Novità fiscali

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Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Centro competenze tributarie
Novità fiscali
L’attualità del diritto tributario svizzero
e internazionale
N° 9 – Settembre 2013
Diritto tributario svizzero
La prescrizione dei reati fiscali
Procedura di consultazione concernente la Legge federale
sull’esenzione di persone giuridiche con scopi ideali
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7
Diritto tributario italiano
Indeducibilità di costi tra difetto di inerenza
ed abuso del diritto
Voluntary disclosure: scenari attuali e prospettive future
Diritto tributario internazionale e dell’UE
Stabile organizzazione e stabilimento d'impresa
11
18
23
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
Considerazioni in tema di rilevanza penale dell’abuso
di diritto: la sentenza “Dolce & Gabbana”
Offerta formativa
Seminari e corsi di diritto tributario
30
35
Introduzione
Novità fiscali
09/2013
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In questo numero di Novità fiscali sono trattati
sei temi “caldi”. Nel primo articolo, Daniele Fumagalli affronta il tema della prescrizione dell’azione
penale in relazione ai reati fiscali ai sensi del diritto
penale svizzero, commentando in chiave critica
le proposte di riforma contenute nel Messaggio
n. 12.036 del Consiglio federale del 2 marzo 2012.
A seguire, Simona Genini esamina il recente avamprogetto di Legge federale sull’esenzione fiscale
di persone giuridiche con scopi ideali e ne valuta
gli aspetti salienti anche in prospettiva di raffronto
con la legge tributaria ticinese in vigore sino
al 1995. Nel terzo articolo, Andrea Prampolini trae
spunto dalla sentenza n. 4901/2013 della Corte
di Cassazione italiana per tracciare i confini
tra l’indeducibilità di costi, derivanti da operazioni
intercorse con società correlate, per difetto
del requisito di inerenza e per violazione del divieto
di abuso del diritto. Nel quarto articolo, Pierpaolo
Angelucci affronta le possibili ripercussioni
dell’autodenuncia in Italia, da parte di contribuenti
residenti, dei patrimoni esteri non dichiarati,
alla luce della disciplina vigente e dei possibili futuri
scenari legislativi. Marco Calcagno analizza poi
i requisiti che integrano l’esistenza di una stabile
organizzazione ai sensi del’articolo 5 del Modello OCSE di Convenzione fiscale e si sofferma sulla
comparazione tra il concetto di stabile organizzazione e quello di stabilimento di impresa, impiegato nella Legge federale sull’imposta federale diretta.
Per finire, Angela Monti ripercorre i punti salienti
della sentenza n. 77397/2012 della sezione penale
della Corte di Cassazione italiana (Dolce & Gabbana), individuando i riflessi che da tale pronuncia
potrebbero scaturire in termini di rilevanza penale
di fattispecie abusive e di interposizione fittizia.
Paolo Arginelli
Diritto tributario svizzero
La prescrizione dei reati fiscali
Daniele Fumagalli
Avvocato
Manager Legal Services
PricewaterhouseCoopers, Lugano
Le implicazioni della revisione delle norme sulla prescrizione del Codice penale svizzero in relazione alla
prescrizione dei reati fiscali
1.
Concetto di prescrizione
La sicurezza giuridica del cittadino da una parte e il diritto di
perseguire le infrazioni da parte dello Stato dall’altra sono due
facce importanti della medesima medaglia. Il concetto chiave che le delimita temporalmente è la prescrizione dell’azione
penale, ovvero il momento dopo il quale lo Stato non ha più il
diritto di perseguire l’autore di un reato.
Attualmente i termini di prescrizione di riferimento in ambito
fiscale non sono più quelli indicati dalle leggi fiscali federali e
cantonali bensì quelli del Codice penale svizzero (di seguito CP).
Conoscere i termini di prescrizione e le loro conseguenze pratiche è importante per le autorità, per i cittadini e, soprattutto,
per i professionisti che li consigliano e che si assumono, in tale
delicato ambito, delle grosse responsabilità professionali.
La prescrizione dell’azione penale è un’istituzione giuridica il
cui effetto è di porre fine al diritto dello Stato di punire un’infrazione penale una volta trascorso un certo tempo. Il concetto di prescrizione dell’azione penale, già noto nel diritto
romano, è stato ripreso nel Codice penale francese del 1791 e
seguito dalle codificazioni del XIX° secolo. La prescrizione mira
alla protezione della sicurezza del diritto, poiché, senza norme
che tendano a fissare definitivamente uno stato di fatto, non
vi sarebbero né certezze né la sicurezza del diritto.
La prescrizione dell’azione penale tende a garantire il diritto
dell’autore di un’infrazione ad ottenere un giudizio entro un
termine ragionevole, mentre la prescrizione della pena mira
a che l’effetto preventivo ed educativo della pena sia sempre
presente al momento della sua esecuzione e ad impedire quindi
l’esecuzione di una sanzione trascorso un certo periodo. Il presente articolo si sofferma sulla prescrizione dell’azione penale.
Oltre a questioni di tipo teorico, vi sono ragioni pratiche che
sostengono l’istituto della prescrizione, come per esempio
il fatto che la personalità del delinquente o contravventore
cambi nel tempo o comunque ch’egli sia già sufficientemente
punito dai rimorsi o dalla paura di essere scoperto e punito. Il
tempo lenisce inoltre il bisogno della collettività di procedere
ad una punizione. Non da ultimo vi è la delicata questione relativa alla conservazione dei documenti e quindi delle prove.
Se la prescrizione non esistesse e si dovesse giudicare un’infrazione commessa decenni or sono, sarebbe difatti difficile
apportarne la prova per l’accusa ma pure per l’imputato per
quanto attiene alle prove liberatorie. Questo sarebbe particolarmente delicato nelle situazioni in cui i primi indizi disponibili
militassero per la colpevolezza dell’imputato mentre le prove liberatorie che dovrebbe presentare l’imputato, forse addirittura scomparse, dimostrerebbero il contrario. Il compito
dell’imputato di inficiare le prove a suo carico e portarne di
liberatorie si verrebbe fortemente complicato una volta decorso un lasso di tempo considerevole.
Il meccanismo per l’accertamento della verità risulterebbe viziato e claudicante, conducendo ad un errato giudizio. In questo senso, si può anche affermare che una procedura equa
(ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo) è difficilmente attuabile dopo un lungo periodo.
Altri imperativi di tipo pratico che tendono al mantenimento della prescrizione sono lo scarico per la società permettendo per esempio di distruggere periodicamente la vecchia
documentazione archiviata una volta trascorso il termine di
prescrizione. Se la prescrizione dovesse essere abolita, teoricamente si rischierebbe di dover essere sempre tenuti a presentare prove relative ai propri diritti. Le società, le persone fisiche e le autorità non potrebbero più distruggere i loro archivi
poiché i documenti dovrebbero essere conservati per sempre.
La prescrizione costituisce così una sorta di garanzia a favore
dell’imputato consistente nel non poter più essere indagato e
processato dopo il trascorrere di un certo periodo di tempo.
Questa garanzia non implica che le obbligazioni o le infrazioni
non siano mai esistite, significa unicamente che non hanno
più effetti.
3
4
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Le questioni legate alla nozione di prescrizione richiedono
una difficile ponderazione degli interessi dell’autore del reato
(come per esempio la sicurezza del diritto) e dello Stato (ad
esempio il diritto e l'obbligo di punire).
2.
Diritto vigente nella LIFD e nella LAID prima
della revisione del CP del 1. ottobre 2002
Prima che l’articolo 333 capoverso 5 del vecchio CP entrasse in
vigore il 1. ottobre 2002, nella Legge federale sull’imposta federale diretta (di seguito LIFD) e nella Legge federale sull’armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di seguito LAID), l’azione penale per violazioni di obblighi procedurali
si prescriveva in due anni e quella per tentativo di sottrazione
d’imposta in quattro anni dopo la chiusura definitiva della procedura nel corso della quale erano stati violati gli obblighi procedurali oppure era stato commesso il tentativo di sottrazione.
Nel caso delle contravvenzioni di sottrazione consumata
d’imposta, l’azione penale si prescriveva in dieci anni dalla fine
del periodo fiscale per il quale il contribuente non era stato
tassato o era stato tassato insufficientemente oppure per il
quale la ritenuta d’imposta alla fonte non era stata effettuata
conformemente alla legge, ovvero in dieci anni a contare dalla
fine dell’anno civile nel corso del quale erano stati ottenuti una
restituzione indebita d’imposta o un condono ingiustificato
d’imposta, oppure erano stati dissimulati o distratti beni nella
procedura d’inventario.
L’azione penale per delitti fiscali si prescriveva in dieci anni
dall’ultima attività delittuosa.
Poiché la normativa sulla prescrizione dell’azione penale nella
LIFD e nella LAID prima del 1. ottobre 2002 riconosceva motivi
d’interruzione, questi termini relativi di prescrizione dell’azione
penale potevano essere prolungati della metà della durata per
le contravvenzioni e di cinque anni al massimo per i delitti.
stati pure abbreviati i termini di prescrizione dell’azione penale
anche nel diritto penale accessorio. Quest’abrogazione dei
concetti di sospensione e interruzione dei termini ha causato
di fatto una riduzione dei termini di prescrizione, con la conseguenza che le autorità avevano meno tempo a disposizione
per perseguire un delitto.
Poiché l’adeguamento di questi termini in tutte le disposizioni
del diritto accessorio sarebbe andato oltre l’ambito della revisione della parte generale del CP, l’Assemblea federale ha
posto in vigore al 1. ottobre 2002 l’articolo 333 capoverso 5
lettere da a fino a d CP (articolo 333 capoverso 6 lettere da a
fino a d CP dal 1. gennaio 2007) che fino all’entrata in vigore
di singoli adeguamenti prolungava sistematicamente i termini
di prescrizione dell’azione penale nel diritto accessorio, quindi
anche nella LIFD e nella LAID. In materia fiscale questo capoverso ha quindi avuto un impatto che è sfuggito al legislatore
federale e che si è dovuto necessariamente correggere.
È dunque stato introdotto il nuovo articolo 333 capoverso 5
CP quale norma transitoria. Detta regola dispone che, fino
all’adozione di altre leggi federali:
◆ i termini di prescrizione dell’azione penale sono aumentati della metà della durata ordinaria per i crimini e i delitti e
raddoppiata la durata ordinaria per le contravvenzioni;
◆ i termini di prescrizione dell’azione penale per le contravvenzioni che superano un anno sono aumentati della loro
durata ordinaria;
◆ le regole sull’interruzione e la sospensione della prescrizione dell’azione penale sono abrogate;
◆ la prescrizione dell’azione penale non decorre più se, prima della sua scadenza, un giudizio di prima istanza è stato
reso.
Il nuovo capoverso 5 dell’articolo 333 CP, entrato in vigore il
1. ottobre 2002, ha introdotto una chiave di conversione dei
termini di prescrizione. Detta chiave di conversione è valida
fino all’adozione di ogni legge in questione, dopodiché faranno
stato le nuove disposizioni relative alla prescrizione adottate
da ogni relativa specifica legge.
Per le contravvenzioni nella LIFD e nella LAID ciò significa che
(articolo 333 capoverso 6 lettera b CP):
3.
La revisione del CP
Il 1. ottobre 2002 è entrata in vigore la revisione del CP. Lo scopo della modifica legislativa era quello di semplificare e rendere più chiare le norme sulla prescrizione dell’azione penale.
Una delle principali modifiche è stata l’abolizione della sospensione e dell’interruzione della prescrizione. La disposizione determinante dell’articolo 72 del vecchio CP è difatti stata abrogata. Con l’abrogazione dell’articolo 72 del vecchio CP sono
◆ per la violazione di obblighi procedurali vi è stato un aumento della durata ordinaria da due a quattro anni;
◆ per il tentativo di sottrazione d’imposta un aumento da
quattro ad otto anni;
◆ per la sottrazione d’imposta consumata e per la dissimulazione o la distrazione di beni nella procedura d’inventario
un aumento da dieci a vent’anni.
L’articolo 333 capoverso 6 lettera a CP stabilisce invece che
il termine di prescrizione dell’azione penale per i delitti è aumentato della metà della durata ordinaria e passa da dieci a
quindici anni.
Questa norma implica quindi un termine della prescrizione
dell’azione penale per le contravvenzioni ancora più lungo
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
(passando da dieci ad addirittura vent’anni) rispetto a quello di
quindici anni previsto per i delitti. Da quanto precede, appare
evidente che il passaggio del termine riguardante la contravvenzione d’imposta consumata da dieci a vent’anni è manifestamente eccessivo.
Manca dunque la proporzionalità tra la gravità dell’infrazione
e il periodo durante il quale è possibile perseguirne l’autore. Il
termine di vent’anni, durante il quale è possibile promuovere
procedimenti penali in caso di contravvenzioni, appare sproporzionato anche se confrontato con il termine per il ricupero d’imposta e quello legato all’obbligo di conservazione della
documentazione, che si limitano a soli dieci anni. In pratica è
data la possibilità di perseguire l’autore di una contravvenzione fiscale anche una volta venuta meno la possibilità di procedere al ricupero dell’imposta sottratta e scaduto l’obbligo
decennale di conservazione della documentazione che deve
fungere da difesa e prova liberatoria per il contribuente.
Da un lato è scioccante che ad una contravvenzione sia assegnato un termine di prescrizione di vent’anni quando ai delitti
ne sono assegnati solamente quindici. Mancano la proporzionalità e la connessione tra la gravità dell’infrazione e il periodo
durante il quale è possibile perseguirne l’autore.
L’autorità fiscale dovrebbe in questo caso resistere alla tentazione di aumentare la pena pecuniaria per incassare malgrado
tutto l’imposta sottratta. Va inoltre tenuto conto che dovrebbe invece valere il ragionamento contrario, secondo il quale un
lungo lasso di tempo trascorso è un fattore di attenuazione
della pena (articolo 64 CP).
Un termine di prescrizione di quindici anni appare dunque più
appropriato, poiché corrisponderebbe al vecchio termine di
prescrizione assoluto di una sottrazione d’imposta e al termine per procedere ad un ricupero d’imposta.
In realtà, siccome il ricupero d’imposta deve essere inoltrato
nei dieci anni successivi alla fine del periodo fiscale in cui la
sottrazione ha avuto luogo, il termine di prescrizione di una
sottrazione d’imposta dovrebbe addirittura essere mantenuto
a dieci anni.
D’interesse attuale e concreto vi è la proposta di ulteriore revisione della legge e dei termini di prescrizione, contenuta nel
Messaggio n. 12.036 del Consiglio federale del 2 marzo 2012
concernente la Legge federale su un adeguamento della LIFD
e della LAID alle disposizioni generali del CP. Ciò dovrebbe porre rimedio alla trappola involontariamente posta mediante le
scorse revisioni legislative.
D’altro lato emerge l’inadeguatezza della modifica del termine da dieci a vent’anni se si effettua una comparazione con la
durata decennale durante la quale il Codice delle obbligazioni
(articolo 962 del Codice delle obbligazioni [di seguito CO]) impone di conservare i documenti.
Anche a confronto con il termine decennale della procedura di
ricupero d’imposta (che accompagna sempre quella di sottrazione d’imposta), il termine di prescrizione di vent’anni appare
spropositato.
Il diritto di avviare una procedura di ricupero d’imposta si prescrive dopo il trascorrere di dieci anni a partire dalla fine del
periodo fiscale per il quale la tassazione non è stata effettuata
o era incompleta. Il diritto di procedere al ricupero d’imposta si
estende a quindici anni dopo la fine del periodo fiscale al quale
si riferisce. Questi termini di dieci e quindici anni per il ricupero
d’imposta, seguivano e rispecchiavano i termini di prescrizione
relativa e assoluta dell’azione penale in vigore prima dell’entrata in vigore dell’articolo 333 capoverso 5 CP.
Il legislatore ha manifestamente omesso di tenere conto del
fatto che il termine di prescrizione delle contravvenzioni che
rappresentano una sottrazione d’imposta era già eccezionalmente lungo in quanto era stato allineato al termine della
procedura del ricupero d’imposta alla quale la sottrazione è
legata. Non vi è dunque alcun rischio che l’amministrazione
fiscale difetti di tempo per giudicare dei casi di sottrazione.
È invece assurdo chiedere implicitamente al contribuente di
conservare dei documenti contabili, al fine di potersi difendere, per la durata di vent’anni, quando il già citato obbligo di
conservazione dettato dal CO è di soli dieci anni. È soprattutto assurdo poter perseguire una sottrazione d’imposta dopo
quindici anni senza potere ricuperare l’imposta sottratta.
4.
Proposte del Messaggio del Consiglio federale
del 2 marzo 2012
Mediante il Messaggio citato, il Consiglio federale si è prefisso
l’aggiornamento e singoli adeguamenti della normativa sulla
prescrizione nella LIFD e nella LAID. È in particolare prevista la
riduzione da vent’anni a quindici anni del termine di prescrizione dell’azione penale in caso di contravvenzioni di sottrazione
d’imposta consumata e di dissimulazione o distrazione di valori successori nella procedura d’inventario.
Detto disegno intende aggiornare nella LIFD e LAID i termini
di prescrizione e le sanzioni dei delitti ai sensi della parte generale del CP.
Nel quadro dell’indagine conoscitiva che ha preceduto l’emanazione del Messaggio del 2 marzo 2012, numerosi partecipanti hanno espresso l’opinione che il rapporto tra la procedura
di ricupero d’imposta e la procedura penale in materia fiscale
debba essere sottoposto ad una più approfondita verifica.
5
6
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Tabella 1: Modifiche della durata della prescrizione prima e dopo il 2002 e proposta contenuta nel disegno di legge (Fonte: Foglio federale 2012 2521,
pagina 2534)
Infrazioni (fattispecie/tipo di reato)
Disposizioni sulla prescrizione
fino al 30.09.2002
Prescrizione
dall’01.10.2002
Disegno di legge
Prescrizione
relativa
Prescrizione
assoluta
articolo 333
capoverso 6 CP
Violazione di obblighi procedurali
(articoli 174 LIFD e 55 LAID)
contravvenzione
2 anni
3 anni
4 anni
3 anni
Sottrazione d’imposta consumata
(articoli 175 LIFD e 56 capoverso 1 LAID)
contravvenzione
10 anni
15 anni
20 anni
15 anni
Tentativo di sottrazione d’imposta
(articoli 176 LIFD e 56 capoverso 2 LAID)
contravvenzione tentata
4 anni
6 anni
8 anni
6 anni
Dissimulazione o distrazione di valori
successori nella procedura d’inventario
(articoli 178 LIFD e 56 capoverso 4 LAID)
contravvenzione
10 anni
15 anni
20 anni
15 anni
Frode fiscale
(articoli 186 LIFD e 59 LAID)
delitto
10 anni
15 anni
15 anni
15 anni
Appropriazione indebita d’imposte
alla fonte (articoli 187 LIFD e 59 LAID)
delitto
10 anni
15 anni
15 anni
15 anni
Riscossione e prescrizione delle multe
e delle spese (articolo 185 LIFD)
5 anni
10 anni
5 anni (senza validi
motivi per la sospensione dei termini); 7.5 o 10 anni
(con validi motivi
per la sospensione
dei termini)
5 anni (termine
relativo); 10 anni
(termine assoluto)
Tale proposta è stata motivata adducendo che, nonostante la
prevista riduzione da venti a quindici anni del termine di prescrizione dell’azione penale in caso di sottrazione d’imposta
consumata, riguardo a periodi fiscali risalenti a più di dieci anni
prima, anche in futuro potrà essere avviata solo una procedura
penale in materia fiscale, non però una procedura di ricupero
d’imposta (cfr. articoli 152 LIFD e 53 capoverso 2 LAID).
Per fare chiarezza riguardo a tale situazione, alcuni partecipanti all’indagine conoscitiva hanno pertanto proposto, riguardo al ricupero d’imposta, di rinunciare alla distinzione tra
prescrizione relativa e assoluta e di fissare la durata della prescrizione in quindici anni. Nel Messaggio, il Consiglio federale
ha tuttavia rifiutato tale proposta.
L’obiettivo della revisione consiste nel proporre, nell’ottica del
principio della certezza del diritto, formulazioni inequivocabili
e chiare nella LIFD e nella LAID.
Per maggiori informazioni:
Allidi Claudio/Casella Franco, Le contravvenzioni e i delitti fiscali nel diritto federale svizzero e nel diritto cantonale ticinese, in: Bernasconi Marco/Pedroli
Andrea (a cura di), Lezioni di diritto fiscale svizzero, Bellinzona/Agno 1999,
pagina 349 e seguenti
Consiglio federale, Messaggio n. 12.036 del 2 marzo 2012 concernente la
legge federale su un adeguamento della LIFD e della LAID alle disposizioni
generali del CP, in: Foglio federale 2012 2521, http://www.admin.ch/opc/it/
federal-gazette/2012/2521.pdf [25.09.2013]
Langlo Jan, Prescription des infractions fiscales: le piège de l’article 333 alinéa
6 CP, in: ASA 75, 2006/2007, pagina 433 e seguenti
Martin Killias, Précis de droit pénal général, II° edizione, Berna 2001
Roth Robert/Moreillon Laurent, Commentaire romand, Code pénal I, Basilea
2009
Elenco delle fonti fotografiche:
http://2.bp.blogspot.com/-w4RPr_ifEwI/UcF788_ JxVI/AAAAAAAAJIY/
km6PwCZGMRk/s320/prescrizione+tasse+tempo.jpg [25.09.2013]
http://www.sicurauto.it/upload/dynamic_/1109/img/38-ricorso-giudice.jpg [25.09.2013]
Diritto tributario svizzero
Procedura di consultazione concernente
la Legge federale sull’esenzione di persone
giuridiche con scopi ideali
Simona Genini
Avvocato
Responsabile dell’Ufficio giuridico della Divisione
delle contribuzioni
La scelta del Consiglio federale è quella corretta?
1.
Introduzione
L’avamprogetto di Legge federale sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con scopi ideali, posto in consultazione il 10
aprile 2013[1], era volto ad attuare la mozione del 20 marzo
2009 del Consigliere agli Stati, on. Alex Kuprecht[2]. Nell’atto
parlamentare si invitava il Consiglio federale ad esaminare la
possibilità che:
◆ nella LIFD ed eventualmente anche nella LAID le associazioni vengano esentate dall’imposta completamente o fino
a un certo importo;
◆ a patto che i loro redditi e la loro sostanza siano destinati a
scopi ideali, in particolare alla promozione della gioventù e
delle nuove generazioni.
Il Consiglio federale, nel suo parere del 13 maggio 2009, aveva
proposto di respingere la mozione, malgrado ciò il 27 maggio
2009 il Consiglio degli Stati ha accolto la stessa, così come il
Consiglio nazionale nella seduta del 15 marzo 2010. Proprio
nella sessione estiva 2009 del Consiglio degli Stati il mozionante ha esplicato il suo atto evidenziando che non si tratta di
esentare qualsiasi associazione con interessi economici, bensì
quelle con scopi ideali. Egli riteneva che fosse il legislatore a
dover decidere se potessero essere esentate completamente
(eventualità da accogliere favorevolmente) oppure dovessero
essere fissati dei limiti[3].
