V. Il problema della “successione”
● Augusto e Agrippa:
T 5a. Laudatio Agrippae (P. Köln VI, 249 - 12 a.C.):
greco
italiano
[...] la tribunicia potestas ti fu
[...] ἡ [γ]άρ τοι δημαρχική σοι
data per cinque anni in virtù di
ἐξουσία εἰς πέν/τε ἔτη κατὰ δόγμα
un senatoconsulto durante il
συγκλήτου / Λέντ‹λ›ων
consolato dei due Lentuli (18
ὑπατευόντων ἐδόθη˙ καὶ / πάλιν
a.C.); ed essa ti è stata data di
αὕτη εἰς ἄλλην Ὀλυμπιάδα /
nuovo per un altro periodo di
5[ὑ]πατευόντων Τιβερίου Νέρωνος
cinque anni durante il consolato
/ κὰι Κυιν‹τ›ιλίου Οὐάρου,
di Tiberio Nerone e di Quintilio
γαμβρῶν τῶν / σῶν προσεπεδόθη.
Varo, tuoi generi (13 a.C.). E fu
Καὶ εἰς {ς} ἃς δήπο/τέ σε ὑπαρχείας
stabilito per legge che in
τὰ κοινὰ τῶν Ρω/μαίων ἐϕέλκοιτο,
qualunque provincia la Res
μηθενὸς ἐν ἐ/10κείναις ἐξουσίαν
Publica avesse fatto appello a te,
μείζω ‹εἶναι› τῆς σῆς ἐν / νόμῳ
in
quelle
(province)
ἐκυρώθη˙ ἀλλὰ σὺ εἰς πλεῖστον /
l’imperium di nessuno
ὕψους καὶ ἡμετέρᾳ [σ]πουδῇ καὶ
fosse maggiore del tuo;
ἀρε/ταῖς ἰδίαις {ἰδίαις}
ma tu, elevato al rango supremo
per nostra cura, per i tuoi meriti
κα[θ᾽]ὁμοφροσύνην συμ/πάντων
e per il consenso di tutti [...].
ἀνθρώπων δια{ι}ράμενος [...]
[latino ipotesi L. Koenen 1970]
[...] Nam tribunicia potestas tibi
in quinque annos ex senatus
consulto Lentulis consulibus
data est, et rursus eadem in
alterum quinquennium Tiberio
Nerone et Quintilio Varo
consulibus, generis tuis, addita
est; et quascumque te in
provincias res publica romana
adhibuisset, nullius in eis
imperium maius ut esset quam
tuum per legem sanctum est.
Sed tu in summum fastigium et
nostro studio et virtutibus
propriis
per
consensum
universorum hominum evectus
[...].
T 5b. Cassio Dione LIV, 12, 4 (a. 18 a.C.):
Augusto fece dare ad Agrippa dei poteri quasi uguali ai suoi.
T 5c. Tacito, Ann. III, 56 (a. 22):
Tiberius, fama moderationis parta quod ingruentis
accusatores represserat, mittit litteras ad senatum
quis potestatem tribuniciam Druso petebat. id summi
fastigii vocabulum Augustus repperit, ne regis aut
dictatoris nomen adsumeret ac tamen appellatione
aliqua cetera imperia praemineret. Marcum deinde
Agrippam socum eius potestatis, quo defuncto
Tiberium Neronem delegit ne successor in incerto
foret. sic cohiberi pravas aliorum spes rebatur; simul
modestiae Neronis et suae magnitudini fidebat. quo
tunc exemplo Tiberius Drusum summae rei admovit,
cum incolumi Germanico integrum inter duos
iudicium tenuisset. sed principio litterarum
veneratus deos ut consilia sua rei publicae
prosperarent, modica de moribus adulescentis neque
in falsum aucta rettulit. esse illi coniugem et tres
liberos eamque aetatem qua ipse quondam a divo
Augusto ad capessendum hoc munus vocatus sit.
neque nunc propere sed per octo annos capto
experimento, compressis seditionibus, compositis
bellis, triumphalem et bis consulem noti laboris
participem sumi.
