The reform of the precautionary measures

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
5-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
L’Ordine di protezione europeo
The European Protection Order
La riforma delle misure cautelari
The reform of the precautionary measures
Contrasto alla criminalità economica e processo penale
Fight against economic crimes and criminal process
Decreto penale e opposizione preventiva del querelante
Penal order and preventative opposition of the complainant
La Corte di cassazione “a guardia” dell’equo processo
Supreme Court is the fair trial “guardian”
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
5-2015
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2015 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto processuale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea,
Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università
di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio
Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato –
Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester
Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato –
Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
LUCA LUPÀRIA
Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e vedute nazionali / Fight against economic crimes and role of criminal
process: comparative views and national perspectives
1
Scenari | Overviews
Novità sovranazionali / Supranational news (PIETRO ZOERLE)
9
De jure condendo (ORIETTA BRUNO)
16
Corti europee / European Courts (MARCELLO STELLIN)
19
Corte costituzionale (WANDA NOCERINO)
24
Sezioni Unite (ROSA GAIA GRASSIA)
29
Decisioni in contrasto (GIADA BOCELLARI)
34
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Violazione dei diritti dell’equo processo e loro applicabilità d’ufficio nel giudizio di cassazione
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 11648 – Pres. Fiale; Rel. Di Nicola
37
La Cassazione e la tela di Penelope. I giudici “guardiani” dell’equo processo / Supreme
Court and Penelope’s canvas. Judges are the fair trial “guardians” (FILIPPO GIUNCHEDI)
43
Il querelante non può più opporsi al decreto penale di condanna
Corte costituzionale, sentenza 27 febbraio 2015, n. 23 – Pres. Criscuolo; Rel. Napolitano
51
Procedimento per decreto penale e opposizione preventiva del querelante. Linee-guida
per un modello partecipativo di giustizia penale monitoria / Penal order and preventative
opposition of the complainant Guide-lines for a participatory model of penal order proceedings
(STEFANO RUGGERI)
58
Particolare tenuità del fatto e procedimenti pendenti
Corte di cassazione, Sezione III, sentenza 15 aprile 2015, n. 15449 – Pres. Mannino; Rel. Ramacci
66
Non punibilità per particolare tenuità del fatto: natura sostanziale e applicazione retroattiva ai procedimenti in corso / The new Institution of the particular tenuity of the fact:
substantial nature and retrospective application to ongoing proceedings (LORENA PUCCETTI)
71
Accesso abusivo a sistema informatico e competenza territoriale
Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza 26 marzo 2015, n. 17325 – Pres. Santacroce; Rel.
Squassoni
78
Reti “client-server” ed accesso abusivo a sistema informatico: le Sezioni Unite individuano i criteri per stabilire la competenza territoriale / “Client server networks” and unauthorized access to computer systems: the Great Chamber specifies the rules to establish territorial
competence (LUIGI CUOMO)
85
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
VI
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Ordine di protezione europeo e legislazione italiana di attuazione: un’analisi e qualche
perplessità / The European protection order and the Italian law complying with the Directive 2011/99/EU: an analysis and some questions (FRANCESCA RUGGIERI)
La riforma delle misure cautelari / The reform of the precautionary measures (ELGA TURCO)
99
106
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
La vexata quaestio relativa alla pronuncia di prescrizione dopo l’annullamento parziale
della sentenza: le Sezioni Unite fanno buona guardia / The United Chambers of the Court
of Cassation confirms the inhibition to declare the extinction of the crime when a new trial
– set after a “partial annulment” – occurs (ALESSANDRO DIDDI)
127
Indici | Index
Autori / Authors
141
Provvedimenti / Measures
142
Materie / Topics
143
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
1
Editoriale | Editorial
LUCA LUPÀRIA
Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Milano
Contrasto alla criminalità economica e
ruolo del processo penale:
orizzonti comparativi e vedute nazionali
Fight against economic crimes and role of criminal process:
comparative views and national perspectives
L’introduzione, nel panorama comparativo, di nuovi organi inquirenti per il contrasto ai reati economici, unitamente alla nascita di "doppi binari" processuali per tali forme di criminalità, obbliga l’osservatore italiano ad alcune
riflessioni. L’articolo analizza le linee di sviluppo del dibattito internazionale e, in chiave interna, esamina quali
esperienze potrebbero essere mutuate e quali rischi per la tenuta del sistema possono essere determinati da un
improprio utilizzo del processo penale per esigenze di politica criminale.