2.
La proposta del Consiglio federale
Il Consiglio federale dopo aver esaminato alcune prassi cantonali in materia di imposizione delle associazioni ha focalizzato
quattro possibili soluzioni al fine di adempiere alla mozione,
segnatamente[4]:
1) la prima soluzione consisterebbe nell’aumentare l’attuale
limite di esenzione dall’imposta sull’utile delle associazioni, fondazioni e altre persone giuridiche, previsto all’articolo 71 capoverso 2 LIFD. A livello di LAID, non sono previste
modifiche, poiché i Cantoni non sottostanno all’armoniz-
zazione in questo ambito (articolo 129 capoverso 2 della
Costituzione federale);
2) la seconda soluzione potrebbe consistere nell’estendere
l’elenco delle esenzioni dall’assoggettamento soggettivo
delle persone giuridiche con scopi ideali previsto agli articoli 56 LIFD e 23 LAID. In questo caso l’esenzione dall’imposta sarebbe completa;
3) la terza soluzione sarebbe basata sull’oggetto fiscale. Per
le persone giuridiche con scopi ideali deve essere fissato un
importo esente da imposta di 20’000 franchi. Ciò significa
che gli utili sono deducibili se non superano i 20’000 franchi
(nuovo articolo 66a dell’avamprogetto LIFD [di seguito APLIFD]). Nella LAID (nuovo articolo 26a dell’avamprogetto
LAID [di seguito AP-LAID]) l’ammontare dell’importo esente sarebbe determinato dal diritto cantonale;
4)anche la quarta soluzione sarebbe basata sull’oggetto
fiscale. In questo caso per le persone giuridiche con scopi ideali dovrebbe essere fissato un limite di esenzione
dall’imposta di 20’000 franchi. Solo chi consegue utili inferiori a questo limite rimane esonerato dall’imposta (nuovo
articolo 66a AP-LIFD). Nella LAID (nuovo articolo 26a APLAID) l’ammontare del limite di esenzione dall’imposta sarebbe determinato dal diritto cantonale.
Dopo aver analizzato nel dettaglio le possibili attuazioni, il
Consiglio federale, è giunto alla conclusione che la soluzione
ideale sia la quarta, vale a dire con la definizione di un limite
di esenzione dall’imposta per le persone giuridiche con scopi
ideali.
3.
Le reazioni alla procedura di consultazione
Il fatto di voler esentare le associazioni con scopi ideali ha raccolto ampi consensi, ma il progetto del Consiglio federale, in
quanto tale, è stato criticato[5]. A tal proposito è d’uopo rilevare che la Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali
delle finanze (di seguito CDCF), nella sua presa di posizione, ha
evidenziato che lo stesso andrebbe riesaminato e rielaborato
alla luce delle osservazioni dei singoli Cantoni, sottolineando
che andrebbe preferita la prima soluzione, ossia l’aumento
dell’attuale limite di esenzione nella LIFD[6]. La CDCF è probabilmente giunta a questa conclusione, come d’altronde altri
7
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Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Cantoni, ritenendo che con questa variante la sistematica attuale della legge sarebbe rimasta invariata e non sarebbe stata di conseguenza creata un’ulteriore complessità nel sistema
fiscale. Una tale soluzione è giustificabile anche per il fatto che
la maggior parte dei Cantoni (ma non il Canton Ticino come si
evidenzierà in seguito) per le imposte cantonali e comunali già
attualmente prevede un limite maggiore d’esenzione a livello
tariffario rispetto a quelli che sono tutt’ora in vigore nell’ambito dell’imposta federale diretta. A tal proposito è opportuno
rilevare che non va trascurato il fatto che tale soluzione presenta lo “svantaggio” che non solo associazioni e fondazioni
con scopi ideali ne beneficerebbero, bensì anche quelle con
scopi economici/imprenditoriali.
4.
La peculiarità del Canton Ticino
Nel passato il Canton Ticino già conosceva un’esenzione per
associazioni che perseguivano scopi ideali, ma i cambiamenti dettati dalla necessità di adeguare il diritto cantonale alla
LAID ed alla LIFD hanno sottratto dal beneficio dell'esenzione dalle imposte ordinarie quegli enti con scopi ideali, attribuendo tale vantaggio unicamente alle persone giuridiche di
pubblica utilità o che perseguono scopi pubblici[7]. Segnatamente prima della revisione totale della Legge tributaria, entrata in vigore il 1. gennaio 1995, nel Canton Ticino le società
cooperative, le associazioni e le fondazioni che perseguivano
degli scopi ideali nel Cantone erano posti al beneficio dell’esonero fiscale dalle imposte ordinarie (articolo 15 capoverso
1 lettera l della Legge tributaria del Canton Ticino del 1976 [di
seguito LT-76]). Le imposte di successione e donazione non
sono per contro state oggetto di armonizzazione fiscale, ciò
che ha permesso di mantenere l’esenzione delle persone giuridiche con scopi ideali[8].
Il Canton Ticino, indirettamente, si è già espresso in modo
opposto alla soluzione privilegiata della CDCF. In effetti nel
febbraio 2010 era stata presentata un’iniziativa parlamentare
generica volta ad innalzare le soglie d’imposizione nei confronti delle associazioni che nel passato erano definite a scopo
ideale[9]. Il Parlamento cantonale dando seguito all’atto parlamentare, in data 24 settembre 2012, ha approvato la proposta della Commissione tributaria[10], ed ha scelto di attenuare
l’aliquota d’imposta relativa all’utile delle associazioni, fondazioni e altre persone giuridiche (dall’8% al 4%), considerando
di offrire un servizio alle associazioni senza scopo di lucro. La
legge tributaria in vigore, a differenza di altri Cantoni, prescrive tuttora che è unicamente l’utile inferiore a 5’000 franchi a
beneficiare dell’esonero fiscale[11].
È d’uopo altresì rilevare che nel rispondere ad un altro atto
parlamentare, che chiedeva di parificare il trattamento ed accettare tutti i contributi versati da contribuenti a scopo benefico (società sportive, culturali, benefiche) quale deduzione dal
reddito[12], il Consiglio di Stato faceva riferimento al fatto che
in base alla legislazione in vigore non era possibile procedere
in tal senso, ma rendeva attenti sulla possibile modifica legislativa, proprio a seguito della mozione depositata dall’on. Alex
Kuprecht[13].
5.
Il Canton Ticino non potrebbe essere da esempio?
La vecchia legge tributaria ticinese potrebbe essere
presa in considerazione al fine di attuare la mozione
Kuprecht e la volontà delle Camere federali
Come già rilevato, in materia d’imposte di successione e donazione il legislatore ticinese ha mantenuto l’esenzione fiscale
per le persone giuridiche che perseguono degli scopi ideali nel
Cantone o d’interesse della Comunità svizzera, per le devoluzioni e le liberalità esclusivamente e irrevocabilmente destinate a tali fini (articolo 154 capoverso 1 lettera d LT). Sotto l’egida di detta norma è stata promulgata diversa giurisprudenza,
dalla quale si evince che la nozione di “scopo ideale” è molto
più ampia di quella di “pubblica utilità” e si oppone a quella
di scopo di lucro. La principale differenza rispetto alla pubblica utilità è rappresentata dall’assenza dell’interesse generale
e del disinteresse, che si è visto essere proprio dello scopo di
pubblica utilità. È il caso, in particolare, delle associazioni, che
si reggono sì sul solo sacrificio finanziario dei membri, ma che
non perseguono il bene di terzi[14]. La giurisprudenza cantonale ha comunque evidenziato che anche se la nozione di
scopo ideale è meno restrittiva di quella di pubblica utilità, la
stessa dev’essere opposta a quella di scopo di lucro, di conseguenza l’esenzione in questo caso va negata[15]. Anche in
tempi recenti la Camera di diritto tributario del Tribunale di
Appello del Canton Ticino (di seguito CDT) ha ribadito che, “in
linea di principio, la nozione di scopo ideale si contrappone a quella
di scopo di lucro. Si tratta dunque di un concetto più ampio rispetto
a quello della pubblica utilità, che non presuppone lo svolgimento in
modo disinteressato di un’attività per il bene generale della collettività. Vi rientrano anche quegli enti che, pur fondandosi sul sacrificio
finanziario dei propri membri, perseguono fini non necessariamente
meritevoli di promozione, con l’intenzione di migliorare la condizione dei loro aderenti. È il caso, in particolare, delle associazioni, che
si reggono sì sul solo sacrificio finanziario dei membri, ma che non
mirano al bene di terzi. L’esenzione fiscale degli enti che perseguono scopi ideali era stata introdotta con un’apposita modifica della
lettera l dell’articolo 15 relativo alle imposte ordinarie e della lettera
e dell’articolo 120 relativo alle imposte di successione e donazione
LT-76, con effetto a contare dal 1. gennaio 1987: il Consiglio di Stato
aveva infatti ritenuto di concedere l’esonero anche a quegli enti che,
quale attività principale, promuovevano gli interessi ideali specifici dei
loro membri. Secondo le indicazioni contenute nel messaggio, beneficiavano allora della qualifica di associazioni a scopo ideale, fra le altre,
le società sportive (calcio, tennis, aeroclub, eccetera), le società per il
tempo libero (foto, cine e radioamatori, eccetera), le società amato-
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
riali (canto, teatro, filodrammatica, carnevale, bande, eccetera) e le
società locali (di quartiere, studentesche, eccetera)”[16].
Da questa giurisprudenza si evince che è possibile dare una
definizione di scopo ideale e che quest’ultimo dev’essere posto
in contrapposizione agli scopi economici o ai fini di lucro, di
conseguenza si può delimitare il concetto di scopo ideale, a
differenza di quanto sostenuto dal Consiglio federale[17].
La creazione di una nuova norma, come prospettato dal Consiglio federale, crea un sistema più complesso sia dal profilo
amministrativo sia da quello della gestione, come anche rilevato dalla CDCF. Ma vi è di più, l’ente sarà posto al beneficio
dell’esenzione, ma la persona fisica o giuridica che farà una
devoluzione volontaria a questa persona giuridica non potrà
beneficiare della relativa deduzione fiscale, situazione che, a
mio modo di vedere, potrà dare adito a ulteriori atti parlamentari per il riconoscimento della deduzione della devoluzione.
Nel Canton Ticino come già evidenziato al considerando precedente è già successo. Probabilmente anche a livello federale potrà accadere, in quanto è importante rilevare che molto
spesso degli enti chiedono di essere posti al beneficio dell’esonero fiscale, non tanto perché essi stessi risultano imponibili
(non superando il valore soglia di 5’000 franchi di utile e di
50’000 franchi di capitale per l’imposta cantonale), ma bensì
per incentivare le devoluzioni, in quanto queste sono deducibili
dall’imponibile dei contribuenti che effettuano la liberalità.
Si osserva inoltre che il Parlamento federale ha lasciato ampio
spazio di manovra su come implementare la norma, dai dibattiti parlamentari si evince che lo scopo è quello di sostenere le
piccole associazioni con scopi culturali, sportivi e senza interessi lucrativi.
Di conseguenza una soluzione più praticabile potrebbe consistere nella modifica degli attuali articoli 56 capoverso 1 lettera
g LIFD e 23 capoverso 1 lettera f LAID, nel senso di concedere
l’esenzione fiscale a tutte le persone giuridiche (in virtù della
parità di trattamento) che perseguono degli scopi pubblici, di
pubblica utilità o scopi ideali, per quanto concerne l’utile esclusivamente e irrevocabilmente destinato a tali fini, escludendo
scopi imprenditoriali e di lucro.
Per quanto riguarda il Canton Ticino si avrebbe un allineamento con l’esenzione in materia d’imposte di successione e donazione e si ristabilirebbe la situazione ante armonizzazione.
Si potrebbe esplicitare, in un nuovo messaggio che attui questa
variante, che l’esenzione sarebbe così concessa a quelle persone giuridiche, che operano senza scopo di lucro, negli ambiti
amatoriali, per il tempo libero, locali e sportivi. In quest’ultimo
settore si rileva che è difficile giustificare l’esenzione fiscale
delle federazioni sportive internazionali[18], e non concederla
a delle associazioni sportive locali che si fondano sul volontariato. Questa situazione ha già dato, in effetti, adito a diversi
atti parlamentari federali[19].
In conclusione la vecchia legge tributaria ticinese, e la giurisprudenza sviluppata in quest’ambito, potrebbero essere un
modello per attuare la mozione Kuprecht.
Disclaimer:
le considerazioni del presente contributo sono espresse dall’autore a titolo
personale e non vincolano in alcun modo la Divisione delle contribuzioni.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.npo-forum.ch/wp-content/uploads/Steuerbefreiung.jpg
[25.09.2013]
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3ad1/1.18114092.1373442973.jpg [25.09.2013]
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Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
[1] Dipartimento federale delle finanze (di seguito DFF), Esenzione fiscale di associazioni con
scopi ideali: il Consiglio federale avvia la procedura di consultazione, Comunicato stampa, Berna 10 aprile 2013, in: http://www.news.admin.
ch/message/index.html?lang=it&msg-id=48440
[25.09.2013]. L’avamprogetto di legge, il Rapporto esplicativo concernente la legge federale
sull’esenzione fiscale di persone giuridiche con
scopi ideali, nonché i risultati della consultazione, che si è chiusa il 10 luglio 2013, sono disponibili al seguente link: http://www.admin.ch/ch/i/
gg/pc/ind2013.html#DFF [25.09.2013].
[2] Mozione depositata dall’on. Alex Kuprecht il
20 marzo 2009, n. 09.3343, dal titolo: Esenzione fiscale delle associazioni, in: http://www.
p a r l a m e n t . c h/ i/s u c h e /p a g i n e /g e s c h a e f t e .
aspx?gesch_id=20093343 [25.09.2013].
[3] Kuprecht Alex, intervento al Consiglio degli
Stati, sessione estiva 2009, terza sessione, 27
maggio 2009.
[4] DFF, Rapporto esplicativo concernente la
legge federale sull’esenzione fiscale di persone
giuridiche con scopi ideali, Berna, 10 aprile 2013,
pagina 19 (citato: Rapporto esplicativo).
[5] Corriere del Ticino del 10 luglio 2013, Fiscalità a favore delle associazioni; Comunicato
stampa del 18 giugno 2013 del Centre Patronale
(exonération des personnes morales poursuivant un but idéal: une solution qui n’est pas une);
Canton Basilea campagna, comunicato stampa
del 18 giugno 2013; Canton Soletta, presa di posizione del Consiglio di Stato del 18 giugno 2013;
Canton Neuchâtel, Informations brèves sur la
séance du Conseil d’Etat du 21 juin 2013 (affaires
fédérales) pagina 4; Canton Uri: presa di posizione del Consiglio di Stato del 25 giugno 2013;
Canton Lucerna: risposte al questionario “Fragenkatalog zum Bundesgesetz über die Steuerbefreiung von juristischen Personen mit Ideellen
Zwecken” del 25 giugno 2013; Canton Zurigo,
Auszug aus dem Protokoll des Regierungsrates del 26 giugno 2013, n. 740; Canton Ginevra,
Point de Presse du Conseil d’Etat du 26 juin 2013,
pagina 6; Canton Friborgo, Réponse à la consultation del 1. luglio 2013; Canton Vaud: presa di
posizione del Consiglio di Stato del 3 luglio 2013
(ref. PM/15014141).
[6] Presa di posizione del 28 giugno 2013 della
CDCF, in: http://www.fdk-cdf.ch/fr-ch/130628_
steuerbefreiung_vereine_stn_fdkvb_uz_f.pdf
[25.09.2013].
[7] Messaggio del Consiglio di Stato concernente
il progetto di nuova legge tributaria del 13 ottobre 1993, n. 4169, pagina 49.
[8] Barbuscia-Genini Simona, Esenzioni di persone giuridiche che perseguono scopi pubblici o di
pubblica utilità, Deduzione delle devoluzioni, in:
RtiD I-2008, pagina 334.
[9] Iniziativa parlamentare generica depositata dall’on. Giovanni Jelmini e confirmatari per il
gruppo PPD e ripresa da Raffaele De Rosa, del 21
febbraio 2010, intitolata: Associazioni a scopo
ideale: innalzare le soglie d’imposizione sull’utile
e sul capitale. Lo Stato sostenga fattivamente il
volontariato, in: http://www.ti.ch/CAN/SegGC/
comunicazioni/GC/inizgeneriche/pdf/IG460.pdf
[25.09.2013].
[10] Rapporto del 7 settembre 2012 della Commissione speciale tributaria del Gran Consiglio.
[11] L’articolo 78 capoverso 2 della Legge tributaria del Canton Ticino del 1994 (di seguito LT)
prevede che, per le associazioni, fondazioni e
altre persone giuridiche, l’utile inferiore ai 5’000
franchi non è imponibile.
[12] Interrogazione presentata dall’on. Fabio
Badasci, del 27 settembre 2012, n. 231.12, intitolata: Le varie società sportive, culturali e a
scopo benefico attive sul nostro territorio non
vengono trattate tutte allo stesso modo davanti
al fisco in merito ai versamenti ricevuti dal contribuente, in: http://www.ti.ch/CAN/SegGC/comunicazioni/GC/interrogazioni/pdf/231.12.pdf
[25.09.2013].
[13] Risposta del Consiglio di Stato del 30 gennaio 2013 all’interrogazione presentata dall’on.
Fabio Badasci, n. 231.12, in: http://www.ti.ch/
CAN/SegGC/comunicazioni/GC/interrogazioni/
risposte/pdf/r231.12.pdf [25.09.2013].
[14] RDAT n. 13t/I-1998, cfr. inoltre RDAT n. 5t/
II-1993.
[15] RDAT n. 10t/II-1999.
[16] Sentenza CDT del 26 settembre 2012 n.
80.2012.34/36 e giurisprudenza ivi citata.
[17] DFF, Rapporto esplicativo, pagine 22 e 27.
[18] Consiglio federale, Tassazione delle federazioni sportive in Svizzera – mantenere lo status
quo, Comunicato stampa, Berna 5 dicembre
2008, in: http://www.news.admin.ch/message/
index.html?lang=it&msg-id=23681 [25.09.2013].
[19] Interpellanza depositata dall’on. Louis
Schlebert, del 24 settembre 2008, n. 08.3511,
intitolata: UEFA. Federazione sportiva di pubblica utilità?, in: http://www.parlament.ch/i/suche/
pagine/geschaefte.aspx?gesch_id=20083511
[25.09.2013], Interpellanza depositata dall’on.
Hans Fehr, del 15 giugno 2011, n. 11.3552, intitolata: La FIFA non è di utilità pubblica, in: http://
www.parlament.ch/i/suche/pagine/geschaefte.
aspx?gesch_id=20113552 [25.09.2013].
Diritto tributario italiano
Indeducibilità di costi tra difetto di inerenza
ed abuso del diritto
Andrea Prampolini
Studio Maisto e Associati, Milano
Brevi note sulla recente sentenza n. 4901/2013 della Suprema Corte di Cassazione
1.
Sintesi
Con la recente sentenza n. 4901 del 27 febbraio 2013, la Corte di Cassazione ha negato la deducibilità della minusvalenza
realizzata per effetto della cessione infragruppo di una partecipazione, preceduta dal ripianamento delle perdite della società
partecipata da parte della società cedente. La sentenza offre
lo spunto per tracciare i confini tra l’indeducibilità di costi per
difetto del requisito di inerenza, da un lato, e per violazione del
divieto di abuso del diritto, dall’altro.
2.
La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte
La vicenda processuale ha riguardato la società Alfa S.p.A.,
che all’epoca dei fatti (1990) deteneva una partecipazione
pressoché totalitaria nella società Beta S.r.l. Quest'ultima società aveva maturato perdite superiori al proprio patrimonio
netto, versando così in una situazione di deficit patrimoniale
(patrimonio netto negativo).
In tale contesto, Alfa S.p.A. aveva effettuato versamenti a favore di Beta S.r.l. per importo idoneo a coprire integralmente
le perdite della società partecipata e a ricostituirne il capitale
sociale nell’ammontare originario. Alfa S.p.A. aveva registrato
tali versamenti ad incremento del valore contabile della propria partecipazione in Beta S.r.l., che aveva poi immediatamente ceduto ad un’altra società del gruppo (Gamma S.p.A.) per
un corrispettivo pari al patrimonio netto contabile di Beta S.r.l.
risultante dopo la copertura delle perdite (nonché pari all’originario valore contabile della partecipazione). Per effetto della
cessione, Alfa S.p.A. aveva realizzato una minusvalenza equivalente ai versamenti effettuati per ripianare le perdite della
società partecipata. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza
di appello, ha negato la deducibilità della minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A. per importo corrispondente al versamento
effettuato a copertura del deficit patrimoniale di Beta S.r.l. (cosiddetto “sottozero”)[1].
Occorre osservare che i Giudici non hanno ravvisato alcuna
violazione delle norme del testo unico disciplinanti la determinazione e la deduzione delle minusvalenze, in specie con
riguardo all’impossibilità di incrementare il costo fiscale della partecipazione per importo pari al cosiddetto versamento
sottozero. Né tale violazione era stata contestata dall’Ufficio,
presumibilmente perché, secondo la dottrina pressoché unanime, l’articolo 61 comma 5 del Decreto del Presidente della
Repubblica n. 917/1986 (di seguito TUIR), nella formulazione
applicabile ratione temporis, avrebbe comunque consentito ad
Alfa S.p.A. la deduzione immediata del cosiddetto versamento
“sottozero” come spesa di esercizio, quand’anche la partecipazione non fosse stata ceduta[2].
Per quale ragione, dunque, la Corte ha negato la deducibilità di
un componente negativo che, almeno in linea di principio, Alfa
S.p.A. avrebbe comunque potuto dedurre nello stesso periodo
di imposta se non avesse ceduto la partecipazione, seppure ad
altro titolo (cioè quale spesa di esercizio, anziché quale minusvalenza)?
La risposta alla questione ora prospettata emerge dalla motivazione contenuta nella prima parte della sentenza: i Giudici
hanno ritenuto che la minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A.
fosse indeducibile “per difetto di inerenza del costo di ripianamento
della società partecipata”.
3.
Il principio di inerenza all’attività di impresa
L’inerenza esprime la relazione che deve intercorrere tra un determinato atto, dal quale derivi un costo, e l’attività dell’impresa, quale condizione necessaria affinché tale costo sia deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa.
La regola dell’inerenza è priva di una disposizione espressa nel TUIR[3] , sebbene negli avvisi di accertamento e nelle sentenze (inclusa quella ora in commento) sia fortemente
radicata l’abitudine ad individuarne il fondamento positivo
nell’articolo 109 (già 75), comma 5 TUIR, che attiene invece
ad un profilo distinto e logicamente successivo (il cosiddetto
principio di correlazione dei costi ai proventi imponibili)[4]. La
regola dell’inerenza esprime il concetto secondo cui il “reddito
11
12
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
che deriva dall’esercizio dell’attività di impresa”, termine anch’esso
non definito ma riconducibile alla disposizione dell’articolo 55
TUIR, è strutturalmente al netto dei costi necessari a produrlo[5].
