Il 14 luglio 1938 «Il Giornale d`Italia» pubblica un articolo anonimo

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IL DOCUMENTO “IL FASCISMO E I PROBLEMI DELLA RAZZA”
DI LUGLIO 1938
Giorgio Israel
Il 14 luglio 1938 «Il Giornale d’Italia» pubblica un articolo anonimo
dal titolo Il Fascismo e i problemi della razza, che viene poi ripreso dal
resto della stampa italiana. I nomi dei firmatari di questo testo vengono resi
noti soltanto il 25 luglio, quando un comunicato del PNF1 annunzia che il
Segretario Achille Starace ha ricevuto un «gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane, che hanno sotto l’egida del Ministero della
Cultura popolare2 redatto o aderito alle proposizioni che fissano la base del
razzismo fascista». Tra i firmatari vi sono alcuni nomi di rilievo: il noto
endocrinologo Nicola Pende, il fisiologo Sabato Visco, Franco Savorgnan
(Presidente dell’ISTAT3), Arturo Donaggio (Presidente della Società italiana di psichiatria), Edoardo Zavattari (direttore dell’Istituto di zoologia
dell’Università di Roma). Gli altri sono personaggi di secondo piano: Lino
Businco, Lidio Cipriani, Leone Franzì, Guido Landra, Marcello Ricci. Secondo Starace il documento rappresenta il culmine di una politica del fascismo che ha consistito «nel realizzare un continuo miglioramento quantitativo e qualitativo della razza» e che impone il passaggio ad una fase teorica
e legislativa volta a evitare «ogni ibridismo e contaminazione».
L’importanza di questo testo è legata al fatto che esso costituisce il
primo documento ufficiale del razzismo fascista. Esso può essere considerato sotto tre profili (che non possono essere disgiunti): le modalità di
stesura del documento e le polemiche seguite alla divulgazione dei nomi
dei firmatari, le quali sono strettamente connesse alla definizione della linea ufficiale del fascismo sui problemi della razza; l’analisi dei contenuti
del documento; la valutazione della sua portata nel contesto della dottrina
e della legislazione razziali del fascismo.
È sorprendente il fatto che per lungo tempo siano rimaste oscure le
modalità di stesura e persino la lista esatta dei firmatari del documento
Partito Nazionale Fascista.
Il cui titolare era Dino Alfieri.
3
Istituto di Statistica.
1
2
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Giorgio Israel
Il Fascismo e i problemi della razza, in seguito comunemente chiamato
Manifesto degli scienziati razzisti, e che quindi per brevità continueremo a
chiamare qui Manifesto. Una ricostruzione accurata della storiografia relativa al Manifesto è stata di recente compiuta da Tommaso Dell’Era.4 Essa
conferma l’impressione che tali carenze siano state dovute più a fattori di
carattere ideologico che non a difficoltà informative: i materiali d’archivio
che permettono una agevole ricostruzione delle vicende connesse sono facilmente accessibili e il recente apporto dell’archivio privato di Guido Landra ha consentito a Aaron Gillette5 ed allo stesso Dell’Era di completarla
in modo conclusivo.6 In sintesi, la storiografia è stata largamente condizionata dal pregiudizio che la scelta razzista del fascismo avesse motivazioni
esclusivamente politiche dettate dallo stabilirsi di uno stretto rapporto con
la Germania hitleriana e che il fascismo non avesse mai avuto inclinazioni
verso una ideologia razziale o antisemita. Sarebbe stato quindi lo stabilirsi
del “patto d’acciaio” tra Mussolini e Hitler a determinare l’adozione di politiche razziali del tutto estranee all’ideologia del fascismo. Questa visione
ha dominato la storiografia del fascismo fin dai primi studi degli anni quaranta e cinquanta,7 è stata proposta in modo assai netto nella prima opera
importante sul tema della persecuzioni razziali del fascismo, ovvero la celebre Storia degli Ebrei Italiani sotto il Fascismo di Renzo De Felice,8 ed
è stata messa in discussione soltanto a partire dalla fine degli anni ottanta.9
A partire da quel momento, l’analisi della natura ideologica del razzismo
fascista e dell’apporto teorico del mondo scientifico alla sua costituzione
4
Tommaso Dell’Era, Scienza, politica e propaganda. Il Manifesto del razzismo italiano: storiografia e nuovi documenti, «Rivista elettronica della Società Italiana di Filosofia
Politica», 31 dicembre 2007, (http://www.sifp. it/articoli.php?idTem=3&idMess=577).
5
Aaron Gillette, The Origins of the ‘Manifesto of racial scientists’, “Journal of
Modern Italian Studies”, 2001, 3 (6), pp. 305-323; Id. Racial Theories in Fascist Italy,
London & New York, Routledge 2002. Il libro del 2002 non contiene novità sostanziali
rispetto all’articolo del 2001, salvo un’interpretazione complessiva molto discutibile e
viziata dal fatto di ignorare gran parte della storiografia precedente.
6
Tommaso Dell’Era, Il Manifesto della razza, Milano, UTET 2008, (in stampa).
7
Si pensi alle opere di Eucardio Momigliano e Antonio Spinosa. Per maggiori
dettagli rinviamo a Tommaso Dell’Era, Scienza, cit.
8
Renzo De Felice, Storia degli Ebrei Italiani sotto il Fascismo, Torino, Einaudi
1961.