Tiberio, che si era acquistata la fama di moderazione, per
aver tenuto a freno i delatori, pronti a colpire, mandò una
lettera al Senato (relatio) per chiedere la tribuncia
potestas per Druso (Minore). Questa espressione per
indicare il potere più alto l’aveva escogitata Augusto, per
evitare di assumere l’appellativo di re o di dittatore, e
tuttavia superare tutti gli altri poteri (imperia) con una
definizione qualunque. Egli aveva scelto come collega
(socius) in quel potere (potestas) Marco Agrippa, morto il
quale scelse Tiberio Nerone affinché non restasse incerto
il successore. Così riteneva di riuscire a bloccare le
speranze ingiuste di altri; e parimenti aveva fiducia nella
temperanza di Nerone e nella sua grandezza d’animo.
Tiberio dunque, seguendo il suo esempio (= di Augusto),
portò Druso (Minore) alla posizione più alta, dopo aver
tenuto in sospeso la scelta tra lui (= Druso) e Germanico
mentre questi era ancora vivo. All’inizio della lettera
aveva scritto parole di reverente supplica agli dèi, perché
le sue scelte in favore della res publica fossero propizie, e
aveva fatto seguire pochi accenni riguardo all’indole e ai
costumi di Druso, senza esagerarne falsamente i meriti,
diceva che era sposato, che aveva tre figli, e che aveva la
sua stessa età quando egli, Tiberio, era stato chiamato dal
divino Augusto ad assumere il medesimo ufficio. Non era
certo con precipitazione che egli adesso chiamava Druso
partecipe di una fatica ormai nota, dopo otto anni di
prove, dopo la repressione di rivolte, la condotta di
guerre, dopo il trionfo e dopo la rinnovata assunzione del
consolato.
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T 5d. Cassio Dione LIV, 28 (a. 13 a.C.):
Allora Augusto rinforzò (la posizione di) Agrippa, di ritorno dalla Siria, con la tribunicia potestas per altri
cinque anni; quindi Augusto inviò Agrippa in Pannonia, dove la guerra era imminente, con un’autorità
superiore a quella di qualunque governatore che avesse un comando fuori d’Italia.
● Augusto e Tiberio nel 13:
T 5e. Svetonio, Tib. 21, 1:
Ac non multo post lege per consules lata, ut
provincias cum Augusto communiter administraret
simulque censum a[u]geret, condito lustro in
Illyricum profectus est. Et statim ex itinere revocatus
iam quidem adfectum, sed tamen spirantem adhuc
Augustum repperit fuitque una secreto per totum
diem.
(Tiberio) Non molto tempo dopo, in virtù di una legge
presentata dai consoli, per cui poteva amministrare le
province insieme con Augusto, e parimenti portare a
termine il censimento, compiuto il sacrificio purificatorio,
partì per l’Illirico. Richiamato subito dopo che si era
messo in viaggio, trovò Augusto gravemente malato
sebbene ancora in vita, e stette con lui senza testimoni per
un giorno intero.
T 5f. Velleio Patercolo, II, 121, 1:
senatus populusque Romanus postulante patre eius,
ut aequum ei ius in omnibus provinciis
exercitibusque esset, quam erat ipsi, decreto
complexus est.
Il senato e il popolo romano, su richiesta di suo
padre (= Augusto), conferirono per decreto (a
Tiberio) un diritto eguale a quello di suo padre in
tutte le province e su tutti gli eserciti.