La regola dell’inerenza agisce come “spartiacque”, perché ha
la funzione di separare i costi che attengono alla produzione
del reddito dai costi che sono meri “veicoli” per porre in essere
un atto di erogazione di un reddito già prodotto (spese sostenute nell’interesse personale dell’imprenditore o dei suoi
famigliari, dei soci, di terzi), cioè costi sostenuti per finalità
“extraimprenditoriali”.
Tale distinzione è formulata chiaramente, ad esempio, nella sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012 della Corte di Cassazione: “quella di inerenza è una nozione pre-giuridica, di origine
economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente
calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione. Sotto
tale profilo, pertanto, inerente è tutto ciò che – sul piano dei costi
e delle spese – appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo
indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che
si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore,
ovvero del socio o del terzo”.
Fatte queste premesse è opportuno esaminare i tre argomenti
principali utilizzati dalla Suprema Corte per giungere a valutare
come “del tutto carente del nesso di inerenza” l’operazione da cui
deriva la minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A.:
a) Alfa S.p.A. non aveva alcun obbligo giuridico di ripianare le
perdite della società partecipata;
b) il ripianamento delle perdite della società partecipata, con
esborso di una somma pari a otto volte il valore di carico
originario della partecipazione, seguito dall’immediata
cessione di tale partecipazione ad altra società del gruppo per un corrispettivo pari a tale valore di carico originario
“danno luogo, nel loro complesso, ad un’operazione assolutamente antieconomica, per la società partecipante, e già in astratto
oggettivamente priva di qualsiasi potenziale idoneità ad incidere
positivamente sulla sua capacità di produrre utili”;
c) al fine di valutare la sussistenza del nesso di inerenza occorre fare riferimento esclusivo all’attività propria del soggetto giuridico che ha posto in essere l’operazione (Alfa
S.p.A.), mentre è irrilevante che l’operazione persegua finalità di riassetto complessivo del gruppo societario cui
tale soggetto appartiene, nell’ambito della discrezionalità
manageriale della capogruppo.
3.1.
Inerenza ed obbligatorietà o necessità della spesa
Il primo argomento non è di per sé dirimente. È certamente
vero che Alfa S.p.A. non aveva alcun obbligo giuridico di ripianare le perdite della società partecipata, in quanto soggetto
limitatamente responsabile. La riduzione del capitale di Beta
S.r.l. al di sotto del minimo legale e la sua mancata ricostituzione ad una cifra non inferiore al predetto minimo avrebbero
comportato lo scioglimento della società ai sensi degli articoli
2447 e 2448 (ora 2484) primo comma n. 4 del Codice Civile[6]
e l’eventuale dichiarazione di fallimento.
Tuttavia, non è affatto indispensabile che una determinata spesa, per risultare inerente, debba essere anche obbligatoria (cioè
imposta da un vincolo giuridico). Prova ne sia la riconosciuta
inerenza e deducibilità di costi certamente discrezionali e che
hanno un’utilità solo indiretta e non immediata per l’impresa,
come i costi sostenuti per la revisione volontaria (quindi, non
obbligatoria) del bilancio di esercizio[7] , per la pubblicità effettuata in proiezione futura (cioè, prima dell’immissione in commercio di un bene)[8] , per la difesa di amministratori coinvolti
in un procedimento penale (ove risulti provato il collegamento
con l’attività dell’impresa e la volontà di tutelarne l’immagine
presso la clientela)[9]. Pertanto, affinché un costo sia inerente
è sufficiente verificare la sussistenza di un interesse economico, sia pure prospettico, che lo leghi all’attività dell’impresa. Si
aggiunga che, se un costo è sopportato nell’interesse dell’attività dell’impresa non vale, ad escluderne l’inerenza, la mera
circostanza che di esso possa direttamente o indirettamente
beneficiare anche un altro soggetto[10]. Solo in carenza di un
interesse economico per l’impresa si ricade nelle erogazioni di
reddito (liberali o meno), che sono non inerenti e perciò indeducibili, salvo che per disposizione espressa[11].
3.2.
Inerenza e antieconomicità. Inerenza e utilità potenziale
Il secondo argomento utilizzato dalla Suprema Corte è quello
più incisivo e può essere riproposto con il seguente interrogativo: per quale ragione una società dovrebbe effettuare un
ingente investimento aggiuntivo nella propria partecipata (di
importo pari al cosiddetto versamento "sottozero") per poi cedere immediatamente la partecipazione a favore di un altro
soggetto senza ottenere alcun ristoro per tale investimento
aggiuntivo?
La sequenza di atti posta in essere da Alfa S.p.A. appare, sotto
questo profilo, come una condotta antieconomica. L’antieconomicità può certamente venire in rilievo sul piano della prova
dell’inerenza, come significativo indizio del carattere erogatorio (anziché produttivo) di reddito dell’atto che ha generato un
determinato costo e, quindi, del difetto di inerenza del costo
stesso[12] [13].
Peraltro, come ribadito dalla dottrina e talora riconosciuto dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte, l’antieconomicità di un singolo atto non è sufficiente a negare l’inerenza del
costo, perché essa potrebbe giustificarsi in funzione di benefici
economici su altri fronti e, quindi, dell’economicità dell’attività
di impresa nel suo complesso[14]. Ad esempio, il trasferimento
della proprietà di un bene effettuata in assenza di un corrispettivo espresso o per corrispettivo irrisorio potrebbe giustificarsi
con l’esigenza del cedente di evitare maggiori futuri aggravi
all’attività di impresa mediante la liberazione da fideiussioni,
garanzie, eccetera[15].
Tuttavia, nelle argomentazioni difensive svolte dal contribuente, per come riportate nella sentenza in commento, non v’è
traccia di eventuali benefici economici o utilità, anche solo potenziali o indirette, che sarebbero potute derivare ad Alfa S.p.A.
dall’operazione posta in essere. Né risulta il tentativo di Alfa
S.p.A. di valorizzare una nozione di inerenza in senso ampio, ad
esempio rappresentando un eventuale interesse della società
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
ad evitare il danno di immagine che le sarebbe potuto derivare dal fallimento della partecipata[16] (tentativo dall’esito comunque assai incerto nel caso di specie, data l’assenza di una
reale terzietà tra i soggetti coinvolti in ragione dell’appartenenza allo stesso gruppo). Di qui la conclusione della Suprema
Corte, che ha ritenuto la minusvalenza non inerente all’attività
realizzata da Alfa S.p.A., sancendone l’indeducibilità.
Si potrebbe ora completare il ragionamento della Cassazione,
evidenziandone alcuni corollari rimasti impliciti: se Alfa S.p.A.,
dopo avere ripianato le perdite di Beta S.r.l., avesse mantenuto
la proprietà della partecipazione, essa avrebbe potuto beneficiare economicamente del proprio investimento aggiuntivo
(ad esempio, tramite l’incasso di futuri dividendi da Beta S.r.l.
o la cessione plusvalente della partecipata, una volta ritornata
in bonis). In tale ipotesi, l’onere sostenuto da Alfa S.p.A. (il cosiddetto versamento “sottozero”) sarebbe risultato certamente
inerente all’attività di impresa svolta da tale ultima società e,
almeno in linea di principio, avrebbe potuto trovare immediata
deduzione[17].
Per converso, l’avere ceduto la partecipazione subito dopo il
ripianamento, senza la prospettiva di ottenere alcun ristoro per
l’esborso aggiuntivo effettuato né future utilità, avrebbe reso
manifesta la carenza di interesse di Alfa S.p.A. al sostenimento del relativo onere, se tale interesse è valutato nell’ottica di
un investitore che intenda trarre vantaggio dal proprio investimento[18]. In altri termini, nel particolare caso di specie il
versamento del “sottozero” avrebbe soddisfatto un interesse
esclusivo della società partecipata (e, indirettamente, della società acquirente e della capogruppo), non già di Alfa S.p.A. Tale
versamento avrebbe pertanto comportato una sostanziale
erogazione di reddito in favore della stessa partecipata (non
anche della società acquirente, se si assume che il corrispettivo
della cessione riflettesse il valore normale della partecipazione
post-copertura). Ciò avrebbe palesato il carattere erogatorio
dell’operazione posta in essere da Alfa S.p.A. e, quindi, il difetto
di inerenza del costo che ne è derivato.
singola operazione), non è comunque possibile dedurre costi
che soddisfano l’interesse esclusivo di soggetti diversi da quelli
cui il reddito prodotto va riferito, solo perché appartenenti allo
stesso gruppo[19].
In termini del tutto generali, occorre anzi osservare che, se si
accetta la tesi secondo cui l’inerenza va riferita esclusivamente
al soggetto che ha sopportato il costo e non ha la funzione
di recuperare vantaggi fiscali indebiti (bensì di depurare componenti negative estranee all’impresa), deve necessariamente
concludersi che un costo non inerente non diviene inerente (e
deducibile) per il solo fatto che un corrispondente ricavo risulti
“simmetricamente” imponibile in capo alla controparte (contrattuale), quand’anche quest’ultima sia un soggetto residente
ed appartenente al gruppo[20].
La conclusione non muta neppure dopo l’introduzione dell’istituto del consolidato fiscale di cui agli articoli 117 e seguenti
TUIR. Infatti, poiché il “gruppo” consolidato non è elevato ad
autonomo soggetto di imposta[21], la società che aderisce alla
tassazione di gruppo non perde la propria soggettività tributaria ed è pertanto tenuta a determinare il proprio reddito secondo le regole ordinarie, ivi inclusa la regola dell’inerenza[22].
Né, d’altro canto, è rinvenibile una disposizione espressa (ancorché da alcuni auspicata, in mancanza di danno per l’Erario) che
imponga all’amministrazione finanziaria, quando disconosca la
deducibilità di un componente negativo per difetto di inerenza
in capo ad una consolidata, di tenerne conto (quale maggior
costo o minore ricavo) in capo ad altra società partecipante al
consolidato, cui tale componente avrebbe dovuto essere imputato in quanto inerente[23].
Rimane tuttavia un dubbio: a stretto rigore, nel caso di specie
il costo del ripianamento delle perdite della partecipata, isolatamente considerato, non pare in sé sprovvisto del requisito di
inerenza, ma è solo il collegamento con la successiva cessione della partecipazione ad evidenziare il carattere erogatorio
dell’intera sequenza di operazioni. Su tale aspetto torneremo
nel capitolo 4.
3.3.
Inerenza e gruppo societario
Il terzo argomento utilizzato dalla Suprema Corte può riassumersi come segue: non esiste una “inerenza di gruppo”. Poiché infatti l’ordinamento tributario considera ciascuna società
come un autonomo soggetto passivo di imposta, a prescindere dalla sua appartenenza ad un gruppo, un costo sostenuto
nell’interesse del gruppo è deducibile in capo alla singola società solo se e in quanto soddisfi anche l’interesse di questa. Ne
consegue che, per quanto nell’ambito di un gruppo il concetto
di inerenza possa, almeno in linea di principio, assumere contorni più ampi (dovendosi considerare anche eventuali vantaggi compensativi che giustifichino l’apparente economicità della
4.
Difetto di inerenza versus abuso del diritto
Fin qui il ragionamento logico-giuridico della Suprema Corte
appare lineare. Tuttavia, nella seconda parte della sentenza
la Corte propone una diversa ricostruzione della fattispecie
sottoposta al suo esame, affermando che “l’evidente antieconomicità dell’operazione per Alfa S.p.A. […] consente, peraltro, di
qualificare la fattispecie – con identico risultato con riguardo alla
valutazione della legittimità della ripresa – anche nella diversa prospettiva dell’abuso del diritto”.
13
14
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Secondo la Corte, quindi, la deduzione della minusvalenza realizzata da Alfa S.p.A. potrebbe essere disconosciuta anche
sulla base del principio di matrice giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto, ritenuto insito nell’ordinamento come
diretta derivazione delle norme costituzionali. In base a tale
principio “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali
dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica
disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio
fiscale” (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n. 30055 del
23 dicembre 2008).
Ebbene, il citato passaggio della sentenza qui in commento
non potrebbe essere condiviso se fosse inteso nel senso che
la deducibilità di un costo può essere disconosciuta affermando contemporaneamente il difetto di inerenza dello stesso e
la natura elusiva o abusiva dell’operazione che l’ha generato.
Si tratterebbe di un’indebita sovrapposizione concettuale tra
due fenomeni che devono rimanere ben distinti. Infatti, la deduzione di un costo non inerente configura “evasione fiscale”, fattispecie che implica la diretta violazione di una norma
fiscale (ancorché eventualmente inespressa, come la regola
dell’inerenza) riguardante il presupposto, mentre l’abuso del
diritto attiene piuttosto all’area dell’“elusione fiscale”, che non
è violazione diretta bensì “aggiramento” di una norma fiscale, giacché si risolve in un comportamento che formalmente è
conforme alla norma impositiva, ma ne tradisce lo spirito e la
finalità (cioè, la ratio). Una sovrapposizione (quella tra evasione
ed elusione) che peraltro non sarebbe nuova nella recente giurisprudenza della Cassazione[24].
L’“antieconomicità” di un’operazione è solo un sintomo che accomuna le due fattispecie del difetto di inerenza e dell’abuso
del diritto, ma nulla più. L’antieconomicità, infatti, può essere
indizio rivelatore di fenomeni affatto diversi tra loro (fittizietà dei costi, occultamento di corrispettivi, difetto di inerenza
di costi, simulazione, elusione) e proprio per tale ragione non
dovrebbe mai costituire un argomento sufficiente di per sé ad
avallare la contestazione contenuta in un avviso di accertamento[25].
In conclusione, delle due l’una: o il costo è indeducibile perché
non è inerente, oppure è indeducibile perché, sebbene inerente,
è originato da un’operazione elusiva o abusiva.
4.1.
Le (solo apparenti) aree di convergenza
Ciò premesso, non sembra tuttavia potersi escludere che la
deduzione di un costo formalmente inerente possa, in collegamento con altri atti o negozi, consentire il conseguimento
di vantaggi tributari di natura abusiva, come la Cassazione
sembra avere già affermato nei propri precedenti, seppure in
termini piuttosto generali ed astratti[26].
Questa ipotesi potrebbe configurarsi, ad esempio, quando una
società sostenga un costo che, isolatamente considerato, risulta formalmente inerente ma che, in collegamento con altri
successivi atti o negozi, si rivela un “tassello” di un’operazione
più complessa finalizzata a realizzare indirettamente un risultato finale sostanzialmente erogativo di reddito, sempreché
nel caso specifico tale erogazione non possa essere presidiata
da una disposizione ad hoc, come quella che colpisce le destinazioni di beni a finalità estranee all’impresa (comportando
l’eventuale emersione di plusvalenze imponibili determinate a
valore normale[27]), ad esempio perché la destinazione a finalità estranee non riguarda un bene, ma un servizio, denaro
oppure un’altra utilità[28] [29].
Con riferimento al caso di specie, si potrebbe allora sostenere che il costo per il ripianamento delle perdite sostenuto da
Alfa S.p.A., considerato di per sé, è inerente anche per la parte
riferita al cosiddetto “sottozero”, perché il ripianamento non
comporta di per sé alcuna erogazione di reddito, ma configura un investimento aggiuntivo nella partecipata. Tuttavia, con
l’immediata successiva cessione a Gamma S.p.A. della partecipazione in Beta S.r.l. (per un corrispettivo che può assumersi coincidente con il valore normale della partecipazione
alla data della cessione) Alfa S.p.A. realizza indirettamente il
risultato di erogare a Beta S.r.l. (anche nell’interesse di Gamma S.p.A.) un’utilità economica pari al costo del cosiddetto
"sottozero", perché si induce nella condizione di non potere
più trarre alcun vantaggio dall’esborso effettuato. Tale erogazione indiretta non verrebbe allora contrastata negando
ex-post l’inerenza del costo del ripianamento sostenuto da
Alfa S.p.A. (né potrebbe essere contrastata, nel caso in commento, argomentando la destinazione a finalità estranee
della partecipazione), bensì invocando il divieto dell’abuso del
diritto. Sostenendo, cioè, che la sequenza di atti realizzata da
Alfa S.p.A. si inserisce in un “disegno unitario” finalizzato non
già a violare direttamente la regola dell’inerenza del costo
sostenuto per il ripianamento, bensì ad “aggirarla”, al fine di
ottenere la deduzione di un costo che, seppur formalmente è
inerente, sostanzialmente non lo è più se si considera l’intera
operazione, perché ogni utilità da esso potenzialmente derivante viene meno per effetto di un negozio immediatamente
successivo[30].
È peraltro doveroso osservare che la sentenza in commento
omette numerosi passaggi logico-giuridici essenziali per potere giustificare l’inquadramento della fattispecie esaminata
nella violazione del divieto di abuso del diritto:
a) Quale è il vantaggio tributario indebito ottenuto? La deduzione del costo del cosiddetto "sottozero" da parte di Alfa
S.p.A.?
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
b) Quale norma è stata “aggirata” nel caso di specie? La regola
(inespressa) dell’inerenza?
c) Quale comportamento alternativo e “fisiologico” avrebbe
dovuto tenere Alfa S.p.A.? Cedere la partecipazione a Gamma S.p.A. senza previo ripianamento delle perdite della
partecipata, cosicché alla ricapitalizzazione di questa provvedesse direttamente Gamma S.p.A.?
d) Nel comportamento effettivamente tenuto da Alfa S.p.A.
potevano escludersi (o non sono comunque state dimostrate) ragioni economiche apprezzabili, diverse dall’aspettativa di ottenere quel vantaggio tributario, così da fare
ritenere che Alfa S.p.A. non avrebbe avuto alcun apprezzabile interesse a ripianare le perdite della partecipata qualora non avesse potuto dedurre la minusvalenza successivamente realizzata?
Elenco delle fonti fotografiche:
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http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Norme%20e%20
Tributi/2010/09/bilancio-societa-672x351.jpg?uuid=c9796636-c4f211df-a6bc-5bca700c7b62 [25.09.2013]
5.
Conclusioni
Le citate omissioni nella parte motivazionale della sentenza
non fugano il sospetto che il riferimento all’abuso del diritto sia
stato utilizzato dai Giudici come mero obiter dictum, cioè quale
preteso rafforzativo (concettualmente erroneo, se così fosse) di
conclusioni di fatto già raggiunte dai giudici sul piano del difetto di inerenza del costo[31]. Tuttavia, la sentenza ha il pregio di
stimolare la riflessione sui rapporti reciproci che intercorrono
tra difetto di inerenza ed abuso del diritto, quali motivazioni
alternative (mai concorrenti) che, in fattispecie distinte, possono condurre al disconoscimento della deduzione di un costo
effettivamente sostenuto.
[1] Più in dettaglio, Beta S.r.l. versava in una
situazione di deficit patrimoniale per circa 22
miliardi, avendo maturato perdite per circa 25
miliardi di lire a fronte di un patrimonio netto
contabile di 3 miliardi di lire, corrispondente al
proprio capitale sociale. Alfa S.p.A. aveva quindi effettuato versamenti a favore di Beta S.r.l.
per circa 25 miliardi di lire (incrementando dello
stesso importo l’originario valore di carico della
propria partecipazione), al fine di ripianare integralmente le perdite della partecipata e ricostituirne il capitale sociale in 3 miliardi di lire. Immediatamente dopo il ripianamento, Alfa S.p.A.
aveva ceduto a Gamma S.p.A. la partecipazione
in Beta S.r.l. per un corrispettivo di circa 3 miliardi
di lire, corrispondente al patrimonio netto contabile della stessa Beta S.r.l. dopo la copertura
delle perdite (e corrispondente, altresì, al valore
di carico originario della partecipazione), realizzando in tal modo una minusvalenza di circa 25
miliardi. La Corte di Cassazione ha ritenuto che
tale minusvalenza fosse fiscalmente indeducibile
per un ammontare di circa 22 miliardi (pari alla
differenza tra la minusvalenza realizzata e il valore di carico originario della partecipazione), che
di fatto corrisponde al versamento effettuato da
Alfa S.p.A. a copertura del deficit patrimoniale di
Beta S.r.l. (cosiddetto versamento “sottozero”).
[2] In vigenza dell’articolo 61, comma 5 TUIR,
nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal Decreto Legge (di seguito D.L.) n.
557/1993, convertito con modificazioni nella
Legge (di seguito L.) n. 133/1994, era normativamente preclusa la possibilità di incrementare
il costo della partecipazione per importo pari al
cosiddetto versamento "sottozero". Era quindi
sorta la questione dell’immediata deducibilità di
tale versamento quale spesa di esercizio. La vexata quaestio era stata risolta positivamente, tra
i molti, da Assonime, circolare n. 60 del 27 aprile 1988; ABI, circolare n. 8 del 25 gennaio 1988;
Leo Maurizio/Monacchi Felice/Schiavo Mario, Le
imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano 1996,
pagina 1124. In senso contrario si era successivamente espressa la Corte di Cassazione (sentenza n. 15298 del 30 ottobre 2002), con una
pronuncia discutibile, che argomentava dalla
natura innovativa delle modifiche introdotte nel
1993, che avevano previsto espressamente la deducibilità del cosiddetto versamento "sottozero"
(a commento della citata sentenza si veda Leotta Marco/Santocchini Michele, Deducibilità dei
versamenti a copertura del deficit patrimoniale:
note a margine di una discutibile sentenza della Corte di Cassazione, in: Rassegna tributaria,
2003, pagina 237).
[3] Fatta eccezione per l’articolo 61 TUIR e per
l’articolo 108, comma 2 TUIR che, a seguito delle
modifiche introdotte dalla L. n. 244/2007, rappresentano il primo impiego del termine “inerenza” nella disciplina del reddito di impresa.
[4] In questo senso, tra gli altri, Zizzo Giuseppe,
La determinazione del reddito delle società commerciali, in: Falsitta Gaspare, Manuale di diritto
tributario, parte speciale, 2010, pagina 408; Tinelli Giuseppe, Commentario al TUIR, Padova
2009, pagina 109; Beghin Mauro, Note critiche a
proposito dell’asserita doppia declinazione della
regola dell’inerenza (“inerenza intrinseca” versus
“inerenza estrinseca”), in: Rivista di diritto tribu-
tario, 2012, pagina 410.
[5] Così Lupi Raffaello, Limiti alla deduzione degli
interessi e concetto generale di inerenza, in: Corriere tributario, 2008, pagina 771.
[6] Prima della Riforma del diritto societario
introdotta dal Decreto Legislativo (di seguito
D.Lgs.) n. 6/2003, era dibattuto se, in seguito
al verificarsi di una perdita di oltre un terzo del
capitale con riduzione di questo al disotto del
minimo legale, la mancata adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 2447 Codice civile (riduzione del capitale e contemporaneo aumento del
medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo) assumesse la valenza di condizione risolutiva oppure di condizione sospensiva rispetto
allo scioglimento della società. Dopo la Riforma
tende a prevalere la seconda tesi (cfr. Cian Giorgio/Trabucchi Alberto, Commentario breve al
Codice Civile, 2011, commento sub articolo 2447;
Campobasso Gian Franco, Diritto Commerciale –
Diritto delle società, 2, Torino 2012, pagina 531.