9
Cfr. Giorgio Israel, Politica della razza e persecuzione antiebraica nella comunità scientifica italiana, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa (Atti del
Convegno nel Cinquantenario delle leggi razziali, Roma, 17-18 ottobre 1988), Roma,
Camera dei Deputati 1989, pp. 123-162; Mauro Raspanti, I razzismi del fascismo, in
La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo
fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna, Grafis 1994, pp. 73-89.
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è divenuta un aspetto importante e ineludibile della storiografia.10 È diventata altresì insostenibile la pretesa di liquidare il Manifesto – al pari di altri
elaborazioni teoriche del razzismo fascista sulla base di due argomenti:
lo scarso rilievo dei firmatari, il che non corrisponde a verità almeno per
una parte consistente di essi; l’inconsistenza teorica del documento, che
è indubbia ma che non costituisce un argomento rilevante, perché su tali
basi occorrerebbe trascurare come priva d’interesse la sterminata letteratura “scientifica” dell’Ottocento e del Novecento sul tema razziale. Difatti,
l’inconsistenza teorica del concetto di razza non ha impedito che attorno ad
esso si sviluppasse una vastissima speculazione che si pretendeva “scientifica”.
Pur all’interno di un ventaglio di interpretazioni differenti e anche divergenti è possibile quindi partire dall’assunto ormai generalmente condiviso
che sia esistita una politica razziale “autoctona” del fascismo che aveva
connessioni con le politiche demografiche ed eugenetiche praticate fin dagli anni venti. Soltanto così può essere compreso il contesto in cui prese le
mosse la politica antiebraica del fascismo, che si caratterizza come razziale
ancor prima che antisemita. Difatti, nel 1938, Mussolini, anziché assumere
come punto di partenza le diverse campagne antisemite di stampo tradizionale che si erano sviluppate negli anni precedenti – in particolare da parte di
personaggi come Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi e Paolo Orano – sceglie la tematica razziale come fondamento teorico per affermare la necessità
dell’esclusione della minoranza ebraica dalla vita nazionale. Peraltro, una
simile scelta era dettata da vari fattori tra cui: l’evoluzione in senso coloniale e imperiale del regime che portava a un’accentuazione della tematica
della superiorità della razza italica, la necessità di imprimere una nuova
svolta rivoluzionaria al fascismo contro i rischi di “imborghesimento”, la
degenerazione dei rapporti con il movimento sionista, oltre che lo stringersi
delle relazioni con la Germania hitleriana. Una volta scelto questo indirizzo
Per una rassegna completa rinviamo ancora a Tommaso Dell’Era, Scienza, cit.,
limitandoci qui a ricordare: Michele Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca
dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino, Zamorani 1994; Giorgio Israel, Pietro
Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino 1998; Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia 1999; Michele
Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi
2000; Aaron Gillette, Racial, cit.; Mario Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia.
Dal 1948 alla guerra dei sei giorni, Milano, Franco Angeli 2003; Claudia Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni
Trenta, Saveria Mannelli (Cz), Rubbettino 2004; G. Israel, Science and the Jewish
Question in the Twentieth Century: The Case of Italy and what it shows, «Aleph, Historical Studies in Science and Judaism», 4, 2004, 66, pp. 191-261.
10
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razziale, era naturale che Mussolini si rivolgesse all’ambiente scientifico
per formulare un impianto teorico capace di giustificare una campagna propagandistica e una legislazione. Tuttavia, egli volle chiaramente evitare di
mettersi nelle mani degli accademici di primo piano in campo biologico
e antropologico preferendo la scelta di un personaggio di secondo piano
capace di presentare con un linguaggio tecnico le tesi che veniva maturando. Questo personaggio egli lo incontrò in un modesto assistente del
noto antropologo Sergio Sergi: Guido Landra. Risulta che Landra, oltre ad
essere seguace delle teorie del Sergi, avesse da tempo rapporti con Telesio
Interlandi e fosse influenzato dalle teorie razziali di orientamento biologistico filo-germanico di questi. Secondo quanto documenta il fondo Landra,
nel gennaio 1938 Interlandi discusse con lui delle idee che Mussolini veniva maturando e lo fece entrare a contatto con il ministro Alfieri che, nel
febbraio 1938, incaricò Landra di pensare alla redazione di un documento
che stabilisse le linee generali di un razzismo italiano. Lo incaricò inoltre di
stendere una lista di scienziati che potessero collaborare alla stesura. Pare
che la lista fu stesa in pochi giorni e approvata subito dal Duce.
Nei mesi seguenti Landra lavorò al documento sulla cui impostazione
influì il rapporto che egli aveva stabilito nel frattempo con il celebre genetista tedesco Eugene Fischer, ispiratore di molta parte delle teorie razziali
germaniche. Secondo la ricostruzione fatta da Gillette sulla base del fondo
Landra, il 24 giugno sarebbe avvenuto un incontro tra Mussolini, Landra e
Alfieri in cui si sarebbe concretizzata una stesura del documento vicina a
quella definitiva. Peraltro, in una lettera al Duce del 27 settembre 1940,11
Landra si attribuiva il merito di aver redatto il famoso documento, sia pure
dietro precise indicazioni del Duce. Queste testimonianze vanno confrontate con quella di Giuseppe Bottai che, nel suo Diario, in data 16 luglio
1938, affermava che Mussolini aveva incaricato Landra della redazione del
Manifesto addirittura fin dall’ottobre 1937 e, in data successiva (6 ottobre
1938) ricordava che Mussolini gli disse: «Sono io, che, praticamente, l’ò
dettato».12 Anche secondo Ciano, Mussolini avrebbe avuto una parte determinante nella redazione del Manifesto:
Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del “Giornale d’Italia” di uno
statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi
sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui.13
ACS (Archivio Centrale dello Stato), Segreteria particolare del Duce, Carteggio
ordinario, fasc. 183505 (Landra Guido).