The introduction, within the comparative overview, of new investigative bodies tackling economic crimes, jointly
with the inception of "alternative proceedings" for such types of crime, forces the Italian observer to some reflections. The article analyses the development lines of the international debate and, from an internal perspective,
examines which experiences could be borrowed and which risks for the maintenance of the system could be
determined by an improper utilization of the criminal proceeding by the needs of crime-fighting policies.
LE SPINTE VERSO UN RITO DIFFERENZIATO PER I DELITTI DELL’ECONOMIA
Il proposito di contrastare con efficacia l’intera gamma dei fenomeni criminali legati al mondo economico e finanziario ha assunto negli ultimi decenni una marcata centralità nella elaborazione dottrinale e
nel dibattito politico di gran parte dei Paesi occidentali 1.
Solo di recente, tuttavia, abbiamo assistito a uno spostamento dell’asse di discussione dal terreno del
diritto penale, ontologicamente deputato a costituire il fronte di “lotta” contro l’impiego delittuoso della meccanica degli affari 2, a quello dell’accertamento processuale, tradizionalmente poco incline ad accordare forme procedimentali alternative in chiave repressiva degli economic and financial crimes.
Per quanto gli interventi sul piano della tecnica incriminatrice continuino a susseguirsi (senza dover
uscire dai nostri confini possono citarsi, nel solo 2015, l’introduzione dell’autoriciclaggio 3, la riforma
1
Cfr. K. Volk, Diritto penale ed economia, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1998, p. 479; Id., Sistema penale e criminalità economica,
Napoli, 1998.
2
V. Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, Convegni di Studi “Enrico de Nicola”, Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano, 2009 e A. Alessandri (a cura di), Reati in materia economica, Torino, 2012.
3
Legge 15 dicembre 2014, n. 186 (Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il
potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio), entrata in vigore il 1 gennaio 2015. Cfr.
S. Cavallini-L. Troyer, Apocalittici o integrati? Il nuovo reato di autoriciclaggio: ragionevoli sentieri ermeneutici all’ombra del ‘vicino ingombrante’, in Dir. pen. cont., 23 gennaio 2015; A. D’Avirro-M. Giglioli, Autoriciclaggio e reati tributari, in Dir. pen. proc., 2015, p.
EDITORIALE | CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ECONOMICA E RUOLO DEL PROCESSO PENALE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
2
del falso in bilancio 4 e il tentativo di rimodulazione dei reati tributari 5), si sta in effetti appalesando,
nell’orizzonte comparativo, l’idea che i modelli processuali ordinari non siano in grado di fronteggiare
adeguatamente l’attività di ricostruzione dei diversi white collar crimes.
In siffatta prospettiva, sembra crescere la domanda di regole derogatorie che irrobustiscano i mezzi
d’investigazione, alleggeriscano gli standard probatori e consentano l’uso di dispositivi di neutralizzazione anticipata degli effetti dell’illecito in chiave cautelare.
Una dinamica piuttosto accentuata che ha condotto recentemente anche una veneranda istituzione
come la Société de législation comparée 6 a interessarsi al tema, organizzando presso la Corte di Cassazione
francese un incontro internazionale specificamente dedicato a “les procédures répressives” (l’accostamento dei due termini appare già significativo) contro “la grande délinquance économique et financière” 7. Iniziative scientifiche di analogo tenore e ricerche a matrice transnazionale sull’argomento stanno progressivamente emergendo 8, forse anche per il persistere della dura crisi finanziaria che ha colpito nuovo e vecchio continente inducendo i legislatori ad estremizzare le risposte ad esigenze non certo inedite
ma oggi divenute drammaticamente pressanti.
