaio 1988; Leo Maurizio/Monacchi Felice/Schiavo Mario, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano 1996, pagina 1124. In senso contrario si era successivamente espressa la Corte di Cassazione (sentenza n. 15298 del 30 ottobre 2002), con una pronuncia discutibile, che argomentava dalla natura innovativa delle modifiche introdotte nel 1993, che avevano previsto espressamente la deducibilità del cosiddetto versamento "sottozero" (a commento della citata sentenza si veda Leotta Marco/Santocchini Michele, Deducibilità dei versamenti a copertura del deficit patrimoniale: note a margine di una discutibile sentenza della Corte di Cassazione, in: Rassegna tributaria, 2003, pagina 237). [3] Fatta eccezione per l’articolo 61 TUIR e per l’articolo 108, comma 2 TUIR che, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 244/2007, rappresentano il primo impiego del termine “inerenza” nella disciplina del reddito di impresa. [4] In questo senso, tra gli altri, Zizzo Giuseppe, La determinazione del reddito delle società commerciali, in: Falsitta Gaspare, Manuale di diritto tributario, parte speciale, 2010, pagina 408; Tinelli Giuseppe, Commentario al TUIR, Padova 2009, pagina 109; Beghin Mauro, Note critiche a proposito dell’asserita doppia declinazione della regola dell’inerenza (“inerenza intrinseca” versus “inerenza estrinseca”), in: Rivista di diritto tribu- tario, 2012, pagina 410. [5] Così Lupi Raffaello, Limiti alla deduzione degli interessi e concetto generale di inerenza, in: Corriere tributario, 2008, pagina 771. [6] Prima della Riforma del diritto societario introdotta dal Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 6/2003, era dibattuto se, in seguito al verificarsi di una perdita di oltre un terzo del capitale con riduzione di questo al disotto del minimo legale, la mancata adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 2447 Codice civile (riduzione del capitale e contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo) assumesse la valenza di condizione risolutiva oppure di condizione sospensiva rispetto allo scioglimento della società. Dopo la Riforma tende a prevalere la seconda tesi (cfr. Cian Giorgio/Trabucchi Alberto, Commentario breve al Codice Civile, 2011, commento sub articolo 2447; Campobasso Gian Franco, Diritto Commerciale – Diritto delle società, 2, Torino 2012, pagina 531. [7] Si veda la circolare ministeriale n. 30 del 7 luglio 1983. [8] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n. 6502 del 19 maggio 2000. [9] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n. 9756 del 18 giugno 2003. [10] Ad esempio, la Corte di Cassazione (sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012) ha affermato che è inerente il costo sostenuto dal distributore esclusivo per l’Italia dei prodotti recanti un determinato marchio, al fine di pubblicizzare tale marchio nel territorio italiano, a nulla rilevando la circostanza che il sostenimento del relativo onere si riverberi indirettamente anche a van- 15 16 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 taggio del produttore e titolare del marchio, residente in Giappone. [11] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n. 3891 del 22 febbraio 2007. Sul tema, Zizzo Giuseppe, Inerenza ai ricavi o all’attività? Nuovi spunti su una vecchia questione, in: Rassegna tributaria, 2007, pagina 1796. [12] In questo senso, tra gli altri, Zizzo Giuseppe, op. cit., pagina 414; Nussi Mario, Il giudizio di inerenza dei compensi agli amministratori tra insindacabilità delle scelte imprenditoriali e autonomia dai fenomeni simulatori o elusivi, in: Giurisprudenza Tributaria, 2011, pagina 406; Tinelli Giuseppe, op. cit., pagina 109; Lupi Raffaello, Inerenza e discrezionalità dell’imprenditore nell’organizzazione dell’impresa, in: Crovato Francesco/Lupi Raffaello, Il reddito di impresa, Milano 2002, pagina 92; Beghin Mauro, Perdite su crediti, antieconomicità dell’operazione e giudizio di inerenza, in: Corriere tributario, 2007, pagina 384. Non può peraltro essere condiviso quell’indirizzo giurisprudenziale che ritiene “automaticamente” non inerente, in tutto o in parte, un costo effettivamente sostenuto sul fondamento esclusivo della sua divergenza quantitativa (non congruità) rispetto al parametro del valore normale di cui all’articolo 9 TUIR (tra le tante, Corte di Cassazione, sentenza n. 9497 dell’11 aprile 2008, in materia di cosiddetto transfer pricing interno tra società residenti), in assenza di una più articolata ricostruzione fattuale volta a disvelare sostanziali erogazioni di reddito (liberali o meno che siano), o assetti simulatori. Sulla differenza che intercorre tra i concetti di inerenza e congruità dei costi, si vedano, in particolare, Fantozzi Augusto, Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione, in: Rivista di diritto tributario, 2003, pagina 557 e, da ultimo, Fransoni Guglielmo, La Finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, Milano 2008, pagine 145 e seguenti. [13] In altra occasione (Corte di Cassazione, sentenza n. 20451 del 6 ottobre 2011), il difetto di inerenza è stato ravvisato con riferimento al costo sostenuto dall’acquirente per acquistare una partecipazione da altra società del gruppo a prezzi superiori a quelli di mercato. Nella specie, la Suprema Corte ha valutato la maggiorazione di prezzo “non giustificata sul piano della corrispettività”, ritenendo “indiscutibile la sua non inerenza e comunque la mancanza di prova in ordine a tale requisito”. La sentenza citata è peraltro criticabile sotto altri aspetti, sia nel merito delle argomentazioni utilizzate per presumere la sussistenza di un’erogazione gratuita tra le due società, sia per l’indebita commistione tra i concetti di “fittizietà” e “non inerenza” di un costo. [14] Ad esempio, la Corte di Cassazione (sentenza n. 23863 del 19 novembre 2007) ha sostenuto la deducibilità della perdita conseguente ad una transazione nel corso della quale una società ita- liana aveva rinunciato a crediti vantati verso un ente governativo libico, al fine di salvaguardare i buoni rapporti esistenti con la controparte e acquisire nuovi contratti per il futuro, affermando che “l’imprenditore […] può legittimamente compiere operazioni di per se stesse antieconomiche in vista ed in funzione di benefici economici su altri fronti” (per converso, non sarebbe inerente la perdita derivante dalla rinuncia ad un credito che appaia “come una liberalità”, come da ultimo ribadito nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 26/E del 1. agosto 2013, paragrafo 3). Analoga impostazione traspare dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 1389 del 21 gennaio 2011, che non esclude l’inerenza del costo d’acquisto di beni concessi in comodato gratuito a società estere terziste (né li ritiene destinati a finalità estranee all’impresa) ove vi sia la prova che la comodataria si è obbligata “a rivendere le merci prodotte alla comodante ad un prezzo determinato tale da giustificare l’operazione complessiva di delocalizzazione della produzione”. [15] Si veda, ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione n. 13224 del 6 giugno 2007, che ha riconosciuto l’inerenza e la deducibilità della minusvalenza realizzata dalla società cedente per effetto della cessione di partecipazioni azionarie ad un’altra società del gruppo per un corrispettivo simbolico di mille lire perché, mediante una pattuizione con la società cessionaria, la società cedente era stata manlevata da una garanzia di consistente importo prestata in favore della partecipata, in pessime condizioni economiche. Situazione analoga è quella affrontata nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 25/E del 26 febbraio 2001, nella quale la cessione di una partecipazione a valori contabili, con realizzo di una ingente minusvalenza, era riequilibrata sul piano del sinallagma contrattuale dall’impegno dell’acquirente di assumere i dipendenti del cedente, sollevando quest’ultimo dal sostenimento di ingenti oneri per incentivi all’esodo. [16] Spunti in questo senso si rinvengono in Lupi Raffaello, L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità, in: Corriere tributario, 2009, pagina 262, ove è proposto l’esempio di aziende cedute per un prezzo nominale (e magari cum dote) per evitare il fallimento ed il conseguente eventuale danno di immagine. [17] Si vedano le considerazioni già svolte alla nota 2. [18] Si veda la relazione al citato D.L. n. 557/1993, che, a commento della rimozione del previgente divieto di computare il versamento del “sottozero” ad incremento del costo fiscale della partecipazione, afferma che “il socio di una società di capitali che, pur non essendo obbligato, in quanto limitatamente responsabile, ripiana un deficit patrimoniale, effettua in sostanza un nuovo investimento, il cui costo di acquisizione non può che essere costituito dall’intero ammontare del versamento a copertura delle perdite”. [19] In questo senso si veda anche la Corte di Cassazione, sentenza n. 10981 del 13 maggio 2009. [20] In questo senso, in particolare, Nussi Mario, op. cit., pagina 408, ove anche una presa di distanza dalla teoria delle cosiddette “simmetrie fiscali” intersoggettive. Si rammenta anche l’affermazione della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 16642 del 29 luglio 2011, secondo cui “l’antieconomicità della gestione di una società non può legittimamente dipendere, sotto il profilo fiscale, da politiche di gruppo volte semplicemente a dirottare i ricavi dall’uno all’altro soggetto, senza una valida e comprovata giustificazione”. [21] La dottrina pressoché unanime concorda in merito all’impossibilità di attribuire autonomia soggettiva fiscale al “gruppo” consolidato. Per tutti si veda Fantozzi Augusto, La nuova disciplina Ires: I rapporti di gruppo, in: Rivista di diritto tributario, I, 2004, pagina 502. [22] Sul punto, in particolare, Zizzo Giuseppe, op. cit., pagina 416. [23] Non paiono condivisibili le argomentazioni contenute nella sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, sezione IV, 8 marzo 2010, n. 45 che ha ritenuto di potere individuare tale norma nel divieto di doppia imposizione sancito dall’articolo 163 TUIR. Per un’argomentata critica della sentenza, si veda Pepe Francesco, Spunti sul divieto di doppia imposizione “interna”, in: Rassegna tributaria, 2010, pagina 1391. Per un tentativo di individuare l’obbligo di cui si discorre nei principi generali sulla giusta imposizione ricavati dall’articolo 53 della Costituzione della Repubblica italiana, si veda Burelli Silvia, Spunti di riflessione su erronea imputazione dei costi ed accertamento del reddito nel consolidato nazionale tra principio di inerenza, divieto di doppia imposizione ed effettività della capacità contributiva, in: Rivista di diritto tributario, II, 2011, pagine 158 e seguenti. [24] Si veda in particolare la Corte di Cassazione, sentenza n. 2193 del 16 febbraio 2012, con cui la Corte ha censurato alla luce del principio del divieto di abuso del diritto una fattispecie che aveva natura evasiva, perché configurante una violazione diretta dell’articolo 110, comma 7, TUIR, in materia di transfer pricing. In argomento, Pedrotti Francesco, Il non condivisibile utilizzo dell’art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e del principio giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di prezzi di trasferimento, in: Rivista di diritto tributario, IV, 2012, pagina 24. [25] Sulla questione, si vedano, tra gli altri, Lupi Raffaello, op. cit., pagina 261; Ballancin Andrea, L’antieconomicità tra occultamento di capacità contributiva, elusione fiscale e il “dover essere” tributario, in: Rivista di diritto tributario, II, 2012, pagine 199 e seguenti. Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 [26] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n. 1464 del 21 gennaio 2009, secondo la quale occorrerebbe “verificare il lecito impiego o meno del concetto di inerenza” in quanto “vi è stretta correlazione tra condotta ipoteticamente elusiva e «portata» dell’inerenza che sottende l’applicabilità di meccanismi di detrazione e compensazione nella formazione del reddito di impresa, tanto implicando che i due fenomeni non possono essere vagliati l’uno indipendentemente dall’altro” (a commento, Beghin Mauro, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale e abuso del diritto tributario, in: Bollettino tributario, 2009, pagina 1418). Diversa è l’ipotesi affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 12622 del 20 luglio 2012, ove la Corte ha ravvisato la violazione del divieto di abuso del diritto in relazione alla deduzione di una minusvalenza realizzata per effetto della cessione di una partecipazione, quale ultimo atto di una sequenza di operazioni tra loro collegate e intervenute nell’ambito del gruppo. In tale contesto, a quanto sembra, il difetto di inerenza riguardava un “tassello” dell’operazione precedente alla cessione della partecipazione: in specie, la rinuncia ad un credito effettuato (senza apparenti ragioni economiche) dalla società partecipata, che non aveva dato origine ad alcuna contestazione nei confronti di tale società (in ragione della sua residenza estera), ma che aveva creato i presupposti per la successiva emersione della minusvalenza in capo alla partecipante-cedente. [27] Con riferimento alle plusvalenze realizzate tramite destinazione a finalità estranee di beni, si veda l’articolo 86, comma 1, lettera c) TUIR. Relativamente alle minusvalenze, si veda l’articolo 36, comma 18 D.L. n. 223/2006, convertito dalla L. n. 248/2006, che ne ha soppresso la deducibilità introdotta dalla riforma dell’Imposta sul reddito delle società (di seguito IRES). Per l’indeducibilità dei costi relativi ai beni di impresa concessi in godimento ai soci o familiari dell’imprenditore, si veda l’articolo 2, comma 36-quaterdecies D.L. n. 138/2011 (convertito dalla L. n. 148/2011). [28] In relazione all’inapplicabilità alle prestazioni di servizi delle disposizioni in materia di destinazione a finalità estranee di beni, cfr., inter alia, Leo Maurizio, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, 2010, pagina 1463. [29] La contestazione del difetto di inerenza o l’applicazione della norma in materia di destinazione di beni a finalità estranee all’impresa si presterebbero, invece, più propriamente a contrastare fenomeni macroscopici di diretto trasferimento di reddito intragruppo, attuati mediante acquisti o cessioni con controparti contrattuali appartenenti al gruppo, per corrispettivi del tutto privi di giustificazione economica (che danno luogo a costi abnormi o ricavi irrisori, sintomatici della natura erogatoria del negozio posto in essere). Sul punto, si veda anche Stevanato Dario, Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla derivazione contrattuale del concetto di reddito, in: Dialoghi tributari, n. 6/2008, pagina 87. [30] Altro esempio potrebbe riguardare la deduzione degli interessi passivi da parte di una società che abbia contratto un mutuo oneroso con una banca al solo scopo di utilizzare la liquidità così ottenuta per erogare un finanziamento gratuito alla società controllante residente (ciò, sempre che si ritenga che la sussistenza del requisito di inerenza debba sussistere anche per gli interessi passivi sostenuti da soggetti IRES, come la Suprema Corte sembra avere da ultimo riconosciuto nella sentenza n. 24930 del 25 novembre 2011, in linea con la dottrina dominante, con un revirement rispetto al proprio orientamento precedente). [31] Tale (censurabile) tendenza, rinvenibile nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, è posta in evidenza, in particolare, da Falsitta Gaspare, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in: Rivista di diritto tributario, II, 2010, pagina 359. 