12
Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, Milano, Rizzoli 1989, p. 136.
13
Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli 1990, p. 158.
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In conclusione, scontando inevitabili incertezze nella ricostruzione, appare evidente che Mussolini avesse deciso non meno di un anno prima
della pubblicazione del Manifesto di avviare la politica razziale, che avesse
optato per una linea “scientifica” e che avesse incaricato il giovane Landra della redazione di un documento contenente le linee teoriche portanti
della nuova politica, il quale doveva essere avallato da firme importanti del
mondo scientifico e che tale documento fu redatto da Landra sotto precise
indicazioni e la supervisione del Duce. Data la visione razziale e antropologica di stile germanico di Landra era inevitabile che esso riflettesse
una miscela di tale visione e delle idee del Duce miranti a evidenziare il
primato della tradizione italica e “romana”. Questi apporti differenti sono
chiaramente rilevabili nell’impianto composito e incoerente del documento, come avremo modo di vedere subito.
Il Manifesto è un decalogo di affermazioni apodittiche accompagnate
rispettivamente da un commento esplicativo. La prima stabilisce che «Le
razze umane esistono» e che tale esistenza non è un’astrazione bensì corrisponde a «una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi».
Non si specifica però ancora quali sarebbero questi caratteri, affermando
che essi sono sia fisici che psicologici, il che non si concilia bene con
l’affermazione della loro materialità. Si riafferma peraltro che non può
parlarsi di razze superiori o inferiori bensì soltanto di «razze differenti» e
ciò costituisce un sensibile punto di contrasto con i capisaldi del razzismo
germanico, mentre appare in accordo con il punto di vista dominante nel
mondo biologico-antropologico italiano, per esempio con quello influente
di Nicola Pende. Invece, il terzo principio entra in piena contraddizione
con un altro caposaldo di tale punto di vista, affermando perentoriamente
che «il concetto di razza è concetto puramente biologico». Si chiarisce
che esso è basato «su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di
nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche,
religiose». Viceversa, «alla base delle differenze di popolo e di nazione
stanno delle differenze di razza». Un simile approccio rappresentava un
rovesciamento radicale di tesi come quelle di Pende, Sabato Visco o Nicola
Acerbo – denominate da Raspanti come “nazional-razziste” – che facevano
del concetto di razza una miscela di fattori biologici, culturali, psicologici
e persino ambientali e alimentari. È tuttavia da notare che il documento
non riesce a dire in che cosa consista questa natura biologica della razza,
ovvero a precisare in quale struttura dell’organismo vadano individuati i
fattori di diversità razziale che determinano le diversità dei popoli e delle
nazioni.
Il secondo principio (che in un’esposizione dotata di un minimo di rigore logico avrebbe dovuto figurare al terzo posto) asserisce che «esistono
grandi razze e piccole razze» e non soltanto i gruppi maggiori individualizzati da alcuni caratteri ma anche gruppi minori, come i nordici e i medi-
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terranei, che anzi, dal punto di vista biologico, sono «individualizzati da un
maggior numero di caratteri comuni» e quindi costituiscono «dal punto di
vista biologico le vere razze». Se questo principio fa pensare che l’accentuazione dell’importanza delle “piccole vere” razze preluda a un’esaltazione
della razza italica in quanto mediterranea, la quarta asserzione lascia completamente delusi: «La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e
la sua civiltà è ariana». Qui appare evidente che l’approccio filogermanico
di Landra si somma con l’atteggiamento fluttuante e confuso di Mussolini
sull’argomento. Difatti, in tutti i successivi interventi di Mussolini sull’argomento apparirà chiara la difficoltà di tenere assieme e conciliare varie
esigenze contraddittorie: attribuire un crisma di “arianità” al popolo italiano (“ariano” è emblema di una razza aventi caratteristiche superiori);
non rinunziare alla specificità razziale degli italiani che proviene dal ceppo
mediterraneo; pur non potendo negare l’esistenza di numerosi apporti di
popolazione che escludono l’esistenza di una “pura” razza italica, affermare che gli italiani si sono quantomeno stabilizzati nella loro composizione da almeno mille anni. Difatti, il quinto asserto del decalogo stabilisce
che «è una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici»:
nessun popolo è venuto a contaminare l’Italia dopo i Longobardi e quindi
gli italiani avrebbero una composizione razziale persino più pura di quella
di altri popoli europei.
Se ne conclude (asserto sesto) che «esiste ormai una pura “razza italiana”». Qui l’accento biologistico del documento si fa più netto e precisa
in cosa consisterebbe il fondamento fisico della razza: il sangue. Quando si
dice che esiste una razza italiana pura non si allude minimamente all’unità
storico-linguistica del popolo e della nazione, bensì ci si riferisce alla «purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni
che da millenni popolano l’ltalia». Una «purezza di sangue» che «è il più
grande titolo di nobiltà della Nazione italiana». Questo tema della “purezza
del sangue” costituisce un tema nuovo nella tradizione del razzismo fascista e costituisce il massimo avvicinamento al punto di vista germanico. Lo
stesso Mussolini non aveva mai fatto uso di un simile linguaggio quando
aveva parlato di razza, fin dal Discorso dell’Ascensione del 1927, riferendosi piuttosto alla “coscienza” dell’unità razziale come a un fattore spirituale capace di creare un senso di coesione e di superiorità della comunità
nazionale. Tuttavia, passando ai punti successivi è facile constatare come
le accentuazioni in senso biologistico ed ariano vengano contraddette e il
documento si trasformi in un clamoroso pasticcio teorico.
