Da: Rousseau, Il contratto sociale

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Rassegna telematica 2008
Libertà e uguaglianza.
Scrive Hans Kelsen, nel saggio del 1920 “Essenza e valore della democrazia”, che ciò che
caratterizza la democrazia è la sintesi dei due principi di libertà e uguaglianza.
I passi che proponiamo, che possono venir confrontati e collegati, si riferiscono appunto ad alcune
fondamentali analisi di autori classici del pensiero politico sul problema della libertà e
dell’uguaglianza.
Rousseau. Patto sociale e sovranità.
Nel Contratto sociale, Jean-Jacques Rousseau, oltre a richiamarci ai rapporti tra libertà e
uguaglianza - in quanto l’idea dell’uguaglianza tra gli uomini costituisce la base stessa dell’esigenza
della libertà - ci introduce anche ai diversi significati da attribuire alla libertà e all’uguaglianza in
considerazione del patto sociale, che porta a distinguere nettamente la condizione di indipendenza
naturale dalla condizione civile.
Constant. La libertà dei moderni e la sua difesa contro le varie forme di dispotismo.
Il problema dei limiti del potere sovrano, già affrontato da Rousseau, viene ripreso da Benjamin
Constant, che, critico nei confronti della soluzione rousseauiana, in nome dell’indipendenza
individuale, afferma l’esigenza che anche la sovranità del popolo sia limitata, se si vogliono evitare
forme di usurpazione.
Per Constant, la libertà dei moderni è diversa da quella degli antichi: mentre per gli antichi la libertà
consisteva nell’esercizio collettivo e diretto della sovranità, compatibile con un completo
assoggettamento degli individui all’autorità, la libertà dei moderni consiste nella libertà individuale
e nello spazio riservato alla ricerca dei propri interessi privati, e la libertà politica deve essere la
garanzia di questa libertà individuale.
Tocqueville. Libertà e uguaglianza nella democrazia. L’individualismo e il pericolo di un nuovo
dispotismo.
L’individualismo è una caratteristica della democrazia moderna. Esso si sviluppa, secondo Alexis
de Tocqueville, parallelamente allo sviluppo dell’eguaglianza, e porta gli uomini ad isolarsi, per
impegnarsi nelle loro faccende private. Questa situazione favorisce il concentramento del potere e
fa presagire l’affermazione di un tipo nuovo di dispotismo, che può anche coesistere con le forme
esteriori della democrazia, cioè con le elezioni.
J.S. Mill. La difesa della libertà contro la tirannia della società.
John Stuart Mill, dopo aver ripercorso le tappe che ha attraversato la lotta tra autorità e libertà,
evidenzia il fatto che, per l’affermazione della libertà, la protezione contro la tirannia del potere
politico non basta; è necessaria anche la protezione contro la tirannia della società, che tende ad
imporre le proprie opinioni come regole di condotta anche a chi con esse non concorda, e dunque a
costringere tutti a conformarsi al suo modello. John Stuart Mill ritiene che la pubblica opinione è
legittimata a interferire sull’indipendenza individuale solo nel caso esista la possibilità di danni agli
altri, e che l’indipendenza dell’individuo, nella parte che riguarda solo se stesso, il proprio corpo e
la propria mente, deve essere assoluta.
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Rassegna telematica 2008
Da: Rousseau, Il contratto sociale (1762)
(da: Libro I cap. VI, Il patto sociale. )
“Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di
ciascun associato, e attraverso la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e
resti tanto libero quanto lo era prima”. Questo è il problema fondamentale del quale il contratto sociale
fornisce la soluzione.
Le clausole di questo contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto che la sia pur minima
modificazione le renderebbe vane e prive di effetto; tanto che, benché forse non siano mai state formalmente
enunciate, esse sono dappertutto le stesse, dappertutto tacitamente ammesse e riconosciute […]
Queste clausole, se ben capite, si riducono tutte ad una sola, cioè l’alienazione totale di ciascun associato,
con tutti i suoi diritti, in favore di tutta la comunità […]
Inoltre, dal momento che l’alienazione viene fatta senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile e nessun
associato ha qualcosa da rivendicare: infatti, se rimanessero alcuni diritti ai singoli, dal momento che non ci
sarebbe un superiore comune in grado di giudicare tra loro e il pubblico, ciascuno, essendo il suo proprio
giudice in qualche cosa, pretenderebbe poi di esserlo su tutto; continuerebbe così ad esistere lo stato di natura
e l’associazione diventerebbe necessariamente o tirannica o inutile […]
Se dunque si scarta dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza, si troverà che esso si riduce ai
seguenti termini: “ Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema
direzione della volontà generale; e noi accogliamo ne corpo politico ciascun membro come parte indivisibile
del tutto”.
Immediatamente, invece della persona particolare di ciascun contraente, questo atto di associazione produce
un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, ed esso riceve da
questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica che si
forma in questo modo attraverso l’unione di tutte le altre aveva un tempo il nome di Città, ed assume ora
quello di Repubblica o di corpo politico, ed è chiamata dai suoi membri Stato quando è passivo, Sovrano
quando è attivo […]
(da: Libro I cap. VIII, Lo stato civile)
Quel che l’uomo perde con il contratto sociale è la sua libertà naturale ed un diritto illimitato a tutto ciò che
lo attrae e che egli è in grado di raggiungere; quel che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò
che possiede. Per non sbagliarsi su queste compensazioni, bisogna distinguere bene la libertà naturale, che
non ha altri limiti se non le forze dell’individuo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà generale, e il
possesso, che è soltanto la conseguenza della forza o il diritto del primo occupante, dalla proprietà, che non
può che fondarsi su un titolo positivo.
Si potrebbe, inoltre, aggiungere all’acquisizione dello stato civile la libertà morale, che sola rende l’uomo
veramente padrone di sé; infatti l’impulso del solo appetito è schiavitù, mentre la libertà è l’obbedienza alla
legge che ci si è dati. Ma ho già detto fin troppo su questo punto, e il senso filosofico della parola libertà non
rientra qui nel mio tema. […]
(Da:Libro II cap. IV, I limiti del potere sovrano.)
Così come la natura dà ad ogni uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, il patto sociale conferisce al
corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi membri, ed è questo stesso potere che, diretto dalla volontà
generale, porta, come già detto, il nome di sovranità.