17 18 Diritto tributario italiano Voluntary disclosure: scenari attuali e prospettive future Pierpaolo Angelucci Dottore commercialista Scarioni Angelucci, Studio tributario associato in Milano Riflessioni circa le conseguenze dell'autodenuncia di patrimoni esteri 1. Premessa: l’introduzione del reato di autoriciclaggio e l’occasione di regolarizzare i capitali offshore La scorsa primavera è stata divulgata la relazione elaborata dalla Commissione Greco, un Gruppo di studio costituito dal Ministero della Giustizia nel gennaio 2013 con il compito di esaminare gli obblighi dello Stato italiano conseguenti ai trattati internazionali per il contrasto del fenomeno del riciclaggio di denaro. Il Gruppo di studio ha evidenziato che, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, il fenomeno del cosiddetto “autoriciclaggio” è una condotta non contemplata tra i reati previsti dall’ordinamento penale italiano, ed in particolare non inclusa nella fattispecie di riciclaggio prevista dal Codice penale[1]. La Commissione Greco ha pertanto auspicato l’introduzione di una nuova fattispecie che consenta la punibilità dell’autoriciclaggio e, a tal fine, sono state elaborate due distinte proposte di riformulazione della disposizione penale. Oggetto del presente contributo non è l’approfondimento delle proposte formulate in materia di riciclaggio, quanto le conseguenti riflessioni compiute dalla Commissione Greco, che, a fronte dell’introduzione di misure repressive di condotte gravi e dannose per l’economia del Paese, ha ritenuto opportuno suggerire l’introduzione di disposizioni che possano incentivare forme di collaborazione con gli autori di determinati illeciti e condurre al recupero integrale delle somme frutto di reato. Uno degli obiettivi che si pone il Gruppo di studio è l’emersione dei capitali che, nonostante le diverse edizioni dei cosiddetti “scudi fiscali”, sono ancora illecitamente detenuti all’estero. Tuttavia, il raggiungimento di un simile obiettivo non deve avvenire, secondo la Commissione Greco, tramite nuove forme di condono (che potrebbero essere incentivanti di ulteriori fenomeni di evasione fiscale), bensì mediante l’introduzione di “strumenti di premialità” in favore di contribuenti che dichiarino spontaneamente l’esistenza di un capitale detenuto illecitamente all’estero. Le conseguenze di una dichiarazione sponta- nea (cosiddetta “autodenuncia”) consisterebbero nel pagamento per intero delle imposte evase e nell’attenuazione delle sanzioni amministrative a seconda dell’effettività e dell’esaustività della collaborazione offerta in termini di informazioni fornite sull’origine dei capitali, nonché sulle modalità con cui è avvenuto il trasferimento e l’occultamento all’estero. 2. Il contesto internazionale: le linee guida delineate dall’OCSE nel paper “Offshore Voluntary Disclosure” Va ancora ricordato che l’iniziativa della Commissione Greco si inserisce in uno scenario internazionale particolarmente sensibile alla problematica dei patrimoni offshore, come dimostra il documento Offshore Voluntary Disclosure, pubblicato nel settembre 2010. Nel paper dell’OCSE viene affrontato il tema della regolarizzazione dei capitali illecitamente depositati nelle giurisdizioni offshore e vengono fornite importanti linee guida in merito a provvedimenti che possono essere adottati dagli Stati per consentirne la regolarizzazione. Nella prima parte del documento sono delineati alcuni principi generali che dovrebbero essere seguiti dagli Stati che si accingono a introdurre misure di voluntary disclosure: in primo luogo, secondo l’OCSE occorre che le disposizioni siano chiare in merito alle fattispecie coperte, ai periodi di imposta interessati, ai soggetti coinvolti, e ovviamente in merito al funzionamento degli eventuali “strumenti di premialità”. Il paper sottolinea come il programma di voluntary disclosure debba essere attrattivo nel breve periodo e al contempo debba garantire che i contribuenti che hanno aderito al programma continuino a dimostrarsi adempienti agli obblighi fiscali. In particolare, l’attrattività del programma non deve essere valutata solo in termini di rilevanza dei costi per il contribuente, ma dipende anche dalla circostanza che la disclosure sia percepita dal contribuente come un’opportunità speciale, e non ripetibile, per regolarizzare la propria posizione. L’OCSE indica, inoltre, che il successo di simili programmi dipende anche dal grado di chiarezza che le Autorità forniscono circa l’utilizzo della discrezionalità nell’irrogazione delle sanzioni, e dal grado di rischio di ulteriori attività di accertamento nei confronti dei soggetti che hanno compiuto la disclosure. Infine, l’OCSE sostiene che deve essere chiaro il rapporto tra il programma di voluntary disclosure e le misure an- Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 tiriciclaggio ordinariamente previste; in particolare, la disclosure non deve implicare l’esenzione dagli adempimenti antiriciclaggio da parte di soggetti terzi (intermediari finanziari, professionisti e anche la stessa Amministrazione finanziaria), coinvolti nella procedura di emersione. Dopo aver enunciato i principi che dovrebbero caratterizzare una disciplina di voluntary disclosure, nel documento dell’OCSE sono esposti una serie di fattori che dovrebbero essere oggetto di considerazione nell’implementazione della stessa. L’OCSE ritiene, infatti, che le Autorità dovrebbero emanare istruzioni sufficientemente precise in modo da incoraggiare l’adesione di contribuenti che, pur essendo propensi alla regolarizzazione, potrebbero essere scoraggiati dalla mancanza di indicazioni chiare in merito ad alcune criticità. In particolare, si tratterebbe di circolarizzare una vera e propria “guida” ove siano trattate le seguenti questioni: ◆ la procedura per la disclosure: occorre indicare quale sia l’Autorità da contattare, gli uffici e i funzionari di riferimento, nonché la documentazione necessaria per procedere; ◆ i casi di documentazione incompleta: la guida dovrebbe chiarire come le Autorità si pongano in situazioni in cui le informazioni rese dal contribuente non siano complete. Ci possono essere, infatti, numerosi casi in cui il contribuente non è in grado di fornire una ricostruzione completa in merito al patrimonio estero (tipico è il caso dei patrimoni ricevuti per successione ereditaria ove non sempre è possibile per l’erede accedere agevolmente a tutte le informazioni e ai documenti che riguardano il patrimonio estero)[2]; ◆ la riservatezza delle informazioni: il contribuente deve conoscere il livello di discrezione della procedura. L’obiettivo può essere ottenuto limitando l’accesso alle informazioni a determinati funzionari dell’Amministrazione finanziaria o anche mediante specifiche disposizioni che introducano l’obbligo di segretazione nei confronti dei terzi; ◆ le eventuali future indagini delle Autorità: i contribuenti generalmente ritengono che all’adesione a procedure di disclosure possano conseguire ulteriori attività di accertamento a causa del mutamento del “profilo di rischiosità fiscale”. Le Autorità dovrebbero considerare se rendere manifesti eventuali indirizzi operativi interni circa la previsione di indagini aggiuntive nei confronti di contribuenti che nel passato sono stati inadempienti agli obblighi tributari; ◆ la richiesta di informazioni a parti terze: la guida dovrebbe indicare in quali casi le Autorità potrebbero rivolgersi a parti terze (intermediari finanziari, soci in affari del contribuente, datori di lavoro) per verificare le informazioni fornite dal contribuente; ◆ le sanzioni e gli interessi: la guida dovrebbe precisare le modalità di applicazione delle sanzioni e degli interessi in modo che il contribuente sia pienamente consapevole del costo della regolarizzazione; ◆ le misure penali: la guida avrebbe il compito di chiarire se e in quali casi non vi siano delle conseguenze di natura penale in capo al soggetto che aderisce alla procedura di emersione; ◆ l’identificazione del contribuente: le Autorità dovrebbero indicare se e in che misura è possibile intraprendere la procedura di emersione senza la necessità (quanto meno iniziale) di manifestare l’identità del contribuente. 3. Il panorama italiano: le attuali conseguenze di una voluntary disclosure Il contesto internazionale a cui si è fatto cenno appare dunque favorevole a provvedimenti di emersione di capitali detenuti illecitamente all’estero, a condizione che le disposizioni adottate dagli Stati non assumano la forma del condono, bensì prevedano l’intero recupero delle imposte sottratte a tassazione ed eventuali riduzioni delle misure sanzionatorie a carico del contribuente che aderisce al programma di disclosure. Anche l’Amministrazione finanziaria italiana sembra essersi espressa a favore di processi di voluntary disclosure a cui si fa espressa menzione nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 25 del 31 luglio 2013. Nell’ambito degli indirizzi dell’attività di contrasto all’evasione internazionale, infatti, la Circolare attribuisce ad un determinato ufficio dell’Agenzia – si tratta dell’Ufficio Centrale per il Contrasto agli Illeciti Finanziari Internazionali (UCIFI) – “il compito di sperimentare l’azione di contrasto […] anche attraverso lo sviluppo di attività volte alla volontaria disclosure di attività economiche e finanziarie illecitamente detenute all’estero da contribuenti nazionali”. Nonostante l’apertura dell’Agenzia delle Entrate, ad oggi, l’entità delle sanzioni conseguenti alla mancata compilazione del modulo RW, unitamente all’apertura di un procedimento penale qualora si integri un reato penale tributario, rappresentano il maggior ostacolo alle procedure di voluntary disclosure. L’onerosità delle sanzioni RW è dovuta da un lato alla gravosità della misura sanzionatoria prevista dalla legge[3] , e d’altro lato alla prassi seguita dall’Agenzia delle Entrate nell’applicazione delle disposizioni relative al cosiddetto “cumulo giuridico” di cui all’articolo 12 D.Lgs. n. 472/1997, che rimangono sostanzialmente inattuate. Come noto, in linea di principio le sanzioni RW si applicano per ogni singolo periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione consistente nell’omessa indicazione delle attività estere. Pertanto, in caso di illecita detenzione di capitali all’estero per un lasso di tempo pluriennale, la violazione viene ripetuta e la sanzione viene potenzialmente “moltiplicata”. In altri termini, è comminato il cosiddetto “cumulo materiale” delle sanzioni, che consiste nella sommatoria tout court delle sanzioni applicate per tutte le violazioni di ogni singolo periodo di imposta. In questi casi, in assenza di una misura (che dovrebbe essere il cumulo giuridico) che disattivi il cumulo materiale si addiviene ad un rilevante onere sanzionatorio[4]. Nella prassi adottata dall’Agenzia delle Entrate nelle più recenti attività di accertamento di patrimoni esteri, ed in particolare negli atti di contestazione relativi al modulo RW, non ha trovato applicazione l’irrogazione di sanzioni mediante il cumulo giuridico, che in sostanza prevede che in caso di ripetute violazioni si applichi la sanzione per la violazione più grave, congruamente aumentata[5]. Infatti, una volta determinata la sanzione, l’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n. 472/1997 prevede a favore del contribuente la possibilità di definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata ma comunque non inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni 19 20 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 più gravi relative a ciascun tributo. In altri termini, sulla base delle disposizioni sopra richiamate, nel caso di contestazioni di violazioni relative alla omessa compilazione del modulo RW, deve essere effettuato il confronto tra: La sanzione da comminare è quella prevista dalla Tabella 2 e determinata con il cumulo giuridico, in quanto inferiore alla sanzione determinata con il cumulo materiale. Tuttavia, nell’impostazione dell’Agenzia delle Entrate, la somma per la definizione non può essere inferiore alla somma di 1/3 dei minimi edittali di ogni anno. Pertanto, nell’esempio, per definire la contestazione occorrerebbe assolvere una sanzione pari a 7'200 euro (che si rivela pari al cumulo materiale). ◆ 1/3 della sanzione comminata (ossia il minore ammontare tra il cumulo giuridico e il cumulo materiale), e ◆ 1/3 dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo. 4. Il panorama italiano (segue): la disposizione proposta dalla Commissione Greco La Commissione Greco, in coerenza con il panorama internazionale delineato nel paper dell’OCSE, e consapevole del disincentivo rappresentato dal gravoso onere delle sanzioni RW, per favorire i procedimenti di voluntary disclosure ha proposto l’introduzione di una norma che preveda “strumenti di premialità” nei confronti di contribuenti che autodenuncino la detenzione illecita di capitali all’estero, senza che tale provvedimento possa essere interpretato come una forma di condono né possa rappresentare un incentivo a nuovi episodi di evasione. I criteri guida della procedura di emersione individuati dalla Commissione Greco consisterebbero: In questo caso, la sanzione da pagare per definire la pretesa dell’Agenzia delle Entrate sarebbe la maggiore dei due ammontari. Con riferimento alle sanzioni RW, tale confronto dovrebbe condurre a definire la pretesa dell’Agenzia con il pagamento di 1/3 della sanzione indicata (solitamente il cumulo giuridico), che è ragionevolmente superiore ad 1/3 del minimo edittale per la violazione più grave prevista per l’unico “tributo” [6] , che sarebbe la sanzione collegata alla mancata indicazione nel modulo RW della somma più rilevante (generalmente si tratta della consistenza più elevata che doveva essere indicata in un determinato anno nella sezione II del modulo). Tuttavia, gli Uffici impositori, sulla scorta di indicazioni fornite