T 5g. Tacito, Ann. I, 3 (a. 14):
Ceterum Augustus subsidia dominationi Claudium
Marcellum sororis filium admodum adulescentem
pontificatu et curuli aedilitate, M. Agrippam
ignobilem loco, bonum militia et victoriae socium,
geminatis consulatibus extulit, mox defuncto
Marcello generum sumpsit; Tiberium Neronem et
Claudium
Drusum
privignos
imperatoriis
nominibus auxit, integra etiam tum domo sua. Nam
genitos Agrippa Gaium ac Lucium in familiam
Caesarum induxerat, necdum posita puerili praetexta
principes iuventutis appellari, destinari consules
specie recusantis flagrantissime cupiverat. Ut
Agrippa vita concessit, Lucium Caesarem euntem ad
Hispaniensis exercitus, Gaium remeantem Armenia
et vulnere invalidum mors fato propera vel novercae
Liviae dolus abstulit, Drusoque pridem extincto
Nero solus e privignis erat, illuc cuncta vergere:
filius, collega imperii, consors tribuniciae
potestatis adsumitur omnisque per exercitus
ostentatur, non obscuris, ut antea, matris artibus, sed
palam hortatu. nam senem Augustum devinxerat
adeo, uti nepotem unicum Agrippam Postumum, in
insulam Planasiam proiecerit, rudem sane bonarum
artium et robore corporis stolide ferocem, nullius
tamen flagitii conpertum. At hercule Germanicum
Druso ortum octo apud Rhenum legionibus inposuit
adscirique per adoptionem a Tiberio iussit,
quamquam esset in domo Tiberii filius iuvenis, sed
quo pluribus munimentis insisteret. Bellum ea
tempestate nullum nisi adversus Germanos
supererat, abolendae magis infamiae ob amissum
cum Quintilio Varo exercitum quam cupidine
proferendi imperii aut dignum ob praemium. Domi
res tranquillae, eadem magistratuum vocabula;
Inoltre Augusto, a sostegno del suo potere, elevò alla
dignità di pontefice e di edile curule Claudio Marcello,
figlio della sorella, ancora giovane, e con due successivi
consolati accrebbe l’autorità di Marco Agrippa, di oscura
famiglia, buon soldato e compagno nelle vittorie, e che,
appena morto Marcello, volle come suo genero; innalzò
poi con il titolo di imperatores i due figliastri Tiberio
Nerone e Claudio Druso, pur essendo ancora integra la
sua discendenza. Aveva infatti introdotto nella famiglia
dei Cesari i figli di Agrippa, Gaio e Lucio, e aveva
desiderato ardentemente, pur sotto l’apparenza di non
volerlo, che essi, non ancora usciti dall’infanzia, fossero
chiamati principes iuventutis e fossero designati consoli.
Morto Agrippa, una fine precoce per fatalità, o per insidia
della matrigna Livia, eliminò Lucio Cesare mentre si
recava presso gli eserciti in Spagna, e Gaio di ritorno
dall’Armenia e invalido per una ferita; e poiché da tempo
era morto Druso (Maggiore), restò solo uno dei figliastri,
Nerone (= Tiberio), e a lui si volse il favore: fu promosso
figlio, collega nell’imperium, partecipe della tribunicia
potestas, e fu presentato agli eserciti, non come prima, per
le oscure trame della madre (= Livia), ma apertamente per
volontà di Augusto. Infatti Livia aveva talmente irretito
l’anziano Augusto, che questi aveva relegato nell’isola di
Planasia l’unico nipote, Agrippa Postumo, del tutto privo
di buone qualità, stoltamente brutale per struttura fisica,
eppure innocente di qualsiasi colpa. Ma Augusto d’altra
parte prepose alle otto legioni del Reno Germanico, figlio
di Druso, e comandò che questi fosse adottato
volontariamente da Tiberio, per contare su più elementi di
protezione, benché nella casa di Tiberio vi fosse un figlio
giovane (= Druso Minore). Non c’erano guerre a quel
tempo, se non contro i Germani, ma più per cancellare
l’infamia dell’esercito perduto da Varo che per desiderio
di ampliare l’egemonia romana, o per un vantaggio degno
dell’impresa. A Roma la situazione era calma, calmi i
nomi delle magistrature; i più giovani erano nati dopo la
vittoria di Azio, i più anziani erano nati in mezzo alle
11
iuniores post Actiacam victoriam, etiam senes guerre civili: quanti mai sopravvivevano fra quelli che
plerique inter bella civium nati: quotus quisque avevano visto la res publica ?
reliquus qui rem publicam vidisset ?