[7] Si veda la circolare ministeriale n. 30 del 7 luglio 1983.
[8] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n.
6502 del 19 maggio 2000.
[9] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n.
9756 del 18 giugno 2003.
[10] Ad esempio, la Corte di Cassazione (sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012) ha affermato
che è inerente il costo sostenuto dal distributore
esclusivo per l’Italia dei prodotti recanti un determinato marchio, al fine di pubblicizzare tale
marchio nel territorio italiano, a nulla rilevando
la circostanza che il sostenimento del relativo
onere si riverberi indirettamente anche a van-
15
16
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
taggio del produttore e titolare del marchio, residente in Giappone.
[11] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza n.
3891 del 22 febbraio 2007. Sul tema, Zizzo Giuseppe, Inerenza ai ricavi o all’attività? Nuovi
spunti su una vecchia questione, in: Rassegna
tributaria, 2007, pagina 1796.
[12] In questo senso, tra gli altri, Zizzo Giuseppe, op. cit., pagina 414; Nussi Mario, Il giudizio di
inerenza dei compensi agli amministratori tra insindacabilità delle scelte imprenditoriali e autonomia dai fenomeni simulatori o elusivi, in: Giurisprudenza Tributaria, 2011, pagina 406; Tinelli
Giuseppe, op. cit., pagina 109; Lupi Raffaello, Inerenza e discrezionalità dell’imprenditore nell’organizzazione dell’impresa, in: Crovato Francesco/Lupi Raffaello, Il reddito di impresa, Milano
2002, pagina 92; Beghin Mauro, Perdite su crediti, antieconomicità dell’operazione e giudizio
di inerenza, in: Corriere tributario, 2007, pagina
384. Non può peraltro essere condiviso quell’indirizzo giurisprudenziale che ritiene “automaticamente” non inerente, in tutto o in parte, un
costo effettivamente sostenuto sul fondamento
esclusivo della sua divergenza quantitativa (non
congruità) rispetto al parametro del valore normale di cui all’articolo 9 TUIR (tra le tante, Corte di Cassazione, sentenza n. 9497 dell’11 aprile
2008, in materia di cosiddetto transfer pricing interno tra società residenti), in assenza di una più
articolata ricostruzione fattuale volta a disvelare
sostanziali erogazioni di reddito (liberali o meno
che siano), o assetti simulatori. Sulla differenza
che intercorre tra i concetti di inerenza e congruità dei costi, si vedano, in particolare, Fantozzi Augusto, Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione,
in: Rivista di diritto tributario, 2003, pagina 557
e, da ultimo, Fransoni Guglielmo, La Finanziaria
2008 e i concetti di inerenza e congruità, Milano
2008, pagine 145 e seguenti.
[13] In altra occasione (Corte di Cassazione, sentenza n. 20451 del 6 ottobre 2011), il difetto di
inerenza è stato ravvisato con riferimento al
costo sostenuto dall’acquirente per acquistare
una partecipazione da altra società del gruppo a
prezzi superiori a quelli di mercato. Nella specie,
la Suprema Corte ha valutato la maggiorazione
di prezzo “non giustificata sul piano della corrispettività”, ritenendo “indiscutibile la sua non inerenza e
comunque la mancanza di prova in ordine a tale requisito”. La sentenza citata è peraltro criticabile sotto
altri aspetti, sia nel merito delle argomentazioni
utilizzate per presumere la sussistenza di un’erogazione gratuita tra le due società, sia per l’indebita commistione tra i concetti di “fittizietà” e “non
inerenza” di un costo.
[14] Ad esempio, la Corte di Cassazione (sentenza n. 23863 del 19 novembre 2007) ha sostenuto
la deducibilità della perdita conseguente ad una
transazione nel corso della quale una società ita-
liana aveva rinunciato a crediti vantati verso un
ente governativo libico, al fine di salvaguardare i
buoni rapporti esistenti con la controparte e acquisire nuovi contratti per il futuro, affermando
che “l’imprenditore […] può legittimamente compiere
operazioni di per se stesse antieconomiche in vista ed
in funzione di benefici economici su altri fronti” (per
converso, non sarebbe inerente la perdita derivante dalla rinuncia ad un credito che appaia
“come una liberalità”, come da ultimo ribadito nella
circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 26/E del 1.
agosto 2013, paragrafo 3). Analoga impostazione
traspare dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 1389 del 21 gennaio 2011, che non esclude
l’inerenza del costo d’acquisto di beni concessi in
comodato gratuito a società estere terziste (né
li ritiene destinati a finalità estranee all’impresa)
ove vi sia la prova che la comodataria si è obbligata “a rivendere le merci prodotte alla comodante ad
un prezzo determinato tale da giustificare l’operazione
complessiva di delocalizzazione della produzione”.
[15] Si veda, ad esempio, la sentenza della Corte
di Cassazione n. 13224 del 6 giugno 2007, che ha
riconosciuto l’inerenza e la deducibilità della minusvalenza realizzata dalla società cedente per
effetto della cessione di partecipazioni azionarie
ad un’altra società del gruppo per un corrispettivo simbolico di mille lire perché, mediante una
pattuizione con la società cessionaria, la società cedente era stata manlevata da una garanzia
di consistente importo prestata in favore della
partecipata, in pessime condizioni economiche.
Situazione analoga è quella affrontata nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 25/E del
26 febbraio 2001, nella quale la cessione di una
partecipazione a valori contabili, con realizzo di
una ingente minusvalenza, era riequilibrata sul
piano del sinallagma contrattuale dall’impegno
dell’acquirente di assumere i dipendenti del cedente, sollevando quest’ultimo dal sostenimento
di ingenti oneri per incentivi all’esodo.
[16] Spunti in questo senso si rinvengono in Lupi
Raffaello, L’oggetto economico delle imposte
nella giurisprudenza sull’antieconomicità, in:
Corriere tributario, 2009, pagina 262, ove è proposto l’esempio di aziende cedute per un prezzo
nominale (e magari cum dote) per evitare il fallimento ed il conseguente eventuale danno di immagine.
[17] Si vedano le considerazioni già svolte alla
nota 2.
[18] Si veda la relazione al citato D.L. n. 557/1993,
che, a commento della rimozione del previgente
divieto di computare il versamento del “sottozero” ad incremento del costo fiscale della partecipazione, afferma che “il socio di una società di
capitali che, pur non essendo obbligato, in quanto limitatamente responsabile, ripiana un deficit patrimoniale,
effettua in sostanza un nuovo investimento, il cui costo
di acquisizione non può che essere costituito dall’intero
ammontare del versamento a copertura delle perdite”.
[19] In questo senso si veda anche la Corte di
Cassazione, sentenza n. 10981 del 13 maggio
2009.
[20] In questo senso, in particolare, Nussi Mario,
op. cit., pagina 408, ove anche una presa di distanza dalla teoria delle cosiddette “simmetrie
fiscali” intersoggettive. Si rammenta anche l’affermazione della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 16642 del 29 luglio 2011, secondo cui
“l’antieconomicità della gestione di una società non può
legittimamente dipendere, sotto il profilo fiscale, da politiche di gruppo volte semplicemente a dirottare i ricavi
dall’uno all’altro soggetto, senza una valida e comprovata giustificazione”.
[21] La dottrina pressoché unanime concorda in
merito all’impossibilità di attribuire autonomia
soggettiva fiscale al “gruppo” consolidato. Per
tutti si veda Fantozzi Augusto, La nuova disciplina Ires: I rapporti di gruppo, in: Rivista di diritto
tributario, I, 2004, pagina 502.
[22] Sul punto, in particolare, Zizzo Giuseppe, op.
cit., pagina 416.
[23] Non paiono condivisibili le argomentazioni contenute nella sentenza della Commissione
Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, sezione
IV, 8 marzo 2010, n. 45 che ha ritenuto di potere individuare tale norma nel divieto di doppia
imposizione sancito dall’articolo 163 TUIR. Per
un’argomentata critica della sentenza, si veda
Pepe Francesco, Spunti sul divieto di doppia imposizione “interna”, in: Rassegna tributaria, 2010,
pagina 1391. Per un tentativo di individuare l’obbligo di cui si discorre nei principi generali sulla
giusta imposizione ricavati dall’articolo 53 della
Costituzione della Repubblica italiana, si veda
Burelli Silvia, Spunti di riflessione su erronea imputazione dei costi ed accertamento del reddito
nel consolidato nazionale tra principio di inerenza, divieto di doppia imposizione ed effettività
della capacità contributiva, in: Rivista di diritto
tributario, II, 2011, pagine 158 e seguenti.
[24] Si veda in particolare la Corte di Cassazione,
sentenza n. 2193 del 16 febbraio 2012, con cui
la Corte ha censurato alla luce del principio del
divieto di abuso del diritto una fattispecie che
aveva natura evasiva, perché configurante una
violazione diretta dell’articolo 110, comma 7,
TUIR, in materia di transfer pricing. In argomento,
Pedrotti Francesco, Il non condivisibile utilizzo
dell’art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600 e del principio giurisprudenziale del divieto
di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di prezzi di trasferimento, in: Rivista di diritto tributario, IV, 2012,
pagina 24.
[25] Sulla questione, si vedano, tra gli altri, Lupi
Raffaello, op. cit., pagina 261; Ballancin Andrea,
L’antieconomicità tra occultamento di capacità
contributiva, elusione fiscale e il “dover essere”
tributario, in: Rivista di diritto tributario, II, 2012,
pagine 199 e seguenti.
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
[26] Si veda la Corte di Cassazione, sentenza
n. 1464 del 21 gennaio 2009, secondo la quale
occorrerebbe “verificare il lecito impiego o meno del
concetto di inerenza” in quanto “vi è stretta correlazione tra condotta ipoteticamente elusiva e «portata»
dell’inerenza che sottende l’applicabilità di meccanismi
di detrazione e compensazione nella formazione del
reddito di impresa, tanto implicando che i due fenomeni
non possono essere vagliati l’uno indipendentemente
dall’altro” (a commento, Beghin Mauro, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale
e abuso del diritto tributario, in: Bollettino tributario, 2009, pagina 1418). Diversa è l’ipotesi
affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 12622 del 20 luglio 2012, ove la Corte
ha ravvisato la violazione del divieto di abuso
del diritto in relazione alla deduzione di una minusvalenza realizzata per effetto della cessione
di una partecipazione, quale ultimo atto di una
sequenza di operazioni tra loro collegate e intervenute nell’ambito del gruppo. In tale contesto, a
quanto sembra, il difetto di inerenza riguardava
un “tassello” dell’operazione precedente alla cessione della partecipazione: in specie, la rinuncia
ad un credito effettuato (senza apparenti ragioni
economiche) dalla società partecipata, che non
aveva dato origine ad alcuna contestazione nei
confronti di tale società (in ragione della sua residenza estera), ma che aveva creato i presupposti per la successiva emersione della minusvalenza in capo alla partecipante-cedente.
[27] Con riferimento alle plusvalenze realizzate
tramite destinazione a finalità estranee di beni, si
veda l’articolo 86, comma 1, lettera c) TUIR. Relativamente alle minusvalenze, si veda l’articolo
36, comma 18 D.L. n. 223/2006, convertito dalla
L. n. 248/2006, che ne ha soppresso la deducibilità introdotta dalla riforma dell’Imposta sul reddito delle società (di seguito IRES). Per l’indeducibilità dei costi relativi ai beni di impresa concessi
in godimento ai soci o familiari dell’imprenditore,
si veda l’articolo 2, comma 36-quaterdecies D.L. n.
138/2011 (convertito dalla L. n. 148/2011).
[28] In relazione all’inapplicabilità alle prestazioni di servizi delle disposizioni in materia di
destinazione a finalità estranee di beni, cfr., inter
alia, Leo Maurizio, Le imposte sui redditi nel Testo
Unico, 2010, pagina 1463.
[29] La contestazione del difetto di inerenza o
l’applicazione della norma in materia di destinazione di beni a finalità estranee all’impresa si
presterebbero, invece, più propriamente a contrastare fenomeni macroscopici di diretto trasferimento di reddito intragruppo, attuati mediante
acquisti o cessioni con controparti contrattuali
appartenenti al gruppo, per corrispettivi del tutto privi di giustificazione economica (che danno
luogo a costi abnormi o ricavi irrisori, sintomatici
della natura erogatoria del negozio posto in essere). Sul punto, si veda anche Stevanato Dario,
Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla
derivazione contrattuale del concetto di reddito,
in: Dialoghi tributari, n. 6/2008, pagina 87.
[30] Altro esempio potrebbe riguardare la deduzione degli interessi passivi da parte di una
società che abbia contratto un mutuo oneroso
con una banca al solo scopo di utilizzare la liquidità così ottenuta per erogare un finanziamento
gratuito alla società controllante residente (ciò,
sempre che si ritenga che la sussistenza del requisito di inerenza debba sussistere anche per
gli interessi passivi sostenuti da soggetti IRES,
come la Suprema Corte sembra avere da ultimo
riconosciuto nella sentenza n. 24930 del 25 novembre 2011, in linea con la dottrina dominante,
con un revirement rispetto al proprio orientamento precedente).
[31] Tale (censurabile) tendenza, rinvenibile nella
recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, è posta in evidenza, in particolare, da Falsitta
Gaspare, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata
commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in:
Rivista di diritto tributario, II, 2010, pagina 359.
17
18
Diritto tributario italiano
Voluntary disclosure: scenari attuali
e prospettive future
Pierpaolo Angelucci
Dottore commercialista
Scarioni Angelucci, Studio tributario associato
in Milano
Riflessioni circa le conseguenze dell'autodenuncia di
patrimoni esteri
1.
Premessa: l’introduzione del reato di autoriciclaggio
e l’occasione di regolarizzare i capitali offshore
La scorsa primavera è stata divulgata la relazione elaborata
dalla Commissione Greco, un Gruppo di studio costituito dal
Ministero della Giustizia nel gennaio 2013 con il compito di
esaminare gli obblighi dello Stato italiano conseguenti ai trattati internazionali per il contrasto del fenomeno del riciclaggio
di denaro.
Il Gruppo di studio ha evidenziato che, a differenza di quanto
avviene in altri Paesi, il fenomeno del cosiddetto “autoriciclaggio”
è una condotta non contemplata tra i reati previsti dall’ordinamento penale italiano, ed in particolare non inclusa nella fattispecie di riciclaggio prevista dal Codice penale[1]. La Commissione Greco ha pertanto auspicato l’introduzione di una nuova
fattispecie che consenta la punibilità dell’autoriciclaggio e, a tal
fine, sono state elaborate due distinte proposte di riformulazione della disposizione penale.
Oggetto del presente contributo non è l’approfondimento delle proposte formulate in materia di riciclaggio, quanto le conseguenti riflessioni compiute dalla Commissione Greco, che, a
fronte dell’introduzione di misure repressive di condotte gravi
e dannose per l’economia del Paese, ha ritenuto opportuno
suggerire l’introduzione di disposizioni che possano incentivare
forme di collaborazione con gli autori di determinati illeciti e
condurre al recupero integrale delle somme frutto di reato.
Uno degli obiettivi che si pone il Gruppo di studio è l’emersione
dei capitali che, nonostante le diverse edizioni dei cosiddetti
“scudi fiscali”, sono ancora illecitamente detenuti all’estero. Tuttavia, il raggiungimento di un simile obiettivo non deve avvenire, secondo la Commissione Greco, tramite nuove forme di
condono (che potrebbero essere incentivanti di ulteriori fenomeni di evasione fiscale), bensì mediante l’introduzione di
“strumenti di premialità” in favore di contribuenti che dichiarino
spontaneamente l’esistenza di un capitale detenuto illecitamente all’estero. Le conseguenze di una dichiarazione sponta-
nea (cosiddetta “autodenuncia”) consisterebbero nel pagamento
per intero delle imposte evase e nell’attenuazione delle sanzioni amministrative a seconda dell’effettività e dell’esaustività
della collaborazione offerta in termini di informazioni fornite
sull’origine dei capitali, nonché sulle modalità con cui è avvenuto il trasferimento e l’occultamento all’estero.
2.
Il contesto internazionale: le linee guida delineate
dall’OCSE nel paper “Offshore Voluntary Disclosure”
Va ancora ricordato che l’iniziativa della Commissione Greco si
inserisce in uno scenario internazionale particolarmente sensibile alla problematica dei patrimoni offshore, come dimostra
il documento Offshore Voluntary Disclosure, pubblicato nel settembre 2010. Nel paper dell’OCSE viene affrontato il tema della
regolarizzazione dei capitali illecitamente depositati nelle giurisdizioni offshore e vengono fornite importanti linee guida in
merito a provvedimenti che possono essere adottati dagli Stati
per consentirne la regolarizzazione.
Nella prima parte del documento sono delineati alcuni principi
generali che dovrebbero essere seguiti dagli Stati che si accingono a introdurre misure di voluntary disclosure: in primo luogo,
secondo l’OCSE occorre che le disposizioni siano chiare in merito alle fattispecie coperte, ai periodi di imposta interessati, ai
soggetti coinvolti, e ovviamente in merito al funzionamento
degli eventuali “strumenti di premialità”. Il paper sottolinea come
il programma di voluntary disclosure debba essere attrattivo nel
breve periodo e al contempo debba garantire che i contribuenti che hanno aderito al programma continuino a dimostrarsi
adempienti agli obblighi fiscali. In particolare, l’attrattività del
programma non deve essere valutata solo in termini di rilevanza dei costi per il contribuente, ma dipende anche dalla circostanza che la disclosure sia percepita dal contribuente come
un’opportunità speciale, e non ripetibile, per regolarizzare la
propria posizione. L’OCSE indica, inoltre, che il successo di simili
programmi dipende anche dal grado di chiarezza che le Autorità forniscono circa l’utilizzo della discrezionalità nell’irrogazione delle sanzioni, e dal grado di rischio di ulteriori attività di
accertamento nei confronti dei soggetti che hanno compiuto
la disclosure. Infine, l’OCSE sostiene che deve essere chiaro il
rapporto tra il programma di voluntary disclosure e le misure an-
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
tiriciclaggio ordinariamente previste; in particolare, la disclosure
non deve implicare l’esenzione dagli adempimenti antiriciclaggio da parte di soggetti terzi (intermediari finanziari, professionisti e anche la stessa Amministrazione finanziaria), coinvolti
nella procedura di emersione.
Dopo aver enunciato i principi che dovrebbero caratterizzare
una disciplina di voluntary disclosure, nel documento dell’OCSE
sono esposti una serie di fattori che dovrebbero essere oggetto di considerazione nell’implementazione della stessa. L’OCSE
ritiene, infatti, che le Autorità dovrebbero emanare istruzioni
sufficientemente precise in modo da incoraggiare l’adesione di
contribuenti che, pur essendo propensi alla regolarizzazione,
potrebbero essere scoraggiati dalla mancanza di indicazioni
chiare in merito ad alcune criticità. In particolare, si tratterebbe
di circolarizzare una vera e propria “guida” ove siano trattate le
seguenti questioni:
◆ la procedura per la disclosure: occorre indicare quale sia
l’Autorità da contattare, gli uffici e i funzionari di riferimento, nonché la documentazione necessaria per procedere;
◆ i casi di documentazione incompleta: la guida dovrebbe
chiarire come le Autorità si pongano in situazioni in cui le
informazioni rese dal contribuente non siano complete. Ci
possono essere, infatti, numerosi casi in cui il contribuente
non è in grado di fornire una ricostruzione completa in merito al patrimonio estero (tipico è il caso dei patrimoni ricevuti per successione ereditaria ove non sempre è possibile
per l’erede accedere agevolmente a tutte le informazioni e
ai documenti che riguardano il patrimonio estero)[2];
◆ la riservatezza delle informazioni: il contribuente deve conoscere il livello di discrezione della procedura. L’obiettivo
può essere ottenuto limitando l’accesso alle informazioni
a determinati funzionari dell’Amministrazione finanziaria
o anche mediante specifiche disposizioni che introducano
l’obbligo di segretazione nei confronti dei terzi;
◆ le eventuali future indagini delle Autorità: i contribuenti generalmente ritengono che all’adesione a procedure di
disclosure possano conseguire ulteriori attività di accertamento a causa del mutamento del “profilo di rischiosità fiscale”. Le Autorità dovrebbero considerare se rendere manifesti eventuali indirizzi operativi interni circa la previsione
di indagini aggiuntive nei confronti di contribuenti che nel
passato sono stati inadempienti agli obblighi tributari;
◆ la richiesta di informazioni a parti terze: la guida dovrebbe indicare in quali casi le Autorità potrebbero rivolgersi a
parti terze (intermediari finanziari, soci in affari del contribuente, datori di lavoro) per verificare le informazioni fornite dal contribuente;
◆ le sanzioni e gli interessi: la guida dovrebbe precisare le
modalità di applicazione delle sanzioni e degli interessi in
modo che il contribuente sia pienamente consapevole del
costo della regolarizzazione;
◆ le misure penali: la guida avrebbe il compito di chiarire se e in
quali casi non vi siano delle conseguenze di natura penale in
capo al soggetto che aderisce alla procedura di emersione;
◆ l’identificazione del contribuente: le Autorità dovrebbero indicare se e in che misura è possibile intraprendere la
procedura di emersione senza la necessità (quanto meno
iniziale) di manifestare l’identità del contribuente.
3.
Il panorama italiano: le attuali conseguenze
di una voluntary disclosure
Il contesto internazionale a cui si è fatto cenno appare dunque
favorevole a provvedimenti di emersione di capitali detenuti illecitamente all’estero, a condizione che le disposizioni adottate
dagli Stati non assumano la forma del condono, bensì prevedano l’intero recupero delle imposte sottratte a tassazione ed
eventuali riduzioni delle misure sanzionatorie a carico del contribuente che aderisce al programma di disclosure.
Anche l’Amministrazione finanziaria italiana sembra essersi
espressa a favore di processi di voluntary disclosure a cui si fa
espressa menzione nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate
n. 25 del 31 luglio 2013. Nell’ambito degli indirizzi dell’attività di contrasto all’evasione internazionale, infatti, la Circolare
attribuisce ad un determinato ufficio dell’Agenzia – si tratta
dell’Ufficio Centrale per il Contrasto agli Illeciti Finanziari Internazionali (UCIFI) – “il compito di sperimentare l’azione di contrasto […] anche attraverso lo sviluppo di attività volte alla volontaria
disclosure di attività economiche e finanziarie illecitamente detenute
all’estero da contribuenti nazionali”.
