Presentazione
Il libro di Angelo Tartabini L’uomo scimmia. Implicazioni psicologiche e
animali comparate, è l’ideale prosecuzione di altri due lavori che l’Autore
ha pubblicato negli ultimi tre anni, vale a dire Una scimmia in tutti noi
(Milano, 2001) e Psicologia evoluzionistica (Milano, 2003). Comunicazione, cultura e ambiente, origine ed evoluzione del linguaggio, cultura materiale e cognizione, teoria della mente, conflitto animale e umano, rivalità generazionale, evoluzione dell’organizzazione sociale animale e umana sono i
temi di ricerca più cari ad Angelo Tartabini e fanno da cornice a un discorso
in cui predomina la dimensione psicologica del nostro rapporto con il mondo
animale, in primo luogo con quello delle scimmie antropomorfe.
L’Autore prende spunto da alcune riflessioni sui grandi conflitti dell’umanità dovuti all’ineguaglianza tra gli esseri umani. L’“eresia” di Jean
Jacques Rousseau è quanto mai attuale! Il grande filosofo ginevrino sosteneva che l’uomo selvaggio e l’uomo civilizzato differiscono solo nel “cuore”
e che l’ineguaglianza funesta tra gli uomini nasce con la valorizzazione di
falsi “talenti” e con il “deprezzamento della virtù”.
La lotta per la sopravvivenza degli ultimi primati non umani sparsi in
alcuni paesi del Mondo, alcuni dei quali visitati e descritti nel testo
dall’Autore (Panama, Guatemala, Belize e Tanzania), fornisce un quadro in
cui ancora i due mondi si contendono le ultime risorse ritenute indispensabili per l’umanità. L’Autore auspica che l’uomo smetta di fare violenza alla
natura – soprattutto a coloro che rappresentano l’unico legame che ancora gli
resta con il suo passato e la sua origine – non rendendosi conto che, nella
sostanza, fa violenza contro se stesso.
L’evoluzionismo darwiniano ha fatto crollare barriere e pregiudizi, ma
resta ancora una grossa fetta dell’umanità ancorata a un lontano passato che
considera gli animali senza “anima”, senza idee e senza coscienza di sé.
L’Autore offre un numero notevole di esempi in cui sovverte i pregiudizi e
dimostra che la memoria, la valutazione, il calcolo, l’organizzazione del pensiero, il controllo del tempo e dello spazio, la rappresentazione del successo,
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PRESENTAZIONE
persino il senso della morte, fanno indiscutibilmente parte della vita e della
psicologia animale. Noi uomini dovremmo dedicare più attenzione alle
scimmie antropomorfe. Per l’Autore l’aggressività umana (razzismo, fascismo e terrorismo), le nostre capacità cognitive e intellettive sono diventate
sempre più sofisticate e competitive, ma si stanno incanalando verso vie che
potrebbero essere di non ritorno. Dice bene Tartabini quando sostiene che le
scimmie giustamente non si chiedono, come invece fanno molti teorici del
pensiero, il perché della loro posizione, del loro scopo nella natura, in quanto, risolvere o non risolvere questi dilemmi, non cambierebbe assolutamente nulla ai fini della loro esistenza. E senza pensarci vivono meglio, così
come vivono meglio le zebre che non soffrono di ulcera anche se sono sottoposte a condizioni di vita certamente stressanti (Sapolsky, 1998): non si
svegliano nel cuore della notte pensando “O Dio, domani devo correre tutto
il giorno per non farmi mangiare dal leone”, corrono e basta, e poi si fermano, e poi corrono ancora se serve, e non conoscono l’ulcera, l’ipertensione,
l’infarto e tutto il bagaglio funesto che accompagna la nostra vita.