«È tempo – proclama il punto settimo – che gli italiani si proclamino
francamente razzisti», come punto d’arrivo di un lungo processo per cui
«tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo». Dopo aver ribadito che «la questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filo-
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sofiche o religiose» si afferma che «questo non vuole dire però introdurre in
Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e
gli Scandinavi sono la stessa cosa». Quel che si vuole è «soltanto additare
agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana»,
dove con quel «soprattutto psicologico» si contraddice platealmente l’affermazione del punto 3 secondo cui il concetto di razza è “puramente”
biologico. Questa accentuazione spiritualistica è confermata dall’affermazione che la finalità del razzismo è di «elevare l’Italiano ad un ideale di
superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità». Un analogo
pasticcio avviene quando si specifica la differenza tra razzismo italiano e
teorie germaniche nel senso che «la concezione del razzismo in Italia deve
essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico», dove cosa si
debba intendere per “concezione italiana” è assolutamente oscuro, a meno
che non si colleghi tale asserzione con quella del successivo punto 8, in
cui si dice che «è necessario fare una netta distinzione tra i Mediterranei
d’Europa (occidentali) da una parte, gli orientali e gli africani dall’altra».
Qui si manifesta la preoccupazione di proscrivere le teorie «pericolose”
dell’origine africana di «alcuni popoli europei», affermando la distinzione
con i Mediterranei “occidentali”, che visibilmente hanno a che fare con gli
italiani, altrimenti sarebbe bastata la distinzione tra semiti e camiti da un
lato e ariani dall’altro a metterli al riparo da ogni confusione.
Insomma, italiani come mediterranei e ariano-nordici al contempo, ben
distinti da semiti e camiti, da cui il drastico asserto 9: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Tutti i semiti approdati in Italia, inclusi
gli arabi della Sicilia, non hanno lasciato traccia o sono stati assimilati, e
in modo rapidissimo. Resta un nucleo ebraico che rappresenta l’unica popolazione in Italia che non si è mai assimilata, e questo proprio perché «è
costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli
elementi che hanno dato origine agli Italiani».
In conclusione – decimo e ultimo comandamento – «i caratteri fisici
e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati
in nessun modo». Occorre evitare ogni incrocio con razze extra-europee
(come quella giudaica), che sono portatrici di civiltà diverse da quella
«millenaria degli ariani».
La campagna razziale prese le mosse a partire da questo documento
teorico pasticciato e incoerente che non poteva non suscitare la reazione
negativa da parte di coloro che avevano sostenuto visioni razziali e antropologiche radicalmente differenti e la cui firma era stata apposta senza
coinvolgerli nella redazione e addirittura senza neanche consultarli. Il documento non poneva soltanto problemi delicati per il suo approccio biologistico e filogermanico e per la marcata omologazione della razza italica
con quella ariano-nordica, ma anche per la singolare assenza di ogni riferimento a uno dei capisaldi dell’identità fascista, ovvero l’eredità di Roma.
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Esso non conteneva un solo riferimento ai Romani quando si riferiva a
quelle popolazioni che avevano costituito il nucleo dell’identità razziale
italica.
L’esigenza di una presa di distanza dal razzismo germanico era particolarmente sentita nel mondo cattolico. La rivista dei gesuiti «La Civiltà
cattolica» manifestò un consenso persino entusiastico sottolineando però
le differenze con il razzismo germanico, non si sa se per una superficiale
interpretazione del documento o per esprimere abilmente un auspicio:
Chi ha presenti le tesi del razzismo tedesco, rileverà subito la notevole divergenza di quelle proposte da queste del gruppo di studiosi fascisti italiani.
Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuole confondersi con il
nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico
e anticristiano.14
Se le posizioni dei gesuiti erano relativamente benevolenti nei confronti
del Manifesto, e talora del tutto aderenti alla linea del razzismo biologistico15 (in conformità con l’inclinazione scientista della Compagnia di
Gesù), altri ambienti cattolici ufficiali avvertivano le difficoltà derivanti
dall’adozione di un razzismo radicalmente biologico: che ne sarebbe stato
degli ebrei convertiti al cattolicesimo? Veniva messo in discussione il caposaldo della secolare politica di conversione della Chiesa nei confronti degli
ebrei. Tuttavia, i provvedimenti razziali preconizzati dal Manifesto destarono nel mondo cattolico ufficiale un atteggiamento di benevola comprensione e, come ebbe a comunicare l’ambasciatore italiano presso la Santa
Sede, «non trovarono in Vaticano sfavorevoli accoglienze». L’unica riserva
fu espressa dal Sostituto per gli Affari Ordinari alla Segreteria di Stato
Monsignor Montini (il futuro Papa Paolo VI) relativamente alla sorte degli
ebrei convertiti che avevano contratto matrimonio misto.16
I contrasti nacquero invece immediatamente nell’ambito dei firmatari
del documento. Landra definì così questi contrasti: «Una delle prime deviazioni del razzismo fu quella verso l’ortogenesi e la bonifica della razza,
che con il razzismo ben poco avevano a che fare. Tale “deviazione” fu rapidamente eliminata».17 Ma questa ricostruzione è falsa poiché, al contrario,
la “deviazione” non si fece affatto zittire.
«La Civiltà Cattolica», 6 agosto 1938, n. 2115, pp. 277- 278.
Cfr. Angelo Brucculeri, Razzismo italiano, «L’Avvenire», 17 luglio 1938.