Nonostante l’apertura dell’Agenzia delle Entrate, ad oggi,
l’entità delle sanzioni conseguenti alla mancata compilazione
del modulo RW, unitamente all’apertura di un procedimento penale qualora si integri un reato penale tributario, rappresentano il maggior ostacolo alle procedure di voluntary
disclosure. L’onerosità delle sanzioni RW è dovuta da un lato
alla gravosità della misura sanzionatoria prevista dalla legge[3] , e d’altro lato alla prassi seguita dall’Agenzia delle Entrate nell’applicazione delle disposizioni relative al cosiddetto
“cumulo giuridico” di cui all’articolo 12 D.Lgs. n. 472/1997, che
rimangono sostanzialmente inattuate. Come noto, in linea di
principio le sanzioni RW si applicano per ogni singolo periodo
d’imposta in cui è stata commessa la violazione consistente nell’omessa indicazione delle attività estere. Pertanto, in
caso di illecita detenzione di capitali all’estero per un lasso di
tempo pluriennale, la violazione viene ripetuta e la sanzione
viene potenzialmente “moltiplicata”. In altri termini, è comminato il cosiddetto “cumulo materiale” delle sanzioni, che consiste nella sommatoria tout court delle sanzioni applicate per
tutte le violazioni di ogni singolo periodo di imposta. In questi
casi, in assenza di una misura (che dovrebbe essere il cumulo
giuridico) che disattivi il cumulo materiale si addiviene ad un
rilevante onere sanzionatorio[4].
Nella prassi adottata dall’Agenzia delle Entrate nelle più recenti
attività di accertamento di patrimoni esteri, ed in particolare
negli atti di contestazione relativi al modulo RW, non ha trovato applicazione l’irrogazione di sanzioni mediante il cumulo
giuridico, che in sostanza prevede che in caso di ripetute violazioni si applichi la sanzione per la violazione più grave, congruamente aumentata[5].
Infatti, una volta determinata la sanzione, l’articolo 16, comma
3 D.Lgs. n. 472/1997 prevede a favore del contribuente la possibilità di definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata ma comunque non
inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni
19
20
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
più gravi relative a ciascun tributo. In altri termini, sulla base
delle disposizioni sopra richiamate, nel caso di contestazioni di
violazioni relative alla omessa compilazione del modulo RW,
deve essere effettuato il confronto tra:
La sanzione da comminare è quella prevista dalla Tabella 2
e determinata con il cumulo giuridico, in quanto inferiore
alla sanzione determinata con il cumulo materiale. Tuttavia,
nell’impostazione dell’Agenzia delle Entrate, la somma per la
definizione non può essere inferiore alla somma di 1/3 dei minimi edittali di ogni anno. Pertanto, nell’esempio, per definire
la contestazione occorrerebbe assolvere una sanzione pari a
7'200 euro (che si rivela pari al cumulo materiale).
◆ 1/3 della sanzione comminata (ossia il minore ammontare
tra il cumulo giuridico e il cumulo materiale), e
◆ 1/3 dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo.
4.
Il panorama italiano (segue): la disposizione proposta
dalla Commissione Greco
La Commissione Greco, in coerenza con il panorama internazionale delineato nel paper dell’OCSE, e consapevole del disincentivo rappresentato dal gravoso onere delle sanzioni RW, per
favorire i procedimenti di voluntary disclosure ha proposto l’introduzione di una norma che preveda “strumenti di premialità”
nei confronti di contribuenti che autodenuncino la detenzione
illecita di capitali all’estero, senza che tale provvedimento possa essere interpretato come una forma di condono né possa
rappresentare un incentivo a nuovi episodi di evasione. I criteri
guida della procedura di emersione individuati dalla Commissione Greco consisterebbero:
In questo caso, la sanzione da pagare per definire la pretesa
dell’Agenzia delle Entrate sarebbe la maggiore dei due ammontari. Con riferimento alle sanzioni RW, tale confronto
dovrebbe condurre a definire la pretesa dell’Agenzia con il
pagamento di 1/3 della sanzione indicata (solitamente il cumulo giuridico), che è ragionevolmente superiore ad 1/3 del
minimo edittale per la violazione più grave prevista per l’unico “tributo” [6] , che sarebbe la sanzione collegata alla mancata
indicazione nel modulo RW della somma più rilevante (generalmente si tratta della consistenza più elevata che doveva
essere indicata in un determinato anno nella sezione II del
modulo).
Tuttavia, gli Uffici impositori, sulla scorta di indicazioni fornite
dalla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate in un documento ufficiale risalente al 2001 (ove peraltro non venivano
nemmeno menzionate le sanzioni RW)[7] , hanno adottato
l’impostazione per cui, per definizione delle sanzioni, deve essere assolto il maggiore tra 1/3 della sanzione comminata (minore tra cumulo materiale e giuridico) e 1/3 della somma dei
minimi edittali previsti per le violazioni più gravi di ogni periodo
di imposta. In sostanza, ne consegue un sostanziale ritorno al
risultato del cumulo materiale[8].
◆ nell’obbligo del pagamento per intero delle imposte evase[10];
◆ nell’attenuazione delle sanzioni amministrative in relazione all’effettività e all'esaustività della collaborazione offerta e delle informazioni fornite circa l’origine dei capitali e il
loro trasferimento e occultamento all’estero;
◆ nella non perseguibilità penale delle condotte di infedele e
omessa dichiarazione, che spesso caratterizzano rilevanti
patrimoni localizzati all’estero da cui sono conseguiti redditi non dichiarati da parte del contribuente[11].
Per meglio chiarire l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate,
si assuma un patrimonio estero non dichiarato per gli anni
2008, 2009 e 2010, rispettivamente pari a 100'000, 120'000
e 140'000 euro.
Peraltro, la disposizione elaborata dalla Commissione Greco
prevede conseguenze diverse a seconda che l’autodenuncia
del contribuente sia cosiddetta “preventiva”, oppure avvenga
Tabella 1: Applicazione del cumulo materiale
Consistenza (in migliaia di euro)
Aliquota sanzione
Sanzione (in migliaia di euro)
100
6%
6.0
120
6%
7.2
140
6%
8.4
Cumulo materiale (6.0+7.2+8.4)
21.6
Riduzione per acquiescenza (21.6/3)
7.2
Tabella 2: Applicazione del cumulo giuridico
Calcolo della sanzione
Sanzione (in migliaia di euro)
Sanzione per la violazione più grave
8.4
Aumento del 50% (articolo 12, comma 5 D.Lgs. n. 472/1997)
4.2
Cumulo giuridico[9]
12.6
Riduzione per acquiescenza (12.6/3)
4.2
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
a seguito di un’attività di verifica delle Autorità, che induca il
contribuente a manifestare spontaneamente la propria situazione di illecito, collaborando fattivamente per il recupero delle
imposte evase. Nel prosieguo sarà trattato solo il caso dell’autodenuncia “preventiva”, che ad oggi sembra interessare non
pochi contribuenti desiderosi di rimediare spontaneamente a
passate inadempienze.
A tal riguardo, la norma proposta dalla Commissione Greco (il
primo comma dell’articolo 4-bis – intitolato “Dichiarazioni tardive
del contribuente” – che sarebbe introdotto nel D.L. n. 167/1990),
dispone che “nel calcolo dell’imposta evasa di cui agli art. 4 e 5 del
D.Lgs. n. 74/2000, non si tiene conto dell’ammontare delle attività
detenute all’estero in violazione degli obblighi di cui all’art. 4 del presente decreto e di quello dei relativi redditi se il contribuente fornisce
spontaneamente agli Uffici finanziari tutte le informazioni in ordine
all’origine, al trasferimento all’estero, all’eventuale rimpatrio e alla detenzione delle predette attività e dei relativi redditi, prima che sia stata
constatata la violazione ai suddetti obblighi o siano già iniziati accessi,
ispezioni, verifiche o, comunque, altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui questi o le altre persone solidalmente responsabili della violazione hanno avuto formale conoscenza o sia stato
già avviato un procedimento penale per i delitti previsti dal D.Lgs. n.
74/2000. In tal caso, le sanzioni amministrative previste dal presente
decreto possono essere diminuite sino alla metà e non si applica il disposto di cui all’art. 16 comma 3 del D.Lgs. 472/97”.
La proposta dalla Commissione Greco si rivela in linea con alcuni principi enunciati nel paper dell’OCSE e avrebbe sicuramente
il pregio di semplificare il panorama attuale. Detta disposizione, oltre a consentire il superamento della problematica penale nei casi di infedele e omessa dichiarazione (rimarrebbero
punibili, seppur con una riduzione di pena, i comportamenti
più gravi, quali l’utilizzo di fatture false[12]), permetterebbe l’irrogazione delle sanzioni amministrative relative alla mancata
compilazione del modulo RW in misura più moderata rispetto
a quanto, come visto, avverrebbe oggi in caso di autodenuncia.
Nel paragrafo precedente sono stati illustrati i motivi per cui
con le norme vigenti il costo di una autodenuncia si rivelerebbe
piuttosto elevato in termini di sanzioni RW; sarà, pertanto, più
agevole comprendere la portata della disposizione proposta
dalla Commissione Greco. In particolare, a seguito dell’introduzione dell’articolo 4-bis, l’attenuazione delle sanzioni sarebbe
ottenibile grazie:
◆ alla possibile riduzione delle sanzioni sino alla metà;
◆ alla non applicazione dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n.
472/1997.
Si osserva che la possibile riduzione delle sanzioni sino alla metà
sembra lasciata alla totale discrezionalità dell’Amministrazione
finanziaria[13]. Tuttavia, tale discrezionalità, pur essendo tipica del sistema sanzionatorio tributario, non appare del tutto
coerente con le indicazioni dell’OCSE, secondo cui, invece, il
contribuente dovrebbe avere una ragionevole conoscenza del
costo dell’autodenuncia. Peraltro, tale previsione appare eccessivamente discrezionale se si pone riferimento alla struttura e
al tenore letterale della norma. Infatti, il primo periodo della
disposizione proposta prevede che in caso di voluntary disclosure
non siano perseguibili i reati di infedele e omessa dichiarazione
a condizione che: i) il contribuente fornisca “tutte” le informazioni richieste, e ii) non siano già in essere verifiche o indagini
nei suoi confronti. Il secondo periodo della norma prevede che
“In tal caso” (ossia solo al verificarsi delle suddette condizioni),
il contribuente può beneficiare della riduzione delle sanzioni
amministrative RW. Pertanto, la possibile riduzione delle sanzioni alla metà non dipende più dal grado di collaborazione
(che, a mente del primo periodo della norma, deve essersi già
manifestata in misura totale[14]), ma sembrerebbe essere una
decisione del tutto discrezionale dell’Agenzia delle Entrate.
Con riferimento, invece, alla non applicazione dell’articolo 16,
comma 3 D.Lgs. n. 472/1997 da tale previsione ne conseguirebbe, invece, l’irrogazione delle sanzioni RW senza la necessità di effettuare il confronto con i minimi edittali previsti per le
violazioni più gravi relative a ciascun tributo.
In sostanza si può immaginare che, le sanzioni RW sarebbero irrogate applicando il meccanismo del cumulo giuridico.
Anche in questo caso, si osserva che l’Agenzia delle Entrate
avrebbe ampia discrezionalità di irrogare una sanzione mite
oppure decisamente gravosa, a seconda dei “moltiplicatori”
utilizzati per aumentare la sanzione per la violazione più grave. In questo caso, tuttavia, l’esercizio della discrezionalità da
parte dell’Agenzia delle Entrate sarebbe più comprensibile in
quanto regolata dai criteri generali che disciplinano la determinazione delle sanzioni[15].
Un’ultima annotazione tecnica riguarda ulteriori conseguenze della non applicabilità dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n.
472/1997. In particolare, tale norma, oltre a richiedere il confronto con i minimi edittali, consente: i) la riduzione ad 1/3 della
sanzione irrogata in caso di acquiescenza; ii) la non irrogabilità
delle sanzioni accessorie in caso di definizione della contestazione dell’Amministrazione. Secondo il dettato letterale della
disposizione proposta dalla Commissione Greco, il comma 3
dell’articolo 16 D.Lgs. n. 472/1997 sarebbe inapplicabile “per intero”, e non solo per la parte che richiede il confronto con i minimi edittali. Pertanto, in caso di acquiescenza del contribuente
non sarebbe più prevista la considerevole riduzione ad 1/3 della
sanzione irrogata, che rimarrebbe pertanto quella determinata
tramite il meccanismo del cumulo giuridico.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://static.fanpage.it/calciofanpage/wp-content/uploads/2012/04/
scandalo-procuratori-agenzia-638x425.jpg [25.09.2013]
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Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
[1] L’analisi condotta dal Gruppo di studio ha evidenziato che il reato di riciclaggio di cui all’articolo 648-bis del Codice penale – a norma del quale
“Fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti
da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad
essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con
la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da
euro 1.032 a euro 15.493” – consiste in una condotta punibile soltanto fuori dai casi di concorso
nel reato presupposto del riciclaggio, e pertanto
inefficace sia nei confronti del riciclaggio compiuto autonomamente dall’autore del reato presupposto (ad esempio un contribuente che evade
le imposte) sia nei confronti di un altro soggetto – il cosiddetto “riciclatore” – che concorra anche nel compimento del reato presupposto (ad
esempio chi provvede a mettere a disposizione
società per l’emissione di fatture false).
[2] Nell’ordinamento italiano vige il principio di
intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi; pertanto, la successione è una circostanza che può
consentire l’emersione di patrimoni esteri con
minori criticità. Gli eredi che, invece, non denunciano i patrimoni esteri, perpetrando così
l’illecito, nell’eventualità di una successiva autodenuncia potrebbero, in effetti, trovarsi in una
situazione complicata dalla lacunosità delle informazioni riguardo al patrimonio.
[3] Si ricorda che, prima delle modifiche recate dalla Legge europea 2013, le sanzioni per la mancata
compilazione del modulo RW, a seconda dei periodi di imposta interessati, andavano dal 5 al 25% o
dal 10 al 50% degli ammontari di cui si era omessa
l’indicazione. A seguito dell’introduzione della Legge europea 2013, le sanzioni sono state ridotte e
verranno ora applicate ordinariamente nella misura variabile dal 3 al 15%, e dal 6 al 30% per le attività detenute in Paesi cosiddetti “black list”.
[4] A mero titolo esemplificativo, nel caso di capitali detenuti in Svizzera (Paese considerato black
list), tenendo conto, per il principio del favor rei di
cui all’articolo 3 D.Lgs. n. 472/1997, delle nuove misure sanzionatorie anche per le violazioni
commesse nei periodi di imposta passati, e assumendo l’applicazione della sanzione minima (5 o
6% a seconda del periodo di imposta, sempre in
virtù del favor rei), il cumulo materiale delle sanzioni irrogabili per i periodi di imposta accertabili
(dal 2004 in poi ed escludendo il 2011 per via del
ravvedimento operoso) condurrebbe ad un onere pari al 38% di un capitale ipotizzato costante nel corso degli anni. Occorre rilevare che, in
applicazione dell’articolo 16, comma 3 D.Lgs. n.
472/1997, detto onere potrebbe essere ridotto
ad 1/3 qualora il contribuente faccia acquiescenza al provvedimento sanzionatorio, accettando
quindi le contestazioni mosse dell’Amministrazione (ossia ciò che dovrebbe ragionevolmente
accadere in caso di voluntary disclosure). In ogni
caso, pur tenendo conto dell’applicazione delle
sanzioni nella misura minima e della riduzione
“per acquiescenza”, il computo del cumulo materiale delle sanzioni RW non è di poco conto, specie se si considera che per determinare il costo
complessivo della disclosure occorre ovviamente
addizionare l’ammontare delle imposte evase, gli
interessi, e le relative sanzioni.
[5] L’articolo 12 D.Lgs. n. 472/1997 prevede l’irrogazione di una sanzione unica calcolata tramite il meccanismo del cosiddetto “cumulo giuridico” qualora con una sola azione od omissione
siano violate diverse disposizioni anche relative
a tributi diversi, oppure con più azioni od omissioni siano compiute diverse violazioni formali
della stessa disposizione. In tali casi la sanzione
irrogata è quella che dovrebbe infliggersi per la
violazione più grave, aumentata da un quarto al
doppio; la medesima disposizione è applicabile,
in virtù del successivo comma 2, anche in ipotesi
di progressione nelle violazioni tese a pregiudicare la determinazione della base imponibile del
contribuente; il comma 5 dell’articolo 12 prevede
un ulteriore aumento della sanzione (dalla metà
al triplo) quando violazioni della stessa indole
vengono commesse in periodi di imposta diversi,
come tipicamente accade nel caso della mancata
compilazione del modulo RW. La norma dispone
poi che la sanzione determinata mediante l’applicazione del cumulo giuridico non possa essere
irrogata se si rivela superiore a quella che risulterebbe dal cumulo delle sanzioni previste per le
singole violazioni (cosiddetto “cumulo materiale”).
Pertanto, la sanzione da comminare è rappresentata dall’ammontare minore tra il cumulo
giuridico e il cumulo materiale.
[6] Peraltro, risulta in ogni caso incoerente il
riferimento ai minimi edittali per le violazioni
più gravi relative a ciascun tributo, in quanto la
sanzione RW non è collegata ad alcun tributo.
Infatti, a seguito delle modifiche recate dal D.L.
n. 98/2011, le sanzioni collegate al tributo devono essere irrogate con l’atto di accertamento
del tributo stesso, con le regole dell’articolo 17
D.Lgs. n. 472/1997. Le sanzioni RW vengono invece irrogate ai sensi dell’articolo 16 D.Lgs. n.
472/1997, e il riferimento ancora posto dall'articolo 16, comma 3 ai minimi edittali per ciascun
tributo è evidentemente dovuto ad una mancanza di coordinamento normativo a seguito dell’introduzione del D.L. n. 98/2011.
[7] Cfr. nota dell’Agenzia delle Entrate dell’11 settembre 2001, n. 159135.
[8] Specie dopo l’approvazione della Legge europea 2013 che ha abolito la sezione III del modulo
RW relativa ai trasferimenti, e nell’assunzione
che la mancata compilazione del modulo RW sia
considerata nel complesso un’unica violazione.
[9] Potrebbe ritenersi che, a seguito dell’entrata in
vigore della Legge europea 2013, non si applichi
più l’ulteriore aumento previsto dall’articolo 12,
commi 1 e 2. Infatti, per via dell’abrogazione della
sezione III del modulo RW, l’unica violazione sarà
quella riferita alla sezione II.
[10] Da intendersi per i periodi di imposta per i
quali non è ancora intervenuta la prescrizione.
[11] Si rammenta che a partire dal 2011 i reati di
dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione
si integrano quando l’imposta evasa è superiore
rispettivamente a 50’000 euro e 30’000 euro (cfr.
articoli 4 e 5 D.Lgs. n. 74/2000).
[12] Il comma 3 dell’articolo 4-bis prevede la riduzione della pena fino alla metà per il reato di cui
all’articolo 2 D.L. n. 74/2000. Nulla viene disposto
in merito all’articolo 3 del medesimo provvedimento.
[13] Peraltro, nel nostro ordinamento sarebbe
già prevista una norma simile che consentirebbe – a discrezione dell’Agenzia delle Entrate –
una sensibile riduzione delle sanzioni. Si tratta
dell’articolo 7, comma 4 D.Lgs. n. 472/1997, secondo cui “Qualora concorrano eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità
del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione,
questa può essere ridotta fino alla metà del minimo”.
Tuttavia, non sono a conoscenza dell’autore casi
in cui detta norma sia stata applicata nell’irrogazione delle sanzioni RW.
[14] Peraltro, ciò comporta che la non perseguibilità penale non sia una conseguenza automatica dell’autodenuncia, ma sia comunque subordinata alla totale collaborazione del contribuente
in termini di informazioni rese all’Agenzia delle
Entrate.
[15] Cfr. l’articolo 7 D.Lgs. n. 472/1997, ove si
pone riferimento alla condotta del contribuente,
oltre che alla sua personalità e alle sue condizioni
economiche e sociali.
Diritto tributario internazionale e dell'UE
Stabile organizzazione e stabilimento
d'impresa
Marco Calcagno
Consulente fiscale
T&F Tax and Finance SA, Lugano
[email protected]
Dal Modello OCSE all'ordinamento interno elvetico
1.
Nota introduttiva: la funzione della stabile organizzazione nell’ordinamento tributario
Istituto tipico del diritto tributario, la stabile organizzazione
costituisce una “finzione giuridica” tesa ad individuare una soluzione condivisa ad uno dei principali quesiti di fiscalità internazionale.
Lo studio della fiscalità internazionale consente di comprendere come viene ripartita la pretesa fiscale (il cosiddetto ius impositionis) fra i vari Stati in cui si realizzano operazioni transnazionali di natura economica. Ebbene, il soggetto principe delle
operazioni economiche transfrontaliere è certamente l’impresa, intesa latu sensu a prescindere dunque dalla forma giuridica
rivestita. È perciò l’impresa che, realizzando profitti anche al
di là dei confini nazionali, richiede l’individuazione di un criterio che consenta di localizzare fiscalmente i redditi prodotti in
uno Stato piuttosto che in un altro. Difatti, i profitti realizzati
dall’impresa potenzialmente rilevano come redditi tassabili sia
nello Stato in cui l’impresa conserva la propria residenza fiscale
(cosiddetto Stato di residenza) sia nello Stato estero (ma potrebbe essere anche più d’uno) in cui l’impresa svolge la sua
attività (cosiddetto Stato della fonte).
Si tratta, in altri termini, di individuare un criterio che permetta
di delimitare e risolvere la pretesa fiscale fra lo Stato di residenza e lo Stato della fonte. Infatti, è ben evidente che non tutti i
profitti realizzati da un’impresa all’estero potranno essere qui
tassati, pena l’insorgenza di obblighi fiscali e amministrativi
che penalizzerebbero fortemente le attività transnazionali. A
titolo esemplificativo, è facilmente intuibile come la semplice
vendita di merci a clienti esteri difficilmente possa generare
materia imponibile al di fuori dello Stato di residenza. Viceversa, in presenza di un maggiore radicamento dell’impresa nello
Stato estero, ben potrebbe ritenersi che tale insediamento generi redditi tassabili nello Stato della fonte.
Ciò detto, dovrebbe comprendersi come la stabile organizzazione – declinata nelle pagine successive – rappresenti dunque
quel criterio distributivo necessario per delimitare le pretese
fiscali avanzate dagli Stati sui redditi transnazionali prodotti dall’impresa, fornendo così risposta al quesito accennato in
apertura. Si fa così ricorso al concetto di stabile organizzazione
per “misurare” il radicamento di un’impresa oltre confine: se
questa misura viene colmata l’impresa si considera avere una
stabile organizzazione all'estero cosicché i redditi da questa
prodotti saranno ivi tassabili.
Più rigorosamente, la stabile organizzazione può essere definita come un istituto di diritto tributario che consente di
collegare ad uno Stato il reddito prodotto all’interno del suo
territorio da un’impresa non residente. Pertanto, dal punto
di vista dello Stato della fonte l’individuazione di una stabile
organizzazione dell’impresa estera fa sì che si integri un presupposto d’imposta nei redditi realizzati all’interno dei propri
confini dal soggetto estero. In questo modo è possibile dunque operare una distinzione fra i redditi imponibili nello Stato
della fonte da quelli tassabili esclusivamente nello Stato ove
risiede l’impresa.