dalla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate in un documento ufficiale risalente al 2001 (ove peraltro non venivano nemmeno menzionate le sanzioni RW)[7] , hanno adottato l’impostazione per cui, per definizione delle sanzioni, deve essere assolto il maggiore tra 1/3 della sanzione comminata (minore tra cumulo materiale e giuridico) e 1/3 della somma dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi di ogni periodo di imposta. In sostanza, ne consegue un sostanziale ritorno al risultato del cumulo materiale[8]. ◆ nell’obbligo del pagamento per intero delle imposte evase[10]; ◆ nell’attenuazione delle sanzioni amministrative in relazione all’effettività e all'esaustività della collaborazione offerta e delle informazioni fornite circa l’origine dei capitali e il loro trasferimento e occultamento all’estero; ◆ nella non perseguibilità penale delle condotte di infedele e omessa dichiarazione, che spesso caratterizzano rilevanti patrimoni localizzati all’estero da cui sono conseguiti redditi non dichiarati da parte del contribuente[11]. Per meglio chiarire l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate, si assuma un patrimonio estero non dichiarato per gli anni 2008, 2009 e 2010, rispettivamente pari a 100'000, 120'000 e 140'000 euro. Peraltro, la disposizione elaborata dalla Commissione Greco prevede conseguenze diverse a seconda che l’autodenuncia del contribuente sia cosiddetta “preventiva”, oppure avvenga Tabella 1: Applicazione del cumulo materiale Consistenza (in migliaia di euro) Aliquota sanzione Sanzione (in migliaia di euro) 100 6% 6.0 120 6% 7.2 140 6% 8.4 Cumulo materiale (6.0+7.2+8.4) 21.6 Riduzione per acquiescenza (21.6/3) 7.2 Tabella 2: Applicazione del cumulo giuridico Calcolo della sanzione Sanzione (in migliaia di euro) Sanzione per la violazione più grave 8.4 Aumento del 50% (articolo 12, comma 5 D.Lgs. n. 472/1997) 4.2 Cumulo giuridico[9] 12.6 Riduzione per acquiescenza (12.6/3) 4.2 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 a seguito di un’attività di verifica delle Autorità, che induca il contribuente a manifestare spontaneamente la propria situazione di illecito, collaborando fattivamente per il recupero delle imposte evase. Nel prosieguo sarà trattato solo il caso dell’autodenuncia “preventiva”, che ad oggi sembra interessare non pochi contribuenti desiderosi di rimediare spontaneamente a passate inadempienze. A tal riguardo, la norma proposta dalla Commissione Greco (il primo comma dell’articolo 4-bis – intitolato “Dichiarazioni tardive del contribuente” – che sarebbe introdotto nel D.L. n. 167/1990), dispone che “nel calcolo dell’imposta evasa di cui agli art. 4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000, non si tiene conto dell’ammontare delle attività detenute all’estero in violazione degli obblighi di cui all’art. 4 del presente decreto e di quello dei relativi redditi se il contribuente fornisce spontaneamente agli Uffici finanziari tutte le informazioni in ordine all’origine, al trasferimento all’estero, all’eventuale rimpatrio e alla detenzione delle predette attività e dei relativi redditi, prima che sia stata constatata la violazione ai suddetti obblighi o siano già iniziati accessi, ispezioni, verifiche o, comunque, altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui questi o le altre persone solidalmente responsabili della violazione hanno avuto formale conoscenza o sia stato già avviato un procedimento penale per i delitti previsti dal D.Lgs. n. 74/2000. In tal caso, le sanzioni amministrative previste dal presente decreto possono essere diminuite sino alla metà e non si applica il disposto di cui all’art. 16 comma 3 del D.Lgs. 472/97”. La proposta dalla Commissione Greco si rivela in linea con alcuni principi enunciati nel paper dell’OCSE e avrebbe sicuramente il pregio di semplificare il panorama attuale. Detta disposizione, oltre a consentire il superamento della problematica penale nei casi di infedele e omessa dichiarazione (rimarrebbero punibili, seppur con una riduzione di pena, i comportamenti più gravi, quali l’utilizzo di fatture false[12]), permetterebbe l’irrogazione delle sanzioni amministrative relative alla mancata compilazione del modulo RW in misura più moderata rispetto a quanto, come visto, avverrebbe oggi in caso di autodenuncia. Nel paragrafo precedente sono stati illustrati i motivi per cui con le norme vigenti il costo di una autodenuncia si rivelerebbe piuttosto elevato in termini di sanzioni RW; sarà, pertanto, più agevole comprendere la portata della disposizione proposta dalla Commissione Greco. In particolare, a seguito dell’introduzione dell’articolo 4-bis, l’attenuazione delle sanzioni sarebbe ottenibile grazie: ◆ alla possibile riduzione delle sanzioni sino alla metà; ◆ alla non applicazione dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n. 472/1997. Si osserva che la possibile riduzione delle sanzioni sino alla metà sembra lasciata alla totale discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria[13]. Tuttavia, tale discrezionalità, pur essendo tipica del sistema sanzionatorio tributario, non appare del tutto coerente con le indicazioni dell’OCSE, secondo cui, invece, il contribuente dovrebbe avere una ragionevole conoscenza del costo dell’autodenuncia. Peraltro, tale previsione appare eccessivamente discrezionale se si pone riferimento alla struttura e al tenore letterale della norma. Infatti, il primo periodo della disposizione proposta prevede che in caso di voluntary disclosure non siano perseguibili i reati di infedele e omessa dichiarazione a condizione che: i) il contribuente fornisca “tutte” le informazioni richieste, e ii) non siano già in essere verifiche o indagini nei suoi confronti. Il secondo periodo della norma prevede che “In tal caso” (ossia solo al verificarsi delle suddette condizioni), il contribuente può beneficiare della riduzione delle sanzioni amministrative RW. Pertanto, la possibile riduzione delle sanzioni alla metà non dipende più dal grado di collaborazione (che, a mente del primo periodo della norma, deve essersi già manifestata in misura totale[14]), ma sembrerebbe essere una decisione del tutto discrezionale dell’Agenzia delle Entrate. Con riferimento, invece, alla non applicazione dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n. 472/1997 da tale previsione ne conseguirebbe, invece, l’irrogazione delle sanzioni RW senza la necessità di effettuare il confronto con i minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo. In sostanza si può immaginare che, le sanzioni RW sarebbero irrogate applicando il meccanismo del cumulo giuridico. Anche in questo caso, si osserva che l’Agenzia delle Entrate avrebbe ampia discrezionalità di irrogare una sanzione mite oppure decisamente gravosa, a seconda dei “moltiplicatori” utilizzati per aumentare la sanzione per la violazione più grave. In questo caso, tuttavia, l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Agenzia delle Entrate sarebbe più comprensibile in quanto regolata dai criteri generali che disciplinano la determinazione delle sanzioni[15]. Un’ultima annotazione tecnica riguarda ulteriori conseguenze della non applicabilità dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n. 472/1997. In particolare, tale norma, oltre a richiedere il confronto con i minimi edittali, consente: i) la riduzione ad 1/3 della sanzione irrogata in caso di acquiescenza; ii) la non irrogabilità delle sanzioni accessorie in caso di definizione della contestazione dell’Amministrazione. Secondo il dettato letterale della disposizione proposta dalla Commissione Greco, il comma 3 dell’articolo 16 D.Lgs. n. 472/1997 sarebbe inapplicabile “per intero”, e non solo per la parte che richiede il confronto con i minimi edittali. Pertanto, in caso di acquiescenza del contribuente non sarebbe più prevista la considerevole riduzione ad 1/3 della sanzione irrogata, che rimarrebbe pertanto quella determinata tramite il meccanismo del cumulo giuridico. Elenco delle fonti fotografiche: http://static.fanpage.it/calciofanpage/wp-content/uploads/2012/04/ scandalo-procuratori-agenzia-638x425.jpg [25.09.2013] 21 22 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 [1] L’analisi condotta dal Gruppo di studio ha evidenziato che il reato di riciclaggio di cui all’articolo 648-bis del Codice penale – a norma del quale “Fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493” – consiste in una condotta punibile soltanto fuori dai casi di concorso nel reato presupposto del riciclaggio, e pertanto inefficace sia nei confronti del riciclaggio compiuto autonomamente dall’autore del reato presupposto (ad esempio un contribuente che evade le imposte) sia nei confronti di un altro soggetto – il cosiddetto “riciclatore” – che concorra anche nel compimento del reato presupposto (ad esempio chi provvede a mettere a disposizione società per l’emissione di fatture false). [2] Nell’ordinamento italiano vige il principio di intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi; pertanto, la successione è una circostanza che può consentire l’emersione di patrimoni esteri con minori criticità. Gli eredi che, invece, non denunciano i patrimoni esteri, perpetrando così l’illecito, nell’eventualità di una successiva autodenuncia potrebbero, in effetti, trovarsi in una situazione complicata dalla lacunosità delle informazioni riguardo al patrimonio. [3] Si ricorda che, prima delle modifiche recate dalla Legge europea 2013, le sanzioni per la mancata compilazione del modulo RW, a seconda dei periodi di imposta interessati, andavano dal 5 al 25% o dal 10 al 50% degli ammontari di cui si era omessa l’indicazione. A seguito dell’introduzione della Legge europea 2013, le sanzioni sono state ridotte e verranno ora applicate ordinariamente nella misura variabile dal 3 al 15%, e dal 6 al 30% per le attività detenute in Paesi cosiddetti “black list”. [4] A mero titolo esemplificativo, nel caso di capitali detenuti in Svizzera (Paese considerato black list), tenendo conto, per il principio del favor rei di cui all’articolo 3 D.Lgs. n. 472/1997, delle nuove misure sanzionatorie anche per le violazioni commesse nei periodi di imposta passati, e assumendo l’applicazione della sanzione minima (5 o 6% a seconda del periodo di imposta, sempre in virtù del favor rei), il cumulo materiale delle sanzioni irrogabili per i periodi di imposta accertabili (dal 2004 in poi ed escludendo il 2011 per via del ravvedimento operoso) condurrebbe ad un onere pari al 38% di un capitale ipotizzato costante nel corso degli anni. Occorre rilevare che, in applicazione dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n. 472/1997, detto onere potrebbe essere ridotto ad 1/3 qualora il contribuente faccia acquiescenza al provvedimento sanzionatorio, accettando quindi le contestazioni mosse dell’Amministrazione (ossia ciò che dovrebbe ragionevolmente accadere in caso di voluntary disclosure). In ogni caso, pur tenendo conto dell’applicazione delle sanzioni nella misura minima e della riduzione “per acquiescenza”, il computo del cumulo materiale delle sanzioni RW non è di poco conto, specie se si considera che per determinare il costo complessivo della disclosure occorre ovviamente addizionare l’ammontare delle imposte evase, gli interessi, e le relative sanzioni. [5] L’articolo 12 D.Lgs. n. 472/1997 prevede l’irrogazione di una sanzione unica calcolata tramite il meccanismo del cosiddetto “cumulo giuridico” qualora con una sola azione od omissione siano violate diverse disposizioni anche relative a tributi diversi, oppure con più azioni od omissioni siano compiute diverse violazioni formali della stessa disposizione. In tali casi la sanzione irrogata è quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata da un quarto al doppio; la medesima disposizione è applicabile, in virtù del successivo comma 2, anche in ipotesi di progressione nelle violazioni tese a pregiudicare la determinazione della base imponibile del contribuente; il comma 5 dell’articolo 12 prevede un ulteriore aumento della sanzione (dalla metà al triplo) quando violazioni della stessa indole vengono commesse in periodi di imposta diversi, come tipicamente accade nel caso della mancata compilazione del modulo RW. La norma dispone poi che la sanzione determinata mediante l’applicazione del cumulo giuridico non possa essere irrogata se si rivela superiore a quella che risulterebbe dal cumulo delle sanzioni previste per le singole violazioni (cosiddetto “cumulo materiale”). Pertanto, la sanzione da comminare è rappresentata dall’ammontare minore tra il cumulo giuridico e il cumulo materiale. [6] Peraltro, risulta in ogni caso incoerente il riferimento ai minimi edittali per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo, in quanto la sanzione RW non è collegata ad alcun tributo. Infatti, a seguito delle modifiche recate dal D.L. n. 98/2011, le sanzioni collegate al tributo devono essere irrogate con l’atto di accertamento del tributo stesso, con le regole dell’articolo 17 D.Lgs. n. 472/1997. Le sanzioni RW vengono invece irrogate ai sensi dell’articolo 16 D.Lgs. n. 472/1997, e il riferimento ancora posto dall'articolo 16, comma 3 ai minimi edittali per ciascun tributo è evidentemente dovuto ad una mancanza di coordinamento normativo a seguito dell’introduzione del D.L. n. 98/2011. [7] Cfr. nota dell’Agenzia delle Entrate dell’11 settembre 2001, n. 159135. [8] Specie dopo l’approvazione della Legge europea 2013 che ha abolito la sezione III del modulo RW relativa ai trasferimenti, e nell’assunzione che la mancata compilazione del modulo RW sia considerata nel complesso un’unica violazione. [9] Potrebbe ritenersi che, a seguito dell’entrata in vigore della Legge europea 2013, non si applichi più l’ulteriore aumento previsto dall’articolo 12, commi 1 e 2. Infatti, per via dell’abrogazione della sezione III del modulo RW, l’unica violazione sarà quella riferita alla sezione II. [10] Da intendersi per i periodi di imposta per i quali non è ancora intervenuta la prescrizione. [11] Si rammenta che a partire dal 2011 i reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione si integrano quando l’imposta evasa è superiore rispettivamente a 50’000 euro e 30’000 euro (cfr. articoli 4 e 5 D.Lgs. n. 74/2000). [12] Il comma 3 dell’articolo 4-bis prevede la riduzione della pena fino alla metà per il reato di cui all’articolo 2 D.L. n. 74/2000. Nulla viene disposto in merito all’articolo 3 del medesimo provvedimento. [13] Peraltro, nel nostro ordinamento sarebbe già prevista una norma simile che consentirebbe – a discrezione dell’Agenzia delle Entrate – una sensibile riduzione delle sanzioni. Si tratta dell’articolo 7, comma 4 D.Lgs. n. 472/1997, secondo cui “Qualora concorrano eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo”. Tuttavia, non sono a conoscenza dell’autore casi in