Ma, oltre alla persona pubblica, noi dobbiamo considerare le persone private che la costituiscono, la cui vita
e la cui libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Si tratta dunque di distinguere bene i diritti rispettivi
dei Cittadini e del Sovrano, e i doveri cui devono adempiere i primi in quanto sudditi, dal diritto naturale che
devono godere in quanto uomini.
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Si riconosce che tutto ciò che ogni uomo aliena col patto sociale, del suo potere, dei suoi beni, della sua
libertà, è soltanto la parte di tutto ciò il ci uso è importante per la comunità, ma bisogna anche riconoscere
che il Sovrano è il solo giudice di questa importanza […]
Da qualsiasi parte si risalga al principio, si arriva sempre alla stessa conclusione, cioè che il patto sociale
istituisce tra i Cittadini una eguaglianza tale che essi si impegnano tutti alle medesime condizioni, e devono
godere tutti degli stessi diritti […]
Cos’è dunque propriamente un atto di sovranità? Non è una convenzione di un superiore con un inferiore, ma
una convenzione di un corpo politico con ciascuno dei suoi membri. Convenzione legittima, perché essa ha
come base il contratto sociale, equa, perché comune a tutti, utile, perché essa non può avere altro oggetto che
il bene generale, e solida, perché ha come garante la forza pubblica e il potere supremo. Fintanto che i sudditi
non sono sottoposti che a convenzioni di questo genere, essi non obbediscono a nessuno, ma solo alla propria
volontà; e chiedere fino a che punto si estendano i diritti rispettivi del Sovrano e dei Cittadini, equivale a
chiedersi fino a che punto questi ultimi si possono impegnare con se stessi, ciascuno nei confronti di tutti e
tutti nei confronti di ciascuno di loro.
Con ciò diventa evidente che il potere Sovrano, per quanto esso sia assoluto, sacro, inviolabile, non
oltrepassa, né può oltrepassare, i limiti delle convenzioni generali, e che ogni uomo può disporre pienamente
di ciò che gli è stato lasciato, con le convenzioni, dei suoi beni e della sua libertà; cosicché il Sovrano non
ha mai il diritto di imporre oneri maggiori ad un suddito rispetto ad un altro, perché in tal caso, la questione
diventando privata, il suo potere non è più competente.
Una volta ammesse queste distinzioni, che nel contratto sociale ci sia da parte dei privati qualche vera
rinuncia è talmente falso, che la loro situazione, per effetto di questo contratto, si trova realmente preferibile
a quella che era prima, e che, invece di una alienazione, hanno fatto solo uno scambio vantaggioso tra un
modo di essere incerto e precario ed un altro migliore e più sicuro, tra l’indipendenza naturale e la libertà, tra
il potere di nuocere ad altri e la propria sicurezza, tra la loro forza che altri potevano superare ed un diritto
che l’unione sociale rende invincibile.
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Da: Benjamin Constant, Principi di politica. Capitolo I. La sovranità del popolo (1815)
La nostra attuale costituzione riconosce formalmente il principio della sovranità del popolo, cioè la
superemazia della volontà generale su ogni volontà particolare. Questo principio, in effetti, non può essere
contestato. […]
Ma se si riconoscono i diritti di questa volontà, cioè della sovranità del popolo, è contemporaneamente
necessario, ed è urgente, conoscerne bene la natura e determinarne bene l’estensione. In mancanza di una
definizione esatta e precisa, il trionfo della teoria potrebbe diventare, nell’applicazione, una calamità. Il
riconoscimento astratto della sovranità del popolo non aumenta per niente la somma di libertà degli
individui; e se si attribuisce a questa sovranità un’ampiezza che essa non deve avere, la libertà può essere
persa nonostante questo principio, o addirittura attraverso questo principio. […]
Quando si stabilisce che la sovranità del popolo è illimitata, si crea e si fa dipendere dal caso, nella società
umana, un grado di potere troppo grande in se stesso, e che è un male in qualsiasi mano lo si metta.
Affidatelo ad uno solo, ad alcuni, a tutti, lo troverete comunque un male. Ve la prenderete con i depositari di
questo potere e, secondo le circostanze, accuserete di volta in volta la monarchia, l’aristocrazia, la
democrazia, i governi misti, il sistema rappresentativo. Avrete torto; è il grado di forza, e non sono i
depositari di questa forza, che bisogna mettere sotto accusa. E’ l’arma, e non il braccio, che bisogna
reprimere. Ci sono masse troppo pesanti per la mano dell’uomo. […]
L’universalità dei cittadini è il sovrano nel senso che nessun individuo, nessuna frazione, nessuna
associazione parziale può arrogarsi la sovranità, se essa non le è stata delegata. Ma non ne consegue che
l’universalità dei cittadini, o coloro che da essa sono investiti della sovranità, possano disporre sovranamente
dell’esistenza degli individui. C’è al contrario una parte dell’esistenza umana che, necessariamente, resta
individuale e indipendente, e che resta di diritto al di fuori di ogni competenza sociale.
La sovranità non esiste che in modo limitato e relativo. Dove cominciano l’indipendenza e l’esistenza degli
individui, si arresta la giurisdizione di tale sovranità. Se la società oltrepassa questo limite, essa si rende
colpevole quanto il despota che non ha come titolo che la spada sterminatrice; la società non può andare al di
là della sua competenza, senza essere usurpatrice, la maggioranza, senza essere faziosa.
Il consenso della maggioranza non è affatto sufficiente, in tutti i casi, per legittimare i suoi atti: ne esistono
alcuni che nulla può rendere legittimi; quando una qualsiasi autorità commette atti di questo tipo, poco
importa da quale fonte si dica emanata, poco importa che si chiami individuo o nazione; fosse anche la
nazione intera, meno il cittadino che essa opprime, non sarebbe legittima. […]
Nessuna organizzazione politica può evitare questo pericolo. Potete ben dividere i poteri: se la somma totale
del potere è illimitata, i poteri divisi devono solo formare una coalizione, e il dispotismo sarà senza rimedio.