● imperium di Germanico:
T 5h. Tacito, Ann. II, 43, 1 (a. 17):
Igitur haec et de Armenia quae supra memoravi
apud patres disseruit, nec posse motum Orientem
nisi Germanici sapientia conponi: nam suam aetatem
vergere, Drusi nondum satis adolevisse. Tunc
decreto patrum permissae Germanico provinciae
quae mari dividuntur, maiusque imperium, quoquo
adisset, quam iis qui sorte aut missu principis
obtinerent.
SC de Cn. Pisone patre linn. 29-36
qui – cum deberet meminisse adiutorem se datum /30
esse Germanico Caesari, qui a principe nostro, ex
auctoritate huius ordinis, ad / rerum transmarinarum
statum componendum missus esset, desiderantium /
praesentiam aut ipsius Ti(beri) Caesaris Aug(usti)
aut filiorum alterius utrius, neclecta / maiestate
domus Aug(ustae), neclecto etiam iure publico,
quo(d) adlec(tus) pro co(n)s(ule) et ei pro
co(n)s(ule), de quo / lex ad populum lata esset, ut in
quamcumq(ue) provinciam venisset, maius ei
imperium /35 quam ei, qui eam provinciam
proco(n)s(ule) optinēret, esset, dum in omni re
maius imperi/um Ti(berio) Caesari Aug(usto) quam
Germ(anico) Caesar(i) esset, tamquam ipsius
arbitri(i) et potestatis omnia / esse debērent, ita se,
cum in provincia Syria fuerit, gesserit
(Tiberio) trattò in senato delle vicende relative
all’Armenia che ho ricordato prima, e affermò che
l’Oriente agitato non poteva essere riordinato se non
dall’intelligenza di Germanico, e che la sua età lo
allontanava (dal compito), mentre Druso (Minore) era
troppo giovane. Allora per decreto dei senatori furono
affidate a Germanico le province al di là del mare, e gli fu
dato un ‘comando superiore’, dovunque si recasse, a
quello di coloro che avevano ricevuto le province per
sorteggio o per mandato del principe.
mentre avrebbe dovuto ricordare di essere stato
affiancato (30) a Germanico Cesare, che era stato
inviato dal nostro principe, con l’autorità di questo
ordine, a riorganizzare la situazione degli affari
d’oltremare, che esigevano la presenza o dello stesso
Tiberio Cesare Augusto, o di uno dei suoi due figli,
immemore del rispetto verso la casa Augustea,
contravvenendo anche al diritto pubblico, perché
affiancato in sott’ordine a un proconsole, e a un
proconsole il cui mandato fu sancito da una legge
votata dal popolo, per cui in qualunque provincia si
recasse il suo comando fosse superiore a quello di
colui che aveva il controllo della provincia come
proconsole (35) (mentre per ogni questione il
comando di Tiberio Cesare Augusto restava
superiore a quello di Germanico Cesare),
VI. La morte di Augusto
T 6a. Svetonio, Aug. 99-101 (a. 14):
Supremo die identidem exquirens, an iam de se
tumultus foris esset, petito speculo, capillum sibi
comi ac malas labantes corrigi praecepit, et
admissos amicos percontatus, ecquid iis videretur
mimum vitae commode transegisse, adiecit et
clausulam:
εὶ δέ τι πάνυ καλῶς πέπαισται, δότε κρότον
Καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε.
Omnibus deinde dimissis, dum advenientes ab urbe
de Drusi filia aegra interrogat, repente in osculis
Liviae et in hac voce defecit: «Livia, nostri coniugii
memor vive, ac vale !» sortitus exitum facilem et
qualem semper optaverat. Nam fere quotiens
audisset cito ac nullo cruciatu defunctum
quempiam, sibi et suis εὐθανασίαν similem (hoc
enim et verbo uti solebat) precabatur.