cui detta norma sia stata applicata nell’irrogazione delle sanzioni RW. [14] Peraltro, ciò comporta che la non perseguibilità penale non sia una conseguenza automatica dell’autodenuncia, ma sia comunque subordinata alla totale collaborazione del contribuente in termini di informazioni rese all’Agenzia delle Entrate. [15] Cfr. l’articolo 7 D.Lgs. n. 472/1997, ove si pone riferimento alla condotta del contribuente, oltre che alla sua personalità e alle sue condizioni economiche e sociali. Diritto tributario internazionale e dell'UE Stabile organizzazione e stabilimento d'impresa Marco Calcagno Consulente fiscale T&F Tax and Finance SA, Lugano [email protected] Dal Modello OCSE all'ordinamento interno elvetico 1. Nota introduttiva: la funzione della stabile organizzazione nell’ordinamento tributario Istituto tipico del diritto tributario, la stabile organizzazione costituisce una “finzione giuridica” tesa ad individuare una soluzione condivisa ad uno dei principali quesiti di fiscalità internazionale. Lo studio della fiscalità internazionale consente di comprendere come viene ripartita la pretesa fiscale (il cosiddetto ius impositionis) fra i vari Stati in cui si realizzano operazioni transnazionali di natura economica. Ebbene, il soggetto principe delle operazioni economiche transfrontaliere è certamente l’impresa, intesa latu sensu a prescindere dunque dalla forma giuridica rivestita. È perciò l’impresa che, realizzando profitti anche al di là dei confini nazionali, richiede l’individuazione di un criterio che consenta di localizzare fiscalmente i redditi prodotti in uno Stato piuttosto che in un altro. Difatti, i profitti realizzati dall’impresa potenzialmente rilevano come redditi tassabili sia nello Stato in cui l’impresa conserva la propria residenza fiscale (cosiddetto Stato di residenza) sia nello Stato estero (ma potrebbe essere anche più d’uno) in cui l’impresa svolge la sua attività (cosiddetto Stato della fonte). Si tratta, in altri termini, di individuare un criterio che permetta di delimitare e risolvere la pretesa fiscale fra lo Stato di residenza e lo Stato della fonte. Infatti, è ben evidente che non tutti i profitti realizzati da un’impresa all’estero potranno essere qui tassati, pena l’insorgenza di obblighi fiscali e amministrativi che penalizzerebbero fortemente le attività transnazionali. A titolo esemplificativo, è facilmente intuibile come la semplice vendita di merci a clienti esteri difficilmente possa generare materia imponibile al di fuori dello Stato di residenza. Viceversa, in presenza di un maggiore radicamento dell’impresa nello Stato estero, ben potrebbe ritenersi che tale insediamento generi redditi tassabili nello Stato della fonte. Ciò detto, dovrebbe comprendersi come la stabile organizzazione – declinata nelle pagine successive – rappresenti dunque quel criterio distributivo necessario per delimitare le pretese fiscali avanzate dagli Stati sui redditi transnazionali prodotti dall’impresa, fornendo così risposta al quesito accennato in apertura. Si fa così ricorso al concetto di stabile organizzazione per “misurare” il radicamento di un’impresa oltre confine: se questa misura viene colmata l’impresa si considera avere una stabile organizzazione all'estero cosicché i redditi da questa prodotti saranno ivi tassabili. Più rigorosamente, la stabile organizzazione può essere definita come un istituto di diritto tributario che consente di collegare ad uno Stato il reddito prodotto all’interno del suo territorio da un’impresa non residente. Pertanto, dal punto di vista dello Stato della fonte l’individuazione di una stabile organizzazione dell’impresa estera fa sì che si integri un presupposto d’imposta nei redditi realizzati all’interno dei propri confini dal soggetto estero. In questo modo è possibile dunque operare una distinzione fra i redditi imponibili nello Stato della fonte da quelli tassabili esclusivamente nello Stato ove risiede l’impresa. La stabile organizzazione svolge quindi la funzione di localizzare i redditi dell’impresa multinazionale sia in positivo, nel senso di attrarre a tassazione nello Stato della fonte, sia in negativo, nel senso di limitare la pretesa impositiva a favore del solo Stato di residenza. La funzione localizzatrice della stabile 23 24 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 organizzazione dovrebbe essere dunque la chiave di lettura con cui approcciarsi sia all’articolo 5 del Modello OCSE di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio (di seguito Modello OCSE) sia agli articoli 4 e 51 LIFD, che verranno presentati nelle successive pagine. L’importanza di una qualificazione univoca e condivisa – fra Stato della residenza e Stato della fonte – di stabile organizzazione consentirà una pacifica ripartizione della pretesa fiscale fra gli Stati interessati, evitando in questo modo fenomeni di doppia imposizione (o, più raramente, di doppia non imposizione). 2. La definizione di stabile organizzazione nel Modello OCSE 2.1. In generale Ci si addentra ora nella definizione di stabile organizzazione così come elaborata nel Modello OCSE e nel relativo Commentario. A titolo preliminare occorre sottolineare, da un lato, che in Svizzera la normativa convenzionale – in quanto lex specialis – prevale sulla normativa interna (ove più favorevole al contribuente) e, dall’altro, che il Modello OCSE assume rilevanza quale strumento interpretativo delle specifiche convenzioni in vigore. Sicché, qualora lo Stato della residenza e quello della fonte non siano legati da una convenzione contro le doppie imposizioni (di seguito CDI) non potrà che trovare applicazione unicamente la normativa interna di ciascheduno Stato, con possibili fenomeni di doppia imposizione, mentre al Modello OCSE non si potranno che fare dei richiami del tutto non vincolanti. Pertanto, quando si avrà necessità di valutare la presenza, o meno, di una stabile organizzazione occorrerà senza indugio accertarsi dell’esistenza di una CDI con lo Stato estero coinvolto. Il testo in vigore costituirà dunque il riferimento normativo cui attenersi al fine di appurare la presenza di una stabile organizzazione, mentre il Modello OCSE e soprattutto il relativo Commentario rappresenteranno degli utili strumenti interpretativi[1]. In considerazione delle diverse modalità con cui prende forma l’attività estera dell’impresa, la definizione di stabile organizzazione si declina quindi in due accezioni: materiale e personale. Il Modello OCSE dedica i primi 4 paragrafi dell’articolo 5 alla stabile organizzazione materiale, mentre i paragrafi 5 e 6 si occupano della declinazione personale. 2.2. Articolo 5, paragrafi 1-4 Modello OCSE: la stabile organizzazione materiale L’articolo 5 Modello OCSE riserva al concetto di stabile organizzazione una definizione concisa ed essenziale. Difatti, l’articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE si limita a definire la stabile organizzazione materiale come un “fixed place of business through which the business of an enterprise is wholly or partly carried on”. La definizione viene ampiamente sviluppata nel Commentario all’articolo 5 Modello OCSE, dove si forniscono finanche degli esempi operativi di grande aiuto per l’interprete del diritto così come per l’operatore economico. Sebbene la definizione sia decisamente stringata, essa contiene tutti gli elementi necessari affinché si integri un’ipotesi di stabile organizzazione materiale. Tali condizioni minime sono individuabili in: 1) 2) 3) 4) presenza di una sede fissa di affari (place of business); permanenza della sede fissa di affari (fixed place of business); svolgimento di un’attività economica (business); utilizzo della sede per lo svolgimento della predetta attività economica (through which the business […] is carried on). Il primo requisito richiede dunque l’esistenza di una sede fissa d’affari, intendendosi con tale locuzione qualsiasi tipo di edificio, installazione, struttura, ma anche infrastrutture, aree utilizzate, anche in via non esclusiva, dal soggetto non residente per lo svolgimento della propria attività di impresa. Da notare che ai fini dell’individuazione della presenza della sede fissa d’affari rileverebbe la semplice disponibilità della stessa, mentre si tende ad escludere che al titolo giuridico cui deriva tale disponibilità (proprietà, locazione, usufrutto, eccetera) possa essere attribuito un ruolo determinante (cfr. paragrafo 4.2 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE). Il secondo requisito ritiene necessaria la permanenza, sia spaziale che temporale, della sede fissa di affari. Il Commentario considera soddisfatto tale requisito nel momento in cui sia il cosiddetto location test (permanenza nel luogo) che il permanence test (permanenza temporale) diano esito positivo. È bene tenere a mente che tutti i requisiti in rassegna, ma in particolare la permanenza spaziale e temporale, vanno valutati in considerazione dell’attività di impresa effettivamente svolta. Inoltre, il cosiddetto permanence test richiede di considerare sia l’aspetto oggettivo che quello soggettivo, vale a dire che il radicamento temporale va misurato anche in ragione dell’intenzionalità di mantenere nel tempo la sede fissa di affari. Il terzo requisito richiede invece lo svolgimento di un’attività economica (cosiddetto business activity test), sempreché – come verrà poi meglio specificato dall’articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE – non si tratti di un’attività di natura ausiliaria o preparatoria. È bene sottolineare che il cosiddetto business activity test si considera soddisfatto qualora la stabile organizzazione svolga quantomeno un’attività tesa alla realizzazione di profitti per l’impresa complessivamente considerata, sicché la contribuzione alla produzione di reddito da parte della stabile organizzazione può essere anche di tipo indiretto. Infine, la quarta ed ultima condizione prescrive un nesso di strumentalità fra la sede fissa di affari e l’attività svolta dall’impresa estera (cosiddetto business connection test). Pertanto, occorre che lo svolgimento della predetta attività imprenditoriale (business activity) avvenga per mezzo della sede fissa di affari (fixed place of business). Appare evidente che anche il nesso di strumentalità andrà verificato caso per caso. Da notare, inoltre, che il Commentario suggerisce di interpretare in senso ampio questo nesso di strumentalità[2]. Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Brevemente descritti gli elementi imprescindibili della stabile organizzazione materiale, è possibile comprendere come il processo di individuazione di una stabile organizzazione, in mancanza di una definizione dettagliata e copiosa, debba procedere proprio attraverso la disamina e la puntuale verifica dei predetti requisiti. Da quanto detto fin qui si noterà l’assenza di riferimenti all’elemento personale nel processo di individuazione della stabile organizzazione materiale. Sebbene la rilevanza dell’elemento umano sia una questione ancora in parte dibattuta, la lettura del Commentario, ed in particolare del paragrafo 42.6 all’articolo 5 Modello OCSE, suggerisce di ritenere non indispensabile la presenza di personale affinché si possa integrare una stabile organizzazione [3]. 2.3. Articolo 5, paragrafo 2 Modello OCSE: la cosiddetta positive list Accorre in aiuto all’interprete del diritto il successivo paragrafo 2 dell’articolo 5 Modello OCSE, laddove vengono forniti una serie di esempi che costituiscono prima facie ipotesi di stabile organizzazione materiale (cosiddetta positive list). È lo stesso Commentario a precisare che le fattispecie elencate rappresentano solamente in prima analisi esempi di stabile organizzazione, essendo comunque necessario il rispetto delle condizioni poste dall’articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE e testé descritte. Prima di entrare nel dettaglio della positive list si dà evidenza che tale elenco non è da considerarsi esaustivo bensì meramente esemplificativo, essendo pertanto possibile che si configurino ipotesi di stabile organizzazione materiale anche al di fuori delle fattispecie presenti nell’articolo 5 paragrafo 2 Modello OCSE (in tal senso si esprime anche il Commentario). Nella positive list vengono dunque compresi: a) la sede di direzione (place of management), intesa come il luogo in cui si dirige parte o la totalità dell’attività di un’impresa. A titolo esemplificativo, si fa presente che il concetto di place of management comprende: un centro direzionale, di supervisione e di coordinamento degli affari della società estera; b) la succursale (branch)[4]: è l’ipotesi di stabile organizzazione più comune nella prassi, giacché trattasi di un’appendice dell’impresa estera che opera nello Stato della fonte in qualità di entità economica distinta, fermo restando invece l’unicità giuridica. Si fa notare come il Commentario difetti di una compiuta disamina di questa fattispecie, sebbene sia probabilmente la modalità più caratteristica con cui un’impresa cerca di radicarsi oltre confine; c) un ufficio (office); d)un’officina (factory); e) un laboratorio (workshop); f) una miniera, un pozzo di petrolio o gas, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali (a mine, an oil or gas well, a quarry or any other place of extraction of natural resources). Il Commentario suggerisce di dare un’interpretazione ampia alle fattispecie previste dalla lettera f (“should be interpreted broadly”) tale da comprendere, ad esempio, anche i cosiddetti luoghi di estrazione offshore. Per contro, non sono comprese nella lettera f le attività di esplorazione per la ricerca di luoghi di estrazione. 2.4. Articolo 5, paragrafo 3 Modello OCSE: i cantieri Il successivo paragrafo affronta invece il delicato tema dei cantieri di costruzione e montaggio (construction or installation project). Tuttavia, mentre il paragrafo 3 dell’articolo 5 Modello OCSE si limita a fissare in dodici mesi il requisito temporale minimo affinché un cantiere integri un’ipotesi di stabile organizzazione, il Commentario vi dedica particolare attenzione. A titolo esemplificativo, rientrano nella definizione di cantiere le attività di costruzione/ristrutturazione di immobili, i lavori su strade, ponti, canali, quelli di posa di oleodotti, escavazione, ma anche le attività di montaggio e di installazione di macchinari e attrezzature. Da notare che il requisito temporale dei dodici mesi deve essere calcolato con riferimento al singolo cantiere, a meno che più cantieri facciano parte di un unico progetto[5]. In questa ipotesi, il requisito temporale dovrà riferirsi al progetto nel suo insieme e non ai singoli cantieri che lo compongono. Sempre con riguardo alla durata del cantiere, si ricorda che il dies a quo da cui parte il conteggio dei dodici mesi coincide con la data in cui inizia a prendere sostanza l’attività, compresi i lavori preparatori, dell’imprenditore nello Stato in cui si realizza la costruzione. Per contro, il cantiere si considera concluso nel momento in cui i lavori sono stati completati o abbandonati in via permanente. Pertanto, interruzioni stagionali o temporanee non sospendono il conteggio dei dodici mesi. Il Commentario precisa inoltre che le attività di progettazione e supervisione, sempreché riferite ad un cantiere di costruzione, debbono considerarsi comprese nell’articolo 5 paragrafo 3 Modello OCSE e non nei paragrafi precedenti[6]. Infine, è bene sottolineare come il Commentario riconosca la prassi degli Stati, sia in sede di negoziazione delle CDI, sia nella loro disciplina interna, di adottare misure atte ad evitare frazionamenti elusivi del requisito temporale testé descritto. 