Quel che ci importa non è che i nostri diritti non possano essere violati da un potere senza l’approvazione di
un altro potere, ma che questa violazione sia proibita a tutti i poteri. Non basta che i funzionari dell’esecutivo
abbiano bisogno di richiedere l’autorizzazione del legislatore, occorre che il legislatore non possa autorizzare
la loro azione che nella loro sfera legittima. E’ poca cosa che il potere esecutivo non abbia il diritto di agire
senza il concorso di una legge, se non si mettono dei limiti a questo concorso, se non si dichiara che ci sono
delle materie sulle quali il legislatore non ha il diritto di fare una legge, o, in altri termini, che la sovranità è
limitata, e che ci sono delle volontà che né il popolo, né i suoi delegati hanno il diritto di avere. […]
I cittadini hanno dei diritti individuali indipendenti da ogni autorità sociale o politica, e ogni autorità che
violi tali diritti diventa illegittima. I diritti dei cittadini sono la libertà individuale, la libertà religiosa, la
libertà di opinione, che ne comprende la pubblicità, il godimento della proprietà, la garanzia contro ogni
arbitrio. Nessuna autorità può attentare a questi diritti senza distruggere il proprio titolo.
Poiché la sovranità del popolo non è illimitata e la sua volontà non basta a legittimare tutto ciò che vuole,
l’autorità della legge, che non è altro se non l’espressione vera o presunta di questa volontà, non è, nemmeno
essa, senza limiti. […]
Racchiudendo la sovranità del popolo entro i suoi giusti limiti, non avete più nulla da temere; voi sottraete al
dispotismo, tanto degli individui quanto delle assemblee, la legittimazione apparente, che esso ritiene di
attingere da un consenso che esso stesso impone, poiché dimostrate che tale consenso, posto che sia reale,
non ha il potere di legittimare nulla.
Il popolo non ha il diritto di colpire un solo innocente, né di trattare come colpevole un solo accusato, senza
prove legali. Non può dunque delegare tale diritto a nessuno. Il popolo non ha il diritto di attentare alla
libertà di opinione, alla libertà religiosa, alle salvaguardie giudiziarie, alle forma protettrici. Nessun despota,
nessuna assemblea, può dunque esercitare un simile diritto dicendo che il popolo glielo ha conferito. Ogni
dispotismo è dunque illegale; niente lo può legittimare, nemmeno la volontà popolare che esso adduce.
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Infatti esso si arroga, in nome della sovranità del popolo, un potere che non è compreso in questa sovranità, e
ciò non è soltanto il trasferimento irregolare del potere che esiste, ma la creazione di un potere che non deve
esistere.
Da: Benjamin Constant, Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni. [Discorso
pronunciato all’Athénée royal di Parigi. (1819)]
Signori, chiedetevi anzitutto cosa ai nostri giorni un inglese, un francese o un abitante degli Stati Uniti
d’America intendano con la parola libertà.
E’ per tutti il diritto di non essere sottomessi che alle leggi, di non poter venire né arrestati, né detenuti, né
condannati a morte, né maltrattati in alcun modo per effetto della volontà di uno o più individui: è per
ciascuno il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere la sua occupazione, di esercitarla, di disporre
della sua proprietà, e perfino di abusarne; di andare e venire senza doverne ottenere l’autorizzazione e senza
rendere conto delle proprie motivazioni e delle proprie mosse. E’ per ciascuno il diritto di riunirsi con altri
individui sia per parlare dei propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi soci preferiscono, sia
semplicemente per passare le proprie giornate o le proprie ore in modo più conforme alle proprie inclinazioni
e alle proprie fantasie. E finalmente è il diritto per ciascuno di influire sull’amministrazione del Governo sia
attraverso la nomina di tutti o di alcuni funzionari, sia attraverso delle rappresentanze, delle petizioni, delle
domande, che l’autorità è più o meno obbligata a prendere in considerazione. Confrontate ora a questa libertà
quella degli antichi.
Essa consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, più parti dell’intera sovranità, nel deliberare
sulla pubblica piazza sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri dei trattati di alleanza, nel
votare le leggi, nel pronunciare i giudizi, nell’esaminare i conti, gli atti, la gestione dei magistrati, nel farli
comparire davanti a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o nell’assolverli; ma nello
stesso momento in cui questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ammettevano come compatibile
con tale libertà collettiva il completo assoggettamento dell’individuo all’autorità dell’insieme. Voi non
troverete presso gli antichi quasi nessuno dei benefici che abbiamo appena visto far parte della libertà dei
moderni. Lì, tutte le azioni private sono sottomesse ad una severa sorveglianza. Nulla è concesso
all’indipendenza individuale, né i materia di opinioni, né in materia di lavoro, né soprattutto in materia di
religione. […]
Le leggi regolano i costumi, e poiché i costumi riguardano tutto, non vi è niente che le leggi non regolino.
Così presso gli antichi l’individuo, quasi sempre sovrano nelle cose pubbliche, è schiavo in tutti i rapporti
privati. […]
Il fine degli antichi era la condivisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo
che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei loro godimenti privati. Ed essi chiamano
libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a tali godimenti. […]
La libertà individuale, ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà
politica di conseguenza è indispensabile. […]
Che il potere dunque si rassegni; abbiamo bisogno della libertà e l’avremo; ma poiché la libertà di cui
abbiamo bisogno è diversa da quella degli antichi, occorre a questa libertà un’altra organizzazione rispetto a
quella che poteva essere adatta alla libertà antica; in essa, più tempo e forze l’uomo consacrava all’esercizio
dei suoi diritti politici, più si credeva libero; nel tipo di libertà che ci preme, più l’esercizio dei nostri diritti
politici ci lascerà tempo per i nostri interessi privati, più la libertà ci sarà preziosa.
Da ciò deriva la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo non è nient’altro che una
organizzazione grazie alla quale una nazione scarica su qualche individuo ciò che non può o non vuole fare
da se stessa. I poveri provvedono da se stessi alle proprie faccende: gli uomini ricchi assumono degli
intendenti; E’ la storia delle nazioni antiche e delle nazioni moderne; il sistema rappresentativo è una procura
data ad un certo numero di uomini dalla massa del popolo, che vuole che i suoi interessi siano difesi e che
tuttavia non ha il tempo per difenderli sempre da sé. Ma, a meno di essere insensati, gli uomini ricchi che
hanno degli intendenti esaminano con attenzione e severità se questi intendenti fanno il loro dovere, se non
sono né negligenti né corruttibili, né incapaci; e per giudicare la gestione di questi incaricati, i committenti
dotati di buon senso si tengono bene al corrente degli affari che hanno affidato loro da amministrare.