Molti dunque i segni tangibili di una deriva di slittamento del baricentro del dibattito sul piano processuale, avvertita a diverse latitudini. Prima che quest’onda investa in pieno anche la dimensione italiana, può forse risultare di qualche utilità tratteggiare alcune linee di sviluppo che affiorano nel diritto
straniero, così da individuare esperienze potenzialmente mutuabili o, per converso, delineare i rischi di
una non ponderata applicazione dei paradigmi della politica criminale a un settore, quello del processo
penale, che, per definizione, dovrebbe difendere la neutralità dell’attività di accertamento dalle spinte
in chiave di difesa sociale e di lotta contro il “nemico” di turno 9.
LE DEROGHE AGLI ORDINARI CANONI PROCESSUALI NEL PANORAMA COMPARATIVO
Una prima direttrice che, in maniera un po’ tranchant, può essere individuata si sostanzia nel moltiplicarsi di strutture inquirenti ad hoc o ad elevata specializzazione. Al di là delle varie differenze ordinamentali – che contraddistinguono soprattutto il ruolo della polizia giudiziaria 10 – e delle specificità di
alcune autorità amministrative con concorrente competenza d’indagine penale, possiamo affermare che
gli ultimi decenni hanno visto nascere o rinforzarsi organismi finalisticamente orientati alla ricostruzio-
135; F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont., 24 dicembre 2014; A. Rossi, Note in prima lettura su
responsabilità diretta degli enti ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 ed autoriciclaggio: criticità, incertezze, illazioni ed azzardi esegetici, ivi, 20
febbraio 2015.
4
Per i primi commenti alla legge 27 maggio 2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di
associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) o ai suoi lavori preparatori: R. Bricchetti-L. Pistorelli, La lenta “scomparsa” del diritto penale societario italiano, in Guida dir., 2015, 26, p. 53; M. Gambardella, Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali: tra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, in Cass. pen., 2015, p. 1723; A. Lanzi, Quello strano scoop del falso in bilancio
che torna reato, in Guida dir., 2015, 26, p. 10; F. Mucciarelli, Le ‘nuove’ false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in Dir. pen. cont., 18
giugno 2015; A. Perini, I ‘fatti materiali non rispondenti al vero’: harakiri del futuribile ‘falso in bilancio’?, ivi, 27 aprile 2015.
5
Si veda lo schema di decreto legislativo varato dal Governo nel Consiglio dei Ministri del 26 giugno 2015, n. 70.
6
Fondata, come noto, nel 1869, costituisce ancora oggi uno dei più importati centri di riferimento a livello internazionale in
materia di diritto comparato.
7
Cfr. Les procédures répressives contre la grande délinquance économique et financière, Journées internationales 2015, Atelier du 9
avril 2015: Les procédures répressives dérogatoires en matière économique et financière, Chambre commerciale de la Cour de Cassation,
Paris, atti in corso di pubblicazione.
8
Tra gli altri, possiamo ricordare il seminario dell’Accademia di Diritto Europeo (ERA) di Trier su Organised economic crime
in the EU: cases, trends and tools (26 e 27 marzo 2015) e l’incontro di studi Homo oeconomicus. Neuroscienze, razionalità decisionale ed
elemento soggettivo nei reati economici (Padova, 28 novembre 2014).
9
Sul tema, in una letteratura oramai copiosa, vedi, per tutti, G. Jakobs, Terroristen als Personen im Recht? in Zeitschrift für die
Gesamte Strafrechtswissenschaft, 2005, 4, p. 117; T. Padovani, Diritto penale del nemico, Pisa, 2015. Più specificatamente sui riflessi
processuali: R. Kostoris, Processo penale, delitto politico e “diritto penale del nemico”, in A. Gamberini-R. Orlandi (a cura di), Delitto
politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo penale, Bologna, 2007, p. 293.