16
Cfr. Renzo De Felice, Storia, cit. pp. 334-338.
17
Guido Landra, Storia vera del razzismo italiano, in «La difesa della razza», vol.
5, n. 13, maggio 1942, p. 5.
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111
Pende, secondo la sua stessa testimonianza18 peraltro convalidata da
numerose altre, protestò immediatamente assieme a Visco per il contenuto del documento. Fin dalle prime riunioni del Comitato dei Dieci, che
avrebbe dovuto essere l’embrione del futuro Ufficio Razza del Ministero
della Cultura Popolare, Pende e Visco protestarono vivacemente alla presenza del Segretario del PNF Starace. La natura del dissenso – approccio
spiritualistico-romano contro approccio biologistico-ariano – è testimoniata da Bottai:
O‘ chiamato Pende, per sapere come si mettono queste faccende della razza. Si
cerca di rimettere in sesto le idee: soprattutto di combinare l’idea “razza” con
l’idea “Roma”. In una riunione, Alfieri interrompe Pende, Visco e Savorgnan,
che parlano tra di loro in termini di biologia e di antropologia. «Per carità, mi
sembra di essere tornato al Ministero delle Corporazioni, quando tiravano fuori
parole e parole, che non riuscivo a capire».19
Il 1° agosto Pende invia da Chianciano Terme un telegramma al Segretario particolare del Duce Sebastiani in cui richiede la diffusione di una
nuova dichiarazione: «Pregovi sostenere necessità diramazione stampa
nuova dichiarazione commissione razza sottoposta Capo».20 Alfieri risponde negativamente il 3 agosto: «Per superiore incarico vi comunico
che non si ritiene opportuno per ora pubblicazione nota dichiarazione».21 A
quel punto la linea di Landra appare prevalere e il 16 agosto 1938 inizia a
funzionare sotto la sua direzione un Ufficio Studi e propaganda sulla razza
nell’ambito del Minculpop mentre il Comitato dei Dieci non viene più
convocato. Tuttavia Pende non si perde d’animo e all’inizio di Settembre
interviene al Congresso della SIPS (Società Italiana per il Progresso delle
Scienze) riaffermando i principi della sua dottrina razziale.22 Egli contrappone alla visione puramente antropologica e biologica e morfologico-formale della razza, secondo Pende ormai scientificamente insostenibile, una
visione dinamica, per cui il biotipo di una razza sarebbe la sintesi di tutti
gli elementi morfologici, funzionali, energetici e spirituali degli individui
che la compongono. Pende riafferma una visione più volte da lui difesa:
18
Processo a Pende, «Israel», anno CCIV, n. 14-15, 13 gennaio 1949, con una
lettera di Pende e la replica di Carlo Alberto Viterbo. Anche in appendice a Giorgio
Israel, Pietro Nastasi, Scienza, cit.
19
Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 128.
20
Cfr. ACS, Ministero della Cultura Popolare, fasc. 54, Pende Sen. Nicola.
21
Ibidem.
22
N. Pende, La profilassi delle malattie e anomalie ereditarie, Atti della SIPS, 27a
riunione, Bologna, 4-11 Settembre 1938; Roma, SIPS, 1939, vol. 6, pp. 63-73.
112
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la razza di un popolo «si riconosce più che dall’analisi delle forme corporee degli individui che la compongono, dal particolare tipo di dinamismo
e di vita produttiva e spirituale di questo popolo».23 Il che non contraddice l’esigenza di assumere provvedimenti contro gli ebrei. Al contrario, è
proprio la spiritualità ebraica che può inquinare la vita della nazione. Ma
l’approccio teorico alla questione è essenziale: esso comporta una differenza anche legislativa cruciale rispetto all’approccio germanico, poiché
non esclude la possibilità di recuperare soggetti passibili di assimilazione
e pertanto non è in contraddizione con la visione della Chiesa. Per parte
sua Landra, in data 14 settembre trasmette al Ministro Alfieri un rapporto
(non firmato ma evidentemente di sua mano) molto critico nei confronti
di Pende che suggerisce di «provvedere energicamente affiché la stampa
non esponga più i concetti propugnati dal Sen. Nicola Pende».24 In questo
rapporto si critica punto per punto l’intervento di Pende alla SIPS riproponendo l’approccio biologistico Di particolare interesse, sul piano politico,
è la stizzita osservazione secondo cui Pende starebbe tentando di creare
«difficoltà tra il Fascismo e la Chiesa, quasi che il Regime sia in procinto
di prendere delle misure ripugnanti».
Poco dopo, il 5 ottobre, Pende pubblica un articolo in cui riafferma con
forza il suo punto di vista, ribadendo che esso costituisce la migliore giustificazione per l’esclusione degli ebrei dalla comunità nazionale, e quindi
accreditandolo come la teoria razzista ufficiale del fascismo: «la coniugazione di italiani con gente che, come gli ebrei, gli etiopici, gli arabi,
sono tanto lontani soprattutto spiritualmente dalla progenie romana-italica,
deve essere severamente vietata». In questo articolo, che compare accanto
all’elenco dei docenti universitari ebrei che sarebbero stati espulsi pochi
giorni dopo, Pende rileva con enfasi:
non solo è necessario mantenere puro il nostro sangue da inquinamenti con
razze diverse, non solo è necessario evitare il depauperamento numerico e qualitativo delle nostre generazioni: occorre pure provvedere […] all’allevamento
e la creazione di esseri superiori, degli eletti della razza, dello stato maggiore
biologico della nazione italiana […] l’Italia può serenamente attendere che il
genio del suo Duce abbia compiuto la grande opera costruttrice di una nuova
razza unitaria italiana, come continuatore dell’opera di Roma.