Ugualmente i popoli che, col fine di godere della libertà che desiderano, ricorrono al sistema rappresentativo,
devono esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro rappresentanti, e riservarsi, in periodi che non
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siano separati da intervalli troppo lunghi, il diritto di scartarli se hanno sbagliato rispetto ai loro desideri, e di
revocare i poteri di cui avessero abusato.
Infatti, poiché la liberà moderna differisce dalla libertà antica, ne consegue che essa è anche minacciata da un
pericolo di natura differente.
Il pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti unicamente ad assicurarsi la condivisione del potere
sociale, rinunciassero troppo facilmente ai diritti e ai piaceri individuali.
Il pericolo della libertà moderna è che noi, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nella
ricerca dei nostri interessi particolari, rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipazione al
potere politico.
I depositari dell’autorità non mancano di esortarci a ciò. Sono disposti a risparmiarci tutti i tipi di pena,
tranne quella di obbedire e di pagare! Ci diranno: qual è in fondo il fine dei vostri sforzi, il motivo dei vostri
lavori, l’oggetto di tutte le vostre speranze? Non è la felicità? Ebbene, lasciateci fare, e noi questa felicità ve
la doneremo. No, signori, non lasciamo fare; per quanto sia commovente un così tenero interesse, preghiamo
l’autorità di restare entro i suoi limiti. Che si limiti ad essere giusta. Ci preoccuperemo noi di essere felici.
[…]
D’altra parte, Signori, è poi così vero che la felicità, di qualsiasi genere possa essere, sia l’unico fine della
specie umana? In tal caso, il nostro progresso sarebbe ben limitato e la nostra destinazione sarebbe ben poco
elevata. Non c’è nessuno di noi che, nel caso volesse discendere, restringere le sue facoltà morali, abbassare i
suoi desideri, abiurare l’attività, la gloria, le emozioni generose e profonde, potrebbe abbrutirsi ed essere
felice. No, Signori, io testimonio in favore di questa parte migliore della nostra natura, di questa nobile
inquietudine che ci stimola e ci tormenta, di questo desiderio di ampliare i lumi della nostra ragione e di
sviluppare le nostre facoltà; non è solo alla felicità, è al perfezionamento che il nostro destino ci chiama; e la
libertà politica è il mezzo di perfezionamento più potente e più forte che il cielo ci abbia donato.
La libertà politica, impegnando tutti i cittadini, senza eccezione, all’esame e allo studio dei loro interessi più
sacri, fa crescere il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra tutti loro una sorta di eguaglianza
intellettuale che costituisce la gloria e la potenza di un popolo. [ … ]
Lungi dunque, Signori, dal rinunciare ad una delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, bisogna, e l’ho
dimostrato, imparare a combinarle l’una con l’altra. […]
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Da : Alexis de Tocqueville , La Democrazia in America, Tomo II (1840)
(da: Tomo II, Parte II, Capitolo I. Perché i popoli democratici dimostrano un amore più ardente e più
duraturo per l’uguaglianza che per la libertà).
Si può immaginare un punto estremo in cui la libertà e l’uguaglianza si toccano e si confondono.
Suppongo che tutti i cittadini concorrano al governo e che ciascuno abbia un uguale diritto di concorrervi.
Poiché nessuno allora differirà dai suoi simili, nessuno potrà esercitare un potere tirannico; gli uomini
saranno perfettamente liberi, perché saranno tutti del tutto uguali; e saranno perfettamente uguali perché
saranno del tutto liberi. E’ verso questo ideale che tendono i popoli democratici.
Ecco la forma più completa che potrebbe assumere l’uguaglianza sulla terra; ma ce ne sono mille altre che,
senza essere così perfette, non sono certo meno care a questi popoli.
L’eguaglianza può affermarsi nella società civile, e non regnare affatto nel mondo politico. Si può avere il
diritto di darsi agli stessi piaceri, di entrare nelle stesse professioni, di incontrarsi negli stessi luoghi, in una
parola di vivere nello stesso modo e di perseguire la ricchezza con gli stessi mezzi, senza avere tutti la stessa
parte nel governo.
Una specie di eguaglianza si può anche stabilire nel mondo politico, benché la libertà politica non vi sia
affatto. Si è uguali a tutti i propri simili, meno uno, che è, senza distinzione, il padrone di tutti, e che assume
nello stesso modo, tra tutti, gli agenti del suo potere. […]
Benché gli uomini non possano divenire assolutamente uguali senza essere interamente liberi, e per
conseguenza l’eguaglianza, nel suo grado più estremo, si confonda con la libertà, si è dunque giustificati a
distinguere l’una dall’altra.
Il gusto che gli uomini hanno per la libertà e quello che provano per l’uguaglianza sono, in effetti, due cose
distinte, ed io non esito ad aggiungere che, presso i popoli democratici, sono due cose ineguali. […]
La libertà si è manifestata agli uomini in differenti periodi e sotto differenti forme; essa non si è affatto
connessa soltanto ad uno stato sociale, e la si incontra non soltanto nelle democrazie. Essa non potrebbe
dunque costituire il carattere distintivo dei secoli democratici.
Il fatto particolare e dominante che distingue questi secoli è l’uguaglianza delle condizioni; la passione
principale che muove gli uomini in questo tempo è l’amore di questa uguaglianza.
Non domandate quale singolare fascino trovano gli uomini dei tempi democratici nel vivere come uguali, né
le particolari ragioni che possono avere per affezionarsi tanto ostinatamente all’uguaglianza piuttosto che ad
altri beni che la società presenta loro: l’uguaglianza costituisce il carattere distintivo dell’epoca in cui
vivono; questo solo è sufficiente per spiegare che la preferiscano a tutto il resto. […]
Non si trovano uomini così limitati e così leggeri che non scoprano che la libertà politica può, nei suoi
eccessi, compromettere la tranquillità, il patrimonio, la vita dei privati. Sono solo, al contrario, le persone
attente e previdenti che percepiscono i pericoli che l’uguaglianza può comportare, e di solito evitano di
segnalarli. Esse sanno che le miserie che temono sono lontane e sperano che non colpiranno se non le
generazioni future, di cui la generazione presente non si preoccupa molto. I mali che la libertà apporta a volte
sono immediati; sono visibili a tutti, e tutti, più o meno, li avvertono. I mali che può produrre l’estrema
uguaglianza si manifestano solo a poco a poco; si insinuano gradualmente nel corpo sociale; non li si vede
che verso la fine e, nel momento in cui divengono più violenti, l’abitudine ha già operato in modo che non li
si avverta più.