10
Prevalente (ma non esclusivo) in Europa risulta il modello del c.d. “doppio cappello”. Con tale espressione si intendono due possibili condizioni per l’organo di polizia: l’appartenenza organica all’esecutivo con concorrente legame funzionale nei riguardi della
Magistratura; la possibilità di agire tanto nella cornice amministrativa quanto in quella tipica dell’attività di polizia giudiziaria.
EDITORIALE | CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ECONOMICA E RUOLO DEL PROCESSO PENALE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
3
ne dei reati economici, quali la Unidad Central de Delincuencia Económica y Fiscal (UDEF) 11 in Spagna, il
Serious Fraud Office (SFO) 12 e il Financial Conduct Authority (FCA) 13 in Inghilterra, la Security and Exchange Commission (SEC) negli Stati Uniti d’America, la Steuerfahndung in Germania, per citarne solo alcuni.
Si tratta di organi dalle caratteristiche differenti ma accomunati da un profilo di alta qualificazione
tecnica nel settore e dalla applicabilità al loro agire di regole d’inchiesta parzialmente differenti dai canoni ordinari (tanto da provocare più di un dubbio interpretativo, ad esempio sul delicato crinale del
diritto al silenzio 14).
L’esperienza maggiormente coraggiosa è tuttavia costituita dalla recente creazione di un Procuratore
nazionale finanziario (Procureur National Financier) all’interno del sistema francese. Sulla base della veste giuridica offerta dalla l. 6 dicembre 2013, n. 1117 15, il Procuratore Nazionale, nominato per la prima
volta nel 2014, risulta competente in via esclusiva per i délits boursiers (art. 704-1 c.p.p. fr.), mentre gli
viene conferita una attribuzione concorrente (art. 706-17 c.p.p. fr.) per i delitti fiscali e per i reati di atteintes à la probité o traffico d’influenza, per citare i più rilevanti. Il criterio di riparto fa riferimento al
parametro della “grande complessità” che consente all’inquirente centralizzato di attrarre a sé procedimenti diversamente oggetto della cognizione delle singole Procure sul territorio.
Tale figura di Parquet viene osservata con largo interesse nel quadro comparativo, trattandosi di un
soggetto sostanzialmente dissonante da modelli già conosciuti, quali il nostro Procuratore Nazionale
Antimafia 16 o la Fiscalía contra la Corrupción y la Criminalidad Organizada presente in Spagna 17. Una divergenza che si misura non soltanto nella differente struttura organica e nelle regole procedimentali
applicabili, ma che può essere soprattutto apprezzata a livello di impostazione teorica. Il procuratore
francese nasce proprio con l’intento di fronteggiare direttamente le forme di criminalità economica,
mentre gli altri archetipi perseguono la strada del contrasto indiretto, sulla scorta della visione secondo
la quale i grandi illeciti di carattere economico si allacciano ai fenomeni della criminalità organizzata o
11
Legata alla Comisaría general de policía judicial, risulta suddivisa in varie unità dedicate a pubblica amministrazione, riciclaggio, corruzione, falsificazione di monete.
12
Istituito nel 1987, risponde direttamente al General Attorney. Cfr. S. Savla, Serious fraud office: conceptual basis and rights considerations under Section 2 of the Criminal Justice Act 1987, in 4 Journal of Financial Crime, 1996, p. 63. Di estremo interesse risulta l’analisi
indipendente svolta nel 2008 (un ulteriore audit è stato poi svolto nel 2014) sul funzionamento dell’Ufficio da parte di Jessica De
Grazia (ex prosecutor di New York), consultabile al sito http://www.sfo.gov.uk/media/99271/jdegrazia_final_review _of_sfo.pdf.