23
Pende sostenne queste posizioni in numerosi testi. Qui ci riferiamo a: Nicola
Pende, La politica fascista della razza, «Annali di Medicina navale e coloniale», anno
XVLI,!940, fasc. VII-VIII, pp. 3-8.
24
ACS (Archivio Centrale dello Stato), Segreteria particolare del Duce, Carteggio
ordinario, fasc. 509058 (Pende Sen. Nicola).
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113
Qualche giorno dopo Pende interviene sulla rivista del Duce, «Gerarchia», e ribadisce:
nella politica matrimoniale biologica è evidente poi la necessità di proibire il
matrimonio con razze di colore e con razze che, come l’ebrea, nulla hanno a
che vedere con la progenie di Roma, e che dal lato dell’animo soprattutto, differiscono fondamentalmente dal tipo spirituale romano-italico.25
In questa situazione confusa, Mussolini legge il rapporto di Landra e
probabilmente gli da credito. Alfieri il 16 ottobre 1938, da disposizione
alla stampa di «non occuparsi più di quello che fa e di quello che scrive il
Senatore Prof. Pende». Il giorno seguente «Il Tevere» sferra un violentissimo attacco a Pende,26 manifestamente dovuto alla penna di Interlandi, in
cui il clinico è accusato di tradire la politica razzista del regime e di essere
«quasi un complice dei giudei». È il momento più difficile per Pende che,
tuttavia, non si scoraggia e passa ancora una volta al contrattacco. Scrive
ad Alfieri il 17 e il 18 lamentando «l’insulto indegno dell’etica fascista»
da lui subìto, incredulo che il Ministro possa «aver autorizzato la pubblicazione» sul «Tevere» e chiede perentoriamente: «Vogliate voi dire al
Duce che dia ordini all’Interlandi di lasciarmi in pace». Nel frattempo,
il 18, scrive anche a Sebastiani allegandogli una lettera per Mussolini. Il
documento27 costituisce un capolavoro di servilismo e di arroganza accademica al contempo e rivendica il primato di Pende nella politica della razza.
Pende chiede «giustizia piena ed esemplare contro l’ingiuriatore» che ha
falsificato le sue «idee razzistiche», le quali invece, affermando il principio
dei «matrimoni tra italici ed italici soltanto» hanno avuto come sanzione
proprio i provvedimenti razziali assunti dal Gran Consiglio. Di particolare
importanza è l’allusione di Pende al fatto che il suo razzismo è in grado
di portare in dote al Duce il consenso cattolico: «per bocca di Padre Gemelli ho avuto l’approvazione delle autorità dell’altra sponda del Tevere».
E conclude osservando che personaggi come Interlandi «fanno più male al
Regime che non mille ebrei uniti insieme».
Il Duce recepisce il messaggio, matura rapidamente le sue scelte e fa
pendere la bilancia dalla parte di Pende e Visco. Il 20 ottobre un appunto
della Segreteria particolare del Duce documenta la decisione di risolvere
Nicola Pende, La terra, la donna e la razza, «Gerarchia», vol. 18, n. 10, ottobre
1938, pp. 663-669.
26
Canovaccio per commedia, «Il Tevere», 17 ottobre 1938.
27
Lettera al Duce del 18 ottobre 1938. ACS (Archivio Centrale dello Stato), Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, fasc. 509058 (Pende Sen. Nicola). Tutti
i documenti sopra citati sono contenuti in questo fascicolo.
25
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la vertenza in corso fra Pende «sostenuto dall’Osservatore Romano» [sic]
e «Il Tevere» con l’affidamento a uno studente del quinto anno di Medicina di scrivere una risposta a Interlandi. In una postilla, il Duce ordina
di procedere attraverso il Partito e difatti il provvedimento è rimesso a
Starace. La guerra-lampo di Pende è già finita. Seguirà per lui un periodo
di onori crescenti, con l’approvazione del progetto di costituire un Istituto di ortogenesi e bonifica della stirpe accompagnato da una Mostra
dell’ortogenesi fascista della stirpe, che avrebbe dovuto trovare posto nella
mostra universale E 42 e con la nomina a Rettore dell’Accademia della
Gioventù Italiana del Littorio. Nel febbraio 1939 Landra viene esautorato
dalla carica di Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop e il suo posto viene
preso da Sabato Visco. Il 26 settembre 1949, a seguito di una richiesta di
Visco, il titolare del Minculpop, Alessandro Pavolini, allontana Landra
dal Ministero. L’addebito mosso a Landra da Visco era di avere svolto
opera contraria al Minculpop, per essere stato il promotore della polemica
contro il libro di Giacomo Acerbo, I fondamenti della dottrina fascista
della razza:28 ricordiamo che Acerbo era, assieme a Pende e Visco, uno
dei principali esponenti della corrente nazional-razzista a orientamento
spiritualistico.
È quasi superfluo osservare che questa vicenda non segna la sparizione
della corrente biologistica e filogermanica del razzismo fascista che, anzi, si
annida e sopravvive soprattutto attorno alla rivista «La difesa della razza».