I beni che la libertà procura non si mostrano che sul lungo periodo, ed è sempre facile disconoscere la causa
che li fa nascere.
I vantaggi dell’uguaglianza si fanno sentire fin dal presente, e ogni giorno li si vedono scaturire dalla loro
fonte. […]
Gli uomini non potrebbero godere della libertà politica senza acquistarla con qualche sacrificio, ed essi non
se ne impadroniscono mai se non con molti sforzi. Invece i piaceri che l’uguaglianza procura si offrono da se
stessi. Ogni piccolo evento della vita sembra farli nascere e, per gustarli, basta semplicemente vivere.
I popoli democratici amano l’uguaglianza in ogni tempo, ma ci sono certe epoche in cui essi spingono fino al
delirio la passione che avvertono per essa. Ciò si verifica nel momento in cui la precedente gerarchia sociale,
a lungo minacciata, porta a compimento la propria distruzione, in seguito ad un’ultima lotta intestina, e le
barriere che separavano i cittadini vengono finalmente rovesciate. Gli uomini si gettano allora
sull’uguaglianza come su una conquista e vi si aggrappano come a un bene prezioso che si voglia loro
strappare. La passione dell’uguaglianza penetra da ogni parte nel cuore umano, vi si espande e lo riempie
interamente. Non dite agli uomini che, dandosi in maniera tanto cieca ad una passione esclusiva,
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compromettono i loro interessi più cari; essi sono sordi. Non mostrate la libertà che sfugge loro dalle mani,
mentre stanno guardando altrove; essi sono ciechi, o piuttosto non scorgono in tutto l’universo che un solo
bene degno di essere desiderato.
(da: Tomo II, Parte II, Capitolo II. L’individualismo nei paesi democratici).
L’individualismo è un termine recente fatto nascere da un’idea nuova. I nostri padri non conoscevano che
l’egoismo.
L’egoismo è un amore appassionato ed esagerato di sé, che porta l’uomo a rapportare tutto soltanto a sé e a
preferirsi a tutto.
L’individualismo è un sentimento meditato e pacifico che induce ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei
suoi simili e a ritirarsi in un luogo appartato con la sua famiglia e i suoi amici; in questo modo, dopo essersi
così creato una piccola società a proprio uso, abbandona volentieri la grande società a sé stessa. […]
L’egoismo dissecca il germe di tutte le virtù, l’individualismo non prosciuga inizialmente che la fonte delle
pubbliche virtù; ma, alla lunga, attacca e distrugge tutte le altre e viene alla fine assorbito nell’egoismo.
L’egoismo è un vizio vecchio come il mondo. Non appartiene certo ad una forma di società più che ad
un’altra.
L’individualismo è di origine democratica, e minaccia di svilupparsi man mano che le condizioni si vanno
eguagliando. […] Man mano che le condizioni si vanno eguagliando, si incontrano un maggior numero di
individui che, non essendo più abbastanza ricchi né abbastanza potenti per esercitare una grande influenza
sulla sorte dei loro simili, hanno tuttavia acquistato o hanno conservato abbastanza lumi e beni per poter
bastare a se stessi. Costoro non devono nulla a nessuno, non si aspettano per così dire nulla da nessuno; si
abituano a considerarsi sempre isolatamente e si immaginano volentieri che il loro intero destino è nelle loro
mani.
(da: Tomo II, Parte II, Capitolo IV. Come gli americani combattono l’individualismo tramite libere
istituzioni.)
Il dispotismo, che, per sua natura, è timoroso, vede nell’isolamento degli uomini la garanzia più sicura della
propria durata, e dedica di solito ogni sua cura ad isolarli. […]
L’uguaglianza colloca gli uomini gli uni accanto agli altri senza un comune legame che li unisca. Il
dispotismo innalza barriere tra loro e li separa. L’una li predispone a non pensare ai loro simili e l’altro rende
l’indifferenza, per loro, una specie di pubblica virtù.
Il dispotismo, che in tutti i tempi è pericoloso, è dunque da temere particolarmente nei secoli democratici.
(da: Tomo II, Parte IV, Capitolo II. Che Le idee dei popoli democratici in materia di governo sono
naturalmente favorevoli alla concentrazione dei poteri.)
Man mano che in un popolo le condizioni si eguagliano, gli individui sembrano più piccoli e la società
sembra più grande, o piuttosto ogni cittadino, divenuto simile a tutti gli altri, si perde nella folla, e non si
percepisce più se non la vasta e magnifica immagine del popolo stesso.
Ciò dà agli uomini delle epoche democratiche una opinione molto alta dei privilegi della società e una idea
decisamente modesta dei diritti dell’individuo. […] Essi ammettono abbastanza volentieri che il potere che
rappresenta la società possiede molti più lumi e molta più saggezza di ogni uomo che lo compone, e che è
suo dovere, come suo diritto, prendere ogni cittadino per mano e guidarlo.
(da: Tomo II, Parte IV, Capitolo III. Che I sentimenti dei popoli democratici sono in accordo con le loro idee
per portarli a concentrare il potere.)
[…] Gli uomini che abitano i paesi democratici, non avendo né superiore né inferiore né associati abituali e
necessari, si ripiegano volentieri su se stessi e si considerano isolatamente. Ho avuto occasione di mostrarlo
molto a lungo quando si è trattato dell’individualismo.
Non è dunque mai senza sforzo che questi uomini si strappano dalle loro faccende private per occuparsi delle
faccende comuni; la loro inclinazione naturale è quella di lasciarne la cura al solo rappresentante visibile e
permanente degli interessi collettivi, che è lo Stato. […]
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Rassegna telematica 2008
Ho anche avuto l’occasione di mostrare come l’amore crescente del benessere e la natura mobile della
proprietà facessero temere ai popoli democratici il disordine materiale. L’amore per la tranquillità pubblica è
spesso la sola passione politica che conservano questi popoli ed essa diviene da loro più attiva e più potente
man mano che tutte le altre diminuiscono e muoiono, ciò dispone naturalmente i cittadini a dare
incessantemente o a lasciar prendere nuovi diritti al potere centrale, che a loro sembra che abbia l’interesse e
i mezzi di difenderli dall’anarchia difendendo se stesso. […]
Io penso che nei secoli democratici che verranno l’indipendenza individuale e le libertà locali saranno
sempre prodotti ad arte. La centralizzazione sarà il governo naturale.