13
Come noto, la FCA vigila sul buon funzionamento dei mercati finanziari e regola più di cinquantamila rapporti commerciali in tutto il Regno Unito. Ha una vasta serie di poteri – di natura penale, civile ed amministrativa – che esercita per tutelare i
consumatori e assumere provvedimenti nei confronti di società o individui che violino gli standard dalla stessa fissati
(http://www.fca.org.uk/about).
14
Nonostante i poteri del SFO di obbligare l’indagato a rispondere alle domande dell’autorità amministrativa siano stati inizialmente censurati sulla scorta della decisione della Corte e.d.u. nel caso Saunders v UK (Corte e.d.u., 17 dicembre 1996, Saunders c. United Kingdom), permane in capo a tale organismo la facoltà di formulare richieste di informazioni e di documenti nei
confronti di una persona accusata. La possibilità di consultare un imputato dopo la formulazione delle imputazioni a suo carico
costituisce un’importante eccezione al principio inglese del divieto dei c.d. post-charge questioning. Per quanto riguarda la Germania, può essere interessante ricordare il dettato della sezione n. 393 del Codice fiscale tedesco (Übersetzung durch den Sprachendienst des Bundesministeriums der Finanzen) che pone un limite agli obblighi di consegna e alle misure coercitive in sede tributaria proprio per evitare l’autoincriminazione a fini penali del contribuente (Sect. 393 – Relationship between criminal proceedings
and the taxation procedure: (…) in the taxation procedure coercive measures against the taxpayer shall be impermissible where this would
force him to incriminate himself in a tax crime or tax-related administrative offence which he committed. This shall invariably apply where
criminal proceedings have been initiated against him for such an act. The taxpayer shall be advised of this as necessary) [trad. ingl. del
Ministero della Giustizia tedesco: http://www.gesetze-im-internet.de/englisch_ao/].
15
Loi n. 2013-1117, 6.12.2013, relative à la lutte contre la fraude fiscale et la grande délinquance économique et financière.
16
Cfr. V. Borraccetti, L’attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia, in G. Melillo-A. Spataro-P.L. Vigna (a cura di), Il
coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo, Milano, 2004, p. 81 ss.; AA.VV., La Direzione nazionale antimafia e il coordinamento delle indagini di mafia dopo 20 anni: bilancio e prospettive, in Criminalia, 2012, p. 415 ss.; S. Lorusso, “Superprocura” e coordinamento
delle indagini in materia di criminalità organizzata tra presente, passato e futuro, in Dir. pen. cont., 21 Maggio 2014.
17
Occorre però ricordare che in Spagna esiste anche una Fiscalía especializada en materia de delitos económicos che tuttavia ricopre solamente un compito di coordinamento dei procuratori provinciali per l’attuazione di criteri uniformi (cfr. I. Rodríguez
Montequín, Poder ecόnomico y ministerio fiscal, in L. Bueno Ocho (a cura di), Ética e imparcialidad del Ministerio fiscal, Madrid, 2010,
p. 172 ss.).
EDITORIALE | CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ECONOMICA E RUOLO DEL PROCESSO PENALE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
4
della corruzione nel mondo della politica, degli appalti pubblici e della finanza sottoposta a controlli
statali 18.
Una seconda linea evolutiva, sulla quale non sarà però possibile diffondersi in questa sede, riguarda
la tendenziale ricerca di canoni di competenza per materia che conferiscano – in deroga ai criteri ordinari, calibrati di regola sulla cornice edittale degli illeciti – la cognizione per i reati economici ad organi
giurisdizionali collegiali o comunque “apicali” nella scala dei singoli ordinamenti giudiziari. Un proposito ricorrente fra i vari legislatori che, tuttavia, rivela spesso una carenza di attenzione al fondamentale
tema della specializzazione dei giudici chiamati ad occuparsi di tale congerie di reati.