2.5. Articolo 5, paragrafo 4 Modello OCSE: la cosiddetta negative list Il successivo articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE prevede invece un elenco di casi in cui, pur in presenza di una sede fissa di affari, non si configura una stabile organizzazione (cosiddetta negative list). Si tratta di attività che, sebbene svolte per il tramite di una sede fissa di affari, hanno carattere preparatorio ovvero ausiliario rispetto all’attività propria dell’impresa. Il Commentario le definisce come prive di essenzialità e significatività rispetto al business dell’impresa. In altri termini, nella negative list vengono comprese quelle attività ritenute distanti dalla produzione di profitti per l’impresa e svolte unicamente nei confronti della casa madre. Le ipotesi comprese nell’articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE sono le seguenti: a) utilizzo di installazioni per soli fini di deposito, esposizione o consegna di beni o di merci appartenenti all’impresa: le predette installazioni, affinché non integrino stabile orga- 25 26 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 nizzazione, devono essere utilizzate unicamente a favore dell’impresa estera. Inoltre l’attività materialmente svolta all’interno delle installazioni deve limitarsi a quelle elencate, non potendosi estendere alla vendita di beni o alla prestazione di servizi; b) immagazzinaggio di merci appartenenti all’impresa ai soli fini di deposito, esposizione o consegna: a differenza del precedente punto qui rileva la presenza di un magazzino, che non costituisce stabile organizzazione se utilizzato unicamente per i predetti fini; c) immagazzinaggio di merci appartenenti all’impresa ai soli fini della trasformazione da parte di un’altra impresa; d) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di acquistare beni o merci, o di raccogliere informazioni per l’impresa. Da notare che il cosiddetto ufficio acquisti non integra stabile organizzazione a condizione che tale attività sia rivolta unicamente nei confronti dell’impresa estera. Inoltre, per raccolta di informazioni si intende la mera ricerca e messa a disposizione di informazioni a favore della casa madre. Viceversa, qualora queste informazioni venissero arricchite da un valore aggiunto (per esempio: elaborazioni dei dati per singoli clienti, ricerche di mercato, creazione di strategie di marketing, eccetera) potrebbe, sempreché ricorrano le condizioni ex articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE, configurarsi una stabile organizzazione; e) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di svolgere, a favore dell’impresa estera, ogni altra attività di natura preparatoria o ausiliaria. La lettera e rappresenta quindi una norma di chiusura, che abbraccia tutte le ipotesi in cui l’attività della sede fissa d’affari si considera lontana dalla produzione di reddito. Tale norma di chiusura ricomprende dunque i casi in cui l’appendice del soggetto estero svolge nello Stato della fonte un’attività né essenziale né significativa rispetto al business della casa madre. In aggiunta, è bene rimarcare che tale attività deve essere rivolta unicamente a favore dell’impresa non residente, altrimenti non si potrebbe escludere la presenza di una stabile organizzazione; f) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di svolgere, sempre a favore della sola impresa estera, qualunque combinazione delle attività di cui alle lettere da a fino ad e, purché la combinazione di tali attività mantenga nel suo insieme un carattere preparatorio o ausiliario. 2.6. Articolo 5, paragrafi 5 e 6 Modello OCSE: la stabile organizzazione personale La seconda fattispecie di stabile organizzazione (cosiddetta personale) comprende invece le ipotesi in cui una persona agisce per conto di un’impresa estera ed abitualmente esercita, nello Stato della fonte, il potere di concludere contratti in nome della predetta impresa. Pertanto, in relazione all’attività svolta da detta persona a favore del committente estero, è possibile ravvisare la presenza di una stabile organizzazione personale nello Stato della fonte, sempreché l’attività di tale persona non sia limitata a quelle citate nell’articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE (ovvero attività di natura preparatoria o ausiliaria). L’articolo 5 paragrafo 6 Modello OCSE, a completamento del precedente, stabilisce per di più che non si qualifica come stabile organizzazione l’attività svolta da un mediatore, un commissionario generale o altro intermediario che goda di uno status di indipendenza rispetto all’impresa estera, a condizione però che detta persona agisca nell’ambito della propria ordinaria attività. Prima di entrare nel merito delle citate disposizioni, va rilevato il carattere residuale della declinazione personale di stabile organizzazione rispetto a quella materiale. Tant’è che il paragrafo 35 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE parla espressamente di “alternative test”, indicando appunto come l’individuazione di una stabile organizzazione debba procedere dapprima in considerazione dei paragrafi da 1 fino a 4 dell’articolo 5 Modello OCSE e quindi del successivo paragrafo 5. Ebbene, ai sensi della disposizione in commento, un’impresa si considera avere una stabile organizzazione personale quando nello Stato della fonte vi sia un soggetto che, agendo per conto dell’impresa non residente, concluda abitualmente contratti in nome di quest’ultima. Da questa sintetica definizione si comprende che detta persona, affinché realizzi una stabile organizzazione personale dell’impresa estera, debba: 1) essere considerata una persona ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 1 Modello OCSE; 2) avere uno status di dipendenza rispetto al committente estero; 3) agire per conto (“on behalf of ”) del committente estero; 4) avere ed esercitare abitualmente il potere di concludere contratti in nome dell’impresa estera; 5) svolgere attività non qualificabili come preparatorie o ausiliarie. Si sviluppano ora i requisiti su elencati. In primo luogo v’è da sottolineare che si ha stabile organizzazione personale in presenza di una persona, mentre viene meno ogni riferimento vincolante alla sede fissa di affari. Tale persona può essere sia una persona fisica, sia una persona giuridica; inoltre, ai fini qui in discussione, non rileva la sua residenza fiscale[7]. La persona può essere tanto un lavoratore alle dipendenze dell’impresa estera (employee), quanto una persona che, a vario titolo, agisce per conto della predetta impresa. Il minimo comune denominatore di queste figure è lo status di dipendenza (economica, o giuridica), che deve ricorrere unitamente alle altre condizioni affinché si possa parlare di stabile organizzazione personale. La qualificazione del rapporto giuridico intercorrente tra l’impresa e la persona che agisce per suo conto ha sollevato rilevanti dibattiti dottrinali relativamente alla necessarietà, o meno, della rappresentanza (diretta) al fine di configurare una stabile organizzazione personale. Come è noto, in diversi Stati l’ordinamento civilistico prevede una serie di figure (ad esempio il mandatario senza rappresentanza) per le quali, difettando la rappresentanza (diretta), viene meno la possibilità di concludere contratti in nome dell’impresa estera (il mandante/committente). Ebbene, è proprio con riferimento a queste ipotesi, così diffuse nella prassi, che negli ordinamenti di civil law la dottrina, specialmente nelle interpretazioni più risalenti, ha propeso per escludere la configurabilità di una stabile organizzazione personale laddove manchi la spendita del nome. Tuttavia, è lo stesso Commentario a suggerire al paragrafo 32.1 dell’articolo 5 Modello OCSE un approccio Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 più sostanzialistico, propendendo per l’esistenza della stabile organizzazione in tutte le ipotesi in cui, a prescindere dalla rappresentanza (diretta), i soggetti concludano contratti vincolanti per l’impresa estera. Non va inoltre dimenticato che, affinché si possa integrare una stabile organizzazione personale, l’esercizio del potere di concludere contratti in nome dell’impresa estera va esercitato in modo abituale. Il requisito dell’abitualità è necessario giacché la compenetrazione dell’impresa estera nell’altro Stato non può essere meramente transitoria, ma deve radicarsi attraverso la presenza di un agente che sia frequente e rilevante in termini di volumi d’affari[8]. Lo stesso articolo 5 paragrafo 5 Modello OCSE precisa per di più che non si configura stabile organizzazione se l’attività dell'agente è meramente ausiliaria e/o preparatoria. Il successivo paragrafo 6 esclude altresì la ricorrenza di una stabile organizzazione personale laddove l’impresa non residente eserciti la propria attività per mezzo di un intermediario (a prescindere dal titolo giuridico di quest’ultimo) che goda di uno status indipendente, a condizione però che detto intermediario agisca nell’ambito della propria attività ordinaria[9]. le organizzazione della società controllante nello Stato estero in cui è localizzata la società controllata. Si fa notare che tale principio vale anche in caso di rapporti fra società sorelle[10]. Infatti, affinché la società controllata si configuri come stabile organizzazione della madre estera è necessario che ricorrano gli ordinari requisiti richiesti dall’articolo 5 Modello OCSE. Il caso più frequente nella prassi è l’ipotesi in cui la società controllata eserciti abitualmente il potere di concludere contratti in nome della casa madre. In questa fattispecie troverebbe applicazione la disciplina individuata dai paragrafi 5 e 6 dell’articolo 5 Modello OCSE che, indirizzandosi genericamente ad ogni persona, si applica anche alle società consociate. Tuttavia può anche avvenire che spazi o locali della società controllata costituiscano una sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa estera conduca i propri affari. In questo caso rileveranno i criteri ordinariamente previsti per l’ipotesi di stabile organizzazione materiale, ed in particolare l’individuazione di un fixed place of business che sia a disposizione dell’impresa estera per esercitare i propri affari. La chiave di lettura dell’indipendenza economica è fornita dallo stesso Commentario all’articolo 5 Modello OCSE, che al paragrafo 38.3 evidenzia come l’indipendenza si manifesti tipicamente nella limitazione della responsabilità del mandatario, nei confronti del mandante, ai soli risultati conseguiti, senza che lo stesso sia soggetto ad un effettivo controllo sulle modalità di svolgimento delle proprie attività. In aggiunta, il test di indipendenza legale valuta i poteri – legali e contrattuali – che l’impresa estera può esercitare nei confronti dell’intermediario e, simmetricamente, le obbligazioni di quest’ultimo verso il soggetto estero. Il Commentario individua pertanto una serie di criteri utili per verificare l’indipendenza economica e legale dell’agente: ◆ la necessità, o meno, di ottenere l’approvazione dell’impresa estera in merito alle modalità di svolgimento dell’attività; ◆ l’assunzione del rischio imprenditoriale da parte del mandatario o dell’impresa estera per la quale il primo agisce; ◆ la pervasività degli obblighi che l'agente ha nei riguardi dell’impresa estera, specie in termini di assoggettamento, o meno, a dettagliate istruzioni; ◆ la circostanza che il mandatario agisca per conto di un numero ristretto o ampio di mandanti. In ogni caso, posta la natura certamente non esaustiva di tale elencazione, è bene chiarire che l’indipendenza economica e giuridica dell’agente si evince da un’analisi fattuale. Tanto premesso, i criteri testé citati rappresentano comunque degli utili strumenti di interpretazione. 2.7. Articolo 5, paragrafo 7 Modello OCSE: le società consociate L’articolo 5 paragrafo 7 Modello OCSE e il relativo Commentario (paragrafi 40-42) chiariscono che la presenza di una società controllata all'estero non integra di per sé un’ipotesi di stabi- 3. La definizione di stabilimento di impresa nell’ordinamento svizzero La LIFD lega l’assoggettamento delle imprese alle imposte svizzere al concetto di appartenenza fiscale. L’appartenenza fiscale si declina in appartenenza personale (allorché l’impresa ha la sede o l’amministrazione effettiva in Svizzera) e in appartenenza economica (nelle ipotesi di persone giuridiche che non hanno né sede né amministrazione effettiva in Svizzera[11]). Quest’ultima, a sua volta, si traduce in diverse fattispecie (articolo 4 capoverso 1 lettera b LIFD, per le persone fisiche che svolgono attività di impresa; articolo 51 capoverso 1 lettera b LIFD, per le persone giuridiche) al verificarsi delle quali scatta l’assoggettamento alle imposte in Svizzera. Fra queste fattispecie rientra il configurarsi di uno stabilimento di impresa in Svizzera. La definizione di stabilimento di impresa è rinvenibile agli articoli 4 capoverso 2 e 51 capoverso 2 LIFD e tale definizione pare applicarsi non solo ai fini dell’individuazione degli stabilimenti di impresa in Svizzera dei soggetti non residenti, ma anche al 27 28 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 fine di inquadrare gli stabilimenti esteri di imprese svizzere. Ebbene, la definizione generale di stabilimento di impresa riprende l’essenzialità di quella contenuta nel Modello OCSE giacché si limita a qualificarlo come “una sede fissa di affari o di lavoro dove si svolge, in tutto o in parte, l’attività di un’impresa”. Dopodiché la LIFD procede con l’equivalente della positive list dell’OCSE, elencando una serie di ipotesi che si considerano stabilimento di impresa. In particolare, rientrano “le succursali, le officine, i laboratori, gli uffici di vendita, le rappresentanze permanenti, le miniere e ogni altro luogo di estrazione di risorse naturali, come anche i cantieri di costruzione o di montaggio la cui durata è di almeno 12 mesi”. Le differenze rispetto al Modello OCSE sono dunque ben evidenti, essendo la normativa interna molto più stringata e