Da: Tomo II, Parte IV, Capitolo VI. Quale specie di dispotismo devono temere le nazioni democratiche.
[…] Io penso dunque che la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non somiglierà a nulla
di ciò che nel mondo l’ha preceduta; i nostri contemporanei non potrebbero trovarne l’immagine nei loro
ricordi. Io stesso cerco invano un’espressione che riproduca esattamente l’idea che me ne faccio e la
racchiuda; le antiche parole di dispotismo e di tirannia non sono affatto appropriate. La cosa è nuova, devo
dunque sforzarmi di definirla, dal momento che non posso darle un nome.
Voglio immaginare con quali nuovi tratti il dispotismo si potrebbe produrre nel mondo: vedo una folla
innumerevole di uomini simili ed uguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli e volgari
piaceri, con cui riempiono il loro spirito. Ciascuno di loro, ritiratosi in disparte, è come estraneo al destino di
tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici intimi costituiscono per lui tutta la specie umana; quanto al resto dei
suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca ma non li percepisce affatto; non esiste che in sé e
per sé solo, e, se pure gli resta ancora una famiglia, si può affermare quanto meno che non ha più patria.
Al di sopra di costoro si eleva un potere immenso e tutelate, che da solo si occupa di assicurare il loro
benessere e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, attento ai dettagli, regolare, previdente e mite.
Somiglierebbe al potere paterno, se come questo, avesse lo scopo di preparare gli uomini all’età virile; ma
esso non cerca, al contrario, che di fermarli irrevocabilmente dentro l’infanzia; ama che i cittadini si
rallegrino, a patto che non pensino che a rallegrarsi. Si dà da fare volentieri per la loro felicità; ma di essa
vuole essere l’agente unico e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura i loro bisogni,
facilita i loro piaceri, guida i loro principali affari, dirige la loro industria, regola le loro successioni,
suddivide le loro eredità, non può forse togliere loro del tutto la difficoltà di pensare e la fatica di vivere?
In questo modo rende ogni giorno meno utile e più raro l’uso del libero arbitrio; racchiude l’atto della
volontà in uno spazio più piccolo, e sottrae a poco a poco ad ogni cittadino perfino l’uso di se stesso.
L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose: essa li ha predisposti a subirle e spesso perfino a
considerarle come un beneficio.
Dopo aver preso così poco a poco nelle sue possenti mani ogni individuo, ed averlo modellato a suo
piacimento, il sovrano stende le sue braccia sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole
regole complicate, minuziose e uniformi, attraverso le quali gli spiriti più originali e le menti più vigorose
non potrebbero farsi strada per oltrepassare la folla; non spezza le volontà, ma le ammorbidisce, le piega e le
dirige; raramente costringe ad agire, ma si oppone incessantemente a che si agisca; non distrugge, impedisce
di nascere; non tiranneggia, ma mette delle difficoltà, comprime, snerva, spegne, inebetisce, e riduce
finalmente una nazione a non essere che un gregge di animali timidi e industriosi, il cui governo è il pastore.
Io ho sempre creduto che questa specie di servitù, regolata, mite e pacifica, di cui ho dato una
rappresentazione, potrebbe combinarsi meglio di quanto si immagini con alcune delle forme esteriori della
libertà, e che non le sarebbe impossibile stabilirsi anche all’ombra della sovranità del popolo.
I nostri contemporanei sono incessantemente trascinati da due passioni contrapposte; sentono il bisogno di
venire guidati e il desiderio di restare liberi. Non potendo distruggere né l’uno né l’altro di questi istinti
contrari, si sforzano di soddisfarli entrambi insieme. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma
eletto dai cittadini. Combinano la centralizzazione e la sovranità del popolo. Ciò dà loro qualche tregua. Si
consolano di essere sotto tutela, pensando che hanno scelto essi stessi i loro tutori. Ogni individuo sopporta
che lo si leghi, perché vede che non è un uomo, né una classe, ma il popolo stesso che tiene in mano
l’estremità della catena.
In questo sistema, i cittadini escono un momento dalla dipendenza per indicare il loro padrone, e vi rientrano.
Ci sono oggi molte persone che si adattano molto facilmente a questa specie di compromesso tra il
dispotismo amministrativo e la sovranità del popolo, e che pensano di avere garantito sufficientemente la
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libertà degli individui quando è al potere nazionale che la consegnano. Questo non mi basta affatto. La natura
del padrone mi interessa molto meno dell’obbedienza.
Io non affermerei tuttavia che una tale costituzione non sia infinitamente preferibile a quella che, dopo aver
concentrato tutti i poteri, li deponesse nelle mani di un uomo o di un corpo irresponsabile. Di tutte le
differenti forme che il dispotismo democratico potrebbe assumere, questa sarebbe sicuramente la peggiore.
Se il sovrano è elettivo o sorvegliato da vicino da una legislatura realmente elettiva e indipendente,
l’oppressione che fa subire agli individui è qualche volta maggiore; ma essa è sempre meno degradante,
poiché ogni cittadino, nel caso lo si ostacoli o lo si riduca all’impotenza, può ancora immaginarsi che,
obbedendo, egli non si sottomette che a sé stesso e che è ad una della sue volontà che sacrifica tutte le altre.
Comprendo anche che, quando il sovrano rappresenta la nazione e dipende da essa, le forze e i diritti che
vengono sottratti ad ogni cittadino non servono soltanto al capo dello Stato, ma avvantaggiano lo Stato
stesso, e che i privati ricavano qualche frutto dal sacrificio della loro indipendenza che essi hanno fatto a
favore del pubblico.
Creare una rappresentanza nazionale in un paese molto centralizzato significa dunque diminuire il male che
l’estrema centralizzazione può produrre, ma non significa distruggerlo.
Io vedo certo che in questo modo si conserva l’intervento individuale nelle questioni più importanti; ma lo si
sopprime nelle piccoli e particolari. Si dimentica che è soprattutto nel dettaglio che è pericoloso asservire gli
uomini. Io sarei, da parte mia, portato a ritenere la libertà meno necessaria nelle grandi cose che nelle minori,
se pensassi che non si potesse mai essere sicuri di una senza possedere l’altra.