Obiit in cubiculo eodem, quo pater Octavius,
duobus Sextis, Pompeio et Appuleio, cons. XIIII.
L’ultimo giorno (19 agosto 14), mentre più volte
domandava se fuori ci fosse già tumulto riguardo a lui,
chiesto uno specchio ordinò che gli si sistemassero i
capeli e le guance cadenti, e ammessi gli amici, e chiesto
loro se ritenevano che avesse recitato bene il mimo della
vita, aggiunse come conclusione:
«se abbiamo recitato davvero bene, applaudite, e tutti
accompagnateci con gioia».
Dopo averli congedati tutti, mentre chiedeva a persone
provenienti da Roma come stesse la figlia malata di
Druso, improvvisamente spirò fra i baci di Livia
pronunciando queste parole: «Livia, vivi memore del
nostro matrimonio, addio», ricevendo in sorte una morte
fluida, quale aveva sempre desiderato. Infatti quando
sentiva di qualcuno morto in fretta e senza sofferenze,
augurava a sé e ai suoi una simile euthanasìa (era solito
usare proprio questa parola). [...]
Morì nelle stessa stanza in cui era morto suo padre
Ottavio, durante il consolato dei due Sestii, Pompeo e
12
Kal. Septemb. hora diei nona, septuagesimo et
sexto aetatis anno, diebus V et XXX minus. Corpus
decuriones municipiorum et coloniarum a Nola
Bovillas usque deportarunt, noctibus propter anni
tempus, cum interdiu in basilica cuiusque oppidi
vel in aedium sacrarum maxima reponeretur. A
Bovillis equester ordo suscepit, urbique intulit
atque in vestibulo domus conlocavit. Senatus et in
funere ornando et in memoria honoranda eo studio
certatim progressus est, ut inter alia complura
censuerint quidam, funus triumphali porta
ducendum, praecedente Victoria quae est in curia,
canentibus neniam principum liberis utriusque
sexus; alii, exsequiarum die ponendos anulos
aureos ferreosque sumendos; nonnulli, ossa legenda
per sacerdotes summorum collegiorum. Fuit et qui
suaderet, appellationem mensis Augusti in
Septembrem transferendam, quod hoc genitus
Augustus, illo defunctus esset; alius, ut omne
tempus a primo die natali ad exitum eius saeculum
Augustum appellaretur et ita in fastos referretur.
Verum adhibito honoribus modo, bifariam laudatus
est: pro aede Divi Iuli a Tiberio et pro rostris
veteribus a Druso Tiberi filio, ac senatorum umeris
delatus in Campum crematusque. Nec defuit vir
praetorius, qui se effigiem cremati euntem in
caelum vidisse iuraret. Reliquias legerunt primores
equestris ordinis, tunicati et discincti pedibusque
nudis, ac Mausoleo condiderunt. Id opus inter
Flaminiam viam ripamque Tiberis sexto suo
consulatu exstruxerat circumiectasque silvas et
ambulationes in usum populi iam tum publicarat.
Testamentum L. Planco C. Silio cons. III. Non.
Apriles, ante annum et quattuor menses quam
decederet, factum ab eo ac duobus codicibus,
partim ipsius partim libertorum Polybi et Hilarionis
manu, scriptum depositumque apud se virgines
Vestales cum tribus signatis aeque voluminibus
protulerunt. Quae omnia in senatu aperta atque
recitata sunt. Heredes instituit primos Tiberium ex
parte dimidia et sextante, Liviam ex parte tertia,
quos et ferre nomen suum iussit; secundos Drusum
Tiberi filium ex triente, ex partibus reliquis
Germanicum liberosque eius tres sexus virilis;
tertio gradu: propinquos amicosque compluris.