Paolo Moderato
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Introduzione
L’uomo scimmia non racconta una storia. Non parla nemmeno del comportamento delle scimmie, come comunemente s’intende. I capitoli di questo
libro toccano diversi argomenti i cui contenuti sembrano non essere collegati tra loro, ma che, nella realtà, hanno un filo conduttore in comune, vale a
dire il rapporto tra l’uomo e le scimmie. Questa grande affinità può essere
argomento di molte provocazioni, di cui in parte parleremo, nel senso che
noi uomini spesso dimentichiamo le nostre origini, ci asteniamo dal giudicare noi stessi e ci ergiamo sopra tutte le altre specie animali (comprese le
scimmie) facendo da padrone, come se ritenerci più intelligenti degli altri
possa giustificarci da tutte le nostre nefandezze. Questo sarebbe il male
minore (almeno per l’uomo). Il fatto è che noi uomini facciamo del male
anche a noi stessi. Diciamo di distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, decidiamo quali siano le specie animali utili da quelle inutili alla nostra
sopravvivenza, decidiamo di distruggere foreste e bacini idrici naturali, pensiamo che siamo l’unico essere ad avere e diffondere cultura e pensiamo di
essere l’unica specie cosciente delle proprie azioni, crediamo di essere giusti, di avere il senso della morale, di essere nobili sia nei sentimenti, sia nei
fatti, e di non avere dubbi e incertezze sul futuro nel Mondo.
Quando qualche milione di anni fa l’uomo comparve sulla faccia della
Terra, non potevamo prevedere dove andasse a parare la nostra evoluzione.
Certo è che abbiamo fatto grandi progressi. Da un lato, abbiamo sviluppato
velocemente il nostro corpo e la nostra mente, abbiamo cominciato a occupare nicchie ecologiche che ci hanno salvaguardati dal pericolo di estinzione. Abbiamo combattuto, ci siamo difesi, opportunisticamente abbiamo preso
dalla natura il meglio che ci potesse servire e abbiamo cominciato a invadere tutte le terre emerse. Alla fine, abbiamo avuto successo. Ma tutto ciò che
abbiamo fatto negli ultimi 5-6 milioni d’anni, per collocarci al di sopra degli
altri, spesso ci si è ritorto contro. Abbiamo cominciato a perdere la “dimensione animale” che ci caratterizzava nei primi momenti dell’evoluzione.
Abbiamo assunto sempre più una dimensione umana, ma che d’umano,
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INTRODUZIONE
aveva, e ha, solo la parola. Abbiamo perso il senso dello sviluppo, non riflettendo che senza memoria evolutiva, non c’è futuro. Abbiamo dimenticato i
nostri legami con il Regno Animale, soprattutto con quello delle nostre cugine: le scimmie, con le quali abbiamo percorso un lungo cammino evolutivo
comune.
Con molta difficoltà abbiamo accettato l’idea che le capacità cognitive e
intellettive delle scimmie fossero, nella quantità e non nella qualità, diverse
dalle nostre. Non abbiamo accettato assolutamente la somiglianza con questi
esseri e non siamo stati disposti tanto facilmente a comunicare con loro, a
chiedere che cosa desiderassero, soprattutto che cosa pensassero dell’uomo.
Fino a qualche decennio fa abbiamo creduto che fosse stato possibile
comunicare con loro unicamente attraverso il linguaggio articolato. Vi sono
altri strumenti per la comunicazione interspecifica (vedi il linguaggio dei
segni), ma quando sono stati usati e con successo, si è subito detto che fossero una sorta di stimoli condizionati e che le risposte delle scimmie fossero
dovute a processi di associazione, risposte condizionate e che non dimostrassero nessuna creatività da parte delle scimmie.
L’uomo ha sempre cercato di discriminare gli altri, sia che appartenessero alla stessa specie, sia che appartenessero a specie diverse. “Nobili e selvaggi” è una dicotomia che ha sempre influenzato il pensiero dell’uomo, sin
dalle origini. Selvaggi erano gli uomini di Neandertal (Homo neandertaliensis) per gli invasori delle loro terre, i Cro-Magnon (Homo sapiens), perché
non ne condividevano la cultura, le usanze, il modo di cacciare e soprattutto
la stanzialità (Tattersall, 1995, 1998).
Il conflitto tra specie di scimmie diverse invece non si ingigantisce mai e
mai viene portato alle estreme conseguenze. Si può sconfiggere il nemico, si
può ambire alla conquista del suo territorio e delle sue ricchezze naturali, si
può scacciare e sottomettere, ma mai sopprimere, solo per il gusto di sopprimere o per il fatto che il nemico sia “un diverso”. Non si passa mai a risoluzioni finali, non ci si incammina su vie di non ritorno. Le scimmie intuiscono che può essere controproducente, può vanificare una vittoria. In questo senso, le scimmie sono lungimiranti e più avvedute degli uomini. Dimostrano di possedere raffinatezza di ragionamento, coscienza etica e morale e
molta “intelligenza”. Tutto questo deriva da una lunga esperienza di vita con
la famiglia o con chi si prende cura dei piccoli fino allo svezzamento, da un
rapporto madre-figlio più naturale e armonioso di quello umano, nonostante, a volte, si verifichino delle eccezioni (come l’infanticidio) che sono dettate dalle esigenze riproduttive interne ai singoli gruppi in cui si vive e che
in ogni caso prevedono un ripristino immediato dell’unità sociale e una maggiore protezione dei piccoli che stanno per venire alla luce.