La stabile organizzazione svolge quindi la funzione di localizzare i redditi dell’impresa multinazionale sia in positivo, nel
senso di attrarre a tassazione nello Stato della fonte, sia in negativo, nel senso di limitare la pretesa impositiva a favore del
solo Stato di residenza. La funzione localizzatrice della stabile
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organizzazione dovrebbe essere dunque la chiave di lettura
con cui approcciarsi sia all’articolo 5 del Modello OCSE di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio (di seguito Modello OCSE) sia agli articoli 4 e 51 LIFD, che verranno presentati
nelle successive pagine.
L’importanza di una qualificazione univoca e condivisa – fra
Stato della residenza e Stato della fonte – di stabile organizzazione consentirà una pacifica ripartizione della pretesa fiscale
fra gli Stati interessati, evitando in questo modo fenomeni di
doppia imposizione (o, più raramente, di doppia non imposizione).
2.
La definizione di stabile organizzazione
nel Modello OCSE
2.1.
In generale
Ci si addentra ora nella definizione di stabile organizzazione
così come elaborata nel Modello OCSE e nel relativo Commentario.
A titolo preliminare occorre sottolineare, da un lato, che in
Svizzera la normativa convenzionale – in quanto lex specialis
– prevale sulla normativa interna (ove più favorevole al contribuente) e, dall’altro, che il Modello OCSE assume rilevanza
quale strumento interpretativo delle specifiche convenzioni in
vigore. Sicché, qualora lo Stato della residenza e quello della
fonte non siano legati da una convenzione contro le doppie
imposizioni (di seguito CDI) non potrà che trovare applicazione unicamente la normativa interna di ciascheduno Stato, con
possibili fenomeni di doppia imposizione, mentre al Modello
OCSE non si potranno che fare dei richiami del tutto non vincolanti. Pertanto, quando si avrà necessità di valutare la presenza, o meno, di una stabile organizzazione occorrerà senza
indugio accertarsi dell’esistenza di una CDI con lo Stato estero coinvolto. Il testo in vigore costituirà dunque il riferimento
normativo cui attenersi al fine di appurare la presenza di una
stabile organizzazione, mentre il Modello OCSE e soprattutto
il relativo Commentario rappresenteranno degli utili strumenti
interpretativi[1].
In considerazione delle diverse modalità con cui prende forma
l’attività estera dell’impresa, la definizione di stabile organizzazione si declina quindi in due accezioni: materiale e personale.
Il Modello OCSE dedica i primi 4 paragrafi dell’articolo 5 alla
stabile organizzazione materiale, mentre i paragrafi 5 e 6 si
occupano della declinazione personale.
2.2.
Articolo 5, paragrafi 1-4 Modello OCSE:
la stabile organizzazione materiale
L’articolo 5 Modello OCSE riserva al concetto di stabile organizzazione una definizione concisa ed essenziale. Difatti, l’articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE si limita a definire la stabile
organizzazione materiale come un “fixed place of business through which the business of an enterprise is wholly or partly carried on”.
La definizione viene ampiamente sviluppata nel Commentario
all’articolo 5 Modello OCSE, dove si forniscono finanche degli
esempi operativi di grande aiuto per l’interprete del diritto così
come per l’operatore economico.
Sebbene la definizione sia decisamente stringata, essa contiene tutti gli elementi necessari affinché si integri un’ipotesi di
stabile organizzazione materiale. Tali condizioni minime sono
individuabili in:
1)
2)
3)
4)
presenza di una sede fissa di affari (place of business);
permanenza della sede fissa di affari (fixed place of business);
svolgimento di un’attività economica (business);
utilizzo della sede per lo svolgimento della predetta attività
economica (through which the business […] is carried on).
Il primo requisito richiede dunque l’esistenza di una sede fissa
d’affari, intendendosi con tale locuzione qualsiasi tipo di edificio, installazione, struttura, ma anche infrastrutture, aree utilizzate, anche in via non esclusiva, dal soggetto non residente
per lo svolgimento della propria attività di impresa. Da notare che ai fini dell’individuazione della presenza della sede fissa
d’affari rileverebbe la semplice disponibilità della stessa, mentre si tende ad escludere che al titolo giuridico cui deriva tale
disponibilità (proprietà, locazione, usufrutto, eccetera) possa
essere attribuito un ruolo determinante (cfr. paragrafo 4.2 del
Commentario all’articolo 5 Modello OCSE).
Il secondo requisito ritiene necessaria la permanenza, sia spaziale che temporale, della sede fissa di affari. Il Commentario
considera soddisfatto tale requisito nel momento in cui sia il
cosiddetto location test (permanenza nel luogo) che il permanence test (permanenza temporale) diano esito positivo. È bene
tenere a mente che tutti i requisiti in rassegna, ma in particolare la permanenza spaziale e temporale, vanno valutati in
considerazione dell’attività di impresa effettivamente svolta.
Inoltre, il cosiddetto permanence test richiede di considerare sia
l’aspetto oggettivo che quello soggettivo, vale a dire che il radicamento temporale va misurato anche in ragione dell’intenzionalità di mantenere nel tempo la sede fissa di affari.
Il terzo requisito richiede invece lo svolgimento di un’attività economica (cosiddetto business activity test), sempreché –
come verrà poi meglio specificato dall’articolo 5 paragrafo 4
Modello OCSE – non si tratti di un’attività di natura ausiliaria o
preparatoria. È bene sottolineare che il cosiddetto business activity test si considera soddisfatto qualora la stabile organizzazione svolga quantomeno un’attività tesa alla realizzazione di
profitti per l’impresa complessivamente considerata, sicché la
contribuzione alla produzione di reddito da parte della stabile
organizzazione può essere anche di tipo indiretto.
Infine, la quarta ed ultima condizione prescrive un nesso di
strumentalità fra la sede fissa di affari e l’attività svolta dall’impresa estera (cosiddetto business connection test). Pertanto, occorre che lo svolgimento della predetta attività imprenditoriale
(business activity) avvenga per mezzo della sede fissa di affari
(fixed place of business). Appare evidente che anche il nesso di
strumentalità andrà verificato caso per caso. Da notare, inoltre, che il Commentario suggerisce di interpretare in senso
ampio questo nesso di strumentalità[2].
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Brevemente descritti gli elementi imprescindibili della stabile organizzazione materiale, è possibile comprendere come
il processo di individuazione di una stabile organizzazione, in
mancanza di una definizione dettagliata e copiosa, debba procedere proprio attraverso la disamina e la puntuale verifica dei
predetti requisiti.
Da quanto detto fin qui si noterà l’assenza di riferimenti
all’elemento personale nel processo di individuazione della stabile organizzazione materiale. Sebbene la rilevanza
dell’elemento umano sia una questione ancora in parte dibattuta, la lettura del Commentario, ed in particolare del
paragrafo 42.6 all’articolo 5 Modello OCSE, suggerisce di
ritenere non indispensabile la presenza di personale affinché si possa integrare una stabile organizzazione [3].
2.3.
Articolo 5, paragrafo 2 Modello OCSE:
la cosiddetta positive list
Accorre in aiuto all’interprete del diritto il successivo paragrafo 2 dell’articolo 5 Modello OCSE, laddove vengono forniti una
serie di esempi che costituiscono prima facie ipotesi di stabile
organizzazione materiale (cosiddetta positive list). È lo stesso
Commentario a precisare che le fattispecie elencate rappresentano solamente in prima analisi esempi di stabile organizzazione, essendo comunque necessario il rispetto delle condizioni poste dall’articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE e testé
descritte. Prima di entrare nel dettaglio della positive list si dà
evidenza che tale elenco non è da considerarsi esaustivo bensì
meramente esemplificativo, essendo pertanto possibile che si
configurino ipotesi di stabile organizzazione materiale anche
al di fuori delle fattispecie presenti nell’articolo 5 paragrafo 2
Modello OCSE (in tal senso si esprime anche il Commentario).
Nella positive list vengono dunque compresi:
a) la sede di direzione (place of management), intesa come il
luogo in cui si dirige parte o la totalità dell’attività di un’impresa. A titolo esemplificativo, si fa presente che il concetto di place of management comprende: un centro direzionale, di supervisione e di coordinamento degli affari della
società estera;
b) la succursale (branch)[4]: è l’ipotesi di stabile organizzazione più comune nella prassi, giacché trattasi di un’appendice dell’impresa estera che opera nello Stato della fonte
in qualità di entità economica distinta, fermo restando invece l’unicità giuridica. Si fa notare come il Commentario
difetti di una compiuta disamina di questa fattispecie, sebbene sia probabilmente la modalità più caratteristica con
cui un’impresa cerca di radicarsi oltre confine;
c) un ufficio (office);
d)un’officina (factory);
e) un laboratorio (workshop);
f) una miniera, un pozzo di petrolio o gas, una cava o altro
luogo di estrazione di risorse naturali (a mine, an oil or gas
well, a quarry or any other place of extraction of natural resources). Il Commentario suggerisce di dare un’interpretazione ampia alle fattispecie previste dalla lettera f (“should
be interpreted broadly”) tale da comprendere, ad esempio,
anche i cosiddetti luoghi di estrazione offshore. Per contro,
non sono comprese nella lettera f le attività di esplorazione per la ricerca di luoghi di estrazione.
2.4.
Articolo 5, paragrafo 3 Modello OCSE: i cantieri
Il successivo paragrafo affronta invece il delicato tema dei
cantieri di costruzione e montaggio (construction or installation
project). Tuttavia, mentre il paragrafo 3 dell’articolo 5 Modello
OCSE si limita a fissare in dodici mesi il requisito temporale
minimo affinché un cantiere integri un’ipotesi di stabile organizzazione, il Commentario vi dedica particolare attenzione. A
titolo esemplificativo, rientrano nella definizione di cantiere le
attività di costruzione/ristrutturazione di immobili, i lavori su
strade, ponti, canali, quelli di posa di oleodotti, escavazione, ma
anche le attività di montaggio e di installazione di macchinari
e attrezzature. Da notare che il requisito temporale dei dodici
mesi deve essere calcolato con riferimento al singolo cantiere,
a meno che più cantieri facciano parte di un unico progetto[5].
In questa ipotesi, il requisito temporale dovrà riferirsi al progetto nel suo insieme e non ai singoli cantieri che lo compongono.
Sempre con riguardo alla durata del cantiere, si ricorda che il
dies a quo da cui parte il conteggio dei dodici mesi coincide con
la data in cui inizia a prendere sostanza l’attività, compresi i
lavori preparatori, dell’imprenditore nello Stato in cui si realizza la costruzione. Per contro, il cantiere si considera concluso
nel momento in cui i lavori sono stati completati o abbandonati in via permanente. Pertanto, interruzioni stagionali o
temporanee non sospendono il conteggio dei dodici mesi. Il
Commentario precisa inoltre che le attività di progettazione
e supervisione, sempreché riferite ad un cantiere di costruzione, debbono considerarsi comprese nell’articolo 5 paragrafo 3
Modello OCSE e non nei paragrafi precedenti[6]. Infine, è bene
sottolineare come il Commentario riconosca la prassi degli
Stati, sia in sede di negoziazione delle CDI, sia nella loro disciplina interna, di adottare misure atte ad evitare frazionamenti
elusivi del requisito temporale testé descritto.
2.5.
Articolo 5, paragrafo 4 Modello OCSE: la cosiddetta
negative list
Il successivo articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE prevede invece un elenco di casi in cui, pur in presenza di una sede fissa di
affari, non si configura una stabile organizzazione (cosiddetta
negative list).
Si tratta di attività che, sebbene svolte per il tramite di una
sede fissa di affari, hanno carattere preparatorio ovvero ausiliario rispetto all’attività propria dell’impresa. Il Commentario
le definisce come prive di essenzialità e significatività rispetto
al business dell’impresa. In altri termini, nella negative list vengono comprese quelle attività ritenute distanti dalla produzione
di profitti per l’impresa e svolte unicamente nei confronti della
casa madre.
Le ipotesi comprese nell’articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE
sono le seguenti:
a) utilizzo di installazioni per soli fini di deposito, esposizione
o consegna di beni o di merci appartenenti all’impresa: le
predette installazioni, affinché non integrino stabile orga-
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nizzazione, devono essere utilizzate unicamente a favore
dell’impresa estera. Inoltre l’attività materialmente svolta
all’interno delle installazioni deve limitarsi a quelle elencate, non potendosi estendere alla vendita di beni o alla prestazione di servizi;
b) immagazzinaggio di merci appartenenti all’impresa ai soli
fini di deposito, esposizione o consegna: a differenza del
precedente punto qui rileva la presenza di un magazzino,
che non costituisce stabile organizzazione se utilizzato
unicamente per i predetti fini;
c) immagazzinaggio di merci appartenenti all’impresa ai soli
fini della trasformazione da parte di un’altra impresa;
d) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di acquistare
beni o merci, o di raccogliere informazioni per l’impresa. Da
notare che il cosiddetto ufficio acquisti non integra stabile organizzazione a condizione che tale attività sia rivolta
unicamente nei confronti dell’impresa estera. Inoltre, per
raccolta di informazioni si intende la mera ricerca e messa a disposizione di informazioni a favore della casa madre.
Viceversa, qualora queste informazioni venissero arricchite
da un valore aggiunto (per esempio: elaborazioni dei dati
per singoli clienti, ricerche di mercato, creazione di strategie di marketing, eccetera) potrebbe, sempreché ricorrano le
condizioni ex articolo 5 paragrafo 1 Modello OCSE, configurarsi una stabile organizzazione;
e) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di svolgere, a favore dell’impresa estera, ogni altra attività di natura preparatoria o ausiliaria. La lettera e rappresenta quindi una norma di chiusura, che abbraccia tutte le ipotesi in cui l’attività
della sede fissa d’affari si considera lontana dalla produzione di reddito. Tale norma di chiusura ricomprende dunque
i casi in cui l’appendice del soggetto estero svolge nello
Stato della fonte un’attività né essenziale né significativa
rispetto al business della casa madre. In aggiunta, è bene rimarcare che tale attività deve essere rivolta unicamente a
favore dell’impresa non residente, altrimenti non si potrebbe escludere la presenza di una stabile organizzazione;
f) utilizzo di una sede fissa d’affari ai soli fini di svolgere, sempre a favore della sola impresa estera, qualunque combinazione delle attività di cui alle lettere da a fino ad e, purché la
combinazione di tali attività mantenga nel suo insieme un
carattere preparatorio o ausiliario.
2.6.
Articolo 5, paragrafi 5 e 6 Modello OCSE: la stabile
organizzazione personale
La seconda fattispecie di stabile organizzazione (cosiddetta personale) comprende invece le ipotesi in cui una persona
agisce per conto di un’impresa estera ed abitualmente esercita, nello Stato della fonte, il potere di concludere contratti in
nome della predetta impresa. Pertanto, in relazione all’attività svolta da detta persona a favore del committente estero, è
possibile ravvisare la presenza di una stabile organizzazione
personale nello Stato della fonte, sempreché l’attività di tale
persona non sia limitata a quelle citate nell’articolo 5 paragrafo 4 Modello OCSE (ovvero attività di natura preparatoria o
ausiliaria). L’articolo 5 paragrafo 6 Modello OCSE, a completamento del precedente, stabilisce per di più che non si qualifica
come stabile organizzazione l’attività svolta da un mediatore,
un commissionario generale o altro intermediario che goda di
uno status di indipendenza rispetto all’impresa estera, a condizione però che detta persona agisca nell’ambito della propria
ordinaria attività.
Prima di entrare nel merito delle citate disposizioni, va rilevato il carattere residuale della declinazione personale di stabile
organizzazione rispetto a quella materiale. Tant’è che il paragrafo 35 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE parla
espressamente di “alternative test”, indicando appunto come
l’individuazione di una stabile organizzazione debba procedere
dapprima in considerazione dei paragrafi da 1 fino a 4 dell’articolo 5 Modello OCSE e quindi del successivo paragrafo 5.
Ebbene, ai sensi della disposizione in commento, un’impresa si
considera avere una stabile organizzazione personale quando
nello Stato della fonte vi sia un soggetto che, agendo per conto
dell’impresa non residente, concluda abitualmente contratti in
nome di quest’ultima. Da questa sintetica definizione si comprende che detta persona, affinché realizzi una stabile organizzazione personale dell’impresa estera, debba:
1) essere considerata una persona ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 1 Modello OCSE;
2) avere uno status di dipendenza rispetto al committente
estero;
3) agire per conto (“on behalf of ”) del committente estero;
4) avere ed esercitare abitualmente il potere di concludere
contratti in nome dell’impresa estera;
5) svolgere attività non qualificabili come preparatorie o ausiliarie.
Si sviluppano ora i requisiti su elencati. In primo luogo v’è da
sottolineare che si ha stabile organizzazione personale in presenza di una persona, mentre viene meno ogni riferimento
vincolante alla sede fissa di affari. Tale persona può essere sia
una persona fisica, sia una persona giuridica; inoltre, ai fini qui
in discussione, non rileva la sua residenza fiscale[7]. La persona può essere tanto un lavoratore alle dipendenze dell’impresa
estera (employee), quanto una persona che, a vario titolo, agisce
per conto della predetta impresa. Il minimo comune denominatore di queste figure è lo status di dipendenza (economica, o
giuridica), che deve ricorrere unitamente alle altre condizioni
affinché si possa parlare di stabile organizzazione personale.
La qualificazione del rapporto giuridico intercorrente tra
l’impresa e la persona che agisce per suo conto ha sollevato
rilevanti dibattiti dottrinali relativamente alla necessarietà,
o meno, della rappresentanza (diretta) al fine di configurare
una stabile organizzazione personale. Come è noto, in diversi
Stati l’ordinamento civilistico prevede una serie di figure (ad
esempio il mandatario senza rappresentanza) per le quali,
difettando la rappresentanza (diretta), viene meno la possibilità di concludere contratti in nome dell’impresa estera (il
mandante/committente). Ebbene, è proprio con riferimento a
queste ipotesi, così diffuse nella prassi, che negli ordinamenti
di civil law la dottrina, specialmente nelle interpretazioni più
risalenti, ha propeso per escludere la configurabilità di una
stabile organizzazione personale laddove manchi la spendita del nome. Tuttavia, è lo stesso Commentario a suggerire
al paragrafo 32.1 dell’articolo 5 Modello OCSE un approccio
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più sostanzialistico, propendendo per l’esistenza della stabile
organizzazione in tutte le ipotesi in cui, a prescindere dalla rappresentanza (diretta), i soggetti concludano contratti
vincolanti per l’impresa estera.
Non va inoltre dimenticato che, affinché si possa integrare una
stabile organizzazione personale, l’esercizio del potere di concludere contratti in nome dell’impresa estera va esercitato in
modo abituale. Il requisito dell’abitualità è necessario giacché la
compenetrazione dell’impresa estera nell’altro Stato non può
essere meramente transitoria, ma deve radicarsi attraverso la
presenza di un agente che sia frequente e rilevante in termini
di volumi d’affari[8]. Lo stesso articolo 5 paragrafo 5 Modello OCSE precisa per di più che non si configura stabile organizzazione se l’attività dell'agente è meramente ausiliaria e/o
preparatoria.
Il successivo paragrafo 6 esclude altresì la ricorrenza di una
stabile organizzazione personale laddove l’impresa non residente eserciti la propria attività per mezzo di un intermediario
(a prescindere dal titolo giuridico di quest’ultimo) che goda di
uno status indipendente, a condizione però che detto intermediario agisca nell’ambito della propria attività ordinaria[9].
le organizzazione della società controllante nello Stato estero
in cui è localizzata la società controllata. Si fa notare che tale
principio vale anche in caso di rapporti fra società sorelle[10].
Infatti, affinché la società controllata si configuri come stabile
organizzazione della madre estera è necessario che ricorrano
gli ordinari requisiti richiesti dall’articolo 5 Modello OCSE.
Il caso più frequente nella prassi è l’ipotesi in cui la società controllata eserciti abitualmente il potere di concludere contratti
in nome della casa madre. In questa fattispecie troverebbe applicazione la disciplina individuata dai paragrafi 5 e 6 dell’articolo 5 Modello OCSE che, indirizzandosi genericamente ad
ogni persona, si applica anche alle società consociate. Tuttavia
può anche avvenire che spazi o locali della società controllata
costituiscano una sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa estera conduca i propri affari. In questo caso rileveranno
i criteri ordinariamente previsti per l’ipotesi di stabile organizzazione materiale, ed in particolare l’individuazione di un fixed
place of business che sia a disposizione dell’impresa estera per
esercitare i propri affari.
La chiave di lettura dell’indipendenza economica è fornita dallo
stesso Commentario all’articolo 5 Modello OCSE, che al paragrafo 38.3 evidenzia come l’indipendenza si manifesti tipicamente nella limitazione della responsabilità del mandatario,
nei confronti del mandante, ai soli risultati conseguiti, senza
che lo stesso sia soggetto ad un effettivo controllo sulle modalità di svolgimento delle proprie attività. In aggiunta, il test di
indipendenza legale valuta i poteri – legali e contrattuali – che
l’impresa estera può esercitare nei confronti dell’intermediario e, simmetricamente, le obbligazioni di quest’ultimo verso il
soggetto estero.
Il Commentario individua pertanto una serie di criteri utili per
verificare l’indipendenza economica e legale dell’agente:
◆ la necessità, o meno, di ottenere l’approvazione dell’impresa estera in merito alle modalità di svolgimento dell’attività;
◆ l’assunzione del rischio imprenditoriale da parte del mandatario o dell’impresa estera per la quale il primo agisce;
◆ la pervasività degli obblighi che l'agente ha nei riguardi
dell’impresa estera, specie in termini di assoggettamento,
o meno, a dettagliate istruzioni;
◆ la circostanza che il mandatario agisca per conto di un numero ristretto o ampio di mandanti.
In ogni caso, posta la natura certamente non esaustiva di tale
elencazione, è bene chiarire che l’indipendenza economica e
giuridica dell’agente si evince da un’analisi fattuale. Tanto premesso, i criteri testé citati rappresentano comunque degli utili
strumenti di interpretazione.
2.7.
Articolo 5, paragrafo 7 Modello OCSE: le società consociate
L’articolo 5 paragrafo 7 Modello OCSE e il relativo Commentario (paragrafi 40-42) chiariscono che la presenza di una società
controllata all'estero non integra di per sé un’ipotesi di stabi-
3.
La definizione di stabilimento di impresa
nell’ordinamento svizzero
La LIFD lega l’assoggettamento delle imprese alle imposte
svizzere al concetto di appartenenza fiscale. L’appartenenza
fiscale si declina in appartenenza personale (allorché l’impresa ha la sede o l’amministrazione effettiva in Svizzera) e in
appartenenza economica (nelle ipotesi di persone giuridiche
che non hanno né sede né amministrazione effettiva in Svizzera[11]). Quest’ultima, a sua volta, si traduce in diverse fattispecie (articolo 4 capoverso 1 lettera b LIFD, per le persone
fisiche che svolgono attività di impresa; articolo 51 capoverso
1 lettera b LIFD, per le persone giuridiche) al verificarsi delle
quali scatta l’assoggettamento alle imposte in Svizzera. Fra
queste fattispecie rientra il configurarsi di uno stabilimento di
impresa in Svizzera.