Legavit populo Romano quadringenties, tribubus
tricies quinquies sestertium, praetorianis militibus
singula milia nummorum, cohortibus urbanis
quingenos, legionaris trecenos nummos: quam
summam repraesentari iussit, nam et confiscatam
semper repositamque habuerat. Reliqua legata varie
dedit perduxitque quaedam ad vicies sestertium,
quibus solvendis annuum diem finiit, excusata rei
familiaris mediocritate, nec plus perventurum ad
heredes suos quam milies et quingenties professus,
quamvis viginti proximis annis quaterdecies milies
Appuleio, il 19 agosto tra le 1400 e le 1500, all’età di
settantasei anni meno trentacinque giorni. I decurioni dei
municipii e delle colonie trasportarono il corpo da Nola a
Boville, di notte, data la stagione, mentre di giorno
restava deposto nella basilica o nel tempio più grande di
ciascuna città. Da Boville l’ordine equestre lo accolse e
lo trasportò fino a Roma, e lo depose nel vestibolo della
sua casa. Il senato e nell’organizzazione del funerale e
nel celebrare la sua memoria fece a gara fra i suoi
membri nel superarsi con tanto zelo che, fra le molte
proposte, vi fu quella di alcuni di far passare il corteo
funebre dalla Porta Trionfale, preceduto dalla Vittoria
che si trovava nella Curia, accompagnato dal canto
funebre dei figli maschi e femmine dei maggiorenti
cittadini; altri proposero che il giorno del funerale ci si
togliesse l’anello d’oro per sostituirlo con anelli di ferro;
alcuni che le ossa fossero raccolte dai sacerdoti dei
collegii massimi. Ci fu chi propose di trasferire il nome
del mese di agosto al mese di settembre, perché in questo
era nato Augusto, in quello era morto; un altro che tutto
l’arco di tempo dal giorno natale di Augusto fino al
giorno della sua morte fosse definito Saeculum
Augustum, e che fosse inserito nei fasti (consolari). Ma
fu posto un limite agli onori [da Tiberio], ed ebbe la
laudatio in due luoghi: dal tempio del divino Giulio, da
parte di Tiberio; dai rostri antichi da parte di Druso figlio
di Tiberio, e fu portato a spalla dai senatori in Campo
Marzio e cremato. Non mancò un ex pretore (= Numerio
Attico) che giurò di aver visto l’ombra di Augusto dopo
la cremazione salire in cielo. I suoi resti forono raccolti
dai membri più eminenti dell’ordine equestre, in tunica,
senza cintura e a piedi scalzi, e furono deposti nel
Mausoleo. Questo monumento tra la via Flaminia e il
Tevere l’aveva costruito nel suo sesto consolato (28
a.C.) e allora aveva messo a disposizione del popolo i
boschi e le passeggiate che lo circondavano.
Il testamento, redatto nel consolato di L. Planco e C.
Silio (a. 13), il 3 aprile, un anno e quattro mesi prima
della sua morte, e scritto in duplice copia, in parte di sua
mano, in parte per mano dei liberti Polibio e Ilarione, e
depositato presso le Vergini Vestali, queste lo trassero
fuori insieme a tre rotoli sigillati allo stesso modo. Tutti
questi documenti furono aperti e letti in senato. Augusto
istituì primi eredi Tiberio per la metà più un sesto, Livia
per un terzo, e impose loro di portare il suo nome;
secondi eredi Druso, figlio di Tiberio per un terzo,
Germanico e i suoi tre figli maschi per la parte restante;
in terzo grado numerosi amici e parenti. Lasciò al popolo
romano quaranta milioni di sesterzi, alle tribù tre milioni
e mezzo di sesterzi, ai pretoriani mille sesterzi ciascuno,
alle coorti urbane cinquecento sesterzi, ai legionari
trecento sesterzi: ordinò che quelle somme fossero
elargite in contanti, perché le aveva raccolte e riservate
per questo scopo. Gli altri legati erano di varia entità, e
alcuni arrivavano fino a ventimila sesterzi l’uno, e fissò
per il loro pagamento l’ultimo giorno dell’anno,
chiedendo scusa della pochezza del suo patrimonio, e
dichiarando che ai suoi eredi non sarebbero toccati più di
centocinquanta milioni di sesterzi, benché negli ultimi
venti anni egli avesse ricevuto dai testamenti degli amici
13
ex testamentis amicorum percepisset, quod paene
omne cum duobus paternis patrimoniis ceterisque
hereditatibus in rem publicam absumpsisset.