L’assoggettamento nelle piccole questioni si manifesta quotidianamente e si fa sentire indistintamente a tutti
i cittadini. Esso non li porta certo alla disperazione, ma li contraria incessantemente e li porta a rinunciare
all’uso della loro volontà. Spegne a poco a poco il loro spirito e snerva la loro anima, mentre l’obbedienza
che non è dovuta che in un piccolo numero di circostanze molto gravi, ma molto rare, non mostra la servitù
che di tanto in tanto e non la fa pesare che su certi uomini. Invano incaricherete questi stessi cittadini, che
avete reso tanto dipendenti dal potere centrale, di scegliere ogni tanto i rappresentanti di questo potere;
questo uso tanto importante, ma così breve e così raro, del loro libero arbitrio, non impedirà che perdano
poco a poco la facoltà di pensare, di sentire e di agire da se stessi, e che non cadano così gradualmente al di
sotto del livello dell’umanità.
Aggiungo che essi diverranno ben presto incapaci di esercitare il grande e unico privilegio che resta loro. I
popoli democratici che hanno introdotto la libertà nella sfera politica mentre nel contempo accrescevano il
dispotismo nella sfera amministrativa, sono stati condotti a singolarità ben strane. Se bisogna gestire le
piccole cose in cui il semplice buon senso può bastare, ne stimano incapaci i cittadini; se si tratta del governo
di tutto lo Stato,affidano a tali cittadini immense prerogative; ne fanno alternativamente i giocattoli del
sovrano e i suoi padroni, più che dei re e meno che degli uomini. Dopo aver provato tutti i differenti sistemi
di elezione, senza trovarne uno che vada loro bene, si stupiscono e cercano ancora; come se il male che
notano non dipendesse dalla costituzione del paese molto più che da quella del corpo elettorale.
E’, in effetti, difficile concepire come degli uomini che hanno completamente rinunciato all’abitudine di
dirigersi da se stessi potrebbero riuscire a scegliere bene coloro che li devono guidare; e non si farà certo
credere che dai suffragi di un popolo di servi possa mai scaturire un governo liberale, energico e saggio.
Una costituzione che fosse repubblicana nella testa e ultramonarchica in tutte le altre parti mi è sempre
sembrata un mostro effimero. I vizi dei governanti e l’imbecillità dei governati non tarderebbero a portare la
rovina; e il popolo, stanco dei suoi rappresentanti e di se stesso, creerebbe delle istituzioni più libere o
ritornerebbe ben presto a stendersi ai piedi di un solo padrone.
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Da: John Stuart Mill, Sulla libertà, Capitolo I (1859)
Il soggetto di questo Saggio non è la cosiddetta libertà della volontà, così infelicemente opposta alla dottrina
chiamata impropriamente della necessità filosofica, ma la libertà civile o sociale: la natura e i limiti del
potere che può essere legittimamente esercitato sull’individuo dalla società. […]
La lotta tra libertà e autorità è il carattere più notevole nei periodi della storia che ci sono più familiari, in
particolare in quella della Grecia, di Roma e dell’Inghilterra. Ma nell’antichità questa contesa si svolgeva tra
sudditi, o tra alcune classi di sudditi, e il governo. Per libertà si intendeva la protezione contro la tirannide
dei governanti. […]
Lo scopo dei buoni cittadini [patriots] era dunque quello di porre limiti al potere che si poteva tollerare che i
governanti esercitassero sulla comunità; e questa limitazione era ciò che essi intendevano per libertà. Ciò
veniva perseguito in due modi. Anzitutto ottenendo un riconoscimento di alcune immunità chiamate libertà
politiche o diritti, la cui violazione doveva venir considerata come una non osservanza del dovere del
governante, tale che, se egli le avesse violate, avrebbe giustificato una specifica resistenza o una ribellione
generale. Un secondo e in genere successivo espediente fu il fatto di stabilire controlli costituzionali, con i
quali il consenso della comunità, o di un corpo sociale di qualche genere che si supponeva rappresentasse i
suoi interessi, era reso una condizione necessaria di alcuni degli atti più importanti del poter governativo.
[…]
Ma venne un tempo, nel corso delle vicende umane, in cui gli uomini cessarono di pensare come una
necessità di natura il fatto che i loro governanti dovessero costituire un potere indipendente, opposto ai loro
stessi interessi. Sembrò loro molto meglio che i vari magistrati dello Stato dovessero essere i loro
rappresentanti o delegati, revocabili a loro piacimento. Solo in questo modo sembrava loro di poter avere una
completa sicurezza che i poteri del governo non sarebbero mai stati usati a loro svantaggio. Gradualmente,
questa nuova richiesta di governanti elettivi e temporanei divenne l’obiettivo principale delle lotte del partito
popolare, laddove un tale partito esisteva; e superò considerevolmente i precedenti sforzi di limitare il potere
dei governanti. […]
Ciò che ora si voleva era che i governanti si identificassero con il popolo; che il loro interesse e la loro
volontà fossero l’interesse e la volontà della nazione. La nazione non aveva bisogno di essere protetta contro
la sua stessa volontà. […]
Ma a un certo punto una repubblica democratica venne ad occupare un’ampia parte della superficie terrestre,
e si fece sentire come uno dei membri più potenti della comunità delle nazioni; e il governo elettivo e
responsabile fu soggetto alle osservazioni e alle critiche che accompagnano ogni grande realtà. Venne allora
rimarcato che frasi del tipo “autogoverno” e “il potere del popolo su se stesso” non esprimono il vero stato
delle cose. Il “popolo” che esercita il potere non è sempre lo stesso popolo sul quale il potere viene
esercitato, e l’ “autogoverno” del quale si parla non è il governo di ciascuno da se stesso, ma di ciascuno da
parte di tutti gli altri. La volontà del popolo inoltre significa in pratica la volontà della parte più numerosa o
più attiva del popolo, la maggioranza, o di quella alla quale capita di far accettare se stessa come
maggioranza; il popolo, di conseguenza, può desiderare di opprimere una parte di sé; e contro ciò sono tanto
necessarie delle precauzioni quanto contro ogni altro abuso di potere. La limitazione, allora, del potere del
governo sugli individui non perde la sua importanza quando i detentori del potere sono regolarmente
responsabili nei confronti della comunità, cioè nei confronti della parte più forte di essa. Questa visione delle
cose, che si impone tanto alla intelligenza degli intellettuali quanto all’orientamento di quelle importanti
classi della società europea ai cui reali o supposti interessi la democrazia è avversa, non ha avuto difficoltà
ad imporsi; e nelle riflessioni politiche “la tirannia della maggioranza” è ora inclusa generalmente tra i mali
dai quali la società deve guardarsi.