in apparenza disorganica. Infatti, dopo aver enucleato una definizione essenziale ma esaustiva di stabilimento di impresa intesa nell’accezione di stabile organizzazione materiale (sede fissa di affari o di lavoro), gli articoli 4 capoverso 2 lettera b e 51 capoverso 2 lettera b LIFD passano direttamente ad elencare una positive list che comprende, quasi indistintamente, i concetti di stabile organizzazione materiale e personale. Il dettato normativo, con la supposta confusione tra le due anime del concetto di stabile organizzazione, fa sorgere l’interrogativo se per configurare una “rappresentanza permanente” (ovvero la stabile organizzazione personale) sia necessaria la presenza di una “sede fissa di affari o di lavoro”. Infatti la costruzione della normativa svizzera in commento parrebbe lasciare intendere nel senso dell’obbligatoria presenza della “sede fissa” al fine di qualificare una rappresentanza permanente, sebbene tale interpretazione sarebbe in contrasto con l'interpretazione maggioritaria e con il concetto stesso di stabile organizzazione personale. Non sarà passata inosservata anche la minore attenzione dedicata al concetto di stabile organizzazione materiale rispetto a quanto previsto dal Modello OCSE. Infatti, non solo la cosiddetta positive list sembra dimenticarsi di alcune ipotesi caratteristiche (ad esempio la sede di direzione), ma manca del tutto anche la negative list con il suo elenco di attività ausiliarie e preparatorie[12] che escluderebbero la presenza di una stabile organizzazione. A questo punto non stupisce nemmeno l’assenza di ogni riferimento alle ipotesi di società consociate. Per contro, a livello interpretativo (dottrina e giurisprudenza), la presenza di uno stabilimento di impresa si considera integrata quando ricorrono le tre condizioni: 1) esistenza di impianti o installazioni fissi e permanenti; 2) presenza di un’attività qualitativa e quantitativa rilevante; 3) appartenenza all’impresa in quanto parte integrante. Una chiave di lettura per interpretare queste differenze rimarchevoli rispetto al Modello OCSE potrebbe rinvenirsi nell’approccio “sostanziale” del diritto svizzero. In effetti, se si pensa alla definizione generale di stabilimento di impresa, essa invero già contiene tutti gli elementi necessari affinché possa configurarsi un radicamento dell’impresa estera e quindi una stabile organizzazione (materiale). Certamente all’interprete del diritto così come all’operatore economico sarebbe stato utile avere ulteriori elementi interpretativi (si legga positive e negative list), tuttavia anche un approccio substance over the form non è biasimabile ed è forse sintomatico di un ordinamento fiscale che abbraccia i contenuti più che la forma. In conclusione, una nota di conforto. Avendo la Svizzera concluso CDI con la più parte degli Stati, non abbia a disperare l’interprete del diritto tenuto ad affrontare il tema della configurabilità di una stabile organizzazione, giacché la CDI applicabile (e il Commentario del Modello OCSE) gli darà conforto con un’esaustiva definizione! Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Per maggiori informazioni: Avery Jones John F., Agents as Permanent Establishment under the OECD Model Tax Convention, in: Diritto e pratica tributaria, 1993, pagina 1399 e seguenti Calcagno Marco, La stabile organizzazione, in: Sacchetto Claudio (a cura di), Principi di diritto tributario europeo internazionale, Torino 2011 Huston John/William Lee, Permanent Establishment: a Planning Primer, 1993 Elenco delle fonti fotografiche: http://www.fiscooggi.it/files/immagini_articoli/u9/stabile_organizzazioen.jpg [25.09.2013] http://www.colourbox.com/preview/3556814-198961-business-plan-ofa-permanent-establishment.jpg [25.09.2013] http://www.corporatelivewire.com/image_thumb.php?w=350&h= 10000&img=images/stories/528/1615103659.jpg [25.09.2013] Locher Peter, Introduzione al diritto fiscale intercantonale, II° edizione, SUPSI, Manno 2010 Paschoud Jean-Blaise, in: Yersin Danielle/Noël Yves (a cura di), Commentaire de la loi sur l’impôt fédéral direct, Basilea 2008, N 44 ad art. 4 LIFD Rust Alexander, Situs Principle v. Permanent Establishment Principle in International Tax Law, in: Bulletin, 2002, pagina 15 e seguenti Skaar Arvid A., Commentario dell’art. 5 del modello di convenzione OCSE: il concetto di stabile organizzazione, in: Fiscalia, 2000, pagina 623 e seguenti Skaar Arvid. A, Permanent Establishment. Erosion of a Tax Treaty Principle, Deventer-Boston 1991 Van Raad Kees, Construction Project PE in the Netherlands and Taxation of Employment Income Borne by a PE, in: Bulletin for international fiscal documentation, 1999, pagina 321 e seguenti Vogel Klaus, On Double Taxation Conventions, The Hague-London-Boston 1997 Vogel Klaus, Subsidiaries as Permanent Establishments?, in: Tax Treaty News: Bulletin for international fiscal documentation, 2003, pagina 474 e seguenti Si fa presente che in sede OCSE è in corso di discussione una revisione dell’articolo 5 Modello OCSE così come in questa sede commentato. Per approfondimenti si veda: http://www.oecd.org/tax/publiccommentsreceivedonthereviseddiscussiondraftonthedefinitionofpermanentestablishmentarticle5oftheoecdmodeltaxconvention.htm [25.09.2013] [1] Sempreché la CDI sia informata al Modello OCSE. Infatti, il Modello OCSE non è l’unico Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni. Seppur meno noti e meno diffusi, sono presenti sia il cosiddetto Modello USA che il Modello ONU. [2] Oltre al Commentario, su questo tema si veda anche: OCSE, Issues arising from article 5 (permanent establishment) of the Model tax Convention, Parigi, 7 novembre 2002. [3] A titolo esemplificativo, si fa notare che anche la presenza di un server può integrare una stabile organizzazione. [4] Letteralmente, il termine branch si riferisce specificatamente all’ipotesi di succursale. [5] Nella prassi spesso avviene che l’appaltatore principale di un cantiere subappalti parte dei lavori ad una terza impresa. Per calcolare la durata del cantiere dell’appaltatore principale occorrerà quindi considerare anche il tempo impiegato dai subappaltatori. [6] L’importante conseguenza è che le attività di progettazione e supervisione di un cantiere richiedono il decorso del termine di dodici mesi affinché possano configurare una stabile organizzazione. [7] Pertanto, potrebbe esservi stabile organizzazione personale nell’altro Stato contraente anche qualora il mandatario sia fiscalmente residente nello Stato in cui si trova l’impresa estera. Si veda in tal senso il paragrafo 32 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE. [8] Va da sé che la frequenza e il volume d’affari delle operazioni dipendono dalla natura dei contratti e dal business caratteristici dell’impresa estera. [9] Sul concetto di attività ordinaria si veda il paragrafo 38.8 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE. [10] Ovverosia qualora le due società siano controllate da un unico soggetto (cfr. paragrafo 42 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE). [11] In virtù del richiamo contenuto nell’articolo 11 LIFD, le considerazioni sull’appartenenza economica valgono anche per le società commerciali estere e le altre comunità di persone senza personalità giuridica. [12] Tuttavia la giurisprudenza sostiene chiaramente che lo svolgimento di attività di carattere preparatorio o ausiliario non possa concretizzare la presenza di uno stabilimento di impresa (cfr. DTF 102 Ib 264). 29 30 Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano Considerazioni in tema di rilevanza penale dell’abuso di diritto: la sentenza “Dolce & Gabbana” Angela Monti Avvocato tributarista in Milano e in Lugano Presidente della Camera tributaria degli avvocati tributaristi di Milano Membro del Consiglio per il diritto dell’impresa presso Assolombarda Sentenza della Corte di Cassazione penale, II° sezione, del 28 febbraio 2012, n. 7739 cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, a euro due milioni. 1. Introduzione La sentenza della Cassazione penale n. 7739/2012 (caso “Dolce & Gabbana”) che, come vedremo, si è espressa in ordine alla rilevanza penale delle condotte elusive, disattendendo il precedente orientamento della stessa Suprema Corte, ripropone il tema della stessa fattibilità di operazioni di tax planning da parte degli operatori italiani e l’altrettanto rilevante problema della responsabilità per concorso del consulente – italiano o straniero – che sia intervenuto nell'architettura dell’operazione. 2. Brevi cenni sull’evoluzione più recente della giurisprudenza della Corte di Cassazione e dei giudici di merito in tema di “abuso di diritto” L’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale in tema di “abuso di diritto” si rivela non poco tormentata e vale la pena ricordarla brevemente in quanto rilevante ai fini dell’esame del conseguente aspetto degli effetti sanzionatori penali. Come noto, in una prima fase, la Corte di Cassazione riteneva che potessero qualificarsi elusivi solo i comportamenti che erano definiti come tali da una norma espressa. Successivamente, già con la sentenza n. 7457/2003, la Corte aveva iniziato ad enfatizzare l’esigenza dell'interpretazione dei contratti ai fini fiscali in ragione della loro causa. La rilevanza del tema è poi evidente non appena si consideri l’abbassamento delle soglie di punibilità dei reati di infedele e fraudolenta dichiarazione a far data dal 17 settembre 2011. Rammento che da questa data la soglia di punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta ex articolo 3 D.Lgs. n. 74/2000 è stata ridotta ad un'evasione d’imposta di euro trentamila e ad un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, a euro un milione. Per il reato di infedele dichiarazione (ex articolo 4 del medesimo D.Lgs.), invece, basta un'evasione d’imposta di euro cinquantamila e un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione superiore al dieci per Di poi, con la sentenza n. 20398/2005, il Supremo Collegio era giunto ad affermare la nullità di un contratto (trattavasi di “dividend washing”) nonostante l’Amministrazione finanziaria non avesse dedotto espressamente la nullità dello stesso per mancanza di causa ma si fosse limitata a richiamare l’articolo 37 comma 3 del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 600/1973. Già in questa pronuncia, la Corte aveva affermato il “potere del giudice di conoscere determinate questioni (quali la nullità del negozio giuridico, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ.) indipendentemente da una espressa domanda di parte” a dispetto della natura impugnatoria del procedimento avanti le Commissioni tributarie (nello stesso senso vedasi anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 22932/2005). Intervenuta la sentenza Halifax (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax plc), la Corte aveva avuto gioco facile nella sentenza n. 25374/2008 ad affermare l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio di matrice comunitaria concernente l’abuso di diritto applicabile a tutte le fattispecie di entrate tributarie con “l’obbligo per il giudice nazionale di applicazione di ufficio anche al di fuori di specifica deduzione ed allegazione di parte”. Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 A seguito delle contestazioni della dottrina in merito alla non applicabilità dei principi comunitari in tema di imposizione sul reddito, le successive sentenze del 23 dicembre 2008 n. 30055, 30056, 30057, hanno affermato, come noto, in tema “dividend washing” e “dividend stripping”, che per “costante giurisprudenza di questa Corte, sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell’amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile”. Da ciò è stata fatta conseguire la rilevabilità d’ufficio della inopponibilità del negozio abusivo all’erario “con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. Ancor più preoccupanti, rispetto alla teoria dell’abuso del diritto, si palesavano poi le affermazioni della Corte in tema di “antieconomicità” delle operazioni societarie contenute nella sentenza n. 951/2009 in cui veniva affermato il principio in base al quale “i giudici d’appello, chiamati a stabilire l’antieconomicità dell’acquisizione di una partecipazione azionaria a prezzo superiore a quello d’acquisto della stessa, non avrebbero potuto limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea, ma avrebbero dovuto rivalutare i fatti sulla base di tutti i dati in loro possesso e delle deduzioni del contribuente al riguardo”. “L’esclusione della rilevanza dei movimenti finanziari ritenuti antieconomici non può basarsi sulla apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo”. Con questo orientamento la Corte ha sostanzialmente ritenuto che, anche nei casi nei quali la difesa dell’Amministrazione finanziaria fosse stata assolutamente monca e l’atto amministrativo fosse stato del tutto privo di motivazione, il richiamo ai principi comunitari e/o ai principi costituzionali di fatto avrebbe potuto consentire di giungere alla tassazione delle operazioni contestate “pur se per motivi diversi da quelli prospettati dall’Amministrazione”. Al riguardo, va enfatizzato che le fattispecie che avevano occasionato le pronunce giurisprudenziali più drasticamente a favore dell’Amministrazione finanziaria del dicembre 2008 attenevano alle ipotesi di “dividend washing” e “dividend stripping”, in casi in cui la contestualità dei pagamenti, la pressoché totale identità tra ammontare del prezzo di trasferimento dei titoli e importo del dividendo, i collegamenti societari esistenti tra i soggetti coinvolti nell’operazione avrebbero a mio avviso correttamente consentito il richiamo all’articolo 37 comma 3 D.P.R. n. 600/1973. Tale articolo non attiene all’interposizione (o la simulazione soggettiva) in senso civilistico, ma all’interposizione nella percezione e nel possesso del reddito. Una simile ricostruzione sicuramente più garantista avrebbe anche consentito di affermare l’applicabilità delle sanzioni amministrative o penali, a condizione, tuttavia, che l’Amministrazione finanziaria o il Pubblico Ministero fossero in grado di fornire la prova dell’intenzionalità (o, per le sole sanzioni amministrative, della semplice negligente consapevolezza) dell’agire del contribuente. Lo sconcerto di fronte alle affermazioni contenute nella sentenza “Dolce & Gabbana” in tema di rilevanza penale dell’elusione nascono dalla considerazione che sino ad oggi la stessa Cassazione aveva sostenuto l’opposto. Costante era infatti in giurisprudenza la considerazione per la quale “In quanto semplice elusione fiscale, le operazioni di cui trattasi non rientrano in alcuna delle disposizioni di legge previste negli artt. 2, 3, 4 D.Lgs. 74/2000, tutte caratterizzate dal fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto e quindi