Iulias filiam neptemque, si quid iis accidisset,
vetuit sepulcro suo inferri. Tribus voluminibus,
uno mandata de funere suo complexus est, altero
indicem rerum a se gestarum, quem vellet incidi in
aeneis tabulis, quae ante Mausoleum statuerentur,
tertio breviarium totius imperii, quantum militum
sub signis ubique esset, quantum pecuniae in
aerario et fiscis et vectigaliorum residuis. Adiecit et
libertorum servorumque nomina, a quibus ratio
exigi posset.
un miliardo e quattrocento milioni di sesterzi: somma
che quasi per intero, insieme ai suoi due patrimonii
paterni (di Ottavio e di Giulio Cesare) e con tutte le altre
eredità, egli aveva consumato per la res publica. Vietò
che le Giulie, figlia e nipote, fossero sepolte nel suo
sepolcro quando fossero morte. Quanto ai tre rotoli, il
primo conteneva le disposizioni per il suo funerale, il
secondo il compendio delle imprese da lui compiute, che
volle fosse inciso su tavole di bronzo da porre davanti al
Mausoleo, il terzo un quadro statistico di tutto l’impero:
quanti soldati fossero in servizio sotto le insegne
legionarie, e dove fossero dislocati; quanto denaro vi
fosse nell’Erario (del popolo romano) e nel fisco (di
Cesare), e negli arretrati dei versamenti. Aggiunse anche
i nomi dei liberti e dei servi (imperiali), ai quali si poteva
chiedere conto.
Schema del testamento di Augusto:
A) PATRIMONIO produttivo (res vel patrimonium Caesaris)
I
Tiberio = 66,6%
Tiberio eredita la parte di Livia se Livia muore.
Livia = 33,3%
II
Druso Minore = 33%
Ripartizione in caso di morte di Tiberio. Reciprocità di eredità
Germanico + Nerone, Druso, Gaio = 66% nel caso della morte di uno dei due fratelli (Druso non aveva
figli nel 14).
B) SOMME di DENARO a eredi istituzionali
populus Romanus
40.000.000 HS
tribus
3.500.000 HS
praetoriani
10.000.000 HS
urbaniciani
3.000.000 HS
legionari
45.000.000 HS
tot. 101.500.000 HS
B’) SOMME di DENARO a eredi nominali
eredi di Augusto
tot. 150.000.000 HS
T 6b. Tacito, Ann. I, 11, 7:
[...] cum proferri libellum recitarique (Tiberius)
iussit. Opes publicae continebantur, quantum civium
sociorumque in armis, quot classes, regna,
provinciae, tributa aut vectigalia, et necessitates ac
largitiones. Quae cuncta sua manu perscripserat
Augustus addideratque consilium coercendi intra
terminos imperii, incertum metu an per invidiam.
[...] allora Tiberio ordinò di portare e di leggere il libretto.
Esso conteneva le risorse pubbliche, il numero dei
cittadini e degli alleati sotto le armi, il numero delle flotte,
l’elenco dei regni (clienti), delle provincie, l’ammontare
dei tributi e delle rendite pubbliche, le spese e le
liberalità. Tutte queste informazioni Augusto aveva scritto
in dettaglio di suo pugno, e aveva anche aggiunto, non si
sa se per timore o per invidia, il consiglio di mantenere
l’egemonia dei romani entro i confini (attuali).