Come altre tirannie, la tirannia della maggioranza fu inizialmente, e lo è ancora, ritenta temibile soprattutto
nel momento in cui opera attraverso atti delle pubbliche autorità. Ma le persone riflessive hanno capito che
quando la società è essa stessa il tiranno - società intesa collettivamente, al di là degli individui separati che
la compongono - il suo modo di tiranneggiare non è limitato agli atti che essa può compiere per mano dei
suoi funzionari politici. La società può eseguire ed esegue i suoi propri ordini: e se emette degli ordini
ingiusti invece che giusti, o degli ordini su cose nelle quali non si dovrebbe immischiare, essa mette in atto
una tirannia sociale più terribile di molti tipi di oppressione politica, dal momento che, per quanto non
sorretta da pene così estreme, lascia poche vie di scampo, penetrando molto più a fondo nei dettagli della vita
e rendendo schiava la stessa anima. La protezione, dunque, contro la tirannia del potere politico non basta; è
necessaria anche la protezione contro la tirannia dell’opinione e del sentire dominante, contro la tendenza
della società a imporre, con mezzi diversi dalla pene civili, le sue proprie idee e pratiche come regole di
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condotta a quelli che da esse dissentono, ad ostacolare lo sviluppo e, se possibile, a prevenire la formazione
di ogni individualità non in armonia con le sue concezioni, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al
suo modello. C’è un limite alla legittima interferenza della pubblica opinione sull’indipendenza individuale;
e trovare questo limite, e mantenerlo contro ogni abuso, è tanto indispensabile per un buono svolgimento
delle cose umane, quanto la protezione contro il dispotismo politico. […]
Lo scopo di questo saggio è di affermare un principio molto semplice, destinato a governare in modo
assoluto le relazioni tra la società e gli individui rispetto alle modalità di coercizione e di controllo, sia che i
mezzi usati siano la forza fisica, nella forma di pene legali, o la coazione morale della pubblica opinione. Il
principio è che il solo fine per il quale il genere umano è giustificato, individualmente o collettivamente, a
interferire con la libertà d’azione di chiunque, è l’autoprotezione; che l’unica ragione per cui il potere può
venire legalmente esercitato su un membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è quella di
prevenire danni ad altri. Il bene, sia fisico che morale, di tale membro non è una giustificazione sufficiente.
Egli non può legittimamente venir costretto a fare o trattenuto dal fare qualcosa, perché comportarsi così sarà
meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, secondo le altrui opinioni, comportarsi così sarebbe più
saggio, o perfino giusto. Queste sono buone ragioni per protestare con lui, o per ragionare con lui, o per
persuaderlo, o per implorarlo, ma non per forzarlo, o per apportargli qualche male nel caso si comporti
diversamente. Perché ciò sia giustificabile, la condotta da cui si desidera dissuaderlo deve essere finalizzata a
produrre danno a qualcun altro. La sola parte della condotta di qualcuno, per cui egli è soggetto alla società,
è quella che riguarda altri. Nella parte che riguarda solo se stesso, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta.
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano. […]
Ma c’è una sfera d’azione in cui la società, in quanto distinta dall’individuo, se anche ha un interesse, ha solo
un interesse indiretto; essa comprende tutta quella parte della vita e della condotta di una persona che
riguarda solo la persona stessa, o , se anche riguarda altri, li riguarda solo con il loro consenso e la loro
partecipazione, liberi, volontari e consapevoli. Quando dico solo la persona stessa, intendo direttamente e in
prima istanza: qualsiasi cosa riguarda lei stessa, può riguardare altri per il suo tramite; e l’obiezione che può
essere fondata su questo specifico fatto verrà presa in considerazione in seguito. Questa, dunque, è la sfera
propria della libertà umana. Essa comprende in primo luogo l’ambito interiore della coscienza; e richiede
libertà di coscienza nel senso più comprensivo; libertà di pensiero e sentimento; assoluta libertà di opinione e
sentimento su tutti i temi, pratici o speculativi, scientifici, morali, o teologici. La libertà di esprimere o
rendere pubbliche le opinioni può sembrare che cada sotto un principio differente, dal momento che
appartiene a quella parte della condotta di un individuo che riguarda altre persone; ma, avendo almeno tanta
importanza quanto la stessa libertà di pensiero, e poggiando in gran parte sulle stesse ragioni, da essa è
praticamente inseparabile. In secondo luogo, il principio richiede libertà di gusti e di scopi; di disegnarci il
piano della nostra vita adatto al nostro proprio carattere; di agire come ci piace, subendo quelle conseguenze
che da ciò possono derivare, senza impedimenti da parte dei nostri simili, se ciò che noi facciamo non li
danneggia, anche se ritenessero la nostra condotta folle, perversa, o sbagliata. In terzo luogo, da questa
libertà di ciascun individuo consegue la libertà, entro gli stessi limiti, di associazione tra individui; libertà di
unione, per ogni scopo che non comporta danno agli altri, assumendo che le persone che si associano siano
adulte e non forzate o ingannate.
Nessuna società in cui queste libertà non sono nel complesso rispettate è libera, quale che sia la sua forma di
governo, e nessuna in cui esse non esistono assolutamente e illimitatamente è completamente libera. La sola
libertà che merita questo nome è quella di perseguire il nostro bene a modo nostro, fin quando non tentiamo
di privare altri del loro, o di ostacolare i loro sforzi per ottenerlo. Ciascuno è il vero guardiano della sua
salute, sia corporale, sia mentale sia spirituale. L’umanità guadagna molto di più tollerando che ciascun altro
viva come sembra giusto a lui stesso, piuttosto che costringendo ciascuno a vivere come sembra giusto agli
altri.
Sebbene questa dottrina sia tutt’altro che nuova, e per certe persone abbia l’aria di una ovvietà, non c’è
dottrina che si opponga più direttamente alla tendenza generale dell’opinione e della pratica esistenti.
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