Assegnare molta parte dei delitti societari ad organi quali la Audiencia Nacional 19, per limitarsi
all’esempio spagnolo, non significa di per sé favorire la preparazione del giudice, trattandosi di collegio
che viene al contempo chiamato a conoscere di altre numerose forme di delinquenza, del tutto slegate
da quella in rassegna. Discorso analogo, del resto, può essere svolto per la massiccia attribuzione al nostro Tribunale in composizione collegiale dei reati dell’impresa. Una scelta che di per sè non assicura la
necessaria specializzazione, garantita spesso, de facto, solo da una proficua divisione del lavoro tra le
diverse sezioni dei grandi Tribunali, capace di favorire sul campo la conoscenza extragiuridica in materia aziendalistica, contabile, tributaria ed economica.
MODULI ACCELERATI E CONTAMINAZIONI “AMMINISTRATIVE” NELL’ESPERIENZA EUROPEA
Una terza indicazione proveniente dall’analisi comparativa è senza dubbio il trend verso una spiccata
agevolazione dei riti alternativi, segnatamente a matrice negoziale e premiale.
In sistemi, come quello inglese, ove l’operatività del plea bargaining è già particolarmente estesa, si
registrano infatti interventi volti ad allargare, nel settore in questione, i margini di discrezionalità
dell’organo d’accusa 20. Sempre oltremanica va diffondendosi l’utilizzo dei c.d. “deferred prosecution
agreements” (DPAs) 21, meccanismo processuale che consente al prosecutor di sollevare l’accusa nei confronti di una persona giuridica sospendendo però contestualmente il procedimento e offrendo alla stessa un accordo che può contemplare il pagamento di una sanzione pecuniaria, il risarcimento del danno,
la cooperazione nelle indagini nei confronti delle persone fisiche 22, e via dicendo.
Un modulo processuale che richiama analoghi istituti impiegati negli States 23 e riecheggia la logica
premiale perseguita anche dal legislatore italiano nel processo penale alle società 24: prima e forse più
18
Indubbiamente nel nostro Paese criminalità organizzata e corruzione si legano strettamente al mondo economico e finanziario,
molto di più di quanto una osservazione superficiale potrebbe mostrare. Di interazione e non solo di infiltrazione ha parlato il Presidente della Corte di Appello di Milano, Giovanni Canzio, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia presentata il 24 gennaio 2015 (reperibile sul sito www.ca.milano.giustizia.it/stato_giustizia.aspx?pnl=1). Per un quadro della tematica e delle risposte normative nei modelli stranieri: J. Horder-P. Alldrige, Modern bribery law: comparative perspectives, Cambridge, 2013.
19
Ai sensi dell’articolo 65 legge organica spagnola sul potere giudiziario (Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial),
la Audiencia Nacional è competente per le cause aventi ad oggetto “defraudaciones y maquinaciones para alterar el precio de las cosas
que produzcan o puedan producir grave repercusión en la economía nacional o perjuicio patrimonial en una generalidad de personas en el
territorio de más de una Audiencia” (art. 65, comma 1, lett. c)).
20
Si veda la decisione della Crown Court di Southwark, Regina v. Innospec Limited, 26.3.2010, EW Misc 7 (EWCC), in Crim. L.
Rev., 2010, p. 665.
21
Cfr. Schedule n. 17 (Deferred prosecution agreements) del Crime and Courts Act 2013 (chapter 22).