XIV
INTRODUZIONE
Il comportamento sessuale nelle scimmie impone una diversificazione dei
ruoli, delle competenze e delle responsabilità, diverse da quelle umane. Non
dobbiamo accusarle per questo. Le scimmie, è vero, non prendono mai decisioni definitive, ma è anche vero che questo modo di fare causa danni minori rispetto a quelli causati da noi uomini che, per molte ragioni (senso del
dovere, onore, rispetto delle leggi, senso dello stato ecc.) commettiamo direttamente o indirettamente un’infinità d’atrocità, inclusi “raffinati” infanticidi
di massa. Per esempio, il fatto che in Africa e in Centro-America si distruggano le foreste e che questo provochi dissesti idrogeologici che alimentano
frane, straripamenti di fiumi, inondazioni che spazzano via interi villaggi e
causano la morte anche di bambini innocenti, è pur sempre infanticidio,
come d’altra parte è infanticidio la fame nel mondo e altri atti criminosi perpetrati dall’uomo (guerre e terrorismo).
In questi ultimi anni sembra vi sia un’inversione di tendenza. Si fanno
campagne contro governi e defraudatori della natura. Si cerca, insomma, di
salvare il salvabile. Per quanto ci concerne, sono stati messi in cantiere, in
diverse parti del Mondo, programmi di re-inserimento di primati nei loro
ambienti naturali. Scimmie che sono state catturate nella foresta e poi portate altrove o che sono nate in cattività, vengono riportate nei luoghi originari. Sono tutte iniziative molto lodevoli, ma spesso realizzate con scarso successo, soprattutto quando a essere re-integrati sono degli scimpanzé. È come
chiedere a un londinese, di punto in bianco, di andare a vivere nel bel mezzo
della foresta amazzonica, di adattarsi a vivere in questo ambiente e procacciarsi il cibo come un primitivo, solo per il fatto che tra noi uomini moderni
e gli Indios del Sud-America non esistono differenze geneticamente specifiche e significative.
È meglio riflettere su un vecchio adagio che dice: “meglio prevenire che
curare”. È vero, tutti ne siamo consapevoli, ma si fa ben poco per invertire il
nostro cammino. Continuiamo a farci violenza, a depredare la natura e, più
in particolare, a uccidere le scimmie, le quali sono l’unico legame che ancora ci resta con il nostro passato. Una delle ultime mostruosità, commesse
contro queste nostre cugine, è iniziata poco più di una ventina di anni fa,
quando intere popolazioni furono “sacrificate” per combattere alcune malattie umane, come l’Ebola e l’AIDS. Erano utilizzate per produrre vaccini antivirali. Nessuna ricerca, che doveva servire per fare luce sulle cause primarie
e fondamentali di queste malattie ci ha portati da qualche parte. Tuttora non
esiste un vaccino adeguato per l’AIDS e le persone continuano a morire a
centinaia di migliaia, soprattutto in Africa. Uno dei tanti Paesi che abbiamo
scelto come meta del nostro viaggio è appunto la Tanzania, dove due persone su cinque sono destinate a morire a causa dell’AIDS. Il sacrificio di tante
XV
INTRODUZIONE
scimmie non è servito a niente. Le scimmie sono stanche di pagare per gli
errori commessi dagli uomini e dalla loro cupidigia.
Certo, uno scimpanzé non riuscirà mai a scrivere la Divina Commedia o
a costruire il Partenone di Atene, ma se consideriamo l’uso che noi uomini
moderni abbiamo fatto di questi gioielli d’arte e gli insegnamenti tratti, forse,
sarebbe stato meglio non avanzare tante pretese di superiorità rispetto al
Mondo degli Animali, soprattutto a quello delle nostre cugine più prossime.
Angelo Tartabini
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