La definizione di stabilimento di impresa è rinvenibile agli articoli 4 capoverso 2 e 51 capoverso 2 LIFD e tale definizione pare
applicarsi non solo ai fini dell’individuazione degli stabilimenti
di impresa in Svizzera dei soggetti non residenti, ma anche al
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fine di inquadrare gli stabilimenti esteri di imprese svizzere. Ebbene, la definizione generale di stabilimento di impresa riprende l’essenzialità di quella contenuta nel Modello OCSE giacché
si limita a qualificarlo come “una sede fissa di affari o di lavoro dove
si svolge, in tutto o in parte, l’attività di un’impresa”. Dopodiché
la LIFD procede con l’equivalente della positive list dell’OCSE,
elencando una serie di ipotesi che si considerano stabilimento
di impresa. In particolare, rientrano “le succursali, le officine, i laboratori, gli uffici di vendita, le rappresentanze permanenti, le miniere
e ogni altro luogo di estrazione di risorse naturali, come anche i cantieri di costruzione o di montaggio la cui durata è di almeno 12 mesi”.
Le differenze rispetto al Modello OCSE sono dunque ben evidenti, essendo la normativa interna molto più stringata e in
apparenza disorganica. Infatti, dopo aver enucleato una definizione essenziale ma esaustiva di stabilimento di impresa intesa
nell’accezione di stabile organizzazione materiale (sede fissa di
affari o di lavoro), gli articoli 4 capoverso 2 lettera b e 51 capoverso 2 lettera b LIFD passano direttamente ad elencare una
positive list che comprende, quasi indistintamente, i concetti di
stabile organizzazione materiale e personale. Il dettato normativo, con la supposta confusione tra le due anime del concetto
di stabile organizzazione, fa sorgere l’interrogativo se per configurare una “rappresentanza permanente” (ovvero la stabile organizzazione personale) sia necessaria la presenza di una “sede
fissa di affari o di lavoro”. Infatti la costruzione della normativa
svizzera in commento parrebbe lasciare intendere nel senso
dell’obbligatoria presenza della “sede fissa” al fine di qualificare
una rappresentanza permanente, sebbene tale interpretazione
sarebbe in contrasto con l'interpretazione maggioritaria e con il
concetto stesso di stabile organizzazione personale.
Non sarà passata inosservata anche la minore attenzione dedicata al concetto di stabile organizzazione materiale rispetto
a quanto previsto dal Modello OCSE. Infatti, non solo la cosiddetta positive list sembra dimenticarsi di alcune ipotesi caratteristiche (ad esempio la sede di direzione), ma manca del
tutto anche la negative list con il suo elenco di attività ausiliarie
e preparatorie[12] che escluderebbero la presenza di una stabile organizzazione. A questo punto non stupisce nemmeno
l’assenza di ogni riferimento alle ipotesi di società consociate.
Per contro, a livello interpretativo (dottrina e giurisprudenza),
la presenza di uno stabilimento di impresa si considera integrata quando ricorrono le tre condizioni:
1) esistenza di impianti o installazioni fissi e permanenti;
2) presenza di un’attività qualitativa e quantitativa rilevante;
3) appartenenza all’impresa in quanto parte integrante.
Una chiave di lettura per interpretare queste differenze rimarchevoli rispetto al Modello OCSE potrebbe rinvenirsi nell’approccio “sostanziale” del diritto svizzero. In effetti, se si pensa
alla definizione generale di stabilimento di impresa, essa invero
già contiene tutti gli elementi necessari affinché possa configurarsi un radicamento dell’impresa estera e quindi una stabile
organizzazione (materiale). Certamente all’interprete del diritto così come all’operatore economico sarebbe stato utile avere
ulteriori elementi interpretativi (si legga positive e negative list),
tuttavia anche un approccio substance over the form non è biasimabile ed è forse sintomatico di un ordinamento fiscale che
abbraccia i contenuti più che la forma.
In conclusione, una nota di conforto. Avendo la Svizzera concluso CDI con la più parte degli Stati, non abbia a disperare
l’interprete del diritto tenuto ad affrontare il tema della configurabilità di una stabile organizzazione, giacché la CDI applicabile (e il Commentario del Modello OCSE) gli darà conforto
con un’esaustiva definizione!
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Per maggiori informazioni:
Avery Jones John F., Agents as Permanent Establishment under the OECD
Model Tax Convention, in: Diritto e pratica tributaria, 1993, pagina 1399 e
seguenti
Calcagno Marco, La stabile organizzazione, in: Sacchetto Claudio (a cura di),
Principi di diritto tributario europeo internazionale, Torino 2011
Huston John/William Lee, Permanent Establishment: a Planning Primer, 1993
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.fiscooggi.it/files/immagini_articoli/u9/stabile_organizzazioen.jpg [25.09.2013]
http://www.colourbox.com/preview/3556814-198961-business-plan-ofa-permanent-establishment.jpg [25.09.2013]
http://www.corporatelivewire.com/image_thumb.php?w=350&h=
10000&img=images/stories/528/1615103659.jpg [25.09.2013]
Locher Peter, Introduzione al diritto fiscale intercantonale, II° edizione, SUPSI,
Manno 2010
Paschoud Jean-Blaise, in: Yersin Danielle/Noël Yves (a cura di), Commentaire
de la loi sur l’impôt fédéral direct, Basilea 2008, N 44 ad art. 4 LIFD
Rust Alexander, Situs Principle v. Permanent Establishment Principle in International Tax Law, in: Bulletin, 2002, pagina 15 e seguenti
Skaar Arvid A., Commentario dell’art. 5 del modello di convenzione OCSE:
il concetto di stabile organizzazione, in: Fiscalia, 2000, pagina 623 e seguenti
Skaar Arvid. A, Permanent Establishment. Erosion of a Tax Treaty Principle,
Deventer-Boston 1991
Van Raad Kees, Construction Project PE in the Netherlands and Taxation of
Employment Income Borne by a PE, in: Bulletin for international fiscal documentation, 1999, pagina 321 e seguenti
Vogel Klaus, On Double Taxation Conventions, The Hague-London-Boston
1997
Vogel Klaus, Subsidiaries as Permanent Establishments?, in: Tax Treaty News:
Bulletin for international fiscal documentation, 2003, pagina 474 e seguenti
Si fa presente che in sede OCSE è in corso di discussione una revisione
dell’articolo 5 Modello OCSE così come in questa sede commentato. Per
approfondimenti si veda: http://www.oecd.org/tax/publiccommentsreceivedonthereviseddiscussiondraftonthedefinitionofpermanentestablishmentarticle5oftheoecdmodeltaxconvention.htm [25.09.2013]
[1] Sempreché la CDI sia informata al Modello
OCSE. Infatti, il Modello OCSE non è l’unico Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni. Seppur meno noti e meno diffusi, sono presenti sia il cosiddetto Modello USA che il Modello
ONU.
[2] Oltre al Commentario, su questo tema si veda
anche: OCSE, Issues arising from article 5 (permanent establishment) of the Model tax Convention, Parigi, 7 novembre 2002.
[3] A titolo esemplificativo, si fa notare che anche
la presenza di un server può integrare una stabile
organizzazione.
[4] Letteralmente, il termine branch si riferisce
specificatamente all’ipotesi di succursale.
[5] Nella prassi spesso avviene che l’appaltatore
principale di un cantiere subappalti parte dei lavori ad una terza impresa. Per calcolare la durata
del cantiere dell’appaltatore principale occorrerà
quindi considerare anche il tempo impiegato dai
subappaltatori.
[6] L’importante conseguenza è che le attività
di progettazione e supervisione di un cantiere
richiedono il decorso del termine di dodici mesi
affinché possano configurare una stabile organizzazione.
[7] Pertanto, potrebbe esservi stabile organizzazione personale nell’altro Stato contraente
anche qualora il mandatario sia fiscalmente residente nello Stato in cui si trova l’impresa estera.
Si veda in tal senso il paragrafo 32 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE.
[8] Va da sé che la frequenza e il volume d’affari delle operazioni dipendono dalla natura dei
contratti e dal business caratteristici dell’impresa
estera.
[9] Sul concetto di attività ordinaria si veda il paragrafo 38.8 del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE.
[10] Ovverosia qualora le due società siano controllate da un unico soggetto (cfr. paragrafo 42
del Commentario all’articolo 5 Modello OCSE).
[11] In virtù del richiamo contenuto nell’articolo
11 LIFD, le considerazioni sull’appartenenza economica valgono anche per le società commerciali estere e le altre comunità di persone senza
personalità giuridica.
[12] Tuttavia la giurisprudenza sostiene chiaramente che lo svolgimento di attività di carattere
preparatorio o ausiliario non possa concretizzare
la presenza di uno stabilimento di impresa (cfr.
DTF 102 Ib 264).
29
30
Rassegna di giurisprudenza di diritto
tributario italiano
Considerazioni in tema di rilevanza
penale dell’abuso di diritto: la sentenza
“Dolce & Gabbana”
Angela Monti
Avvocato tributarista in Milano e in Lugano
Presidente della Camera tributaria degli avvocati
tributaristi di Milano
Membro del Consiglio per il diritto dell’impresa
presso Assolombarda
Sentenza della Corte di Cassazione penale, II° sezione, del 28 febbraio 2012, n. 7739
cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, a euro due milioni.
1.
Introduzione
La sentenza della Cassazione penale n. 7739/2012 (caso
“Dolce & Gabbana”) che, come vedremo, si è espressa in ordine alla rilevanza penale delle condotte elusive, disattendendo il precedente orientamento della stessa Suprema Corte,
ripropone il tema della stessa fattibilità di operazioni di tax
planning da parte degli operatori italiani e l’altrettanto rilevante problema della responsabilità per concorso del consulente
– italiano o straniero – che sia intervenuto nell'architettura
dell’operazione.
2.
Brevi cenni sull’evoluzione più recente della giurisprudenza della Corte di Cassazione e dei giudici di merito in
tema di “abuso di diritto”
L’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale in tema di
“abuso di diritto” si rivela non poco tormentata e vale la pena
ricordarla brevemente in quanto rilevante ai fini dell’esame del
conseguente aspetto degli effetti sanzionatori penali.
Come noto, in una prima fase, la Corte di Cassazione riteneva che potessero qualificarsi elusivi solo i comportamenti che
erano definiti come tali da una norma espressa.
Successivamente, già con la sentenza n. 7457/2003, la Corte
aveva iniziato ad enfatizzare l’esigenza dell'interpretazione dei
contratti ai fini fiscali in ragione della loro causa.
La rilevanza del tema è poi evidente non appena si consideri l’abbassamento delle soglie di punibilità dei reati di infedele
e fraudolenta dichiarazione a far data dal 17 settembre 2011.
Rammento che da questa data la soglia di punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta ex articolo 3 D.Lgs. n. 74/2000
è stata ridotta ad un'evasione d’imposta di euro trentamila e
ad un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti
all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi
fittizi, superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque,
a euro un milione. Per il reato di infedele dichiarazione (ex articolo 4 del medesimo D.Lgs.), invece, basta un'evasione d’imposta di euro cinquantamila e un ammontare complessivo degli
elementi attivi sottratti all’imposizione superiore al dieci per
Di poi, con la sentenza n. 20398/2005, il Supremo Collegio
era giunto ad affermare la nullità di un contratto (trattavasi
di “dividend washing”) nonostante l’Amministrazione finanziaria
non avesse dedotto espressamente la nullità dello stesso per
mancanza di causa ma si fosse limitata a richiamare l’articolo
37 comma 3 del Decreto del Presidente della Repubblica (di
seguito D.P.R.) n. 600/1973. Già in questa pronuncia, la Corte aveva affermato il “potere del giudice di conoscere determinate
questioni (quali la nullità del negozio giuridico, ai sensi dell’art. 1421
cod. civ.) indipendentemente da una espressa domanda di parte” a
dispetto della natura impugnatoria del procedimento avanti le
Commissioni tributarie (nello stesso senso vedasi anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 22932/2005).
Intervenuta la sentenza Halifax (Corte di Giustizia dell’Unione
europea, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax plc), la Corte aveva avuto gioco facile nella sentenza n. 25374/2008 ad
affermare l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio di
matrice comunitaria concernente l’abuso di diritto applicabile
a tutte le fattispecie di entrate tributarie con “l’obbligo per il giudice nazionale di applicazione di ufficio anche al di fuori di specifica
deduzione ed allegazione di parte”.
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
A seguito delle contestazioni della dottrina in merito alla non
applicabilità dei principi comunitari in tema di imposizione sul
reddito, le successive sentenze del 23 dicembre 2008 n. 30055,
30056, 30057, hanno affermato, come noto, in tema “dividend
washing” e “dividend stripping”, che per “costante giurisprudenza di
questa Corte, sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio
dell’amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa
non disponibile”. Da ciò è stata fatta conseguire la rilevabilità
d’ufficio della inopponibilità del negozio abusivo all’erario “con la
conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come
diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui
il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di
ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione,
diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.
Ancor più preoccupanti, rispetto alla teoria dell’abuso del diritto, si palesavano poi le affermazioni della Corte in tema di “antieconomicità” delle operazioni societarie contenute nella sentenza n. 951/2009 in cui veniva affermato il principio in base
al quale “i giudici d’appello, chiamati a stabilire l’antieconomicità
dell’acquisizione di una partecipazione azionaria a prezzo superiore a
quello d’acquisto della stessa, non avrebbero potuto limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea, ma avrebbero
dovuto rivalutare i fatti sulla base di tutti i dati in loro possesso e delle
deduzioni del contribuente al riguardo”. “L’esclusione della rilevanza
dei movimenti finanziari ritenuti antieconomici non può basarsi sulla
apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una
tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni
inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo”.
Con questo orientamento la Corte ha sostanzialmente ritenuto che, anche nei casi nei quali la difesa dell’Amministrazione
finanziaria fosse stata assolutamente monca e l’atto amministrativo fosse stato del tutto privo di motivazione, il richiamo ai
principi comunitari e/o ai principi costituzionali di fatto avrebbe
potuto consentire di giungere alla tassazione delle operazioni
contestate “pur se per motivi diversi da quelli prospettati dall’Amministrazione”.
Al riguardo, va enfatizzato che le fattispecie che avevano occasionato le pronunce giurisprudenziali più drasticamente
a favore dell’Amministrazione finanziaria del dicembre 2008
attenevano alle ipotesi di “dividend washing” e “dividend stripping”, in casi in cui la contestualità dei pagamenti, la pressoché
totale identità tra ammontare del prezzo di trasferimento dei
titoli e importo del dividendo, i collegamenti societari esistenti
tra i soggetti coinvolti nell’operazione avrebbero a mio avviso
correttamente consentito il richiamo all’articolo 37 comma 3
D.P.R. n. 600/1973. Tale articolo non attiene all’interposizione
(o la simulazione soggettiva) in senso civilistico, ma all’interposizione nella percezione e nel possesso del reddito. Una simile ricostruzione sicuramente più garantista avrebbe anche
consentito di affermare l’applicabilità delle sanzioni amministrative o penali, a condizione, tuttavia, che l’Amministrazione
finanziaria o il Pubblico Ministero fossero in grado di fornire la
prova dell’intenzionalità (o, per le sole sanzioni amministrative, della semplice negligente consapevolezza) dell’agire del
contribuente.
Lo sconcerto di fronte alle affermazioni contenute nella sentenza “Dolce & Gabbana” in tema di rilevanza penale dell’elusione nascono dalla considerazione che sino ad oggi la stessa
Cassazione aveva sostenuto l’opposto. Costante era infatti in
giurisprudenza la considerazione per la quale “In quanto semplice
elusione fiscale, le operazioni di cui trattasi non rientrano in alcuna
delle disposizioni di legge previste negli artt. 2, 3, 4 D.Lgs. 74/2000,
tutte caratterizzate dal fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto e quindi connotate dal fatto di essere delitti a dolo specifico” (ex plurimis Corte di Cassazione, sentenza n. 13244/2006).
Inoltre, lo stesso governo, nella relazione al D.Lgs. n. 74/2000,
aveva testualmente affermato che “nelle ipotesi di mancata sottoposizione del caso al parere del comitato, resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta del contribuente, intesa allo
sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi d’imposta, vada ricondotta al paradigma di quella che
è tradizionalmente qualificata come semplice «elusione di imposta»,
quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale”.
D’altra parte nella stessa sentenza Halifax, dalla quale ha tratto
originariamente spunto l’orientamento della Corte di Cassazione sull’abuso di diritto, trovasi affermato che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a
una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco […]”.
Inoltre la recente sentenza nel caso “Dolce & Gabbana” non
tiene conto che sia la Corte di Cassazione sia i giudici di merito
in sede tributaria hanno iniziato da tempo un processo di mitigazione di quei principi dianzi richiamati specie nei casi in cui la
disparità delle parti nel processo risulti più eclatante.
Già nella sentenza n. 1465/2009 lo stesso Supremo Collegio, ad
esempio, afferma che anche in materia di abuso di diritto, “in
merito alla ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario,
compete all’Amministrazione finanziaria allegare i fatti e gli elementi costitutivi della pretesa tributaria e, nella specie, le circostanze a
dimostrazione dell’oggettiva natura elusiva delle operazioni poste in
essere dal contribuente; parimenti, quest’ultimo è chiamato ad assolvere l’onere di illustrare e giustificare le motivazioni di carattere
economico – concrete, effettive ed essenziali – poste a fondamento
delle scelte operate nell’esercizio dell’attività d’impresa”.
La stessa Cassazione ha poi più di recente iniziato un percorso di ripensamento dell’originaria impostazione nata con le
sentenze del dicembre 2008 rilevando non solo la necessità di
un’estrema “cautela” nell’utilizzo da parte dell’Amministrazione finanziaria della nozione di abuso ma anche operando un
distinguo tra “operazioni finanziarie” e “ristrutturazioni societarie,
soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi
d’imprese” (cfr. la sentenza n. 1372/2011).
Nella stessa sentenza trovasi affermato che l’applicazione del
principio giurisprudenziale dell’abuso del diritto, inteso come
non ammissibilità per l’ordinamento tributario dell’utilizzo
distorto dell’autonomia contrattuale e della libera iniziativa
privata con finalità esclusivamente rivolte al risparmio d’imposta, comporta per l’Amministrazione finanziaria l’onere di
provare le anomalie o le inadeguatezze delle operazioni in-
31
32
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
traprese dal contribuente al quale compete allegare le finalità
perseguite – diverse dal mero vantaggio consistente nella diminuzione del carico tributario.
Con la sentenza n. 10383/2011, la Cassazione ha altresì ritenuto che l’utilizzo di benefici fiscali (nel caso specifico si trattava di un insediamento produttivo in zone svantaggiate) non
può mai integrare abuso di diritto in quanto l’agevolazione
costituisce una contropartita incentivante e non una finalità
contra ius.
Ma anche le Commissioni di merito hanno cominciato ad
esprimere nelle proprie decisioni il disagio già manifestato dalla
dottrina quanto all’applicazione degli evanescenti criteri fissati
dalla Corte di Cassazione in tema di “convenienza economica” e di sussistenza di “interessi fiscali”, non necessariamente
esclusivi ma anche solo “concorrenti” con gli interessi economici del contribuente elaborati nelle note sentenze in tema di
“abuso di diritto”. Così, alcuni giudici di merito sono giunti ad
affermare quanto la dottrina ha da sempre sostenuto, ossia di
“non potersi immaginare in materia di norme speciali, quale è appunto l’art. 37bis d.p.r. 600/73, interpretazioni estensive o analogiche”
(cfr. Commissioni Tributarie Provinciali di Milano, sentenza n.
154/2011; di Napoli, sentenza n. 792/2011; di Verona, sentenza n. 240/2011; di Milano, sentenza n. 62/2012; di Milano, sentenza n. 63/2012; di Milano, sentenza n. 64/2012).
3.
Norme penali e “abuso di diritto”, articolo 37-bis
D.P.R. n. 600/1973 e norme antielusive
espresse: la sentenza della Corte di Cassazione,
sezione II penale, n. 7739/2012
Ma passiamo a valutare nel dettaglio la sentenza della Corte
di Cassazione, sezione II penale, n. 7739 del 28 febbraio 2012.
In detta pronuncia, il Supremo Collegio ha statuito che “deve
affermarsi il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla
legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto,
nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema
normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche
disposizioni antielusive. In altri termini, nel campo penale non può
affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle
citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre
può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una
specifica disposizione fiscale antielusiva”.
La sentenza sembra ignorare la distinzione tra interposizione
fittizia e elusione che invece le norme tributarie considerano
dettando una disciplina assai diversa. Che la fattispecie esaminata dalla Corte fosse un’ipotesi di interposizione di soggetti è
palese dall’esame della motivazione ove chiaramente l’operazione posta in essere viene descritta come un caso riconducibile al fenomeno dell’“esterovestizione” (intestazione di marchi
a un soggetto lussemburghese di fatto privo di sostanza economica e il cui beneficiario economico si identificava nei due
noti stilisti).
Orbene, l’interposizione ex articolo 37 comma 3 D.P.R. n.
600/1973 è un’ipotesi di evasione diretta che si realizza interponendo soggetti, per lo più “fittizi”, nella percezione del
reddito.
Inoltre, in attesa che il legislatore intervenga dando attuazione, come vedremo al Disegno di Legge per la riforma fiscale,
la giurisprudenza di merito ha affermato l’estensione alle condotte “abusive” del principio della iscrivibilità in via di riscossione provvisoria di imposte, sanzioni e interessi solo dopo la
sentenza di 1. grado favorevole all’Amministrazione finanziaria in virtù di quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 37-bis
D.P.R. n. 600/1973 (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di
Genova, sentenza n. 2/1/11 del 24 gennaio 2011).
Queste decisioni evidenziano come le Commissioni di merito
non siano tutte “appiattite” su di un'applicazione superficiale
dei principi desumibili dalle sentenze di Cassazione ma siano
invece positivamente coinvolte in quel processo di progressivo
indebolimento della fattispecie dell’abuso di diritto, così graniticamente affermata dalle note pronunce delle Sezioni Unite
del dicembre 2008.
L’elusione è evidentemente altra cosa. Come è senz’altro noto,
l’articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973, che contiene l’unica definizione scritta di “elusione” racchiusa nell’ordinamento giuridico-tributario italiano, statuisce che “sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra
loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi
o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni
di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti” prevedendo altresì che
“l’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando
le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle
imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione”.
Ai fini dell'identificazione del comportamento come elusivo/abusivo non è sufficiente la semplice mancanza di “valide ragioni economiche” ulteriori rispetto al semplice risparmio
d’imposta, ma è necessario l’aggiramento di obblighi e divieti
previsti dall’ordinamento tributario con il fine di ottenere riduzione di imposte o rimborsi considerati dalla legge come
indebiti, cioè non conformi alla finalità, ossia alla ratio cui si
ispira la norma fiscale.
Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
La citata sentenza della Suprema Corte sembra inoltre affermare il principio che ogni condotta elusiva, specificamente disciplinata, sia di rilievo penale.
A tutto concedere la Corte di Cassazione dimostra di dimenticarsi l’articolo 19 D.Lgs. n. 74/2000, alla cui stregua “Quando
uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da
una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica
la disposizione speciale”.
Ad avviso di chi scrive, l’esistenza di una specifica norma antielusiva (lex specialis) esclude l’applicazione della norma penaltributaria (lex generalis), salvo che il legislatore esprima una
diversa volontà sanzionatoria.
mettere che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione, a partire dal 2006 e fino al 2010, è “contraria alla rilevanza
penale dei comportamenti elusivi” e che solo nel 2010-2011 si registra un orientamento giurisprudenziale “favorevole alla configurabilità di un illecito penale”.
Di qui la conclusione della Suprema Corte, secondo cui “sulla
questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale non
può dirsi che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione si sia
espressa compiutamente”.
La sentenza de qua riconosce pertanto che il cittadino non ha
trovato nemmeno nella giurisprudenza un chiaro risultato interpretativo idoneo ad orientarne il comportamento nell’area
della legalità e deve ammettere che il dictum della Suprema
Corte era nel senso della irrilevanza penale.
Quanto alla giurisprudenza delle Sezioni civili della Cassazione che ha teorizzato l’abuso del diritto come “esistenza di una
regola generale antielusiva”, la sentenza della Suprema Corte è,
come si è detto, netta nell’affermare che una rilevanza penale
dell’elusione non possa prescindere da specifiche norme antielusive, giungendo ad affermare il principio che “nel campo penale
non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che
prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece ritenuto
dalle citate Sezioni civili della Corte Suprema di Cassazione”, motivo
per cui – ragionando a contrario – “può affermarsi la rilevanza
penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale
antielusiva” (che sarà onere del Pubblico Ministero indicare).
L’esistenza di una costante legislazione che distingue nettamente l’evasione dall’elusione non può non far pensare a fenomeni diversi, di diversa capacità lesiva per gli interessi erariali
e, quindi, ragionevolmente destinatari di una diversa reazione
dell’ordinamento giuridico.
Sul piano della responsabilità del consulente che assiste il cliente nell’architettura dell’operazione, le preoccupazioni sono assai diffuse specie se consideriamo l’orientamento che pacificamente estende a quest’ultimo l’applicabilità del “sequestro per
equivalente” a partire dai fatti commessi dal 1. gennaio 2008.
Basti pensare al D.L. n. 223/2006, convertito dalla L. n.
248/2006, in tema di “contrasto all’evasione fiscale”, il cui articolo 35 reca “misure di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale”,
dimostrando di non accomunare affatto i due fenomeni su cui
pur vuole intervenire.
Sul punto ritengo che la sentenza possa costituire un elemento di maggiore tranquillità piuttosto che di preoccupazione. La
Corte di Cassazione è stata infatti chiarissima nell’attribuire
rilevanza penale a un fatto, come abbiamo visto, di esterovestizione agli effetti del reato di infedele dichiarazione. Trattasi
di un reato proprio che vede coinvolti, in primis, i redattori della
dichiarazione e, in concorso, chi ha assistito l’imprenditore nella redazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi
e l’IVA.
Questa normativa è rinvenibile anche un lustro dopo: il riferimento è al D.L. n. 98/2011, convertito dalla L. n. 111/2011, il
cui articolo 24 comma 29 continua a distinguere nettamente
l’evasione dall’elusione fiscale.
In buona sostanza la sentenza si fonda sull’equivoco consistente nell’accomunare le condotte di evasione commesse tramite
l’interposizione fittizia di soggetti all’elusione quale strumento
di ottimizzazione fiscale.
Il pericolo che si insidia nella pronuncia è che la stessa possa – come in concreto sta già avvenendo – ingenerare capi
di imputazione in ipotesi nelle quali fino ad oggi anche il consulente escludeva con serenità la rilevanza sanzionatoria delle
operazioni.
Infatti è la stessa pronuncia della Cassazione che, evocando la
giurisprudenza di legittimità intervenuta in materia, deve am-
Il concorso del consulente nel reato dichiarativo, ascritto ai
legali rappresentanti delle società che hanno sottoscritto le
dichiarazioni, comporterà in primo luogo almeno la dimostrazione che questi fosse a conoscenza delle diverse modalità seguite quanto al trattamento contabile riservato in bilancio alle
rilevanti operazioni e, soprattutto, quanto alla rilevazione delle
medesime nelle dichiarazioni fiscali.
Questa considerazione vale ad escludere la responsabilità penale del professionista che, pur avendo consigliato e “architettato” l’operazione, sia stato estraneo all’ultima fase della materiale redazione della dichiarazione che, come noto, avviene a
distanza di molti mesi dalla realizzazione dell’operazione.
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Novità fiscali / n.9 / settembre 2013
Vi è poi da chiedersi se i molti procedimenti in corso nei quali inevitabilmente i Pubblici Ministeri insisteranno per l’applicazione estensiva dei principi contenuti nella sentenza n.
7739/2012 non siano tutti destinati ad abortire qualora entri rapidamente in vigore la riforma fiscale di cui al Disegno
di Legge delega 16 aprile 2012 contenente “Disposizioni per la
revisione del sistema fiscale”. L’articolo 6 prevede infatti l’esclusione della rilevanza penale dei comportamenti ascrivibili a fattispecie abusive, mentre l’articolo 9, nel prevedere la “revisione del
sistema sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e
proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti” espressamente esclude “la rilevanza penale per i comportamenti ascrivibili
all’elusione fiscale”.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://image.excite.it/lui/news/119060038-default.jpg [25.09.2013]
http://w w w.direttanews .it/wp-content/uploads/cassazione.jpg
[25.09.2013]
http://m2.paperblog.com/i/146/1466485/dolce-e-gabbana-processo-il3-dicembre-L-gMbG6G.jpeg [25.09.2013]
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L’imposizione delle partecipazioni di collaboratore
Analisi delle conseguenze fiscali per datore di lavoro
e dipendenti secondo il diritto federale e cantonale
ticinese, italiano e il Modello OCSE
Luogo
Sala Aragonite
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CH-6928 Manno
Data e orario
Giovedì 17 ottobre 2013
14.00-18.00
Il 22 luglio 2013 l’Amministrazione federale delle contribuzioni
ha pubblicato la Circolare n. 37 sull’imposizione delle partecipazioni di collaboratore. Questo importante documento di prassi
fornisce quindi lo spunto per affrontare il tema del trattamento
fiscale delle partecipazioni di collaboratore. Verranno esaminati
i motivi che portano alla realizzazione dei piani di partecipazione, i principali aspetti legali (diritto del lavoro e diritto societario svizzero), l’imposizione delle partecipazioni di collaboratori
(azioni, opzioni e aspettative) nel diritto federale e cantonale
ticinese, nel diritto italiano e nel Modello OCSE di Convenzione
fiscale. Infine, oltre ad essere spiegati quali sono gli obblighi di
collaborazione e di attestazione che incombono al datore di lavoro e ai contribuenti, si analizzeranno le condizioni necessarie
per ottenere un ruling con l’autorità fiscale.
Il 1. gennaio di quest’anno sono entrate in vigore delle nuove disposizioni che disciplinano l’imposizione delle
partecipazioni di collaboratore nell’ordinamento tributario federale e cantonale ticinese. Per garantire la certezza
del diritto e l’attrattiva della Svizzera,
il legislatore federale ha elaborato un
quadro normativo per definire il trattamento fiscale al quale il contribuente
è sottoposto quando ottiene dei vantaggi valutabili in denaro risultanti dalle
partecipazioni di collaboratore, soprattutto nel caso di azioni e opzioni di collaboratore, libere o bloccate, quotate
in borsa o non. Parimenti sono stati
chiariti, attraverso un’ordinanza federale, gli obblighi di collaborazione e di
attestazione sia per il datore di lavoro
sia per il dipendente. Si segnala in particolare la recente Circolare n. 37, del 22
luglio 2013, con cui l’Amministrazione
federale delle contribuzioni ha preso
posizione sulla nuova disciplina fiscale.
Durante il pomeriggio di studio, si illustreranno i principi riguardanti la mo-
tivazione e la realizzazione di piani di
partecipazione. Alla base delle partecipazioni di collaboratore ci sono decisioni societarie prese dall’organo competente, i relativi regolamenti validi per
tutti i collaboratori che partecipano e
i contratti di lavoro dei singoli collaboratori. A seconda del tipo di piano di
partecipazione (azioni, opzioni, aspettative, phantom shares), la sua realizzazione ha delle conseguenze molto
differenti a livello societario (ad esempio, un aumento del capitale sociale) e
per quanto concerne i diritti dei collaboratori. Si analizzeranno i principali
aspetti legali (diritto del lavoro e diritto
societario svizzero). In seguito verranno messi a confronto le modalità d’imposizione delle partecipazioni di collaboratori nel diritto tributario svizzero
ed italiano, nonché le regole contenute
nel Modello OCSE di Convenzione fiscale bilaterale. La scelta di considerare gli aspetti di diritto fiscale italiano
è principalmente dettata dal fatto che
molti dipendenti hanno il loro domici-
lio in Italia. Inoltre si darà importanza
sia ai nuovi obblighi di attestazione e di
comunicazione precisati dall’Ordinanza federale sulle partecipazioni di collaboratore del 27 giugno 2012, sia alla
documentazione che il datore di lavoro
dovrebbe presentare all’autorità fiscale
al fine di ottenere una decisione preliminare (cd. ruling fiscale).
Programma e relatori
La motivazione e la realizzazione
dei piani di partecipazione
Giordano Macchi
Vicedirettore della Divisione
delle contribuzioni, Bellinzona
Partecipazioni di collaboratore - aspetti
legali (diritto del lavoro e diritto societario svizzero)
Massimo Calderan
ALTENBURGER LTD legal + tax, Zurigo
e Ginevra
L’imposizione delle partecipazioni
di collaboratori nel diritto italiano e nel
Modello OCSE di Convenzione fiscale
Roberto Franzè
Professore aggregato di Diritto tributario
nell’Università della Valle d’Aosta
L’imposizione delle partecipazioni di
collaboratori nel diritto federale e cantonale ticinese
Denise Pagani Zambelli
Avvocato, Master of Advanced Studies
SUPSI in Tax Law, Fidinam & Partners SA,
Lugano
Gli obblighi di collaborazione
e di attestazione del datore di lavoro
e dei contribuenti; il ruling fiscale
Vanessa Mauri-Bouakkaz
Specialista in finanza e controlling,
Esperta fiscale dipl., Funzionaria presso la
Divisione delle contribuzioni, Bellinzona
Destinatari
Fiduciari, commercialisti, avvocati
e notai, consulenti fiscali, consulenti
bancari e assicurativi, dirigenti
aziendali, collaboratori attivi nel settore
fiscale di aziende pubbliche e private,
persone interessate alla fiscalità
Luogo
Sala Aragonite
Via ai Boschetti
CH-6928 Manno
Data e orario
Giovedì 17 ottobre 2013
14.00-18.00
Termine di iscrizione
Entro lunedì 14 ottobre 2013
Costo
CHF 350.–
Rinunce
Nel caso in cui il partecipante rinunci
al corso, la fattura inerente la quota
di iscrizione sarà annullata a condizione
che la rinuncia sia presentata entro
il termine d’iscrizione
Chi fosse impossibilitato a partecipare
può proporre un’altra persona previa
comunicazione a SUPSI e accettazione
da parte del responsabile
Attestato di frequenza
Il rilascio dell’attestato di frequenza
avviene solo su richiesta del partecipante
Informazioni amministrative
SUPSI
Centro competenze tributarie
www.supsi.ch/fisco
[email protected]
se
m
in
ar
io
La previdenza professionale e la pianificazione fiscale
Esame delle indennità in capitale versate dal datore
di lavoro, del prelevamento in capitale negli anni successivi
al riscatto, della cessazione dell’attività lucrativa
indipendente e della giusta determinazione del salario
e del dividendo
Luogo
Centroeventi
Via Industria, 2
CH-6814 Cadempino
Data e orario
Lunedì 2 dicembre 2013
14.00-17.30
L’obiettivo del seminario sarà di analizzare i seguenti quesiti in
ambito di previdenza professionale: qual è il trattamento fiscale
applicabile al versamento delle indennità in capitale in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro? Qual è la giurisprudenza ticinese sulla possibilità di prelevare l’avere previdenziale sotto
forma di capitale? Quali sono gli aspetti fiscali legati alla cessazione dell’attività lucrativa indipendente dopo il compimento dei 55
anni? E infine: è meglio elargire un salario oppure un dividendo per
l’azionista-dipendente dopo che è stata introdotta l’attenuazione
della doppia imposizione economica?
Il seminario del Centro di competenze tributarie della SUPSI si propone di affrontare alcuni temi la cui fiscalità costituisce un elemento di grande importanza per la consulenza in
ambito di previdenza professionale. Un primo
tema è quello relativo al trattamento fiscale
applicabile quando vengono versate da parte
del datore di lavoro delle indennità in capitale
in caso di cessazione anticipata del rapporto
di lavoro. Verrà dunque esaminata la prassi
dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) sulla base della circolare del 3 ottobre 2002 che è stata, tra l’altro, relativizzata
da una sentenza del Tribunale federale del 19
agosto 2010, dove si è stabilito che il criterio
dell’età non è assoluto, come invece previsto
dalla circolare.
Successivamente si darà spazio alla giurisprudenza della Camera di diritto tributario del
Tribunale d’Appello del Cantone Ticino che si è
occupata di esaminare la condizione (antielusiva) stabilita dalla prima frase dell’art. 79 cpv.
3 LPP, secondo la quale le prestazioni risultanti dal riscatto non possono essere versate sotto forma di capitale dagli istituti di previdenza
prima della scadenza di un termine di tre anni.
Sempre in ambito di previdenza, è opportuno
approfondire gli aspetti fiscali riguardanti i casi
in cui vi è una cessazione dell’attività lucrativa
indipendente dopo il compimento dei 55 anni o
per incapacità di esercitare tale attività in seguito a invalidità. Con la Riforma II delle imprese è
stata infatti introdotta la possibilità di ottenere
una tassazione agevolata sugli utili di liquidazione, nonché di dedurre dall’utile i riscatti in un
istituto di previdenza nell’anno di liquidazione e
nell’anno precedente. Anche in questo caso verrà esaminata la prassi dell’AFC sulla base della
circolare del 3 novembre 2010.
L’ultimo tema in agenda concerne gli aspetti di
pianificazione fiscale e previdenziale per i dipendenti-azionisti di una società di capitali. Con l’attenuazione della doppia imposizione economica,
in generale, è diventato più vantaggioso ricevere un dividendo elevato ed un salario basso. Un
comportamento di questo tipo ha degli effetti
tutto sommato limitati per le entrate fiscali, ma
ha un effetto deleterio per le assicurazioni sociali, nonché per la copertura previdenziale del
dipendente-azionista. Si esaminerà quindi quando un salario è da ritenersi adeguato sulla base
delle direttive delle assicurazioni sociali.
Programma e relatori
Il trattamento fiscale dell’indennità di
partenza e della liquidazione in capitale versate dal datore di lavoro
Cinzia Lucidi Paglia
Avvocato, Ufficio giuridico Divisione
delle contribuzioni del Cantone Ticino
Sviluppi giurisprudenziali in ambito
fiscale sul prelevamento dell’avere
previdenziale sotto forma di capitale
Andrea Pedroli
Dottore in giurisprudenza, presidente
della Camera di diritto tributario del
Tribunale d’appello del Canton Ticino
Rocco Filippini
Avvocato, Master of Advanced Studies
SUPSI in Tax Law, vicecancelliere della
Camera di diritto tributario del Tribunale d’appello del Canton Ticino
Il trattamento fiscale in caso di cessazione dell’attività lucrativa indipendente dopo il compimento dei 55
anni o per incapacità di esercitare tale
attività in seguito a invalidità
Norberto Bernardoni
Già vicedirettore della Divisione delle
contribuzioni del Cantone Ticino
La giusta determinazione del salario e
del dividendo per l’azionista-dipendente
Raoul Paglia
Master of Science in Economics,
Università di Losanna , Master of
Advanced Studies SUPSI in Tax Law,
Amco Fiduciaria SA, Faido-Lugano
Destinatari
Fiduciari, commercialisti, avvocati
e notai, consulenti fiscali, consulenti
bancari e assicurativi, dirigenti
aziendali, collaboratori attivi nel settore
fiscale di aziende pubbliche e private,
persone interessate alla fiscalità
Luogo
Centroeventi
Via Industria, 2
CH-6814 Cadempino
Data e orario
Lunedì 2 dicembre 2013
14.00-17.30
Termine di iscrizione
Entro giovedì 28 novembre 2013
Costo
CHF 350.–
Rinunce
Nel caso in cui il partecipante rinunci
al corso, la fattura inerente la quota
di iscrizione sarà annullata a condizione
che la rinuncia sia presentata entro
il termine d’iscrizione
Chi fosse impossibilitato a partecipare
può proporre un’altra persona previa
comunicazione a SUPSI e accettazione
da parte del responsabile
Attestato di frequenza
Il rilascio dell’attestato di frequenza
avviene solo su richiesta del partecipante
Informazioni amministrative
SUPSI
Centro competenze tributarie
www.supsi.ch/fisco
[email protected]
Fondamenti di diritto tributario
Effetti del rapporto fiscale su terzi
Saranno trattate quelle situazioni in cui i diritti e gli obblighi originati dal rapporto fiscale hanno effetto su terzi. Dopo una breve panoramica sugli elementi costitutivi del
rapporto fiscale, saranno approfonditi - con l’aiuto di esempi pratici - i casi di sostituzione fiscale, di successione fiscale, e di responsabilità solidale contemplati nella legislazione tributaria svizzera. Infine, sarà riservato un particolare capitolo al cosiddetto
regresso fiscale.
Programma
Rapporto fiscale
Partecipazione di terzi al rapporto
fiscale
Sostituzione fiscale
Responsabilità solidale
Successione fiscale
Regresso fiscale
Destinatari
Fiduciari, commercialisti, avvocati,
consulenti fiscali, consulenti bancari
e assicurativi, dirigenti aziendali,
collaboratori attivi nel settore fiscale
di aziende pubbliche e private,
persone interessate alla fiscalità
Docente
Sebastian Mascetti, avvocato e notaio;
giurista presso l’Ufficio giuridico
della Divisione delle contribuzioni
del Cantone Ticino
Luogo
SUPSI
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Palazzo A
CH-6928 Manno
Data e orario
Sabato 19 ottobre 2013
8.30-12.00
Iscrizioni
Entro venerdì 11 ottobre 2013
Il numero di posti
è limitato a 30 partecipanti
Costo
CHF 200.–
Informazioni amministrative
SUPSI
Centro competenze tributarie
www.supsi.ch/tax-law
[email protected]
Il diritto delle Convenzioni contro le doppie imposizioni
sul reddito e sulla sostanza
Approfondimenti in tema di applicazione
delle Convenzioni
In questo modulo si tratteranno vari temi inerenti l’applicazione delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Si illustreranno le regole che governano gli accordi societari sotto forma di partnership nel contesto internazionale e gli aspetti fiscali
dei veicoli di investimento collettivo e dei gruppi societari in base al Modello di Convenzione OCSE. Nel corso verranno inoltre presentate le misure atte ad impedire gli abusi
nell’utilizzo di Convenzioni, previste dal Decreto del Consiglio federale del 1962 e dalle
Convenzioni con Italia, Francia, Belgio e USA. Si forniranno anche ai partecipanti le nozioni fiscali applicabili ai lavoratori frontalieri. Verrà poi approfondita la tematica dell’esistenza o meno di una stabile organizzazione, avendo particolare riguardo alla prassi e
alla giurisprudenza italiana, come pure i principi che sottendono alla determinazione del
reddito delle stabili organizzazioni estere di società svizzere, secondo il diritto tributario
svizzero e infine gli effetti pratici derivanti dall’applicazione delle Convenzioni concluse
dalla Svizzera sull'imposizione dei dividendi, interessi e royalties.
Programma
Applicazione delle Convenzioni a partnerships, collective investment vehicles
e group taxation nel Modello OCSE
Le norme anti-abuso previste nel diritto
interno svizzero e nelle Convenzioni
contro le doppie imposizioni sul reddito
e la sostanza
L’Accordo sui frontalieri tra Svizzera
e Italia
L’esistenza di una stabile organizzazione nella prassi e giurisprudenza italiana
L’imposizione di una stabile organizzazione estera secondo il diritto svizzero
Gli effetti dei trattati sull’imposizione
(illimitata e limitata) dei dividendi,
degli interessi e delle royalties secondo
il diritto svizzero
Destinatari
Fiduciari, commercialisti, avvocati,
consulenti fiscali, consulenti bancari
e assicurativi, dirigenti aziendali,
collaboratori attivi nel settore fiscale
di aziende pubbliche e private,
persone interessate alla fiscalità
Docenti
Pierpaolo Angelucci, Dottore commercialista, Studio Scarioni Angelucci, Milano
Sarah Protti Salmina, Esperto fiscale dipl.
fed.; MAS LCE; Esperto revisore abilitato - Studio legale e notarile OlgiatiGhiringhelli & Associati, Lugano
Marco Bernasconi, Docente nella Facoltà
di diritto dell’Università di Lucerna
Francesco Avella, Dottore commercialista, Studio Maisto e Associati, Milano
Massimo Bianchi, esperto fiscale diplomato; titolare di uno studio di consulenza fiscale a Lugano
Luogo
SUPSI
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Palazzo A
CH-6928 Manno
Date e orari
Venerdì 18 ottobre 2013
13.30-17.00
Sabato 9 novembre 2013
8.30-12.00
Venerdì 22 novembre 2013
8.30-17.00
Iscrizioni
Entro venerdì 11 ottobre 2013
Il numero di posti
è limitato a 30 partecipanti
Costo
CHF 800.–
Informazioni amministrative
SUPSI
Centro competenze tributarie
www.supsi.ch/tax-law
[email protected]
Offerta formativa
Iscrizione ai corsi di diritto tributario
Sì, mi iscrivo al seguente corso:
Seminari
Fondamenti di diritto tributario
□ L'imposizione delle partecipazioni
□ Effetti del rapporto fiscale su terzi
di collaboratore
Il diritto delle Convenzioni
contro le doppie imposizioni
sul reddito e sulla sostanza
□ Approfondimenti in tema
□ La previdenza professionale
di applicazione delle Convenzioni
e la pianificazione fiscale
Dati personali
NomeCognome
TelefonoE-mail
Indicare l’indirizzo per l’invio delle comunicazioni e l’addebito della tassa di iscrizione
Azienda/Ente
Via e N.
NAP Località
DataFirma
Termine di iscrizione
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CH-6928 Manno
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+41 (0)58 666 61 76
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