Essa tuttavia ci insegna varie cose. In primo luogo, conferma che sono
esistiti diversi razzismi del fascismo che si sono confrontati e persino combattuti per affermare la loro egemonia. In secondo luogo, che la corrente
biologistica filogermanica ha avuto un peso rilevante ma tutto sommato
niente affatto egemone, come è testimoniato anche dal fatto che il prestigio
e la diffusione de «La difesa della razza» declinò rapidamente. In terzo
luogo, che la corrente ispirata alle concezioni di Pende, Visco e Acerbo ha
avuto un influsso rilevante, il che dimostra ulteriormente il carattere autonomo e autoctono del razzismo fascista rispetto a quello nazista. Del resto,
un’attenta lettura della legislazione fascista mostra l’influsso che su di essa
hanno avuto tali concezioni, e in particolare quella miscela di biologismo
e di spiritualismo che caratterizza il concetto di razza alla Pende. È stato
lo stesso Pende a spiegare molto chiaramente in che senso quella visione
razziale abbia influenzato la legislazione fascista e l’abbia differenziata
da quella germanica. A suo avviso, gli aspetti della lotta fascista per la
razza sono essenzialmente tre: epurazione della razza romana-italica; poli-
28
Giacomo Acerbo, I fondamenti della dottrina fascista della razza, Roma, (AGGIUNGERE EDITORE Azienda Tipografica Editrice Nazionale?) 1940.
IL DOCUMENTO “IL FASCISMO E I PROBLEMI DELLA RAZZA” DI LUGLIO 1938
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tica matrimoniale eugenetica; eugenetica a base di ortogenesi e di bonifica
umana. Riguardo al primo aspetto egli osserva
Tale epurazione spiega le leggi antisemitiche, leggi in cui non solo la generosità del Duce ha fatto delle discriminazioni, ma anche il suo alto intelletto
scientifico, in quanto egli ritiene che è lo spirito delle varie stirpi eterogenee
a noi che sopratutto occorre tener presente, e quindi è lo spirito ebraico che
sopratutto può nuocere alla vita della nostra razza anche indipendentemente
da incroci di sangue. Dal lato della influenza dannosa di uno spirito ebraico
così lontano da quello romano-italico, è chiaro che anche pochi semiti bastano
a inquinare tutta la vita spirituale di una nazione. Ma nel tempo stesso questo
principio spiega la grande generosità delle leggi fasciste che risparmiano ogni
ostracismo a quei rari casi di ebrei che hanno dato prove lampanti che il loro
spirito erasi omogeneizzato in tutto e per tutto con lo spirito della patria italiana.29
In conclusione, il Manifesto non può essere considerato come pienamente rappresentativo delle concezioni razziali prevalenti nel fascismo.
Esso rappresenta una punta di tipo biologistico difficile da sostenere in un
contesto come quello italiano, come dimostra l’incoerente presenza in esso
di elementi di natura diversa (spiritualistici e mediterranei). Non è certamente un caso che non ci si accontentò di dimenticare questo documento.
Esso fu anche riveduto e drasticamente emendato dal Consiglio superiore
per la demografia e la razza nel 1941-42 con nuovo testo approvato dal
Consiglio il 25 aprile 1942.30 La Commissione ristretta che si occupò di
questo compito – e che era composta da Raffaele Corso (ordinario di etnografia), Arnaldo Fioretti (in rappresentanza del PNF), Biagio Pace (ordinario di topografia dell’Italia antica), Antonino Pagliaro (ordinario di glottologia), Umberto Pierantoni (incaricato di genetica e biologia delle razze),
Giunio Salvi (ordinario di anatomia umana) e Sergio Sergi – commentò
puntigliosamente ogni punto del decalogo.
Il primo punto è definito «ingenuo», «alogico» e tale da sottrarsi «proprio al compito di una definizione concreta». La definizione di razza data
sarebbe vaga e di fatto coincidente con quella di specie, mentre si sottolinea
la necessità di stabilire «i caratteri fisici e psichici […] quando dal concetto
di specie si vuol passare a quello di razza».31 La distinzione fra razze maggiori e minori (introdotta nel secondo punto) finirebbe col negare ai gruppi
Nicola Pende, La politica, cit.
Cfr. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario, 1936-1940, Torino,
Einaudi 1981, p. 868-877.
31
Il corsivo è nostro.
29
30
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minori la caratterizzazione di razza, riducendoli a varietà delle grandi razze.
Si riconosce validità all’affermazione che il concetto di razza è biologico,
accettando che la trasmissione dei caratteri morfologici, sia fisiologici che
psicologici, avvenga per via ereditaria, ma si afferma significativamente:
«Sta di fatto che tali caratteri possono venir modificati nel tempo da fattori
endogeni ed esogeni ed allora il patrimonio ereditario presenta nuovi caratteri che arricchiscono o fanno decadere gli individui». E inoltre: «Gli AA.
dicono che mentre i concetti di popolo e di nazione sono fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche e religiose etc., nello stesso
tempo le differenze fra popolo e popolo, fra nazione e nazione sono basate
su differenze razziali, il che appare come una contraddizione in termini».
L’asserto 4 (l’affermazione che ben poco sia rimasto nella penisola
delle genti preariane) costituirebbe «una negazione ingiustificata e indimostrabile delle scoperte antropologiche, etnologiche e archeologiche».
Al contrario, sono documentati gli «influssi esotici» di razze differenti
sulla popolazione autoctona della nostra penisola. Non si vede quindi perché questa dovrebbe essere considerata ariana: in tal caso la civiltà ariana
avrebbe avuto uno sviluppo precoce nelle penisole greca e italiana e si
sarebbe attardata «in forme addirittura primitive dei paesi scandinavi, anglosassoni, germanici, slavi e celtici». Quanto al punto 5 (e cioè che sia una
leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini alla popolazione italiana)
se ne ammette la validità, a patto che l’asserzione venga estesa a tempi
molto più lunghi del millennio. Non piace neppure il punto 6, che asserisce
l’esistenza di una pura razza italiana: «Esiste una “razza italiana” non una
“pura” razza Italiana». È vero che la razza italiana discende «per parentela
strettissima, anche se non purissima, di sangue, dalle generazioni che da
millenni e millenni popolarono la penisola», ma «non sono più sulla terra
razze umane pure ed in questa constatazione concordano tutti gli studiosi».