22
L. Griffin, Compelled cooperation and the new corporate criminal procedure, in 82 N.Y.U.L. Rev., 2007, p. 311.
23
D. Huynh, Preemption v. punishment: a comparative study of white collar crime prosecution in the United States and the United
Kingdom, in 9 J. Int’l Bus. & L., 2010, p. 105. Anche negli Stati Uniti è diffuso il ricorso ai Non Prosecution Agreements (NPAs) e ai
Deferred Prosecution Agreements (DPAs), oggetto di sempre maggior interesse da parte degli studiosi: M. Pieth-R. Ivory, Corporate
criminal liability. Emergence, convergence and risk, London-New York, 2014; J. Warin, 2014 Year-end update on corporate nonprosecution agreements (NPAs) and deferred prosecution agreements (DPAs), in Harvard Law School Forum on Corporate Governance and
Financial Regulation, 18 Gennaio 2015. Più in generale e in toni critici, sul sistema delle corporate prosecutions, B.L. Garret, Too big
to jail. How prosecutors compromise with corporations, Cambrige, 2014, p. 80 ss. Di estremo rilievo, con riferimento ai criteri di accesso al patteggiamento per le società, è il noto memorandum intitolato Federal Prosecution of Business Organizations (c.d. Thompson
Memorandum), redatto il 20 gennaio 2003 dall’allora General Attorney Larry D. Thompson (cfr. C.L. Carpenter, Federal prosecution
of business organizations: the Thompson Memorandum and its aftermath, in Ala. L. Rev., 2007, 59, p. 207 ss.).
24
G. Garuti, Il processo “penale” agli enti a dieci anni dalla nascita, in Dir. pen. proc., 2011, p. 789; R.A. Ruggiero, Le condotte di
collaborazione previste nel D.lg. n. 231 del 2001, in Cass. pen., 2014, p. 397.
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della condanna dell’ente, il percorso giudiziario si orienta ad incentivare il ritorno all’agire legale
dell’imputato-persona giuridica 25. Non a caso, con riferimento all’esperienza inglese sopra ricordata, è
stata proposta una analogia con gli anti-social behaviour orders (ASBOs) 26 che, come noto, vengono imposti nel processo ordinario per reati comuni con la possibilità per l’accusa, a condizione che la persona
fisica ammetta la responsabilità e rispetti certi obblighi, di fermare la macchina giudiziale (in questo
senso i DPAs vengono talora definiti “corporate ASBOs” 27).
Non sono mancate critiche, anche di recente, a questo approccio di agevolazione dell’uscita alternativa dal circuito penale, diretto anche alle persone fisiche accusate di delitti economici, spesso incentrato sul versamento consensuale di somme di denaro a titolo di sanzione. Interrogativi che si sono manifestati in maniera esemplare nel caso tedesco che ha visto il patron della “Formula uno” Bernie Ecclestone 28 usufruire di una interpretazione “elastica” del paragrafo 153a Straftprocessordung 29 (istituto nato
per i reati bagatellari o comuni, oggi divenuto centrale anche nelle inchieste sulla criminalità economica): nel caso dell’illustre cittadino inglese, accusato di gravi reati a sfondo corruttivo, è stato possibile
disporre l’archiviazione condizionandola al pagamento di 100 milioni di dollari. In ambito tedesco, oltretutto, dopo la regolamentazione della pratica della Absprachen nel 2009 30, si apprezza un largo utilizzo della logica negoziale proprio nel campo della Wirtschaftskriminalität 31.
Ancora due filoni possono essere presi in considerazione. Da un lato, lo sviluppo inarrestabile di quella che in Italia siamo oramai avvezzi a chiamare “giustizia penale patrimoniale” o “processo al patrimonio”, espressioni che danno il senso di una scelta di politica criminale volta a colpire, fin da subito, i beni e
le risorse del possibile autore del reato. Se nel nostro sistema assume una veste centrale, in tale dinamica,
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (anche se non vanno dimenticate altre
forme cautelari o di prevenzione operanti sulle res 32), in altri Paesi si intravedono approcci analoghi, come
nel caso delle misure provvisorie dirette alla futura confiscation en valeur francese 33 o al verfall tedesco 34.
