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Atelier iconografico di Bose
8 maggio 2017
Gv 6,48-58
30 In quei giorni Gesù disse ai suoi discepoli: «
48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la
manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la
mia carne per la vita del mondo».
52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo
sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo
risusciterò nell'ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la
mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo
per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come
quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Sta scritto: «Ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi» (Dt 8,3). La manna: una parola che racchiude un interrogativo:
«Man hu: che cos’è?» (Es 16,15), poiché il Pastore di Israele aveva offerto al suo popolo un pane che era anche – al
tempo stesso – una domanda. Un dono che reca in sé un mistero, e che diviene la prefigurazione del dono di
Cristo, di quel dono che è il Cristo stesso, donato nella sua carne che è vero cibo e nel suo sangue che è vera bevanda,
in cui noi abbiamo accesso alla vita eterna, alla vita risorta (cf. Gv 6,54-55.58).
«Io sono il pane» (v. 51), dice Gesù: siamo qui in presenza dell’ennesima auto-definizione che il quarto Vangelo pone
sulle labbra di Gesù. Il Nome di Dio – l’Io sono – si declina nella fragranza ordinaria e quotidiana del pane, per narrare la
con-discendenza e la prossimità della misericordia di Dio, di un Dio che si fa pane.
Quel pane che si affaccia dal cielo è anche il pane che germoglia dalla terra (cf. Sal 85,12), nella carne mortale
dell’uomo Gesù Cristo, che ci ha lasciato il memoriale della sua vita e della sua pasqua di morte e resurrezione nel
segno vivente del pane e del vino; quel pane e quel vino che stanno sui nostri altari, quale «frutto della terra e del lavoro
dell’uomo» (Messale Romano, Riti di offertorio).
Gesù ci dona il suo corpo da mangiare perché noi lo assimiliamo completamente: quel cibo diventa parte del
nostro stesso corpo e, misteriosamente, ci assimila a sé, ci rende con-corporei con il Corpo di Cristo. In tal modo, il pane
degli angeli si fa cibo per gli uomini in cammino, allorché il Cristo si consegna, «si arrende» – per così dire – «“nella” forma
del pane e del vino», in quel corpo donato senza riserve, perché gli uomini se ne nutrano e vivano (R. Williams).
Ma in questo meraviglioso scambio, urtiamo anche contro la plasticità carnale del linguaggio di Gesù che ci scuote, nella
sua concretezza… «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52). Gesù parla così della sua umanità
totale, fatta di carne e sangue, di quella carne fragile e vulnerabile, che sarà data in pasto alla violenza degli uomini.
Gesù conosce il calore e il colore del sangue, che sta per essere versato sulla croce.
«Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51), dice ancora Gesù. Ecco la meta del dono di Cristo: la
vita, la nostra vita. Questa trasfusione di vita in vita, che già qui e ora dischiude per noi la porta della vita eterna (cf. v.
54), ci fa conoscere la verità di quel corpo di carne che è il nostro; ci fa conoscere l’altezza e la profondità di questo
pane vivo disceso dal cielo che è la carne di Cristo incontrata nei segni sacramentali e nel sacramento del
fratello, sul volto ferito dei sofferenti e nel gemito dei poveri; e ci fa conoscere l’estensione e l’ampiezza di quel corpo di
corpi che è la Chiesa.
L’eucaristia ci ricorda che i« corpi sono doni, e i doni vanno ricevuti per essere donati di nuovo. […] i nostri corpi ci
sono donati affinché impariamo a darli a un altro con rispetto, fedeltà, vulnerabilità e senza riserve». Così «trasmettiamo il
dono che noi stessi siamo» (T. Radcliffe).
fratel Emanuele
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