connotate dal fatto di essere delitti a dolo specifico” (ex plurimis Corte di Cassazione, sentenza n. 13244/2006). Inoltre, lo stesso governo, nella relazione al D.Lgs. n. 74/2000, aveva testualmente affermato che “nelle ipotesi di mancata sottoposizione del caso al parere del comitato, resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi d’imposta, vada ricondotta al paradigma di quella che è tradizionalmente qualificata come semplice «elusione di imposta», quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale”. D’altra parte nella stessa sentenza Halifax, dalla quale ha tratto originariamente spunto l’orientamento della Corte di Cassazione sull’abuso di diritto, trovasi affermato che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco […]”. Inoltre la recente sentenza nel caso “Dolce & Gabbana” non tiene conto che sia la Corte di Cassazione sia i giudici di merito in sede tributaria hanno iniziato da tempo un processo di mitigazione di quei principi dianzi richiamati specie nei casi in cui la disparità delle parti nel processo risulti più eclatante. Già nella sentenza n. 1465/2009 lo stesso Supremo Collegio, ad esempio, afferma che anche in materia di abuso di diritto, “in merito alla ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario, compete all’Amministrazione finanziaria allegare i fatti e gli elementi costitutivi della pretesa tributaria e, nella specie, le circostanze a dimostrazione dell’oggettiva natura elusiva delle operazioni poste in essere dal contribuente; parimenti, quest’ultimo è chiamato ad assolvere l’onere di illustrare e giustificare le motivazioni di carattere economico – concrete, effettive ed essenziali – poste a fondamento delle scelte operate nell’esercizio dell’attività d’impresa”. La stessa Cassazione ha poi più di recente iniziato un percorso di ripensamento dell’originaria impostazione nata con le sentenze del dicembre 2008 rilevando non solo la necessità di un’estrema “cautela” nell’utilizzo da parte dell’Amministrazione finanziaria della nozione di abuso ma anche operando un distinguo tra “operazioni finanziarie” e “ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese” (cfr. la sentenza n. 1372/2011). Nella stessa sentenza trovasi affermato che l’applicazione del principio giurisprudenziale dell’abuso del diritto, inteso come non ammissibilità per l’ordinamento tributario dell’utilizzo distorto dell’autonomia contrattuale e della libera iniziativa privata con finalità esclusivamente rivolte al risparmio d’imposta, comporta per l’Amministrazione finanziaria l’onere di provare le anomalie o le inadeguatezze delle operazioni in- 31 32 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 traprese dal contribuente al quale compete allegare le finalità perseguite – diverse dal mero vantaggio consistente nella diminuzione del carico tributario. Con la sentenza n. 10383/2011, la Cassazione ha altresì ritenuto che l’utilizzo di benefici fiscali (nel caso specifico si trattava di un insediamento produttivo in zone svantaggiate) non può mai integrare abuso di diritto in quanto l’agevolazione costituisce una contropartita incentivante e non una finalità contra ius. Ma anche le Commissioni di merito hanno cominciato ad esprimere nelle proprie decisioni il disagio già manifestato dalla dottrina quanto all’applicazione degli evanescenti criteri fissati dalla Corte di Cassazione in tema di “convenienza economica” e di sussistenza di “interessi fiscali”, non necessariamente esclusivi ma anche solo “concorrenti” con gli interessi economici del contribuente elaborati nelle note sentenze in tema di “abuso di diritto”. Così, alcuni giudici di merito sono giunti ad affermare quanto la dottrina ha da sempre sostenuto, ossia di “non potersi immaginare in materia di norme speciali, quale è appunto l’art. 37bis d.p.r. 600/73, interpretazioni estensive o analogiche” (cfr. Commissioni Tributarie Provinciali di Milano, sentenza n. 154/2011; di Napoli, sentenza n. 792/2011; di Verona, sentenza n. 240/2011; di Milano, sentenza n. 62/2012; di Milano, sentenza n. 63/2012; di Milano, sentenza n. 64/2012). 3. Norme penali e “abuso di diritto”, articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973 e norme antielusive espresse: la sentenza della Corte di Cassazione, sezione II penale, n. 7739/2012 Ma passiamo a valutare nel dettaglio la sentenza della Corte di Cassazione, sezione II penale, n. 7739 del 28 febbraio 2012. In detta pronuncia, il Supremo Collegio ha statuito che “deve affermarsi il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive. In altri termini, nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”. La sentenza sembra ignorare la distinzione tra interposizione fittizia e elusione che invece le norme tributarie considerano dettando una disciplina assai diversa. Che la fattispecie esaminata dalla Corte fosse un’ipotesi di interposizione di soggetti è palese dall’esame della motivazione ove chiaramente l’operazione posta in essere viene descritta come un caso riconducibile al fenomeno dell’“esterovestizione” (intestazione di marchi a un soggetto lussemburghese di fatto privo di sostanza economica e il cui beneficiario economico si identificava nei due noti stilisti). Orbene, l’interposizione ex articolo 37 comma 3 D.P.R. n. 600/1973 è un’ipotesi di evasione diretta che si realizza interponendo soggetti, per lo più “fittizi”, nella percezione del reddito. Inoltre, in attesa che il legislatore intervenga dando attuazione, come vedremo al Disegno di Legge per la riforma fiscale, la giurisprudenza di merito ha affermato l’estensione alle condotte “abusive” del principio della iscrivibilità in via di riscossione provvisoria di imposte, sanzioni e interessi solo dopo la sentenza di 1. grado favorevole all’Amministrazione finanziaria in virtù di quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973 (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Genova, sentenza n. 2/1/11 del 24 gennaio 2011). Queste decisioni evidenziano come le Commissioni di merito non siano tutte “appiattite” su di un'applicazione superficiale dei principi desumibili dalle sentenze di Cassazione ma siano invece positivamente coinvolte in quel processo di progressivo indebolimento della fattispecie dell’abuso di diritto, così graniticamente affermata dalle note pronunce delle Sezioni Unite del dicembre 2008. L’elusione è evidentemente altra cosa. Come è senz’altro noto, l’articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973, che contiene l’unica definizione scritta di “elusione” racchiusa nell’ordinamento giuridico-tributario italiano, statuisce che “sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti” prevedendo altresì che “l’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione”. Ai fini dell'identificazione del comportamento come elusivo/abusivo non è sufficiente la semplice mancanza di “valide ragioni economiche” ulteriori rispetto al semplice risparmio d’imposta, ma è necessario l’aggiramento di obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario con il fine di ottenere riduzione di imposte o rimborsi considerati dalla legge come indebiti, cioè non conformi alla finalità, ossia alla ratio cui si ispira la norma fiscale. Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 La citata sentenza della Suprema Corte sembra inoltre affermare il principio che ogni condotta elusiva, specificamente disciplinata, sia di rilievo penale. A tutto concedere la Corte di Cassazione dimostra di dimenticarsi l’articolo 19 D.Lgs. n. 74/2000, alla cui stregua “Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”. Ad avviso di chi scrive, l’esistenza di una specifica norma antielusiva (lex specialis) esclude l’applicazione della norma penaltributaria (lex generalis), salvo che il legislatore esprima una diversa volontà sanzionatoria. mettere che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione, a partire dal 2006 e fino al 2010, è “contraria alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi” e che solo nel 2010-2011 si registra un orientamento giurisprudenziale “favorevole alla configurabilità di un illecito penale”. Di qui la conclusione della Suprema Corte, secondo cui “sulla questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale non può dirsi che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione si sia espressa compiutamente”. La sentenza de qua riconosce pertanto che il cittadino non ha trovato nemmeno nella giurisprudenza un chiaro risultato interpretativo idoneo ad orientarne il comportamento nell’area della legalità e deve ammettere che il dictum della Suprema Corte era nel senso della irrilevanza penale. Quanto alla giurisprudenza delle Sezioni civili della Cassazione che ha teorizzato l’abuso del diritto come “esistenza di una regola generale antielusiva”, la sentenza della Suprema Corte è, come si è detto, netta nell’affermare che una rilevanza penale dell’elusione non possa prescindere da specifiche norme antielusive, giungendo ad affermare il principio che “nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece ritenuto dalle citate Sezioni civili della Corte Suprema di Cassazione”, motivo per cui – ragionando a contrario – “può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva” (che sarà onere del Pubblico Ministero indicare). L’esistenza di una costante legislazione che distingue nettamente l’evasione dall’elusione non può non far pensare a fenomeni diversi, di diversa capacità lesiva per gli interessi erariali e, quindi, ragionevolmente destinatari di una diversa reazione dell’ordinamento giuridico. Sul piano della responsabilità del consulente che assiste il cliente nell’architettura dell’operazione, le preoccupazioni sono assai diffuse specie se consideriamo l’orientamento che pacificamente estende a quest’ultimo l’applicabilità del “sequestro per equivalente” a partire dai fatti commessi dal 1. gennaio 2008. Basti pensare al D.L. n. 223/2006, convertito dalla L. n. 248/2006, in tema di “contrasto all’evasione fiscale”, il cui articolo 35 reca “misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale”, dimostrando di non accomunare affatto i due fenomeni su cui pur vuole intervenire. Sul punto ritengo che la sentenza possa costituire un elemento di maggiore tranquillità piuttosto che di preoccupazione. La Corte di Cassazione è stata infatti chiarissima nell’attribuire rilevanza penale a un fatto, come abbiamo visto, di esterovestizione agli effetti del reato di infedele dichiarazione. Trattasi di un reato proprio che vede coinvolti, in primis, i redattori della dichiarazione e, in concorso, chi ha assistito l’imprenditore nella redazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e l’IVA. Questa normativa è rinvenibile anche un lustro dopo: il riferimento è al D.L. n. 98/2011, convertito dalla L. n. 111/2011, il cui articolo 24 comma 29 continua a distinguere nettamente l’evasione dall’elusione fiscale. In buona sostanza la sentenza si fonda sull’equivoco consistente nell’accomunare le condotte di evasione commesse tramite l’interposizione fittizia di soggetti all’elusione quale strumento di ottimizzazione fiscale. Il pericolo che si insidia nella pronuncia è che la stessa possa – come in concreto sta già avvenendo – ingenerare capi di imputazione in ipotesi nelle quali fino ad oggi anche il consulente escludeva con serenità la rilevanza sanzionatoria delle operazioni. Infatti è la stessa pronuncia della Cassazione che, evocando la giurisprudenza di legittimità intervenuta in materia, deve am- Il concorso del consulente nel reato dichiarativo, ascritto ai legali rappresentanti delle società che hanno sottoscritto le dichiarazioni, comporterà in primo luogo almeno la dimostrazione che questi fosse a conoscenza delle diverse modalità seguite quanto al trattamento contabile riservato in bilancio alle rilevanti operazioni e, soprattutto, quanto alla rilevazione delle medesime nelle dichiarazioni fiscali. Questa considerazione vale ad escludere la responsabilità penale del professionista che, pur avendo consigliato e “architettato” l’operazione, sia stato estraneo all’ultima fase della materiale redazione della dichiarazione che, come noto, avviene a distanza di molti mesi dalla realizzazione dell’operazione. 33 34 Novità fiscali / n.9 / settembre 2013 Vi è poi da chiedersi se i molti procedimenti in corso nei quali inevitabilmente i Pubblici Ministeri insisteranno per l’applicazione estensiva dei principi contenuti nella sentenza n. 7739/2012 non siano tutti destinati ad abortire qualora entri rapidamente in vigore la riforma fiscale di cui al Disegno di Legge delega 16 aprile 2012 contenente “Disposizioni per la revisione del sistema fiscale”. L’articolo 6 prevede infatti l’esclusione della rilevanza penale dei comportamenti ascrivibili a fattispecie abusive, mentre l’articolo 9, nel prevedere la “revisione del sistema sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti” espressamente esclude “la rilevanza penale per i comportamenti ascrivibili all’elusione fiscale”. Elenco delle fonti fotografiche: http://image.excite.it/lui/news/119060038-default.jpg [25.09.2013] http://w w w.direttanews .it/wp-content/uploads/cassazione.jpg [25.09.2013] http://m2.paperblog.com/i/146/1466485/dolce-e-gabbana-processo-il3-dicembre-L-gMbG6G.jpeg [25.09.2013] Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario se m in ar io L’imposizione delle partecipazioni di collaboratore Analisi delle conseguenze fiscali per datore di lavoro e dipendenti secondo il diritto federale e cantonale ticinese, italiano e il Modello OCSE Luogo Sala Aragonite Via ai Boschetti CH-6928 Manno Data e orario Giovedì 17 ottobre 2013 14.00-18.00 Il 22 luglio 2013 l’Amministrazione federale delle contribuzioni ha pubblicato la Circolare n. 37 sull’imposizione delle partecipazioni di collaboratore. Questo importante documento di prassi fornisce quindi lo spunto per affrontare il tema del trattamento fiscale delle partecipazioni di collaboratore. Verranno esaminati i motivi che portano alla realizzazione dei piani di partecipazione, i principali aspetti legali (diritto del lavoro e diritto societario svizzero), l’imposizione delle partecipazioni di collaboratori (azioni, opzioni e aspettative) nel diritto federale e cantonale ticinese, nel diritto italiano e nel Modello OCSE di Convenzione fiscale. Infine, oltre ad essere spiegati quali sono gli obblighi di collaborazione e di attestazione che incombono al datore di lavoro e ai contribuenti, si analizzeranno le condizioni necessarie per ottenere un ruling con l’autorità fiscale. Il 1. gennaio di quest’anno sono entrate in vigore delle nuove disposizioni che disciplinano l’imposizione delle partecipazioni di collaboratore nell’ordinamento tributario federale e cantonale ticinese. Per garantire la certezza del diritto e l’attrattiva della Svizzera, il legislatore federale ha elaborato un