T 6c. Cassio Dione LVI, 32-33 (14 d.C.):
32
. <...> Druso, dopo aver preso il testamento di Augusto dalle Vestali, alle quali era stato affidato, lo portò
nella Curia; coloro che avevano vidimato il documento esaminarono i sigilli, e poi lo lessero ad alta voce in
senato. <...> Polibio, liberto di Augusto, lesse le disposizioni testamentarie di Augusto, come se ad un
senatore non si addicesse pronunciare un atto simile; in base ad esso due terzi dell’eredità furono lasciati a
Tiberio, e il resto a Livia, come dicono alcuni; il principe infatti, per fare in modo che anche lei godesse di
qualche beneficio del suo patrimonio, aveva chiesto al senato una deroga alla legge per poterle lasciare
un’eredità così cospicua. Questi due furono dunque gli eredi designati. Tuttavia dispose anche che molte
proprietà e somme di denaro fossero distribuite a diverse persone, sia fra i familiari che fra gli esterni alla
famiglia, non solo ai senatori e ai cavalieri, ma anche ai re; al popolo lasciò quaranta milioni di sesterzi; ai
pretoriani mille sesterzi a testa; agli urbaniciani la metà; alle restanti truppe cittadine trecento sesterzi a testa.
nel caso dei fanciulli il cui patrimonio paterno era stato ereditato dal principe, fintanto che essi erano minori,
stabilì che fosse consegnata loro l’intera somma con l’interesse non appena diventassero adulti. Seguiva
questa prassi anche quando era in vita: quando entrava in possesso dell’eredità di un privato con figli,
14
restituiva sempre l’intero patrimonio ai figli di quello, e lo faceva subito se erano già adulti, altrimenti al
compimento dell’età adulta. Tuttavia, sebbene riservasse questo trattamento ai figli degli altri, non richiamò
dall’esilio sua figlia, pur avendola ritenuta degna di ricevere doni, e vietò che fosse sepolta nella di lui
tomba. 33. Tale fu dunque la volontà espressa nel testamento. Successivamente furono portati in senato anche
quattro libri, che Druso lesse. Nel primo erano descritti tutti i dettagli del suo funerale [mandata de funere
suo], nel secondo un resoconto completo delle sue imprese [res gestae], che egli ordinò fossero incise su steli
di bronzo da realizzare davanti al suo ‘mausoleo’, il terzo conteneva la situazione dei soldati, delle entrate e
delle spese pubbliche, la somma delle ricchezze che era nelle casse del tesoro e tutti gli altri dati relativi alla
gestione del potere (ἡγεμονία = imperium ?) [breviarium totius imperii], il quarto conteneva delle
istruzioni e delle raccomandazioni per Tiberio e per la collettività [mandata alia ?]: fra questi ce n’era uno
che esortava a non liberare un gran numero di schiavi, in modo tale da non riempire la città di una massa
eterogenea, e un’altra che prescriveva di non dare la cittadinanza a troppi individui, affinché si conservasse
una differenza tra loro (Romani) e i sudditi. esortò ad affidare gli affari pubblici a quanti avevano le capacità
per capirli e per gestirli, e a non lasciarli a una sola persona, in modo che non si aspirasse alla tirannide e che
la res publica non rovinasse per colpa di quel solo individuo. Consigliò di accontentarsi dei territori nel loro
attuale possesso e di non desiderare di ampliare l’egemonia (dei Romani), perché poi sarebbe stato difficile
controllare tutto e, di conseguenza, si sarebbe rischiato di perdere anche quanto era stato acquisito. Del resto
anch’egli aveva sempre osservato questo principio, non solo a parole, ma anche nei fatti: pur potendo, non
volle sottomettere molti territori barbarici.
[Il precedente dell’anno 23 a.C. : Cassio Dione LIII, 30, 2: Augusto consegnò a Calpurnio Pisone (console
con lui) un libretto contenente l’elenco delle forze militari e delle risorse della res publica; l’appendice di
Appiano (Praef. 15), 150-165 d.C.: l’ultimo libro mostrerà l’estensione delle forze militari, i profitti che i
romani traggono da ogni provincia, quanto spendono per le flotte ed altre cose di questo tipo].
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