Si prendono così ulteriormente le distanze dal razzismo biologico basato
sull’idea della purezza del sangue.
Il punto 7 è definito «manifestamente incoerente» e viene stigmatizzato
il passaggio più filogermanico e cioè che la concezione del razzismo deve
essere italiana e l’indirizzo “ariano-nordico”:
In sostanza, ciò significa che la concezione italiana deve basarsi sul nordismo,
il quale come ognuno sa, nega recisamente qualunque virtù ai mediterranei
considerati popoli di schiavi. Ciò significa altresì ripudiare tutta la civiltà italiana, la quale secondo i nordisti avrebbe prodotto imbarbarimento e deviamento
culturale nella civiltà culturale dei puri nordici. I quali, viceversa, a malgrado
della loro conclamata superiorità, sarebbero in sostanza nel fatto rimasti succubi della civiltà mediterranea in generale e di quella italiana in particolare.
Strana contraddizione in termini che i nordisti non si sono dati cura di eliminare dai loro scritti.
IL DOCUMENTO “IL FASCISMO E I PROBLEMI DELLA RAZZA” DI LUGLIO 1938
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Il Manifesto asseriva che ciò non implicava l’adesione ai postulati
del razzismo tedesco. Ma il Consiglio rileva che «in che cosa l’indirizzo
ariano-nordico si differenzi sostanzialmente dal razzismo tedesco non è
dato da vedere». Se poi ciò è detto per additare agli Italiani un modello
che si stacca dalle civiltà extraeuropee, non si vede come ciò potrebbe
«elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso», perché
proponendo il modello ariano-nordico si suggerirebbe una «implicita svalutazione del tipo fisico e psicologico degli Italiani».
Relativamente al punto 8 si osserva che è pericoloso «dimenticare che
vi fu un’unità mediterranea, che si realizzò politicamente sotto l’egida di
Roma». Quanto agli ebrei, è ovvio che essi non sono razzialmente omogenei agli italiani. Ma è contraddittorio e privo di senso affermare che la
razza semitica si comporrebbe di due gruppi, quello arabo che si è assimilato e quello ebraico non assimilabile. Infine, anche l’ultimo punto viene
criticato in quanto:
mentre nel n. 6 viene proclamata la purezza della razza italiana, qui gli AA.
ammettono l’incrocio di essa con le altre razze europee, poiché secondo essi,
ma non secondo i razzisti tedeschi, tale incrocio non darebbe luogo ad un vero
e proprio ibridismo.
Il Consiglio propone quindi una riscrittura del documento che postula
«l’esistenza in Italia, sino dal paleolitico superiore, di una razza dotata
di grandi qualità creative ed assimilatrici, destinata a far prevalere il proprio tipo fisico ed il proprio genio etnico e culturale»: i protomediterranei
d’Italia. L’afflusso molto posteriore di gruppi umani ari o ario-europei ha
prodotto interazioni con questa razza, ma ha dato effetti positivi a causa
del favorevole ambiente determinato da questa. Roma è stata l’espressione
«al tempo stesso tipica e grandiosa» di «tale intima compenetrazione tra
l’etnos e la civiltà delle popolazioni preesistenti e l’elemento ario sopravvenuto». Il popolo d’Italia appare quindi, al suo ingresso nella storia, come
un popolo unitario; il che prova che alcuni caratteri genetici eletti, sia fisici
sia psichici, hanno prevalso del sincretismo degli elementi diversi, ma tuttavia legati da affinità elettiva, generando un tipo umano superiore.
Ai principî genetici che esso esprime fisicamente: per nobiltà di volto, solidità
ed armonia di architettura corporea, per sempre rispondente potere di adattamento alle varie condizioni ambientali, spiritualmente: per qualità produttive
dello intelletto, per visione chiara ed immediata della realtà, per spiccato senso
etico e perspicuo intuito politico e giuridico, creatori ed informatori civili ordinamenti, la razza italiana deve la sua fondamentale originalità, mai smarritasi
attraverso le sue svariate, millenarie vicende.
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In conclusione,
la compagine etnica d’Italia, risultato di questo lungo millenario processo, è
nettamente definita nel momento in cui Augusto compie il suo ordinamento;
e questo esprime ancor oggi, a circa due millenni di distanza, la sostanziale
struttura dell’Italia moderna.
Tutti tentativi che si sono verificati nei secoli di annacquare queste caratteristiche sono tutti falliti «senza nulla potere su questo blocco adamantino
ed omogeneo degli italiani, che Roma ha collaudato». Quanto agli ebrei
«gruppo etnico estraneo tendenzialmente disgregatore, hanno costituito
sempre un’esigua minoranza, che non solo non ha intaccata in alcun modo,
ma nemmeno sfiorata l’unità biologica e spirituale della razza italiana».
La parabola del Manifesto appare così conclusa e l’esigenza espressa
da Bottai nel vivo dello scontro sul suo testo, ovvero rimettere in sesto le
idee combinando l’idea “razza” con l’idea “Roma” in un senso che concilia biologia e spiritualità, appare realizzata ed esprime l’originalità della
concezione razziale del fascismo.
Giorgio Israel
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