quadro normativo per definire il trattamento fiscale al quale il contribuente è sottoposto quando ottiene dei vantaggi valutabili in denaro risultanti dalle partecipazioni di collaboratore, soprattutto nel caso di azioni e opzioni di collaboratore, libere o bloccate, quotate in borsa o non. Parimenti sono stati chiariti, attraverso un’ordinanza federale, gli obblighi di collaborazione e di attestazione sia per il datore di lavoro sia per il dipendente. Si segnala in particolare la recente Circolare n. 37, del 22 luglio 2013, con cui l’Amministrazione federale delle contribuzioni ha preso posizione sulla nuova disciplina fiscale. Durante il pomeriggio di studio, si illustreranno i principi riguardanti la mo- tivazione e la realizzazione di piani di partecipazione. Alla base delle partecipazioni di collaboratore ci sono decisioni societarie prese dall’organo competente, i relativi regolamenti validi per tutti i collaboratori che partecipano e i contratti di lavoro dei singoli collaboratori. A seconda del tipo di piano di partecipazione (azioni, opzioni, aspettative, phantom shares), la sua realizzazione ha delle conseguenze molto differenti a livello societario (ad esempio, un aumento del capitale sociale) e per quanto concerne i diritti dei collaboratori. Si analizzeranno i principali aspetti legali (diritto del lavoro e diritto societario svizzero). In seguito verranno messi a confronto le modalità d’imposizione delle partecipazioni di collaboratori nel diritto tributario svizzero ed italiano, nonché le regole contenute nel Modello OCSE di Convenzione fiscale bilaterale. La scelta di considerare gli aspetti di diritto fiscale italiano è principalmente dettata dal fatto che molti dipendenti hanno il loro domici- lio in Italia. Inoltre si darà importanza sia ai nuovi obblighi di attestazione e di comunicazione precisati dall’Ordinanza federale sulle partecipazioni di collaboratore del 27 giugno 2012, sia alla documentazione che il datore di lavoro dovrebbe presentare all’autorità fiscale al fine di ottenere una decisione preliminare (cd. ruling fiscale). Programma e relatori La motivazione e la realizzazione dei piani di partecipazione Giordano Macchi Vicedirettore della Divisione delle contribuzioni, Bellinzona Partecipazioni di collaboratore - aspetti legali (diritto del lavoro e diritto societario svizzero) Massimo Calderan ALTENBURGER LTD legal + tax, Zurigo e Ginevra L’imposizione delle partecipazioni di collaboratori nel diritto italiano e nel Modello OCSE di Convenzione fiscale Roberto Franzè Professore aggregato di Diritto tributario nell’Università della Valle d’Aosta L’imposizione delle partecipazioni di collaboratori nel diritto federale e cantonale ticinese Denise Pagani Zambelli Avvocato, Master of Advanced Studies SUPSI in Tax Law, Fidinam & Partners SA, Lugano Gli obblighi di collaborazione e di attestazione del datore di lavoro e dei contribuenti; il ruling fiscale Vanessa Mauri-Bouakkaz Specialista in finanza e controlling, Esperta fiscale dipl., Funzionaria presso la Divisione delle contribuzioni, Bellinzona Destinatari Fiduciari, commercialisti, avvocati e notai, consulenti fiscali, consulenti bancari e assicurativi, dirigenti aziendali, collaboratori attivi nel settore fiscale di aziende pubbliche e private, persone interessate alla fiscalità Luogo Sala Aragonite Via ai Boschetti CH-6928 Manno Data e orario Giovedì 17 ottobre 2013 14.00-18.00 Termine di iscrizione Entro lunedì 14 ottobre 2013 Costo CHF 350.– Rinunce Nel caso in cui il partecipante rinunci al corso, la fattura inerente la quota di iscrizione sarà annullata a condizione che la rinuncia sia presentata entro il termine d’iscrizione Chi fosse impossibilitato a partecipare può proporre un’altra persona previa comunicazione a SUPSI e accettazione da parte del responsabile Attestato di frequenza Il rilascio dell’attestato di frequenza avviene solo su richiesta del partecipante Informazioni amministrative SUPSI Centro competenze tributarie www.supsi.ch/fisco [email protected] se m in ar io La previdenza professionale e la pianificazione fiscale Esame delle indennità in capitale versate dal datore di lavoro, del prelevamento in capitale negli anni successivi al riscatto, della cessazione dell’attività lucrativa indipendente e della giusta determinazione del salario e del dividendo Luogo Centroeventi Via Industria, 2 CH-6814 Cadempino Data e orario Lunedì 2 dicembre 2013 14.00-17.30 L’obiettivo del seminario sarà di analizzare i seguenti quesiti in ambito di previdenza professionale: qual è il trattamento fiscale applicabile al versamento delle indennità in capitale in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro? Qual è la giurisprudenza ticinese sulla possibilità di prelevare l’avere previdenziale sotto forma di capitale? Quali sono gli aspetti fiscali legati alla cessazione dell’attività lucrativa indipendente dopo il compimento dei 55 anni? E infine: è meglio elargire un salario oppure un dividendo per l’azionista-dipendente dopo che è stata introdotta l’attenuazione della doppia imposizione economica? Il seminario del Centro di competenze tributarie della SUPSI si propone di affrontare alcuni temi la cui fiscalità costituisce un elemento di grande importanza per la consulenza in ambito di previdenza professionale. Un primo tema è quello relativo al trattamento fiscale applicabile quando vengono versate da parte del datore di lavoro delle indennità in capitale in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro. Verrà dunque esaminata la prassi dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) sulla base della circolare del 3 ottobre 2002 che è stata, tra l’altro, relativizzata da una sentenza del Tribunale federale del 19 agosto 2010, dove si è stabilito che il criterio dell’età non è assoluto, come invece previsto dalla circolare. Successivamente si darà spazio alla giurisprudenza della Camera di diritto tributario del Tribunale d’Appello del Cantone Ticino che si è occupata di esaminare la condizione (antielusiva) stabilita dalla prima frase dell’art. 79 cpv. 3 LPP, secondo la quale le prestazioni risultanti dal riscatto non possono essere versate sotto forma di capitale dagli istituti di previdenza prima della scadenza di un termine di tre anni. Sempre in ambito di previdenza, è opportuno approfondire gli aspetti fiscali riguardanti i casi in cui vi è una cessazione dell’attività lucrativa indipendente dopo il compimento dei 55 anni o per incapacità di esercitare tale attività in seguito a invalidità. Con la Riforma II delle imprese è stata infatti introdotta la possibilità di ottenere una tassazione agevolata sugli utili di liquidazione, nonché di dedurre dall’utile i riscatti in un istituto di previdenza nell’anno di liquidazione e nell’anno precedente. Anche in questo caso verrà esaminata la prassi dell’AFC sulla base della circolare del 3 novembre 2010. L’ultimo tema in agenda concerne gli aspetti di pianificazione fiscale e previdenziale per i dipendenti-azionisti di una società di capitali. Con l’attenuazione della doppia imposizione economica, in generale, è diventato più vantaggioso ricevere un dividendo elevato ed un salario basso. Un comportamento di questo tipo ha degli effetti tutto sommato limitati per le entrate fiscali, ma ha un effetto deleterio per le assicurazioni sociali, nonché per la copertura previdenziale del dipendente-azionista. Si esaminerà quindi quando un salario è da ritenersi adeguato sulla base delle direttive delle assicurazioni sociali. Programma e relatori Il trattamento fiscale dell’indennità di partenza e della liquidazione in capitale versate dal datore di lavoro Cinzia Lucidi Paglia Avvocato, Ufficio giuridico Divisione delle contribuzioni del Cantone Ticino Sviluppi giurisprudenziali in ambito fiscale sul prelevamento dell’avere previdenziale sotto forma di capitale Andrea Pedroli Dottore in giurisprudenza, presidente della Camera di diritto tributario del Tribunale d’appello del Canton Ticino Rocco Filippini Avvocato, Master of Advanced Studies SUPSI in Tax Law, vicecancelliere della Camera di diritto tributario del Tribunale d’appello del Canton Ticino Il trattamento fiscale in caso di cessazione dell’attività lucrativa indipendente dopo il compimento dei 55 anni o per incapacità di esercitare tale attività in seguito a invalidità Norberto Bernardoni Già vicedirettore della Divisione delle contribuzioni del Cantone Ticino La giusta determinazione del salario e del dividendo per l’azionista-dipendente Raoul Paglia Master of Science in Economics, Università di Losanna , Master of Advanced Studies SUPSI in Tax Law, Amco Fiduciaria SA, Faido-Lugano Destinatari Fiduciari, commercialisti, avvocati e notai, consulenti fiscali, consulenti bancari e assicurativi, dirigenti aziendali, collaboratori attivi nel settore fiscale di aziende pubbliche e private, persone interessate alla fiscalità Luogo Centroeventi Via Industria, 2 CH-6814 Cadempino Data e orario Lunedì 2 dicembre 2013 14.00-17.30 Termine di iscrizione Entro giovedì 28 novembre 2013 Costo CHF 350.– Rinunce Nel caso in cui il partecipante rinunci al corso, la fattura inerente la quota di iscrizione sarà annullata a condizione che la rinuncia sia presentata entro il termine d’iscrizione Chi fosse impossibilitato a partecipare può proporre un’altra persona previa comunicazione a SUPSI e accettazione da parte del responsabile Attestato di frequenza Il rilascio dell’attestato di frequenza avviene solo su richiesta del partecipante Informazioni amministrative SUPSI Centro competenze tributarie www.supsi.ch/fisco [email protected] Fondamenti di diritto tributario Effetti del rapporto fiscale su terzi Saranno trattate quelle situazioni in cui i diritti e gli obblighi originati dal rapporto fiscale hanno effetto su terzi. Dopo una breve panoramica sugli elementi costitutivi del rapporto fiscale, saranno approfonditi - con l’aiuto di esempi pratici - i casi di sostituzione fiscale, di successione fiscale, e di responsabilità solidale contemplati nella legislazione tributaria svizzera. Infine, sarà riservato un particolare capitolo al cosiddetto regresso fiscale. Programma Rapporto fiscale Partecipazione di terzi al rapporto fiscale Sostituzione fiscale Responsabilità solidale Successione fiscale Regresso fiscale Destinatari Fiduciari, commercialisti, avvocati, consulenti fiscali, consulenti bancari e assicurativi, dirigenti aziendali, collaboratori attivi nel settore fiscale di aziende pubbliche e private, persone interessate alla fiscalità Docente Sebastian Mascetti, avvocato e notaio; giurista presso l’Ufficio giuridico della Divisione delle contribuzioni del Cantone Ticino Luogo SUPSI Dipartimento scienze aziendali e sociali Palazzo A CH-6928 Manno Data e orario Sabato 19 ottobre 2013 8.30-12.00 Iscrizioni Entro venerdì 11 ottobre 2013 Il numero di posti è limitato a 30 partecipanti Costo CHF 200.– Informazioni amministrative SUPSI Centro competenze tributarie www.supsi.ch/tax-law [email protected] Il diritto delle Convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito e sulla sostanza Approfondimenti in tema di applicazione delle Convenzioni In questo modulo si tratteranno vari temi inerenti l’applicazione delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Si illustreranno le regole che governano gli accordi societari sotto forma di partnership nel contesto internazionale e gli aspetti fiscali dei veicoli di investimento collettivo e dei gruppi societari in base al Modello di Convenzione OCSE. Nel corso verranno inoltre presentate le misure atte ad impedire gli abusi nell’utilizzo di Convenzioni, previste dal Decreto del Consiglio federale del 1962 e dalle Convenzioni con Italia, Francia, Belgio e USA. Si forniranno anche ai partecipanti le nozioni fiscali applicabili ai lavoratori frontalieri. Verrà poi approfondita la tematica dell’esistenza o meno di una stabile organizzazione, avendo particolare riguardo alla prassi e alla giurisprudenza italiana, come pure i principi che sottendono alla determinazione del reddito delle stabili organizzazioni estere di società svizzere, secondo il diritto tributario svizzero e infine gli effetti pratici derivanti dall’applicazione delle Convenzioni concluse dalla Svizzera sull'imposizione dei dividendi, interessi e royalties. Programma Applicazione delle Convenzioni a partnerships, collective investment vehicles e group taxation nel Modello OCSE Le norme anti-abuso previste nel diritto interno svizzero e nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito e la sostanza L’Accordo sui frontalieri tra Svizzera e Italia L’esistenza di una stabile organizzazione nella prassi e giurisprudenza italiana L’imposizione di una stabile organizzazione estera secondo il diritto svizzero Gli effetti dei trattati sull’imposizione (illimitata e limitata) dei dividendi, degli interessi e delle royalties secondo il diritto svizzero Destinatari Fiduciari, commercialisti, avvocati, consulenti fiscali, consulenti bancari e assicurativi, dirigenti aziendali, collaboratori attivi nel settore fiscale di aziende pubbliche e private, persone interessate alla fiscalità Docenti Pierpaolo Angelucci, Dottore commercialista, Studio Scarioni Angelucci, Milano Sarah Protti Salmina, Esperto fiscale dipl. fed.; MAS LCE; Esperto revisore abilitato - Studio legale e notarile OlgiatiGhiringhelli & Associati, Lugano Marco Bernasconi, Docente nella Facoltà di diritto dell’Università di Lucerna Francesco Avella, Dottore commercialista, Studio Maisto e Associati, Milano Massimo Bianchi, esperto fiscale diplomato; titolare di uno studio di consulenza fiscale a Lugano Luogo SUPSI Dipartimento scienze aziendali e sociali Palazzo A CH-6928 Manno Date e orari Venerdì 18 ottobre 2013 13.30-17.00 Sabato 9 novembre 2013 8.30-12.00 Venerdì 22 novembre 2013 8.30-17.00 Iscrizioni Entro venerdì 11 ottobre 2013 Il numero di posti è limitato a 30 partecipanti Costo CHF 800.– Informazioni amministrative SUPSI Centro competenze tributarie www.supsi.ch/tax-law [email protected] Offerta formativa Iscrizione ai corsi di diritto tributario Sì, mi iscrivo al seguente corso: Seminari Fondamenti di diritto tributario □ L'imposizione delle partecipazioni □ Effetti del rapporto fiscale su terzi di collaboratore Il diritto delle Convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito e sulla sostanza □ Approfondimenti in tema □ La previdenza professionale di applicazione delle Convenzioni e la pianificazione fiscale Dati personali NomeCognome TelefonoE-mail Indicare l’indirizzo per l’invio delle comunicazioni e l’addebito della tassa di iscrizione Azienda/Ente Via e N. NAP Località DataFirma Termine di iscrizione Vedi scheda del corso Inviare il formulario di iscrizione Per posta SUPSI Centro competenze tributarie Palazzo E Via Cantonale 16e CH-6928 Manno Via e-mail [email protected] Via fax +41 (0)58 666 61 76