lavoro per la forza con il metodo alberti

LAVORO PER LA FORZA CON IL “METODO ALBERTI”
E. Arcelli
In questo periodo si parla molto del “metodo Alberti”, ossia del lavoro che serve per migliorare la
forza muscolare e del quale è uscito di recente un libro edito da Calzetti-Mariucci (Alberti, Garufi e
Silvaggi: “L’allenamento della forza a bassa velocità”).
Proprio quanto si legge nel titolo del libro suscita già molte perplessità: se il lavoro è a bassa
velocità, come si può pensare che possa essere utile nella maggior parte degli sport e, in particolare,
nel calcio, disciplina in cui semmai conta avere muscoli scattanti ed esplosivi?
Questi dubbi nascono, prima di tutto, dalla non conoscenza dei presupposti fisiologici del metodo e,
più in generale, dalla convinzione (quanto mai semplicistica, ma portata avanti con ostinazione da
alcuni) secondo la quale un certo mezzo di allenamento può essere utile all’atleta soltanto se
assomiglia alla competizione.
É importante, dunque, capire che cosa succede nei muscoli quando si utilizza il “metodo Alberti”.
Un certo gruppo muscolare, innanzitutto, deve rimanere continuamente in tensione durante
l’esecuzione delle ripetizioni: sia al termine della contrazione concentrica che al termine di quella
eccentrica, insomma, non si deve rilassarlo, ma si deve fargli cambiare il tipo di movimento (da
concentrico ad eccentrico e da eccentrico a concentrico) senza permettere che si decontragga.
Se si fa una pausa, non si sta lavorando correttamente. É, infatti, il mantenimento (per varie decine
di secondi o per alcuni minuti) della tensione costante dei muscoli interessati allo sforzo il fattore
cui fare riferimento per capire il vero motivo dell’efficacia del lavoro, poiché è proprio questa
tensione costante fa sì che venga bloccata la circolazione a livello dei muscoli che sono interessati
allo sforzo. Se non arriva sangue (o ne arriva poco), c’è ipossia, ossia un rifornimento nullo o scarso
di ossigeno.
Se la forza esercitata da questi muscoli corrisponde al 50% delle loro massime possibilità (con
questo metodo, infatti, si utilizzano sempre carichi molto al di sotto di quelli massimi), del tutto
verosimilmente all’inizio intervengono soprattutto fibre di tipo I (lente, rosse). Queste usano
l’ossigeno che hanno a disposizione, in particolare quello che è accumulato nella mioglobina, ma
che – essendo in quantità limitata – presto si esaurisce. Le fibre di tipo I, poiché non sono adatte
all’utilizzo massiccio del meccanismo energetico anaerobico lattacido, non disponendo più di
ossigeno, dopo poco tempo (ossia dopo alcune contrazioni) smettono di intervenire (sono “fuori
uso”).
Il lavoro muscolare può continuare grazie al fatto che, a questo punto, intervengono in sostituzione
fibre di tipo II (pallide, veloci), senz’altro più adatte a utilizzare il meccanismo energetico
anaerobico lattacido. Esse lavorano senza ossigeno (anaerobicamente) e producono acido lattico. I
valori di lattato che si riscontrano (abbastanza alti considerando che sono stati rilevati su soggetti
che non sono abituati a utilizzare questo meccanismo energetico e che si riferiscono a gruppi
muscolari di volume limitato) sono un indice di questo intervento.
Anche le fibre di tipo II, in ogni caso, possono intervenire soltanto per un numero ridotto di
contrazioni. Si può pensare che all’inizio siano utilizzate fibre in un numero più limitato rispetto a
quelle lente, poiché ciascuna fibra di tipo II è dotata della capacità di esercitare mediamente una
tensione più elevata. Ma in certe fibre aumenterà via via (di contrazione in contrazione) la
concentrazione di ioni H+, dunque in esse si raggiungerà un pH critico che le metterà a sua volta
“fuori” uso. Ci sarà un ulteriore turn over di fibre, grazie al quale saranno interessate molte (se non
tutte) le fibre di tipo II.
Credo che l’utilità di questo lavoro risieda proprio nella capacità di far compiere lavoro contro
resistenza (quindi di costituire uno stimolo al miglioramento della forza) ad un numero elevato di
fibre di tipo II, comprese quelle di questo tipo che sono dotate di meno forza.
Come in altre situazioni, anche in questo caso la presenza di certe concentrazioni di lattato nel
sangue non significa che è questa sostanza a determinare l’adattamento che si otterrà, ma è soltanto
una spia del fatto che c’è uno stato di ipossia.
Un’altra caratteristica di questo lavoro è costituita dal fatto che aiuta a prevenire e a curare alcuni
traumi tendinei e articolari, come si è visto in alcuni campioni dell’atletica leggera.
Il “metodo Alberti”, insomma, ha molte caratteristiche interessanti e merita senz’altro di essere
studiato e, una volta capito, utilizzato – assieme ad altri metodi – con gli atleti, calciatori compresi.
Solo chi è molto superficiale può affermare che “…dato che si basa su contrazioni lente, non può
essere utile nel calcio”.