Sotto diversa prospettiva, va ricordato lo sviluppo di percorsi paralleli di accertamento che anticipano o
affiancano il rito penale, svolti da autorità di vigilanza o da organismi ispettivi a natura amministrativa. Potremmo qui citare il Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BaFin) tedesco, o la SEC statunitense, le
cui attività sono formalmente rivolte al monitoraggio del mercato finanziario e alla eventuale comminazione
di sanzioni amministrative, ma che sempre più spesso vedono regolamentato il loro agire in rapporto alla
trasmigrazione delle loro istruttorie nel processo penale. Il tema è delicato per molti degli ordinamenti oggetto di esame: la piattaforma conoscitiva formatasi nell’alveo ispettivo impatta sui fragili contrappesi del
sistema probatorio penale, giacché la documentazione rinvenuta, le informative assunte e le dichiarazioni
raccolte vengono veicolate nel giudizio penale per gli stessi fatti o per episodi connessi, spesso accompagna-
25
Preventing Corporate Corruption: The Anti-bribery Compliance Model, in S. Manacorda-F. Centonze-G. Forti (a cura di), London, 2014.
26
Cfr. J. Donoghue, Anti-social behavior orders. A culture of control?, London, 2010.
27
D. Whyte, Respectable jobs and corporate ASBOs’, in New Law Journal, 7142, 2004, p. 1293.
28
J.F. Burns, Formula One Billionaire Is Penalized $100 Million, New York Times, New York edition, 6 August 2014, p. B11.
29
Introdotto nel 1975 (e modificato molte volte nel corso degli anni), il paragrafo 153a StPO consente al pubblico ministero
tedesco di rinunciare all’azione, con l’autorizzazione del giudice e previo consenso dell’indagato, quando l’interesse statuale
alla repressione penale degli illeciti criminalità può essere soddisfatto con l’imposizione di obblighi e oneri sostitutivi. Molto
conosciuti sono i casi di applicazione nei confronti della tennista S. Graff, del politico H. Kohl e degli accusati nel processo
Mannesmann: P.G. Palermo, Sospensione condizionata del processo penale in Germania: progressi o regressi del sistema penale?, in L.
Picotti (a cura di), Tecniche alternative di risoluzione dei conflitti in materia penale, Padova, 2010, p. 21 ss.
30
Con riferimento alla dottrina antecedente la normativizzazione dell’istituto, cfr. R. Orlandi, Absprachen im italienischen
Strafverfahren, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 2004, p. 123. Sull’attuale disciplina: N. Recchia, La difficile questione della legittimità costituzionale del patteggiamento dinanzi al Bundesverfassungsgericht. Nota a BVerfG, 2 BvR 2628/10 – 19 März
2013, in Dir. pen. cont., 16 ottobre 2013; J. Rinceanu, La disciplina dell’intesa (Verständigung) nel diritto processuale penale tedesco, in
Cass. pen., 2011, p. 763 ss.
31
Sotto un altro angolo visuale, si discute del possibile condizionamento sulle scelte difensive dell’accusato innocente: offerte premiali troppo “convenienti” possono indurre a scelte ammissive quasi "coartate" dalla sproporzione tra il “rischio” del giudizio e l’offerta della pubblica accusa.
32
A. Balsamo-G. Nicastro, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, in A. Balsamo-V. Contrafatto-G. Nicastro (a cura di), Le
misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, Milano, 2010, p. 141 ss.
33
F. Vergine, Il “contrasto” all’illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012, p. 85 ss.
34
A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, p. 71.
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te da rilievi e valutazioni tecniche. Il risultato è quello di un giudizio penale che muta, da luogo deputato alla pienezza dell’accertamento a sede della rilettura in chiave critica di quanto già constatato aliunde 35.
Sullo sfondo, poi, rimane sospesa la questione delle garanzie spettanti nel processo penale che scoloriscono, in relazione agli stessi fatti, nella fase amministrativa 36. Forte appare la tentazione di spostare,
nel momento di iniziale elaborazione di circostanze ancora in bilico tra il costituire notizia di reato e il
permanere fuori dal perimetro del penalmente rilevante, il fulcro delle attività di indagine là dove i lacci del garantismo sono più allentati e gli obblighi di collaborazione più pregnanti.
Una problematica, questa, che inizia ad essere avvertita da vari legislatori (non soltanto dal nostro,
con il fondamentale art. 220 norme att. c.p.p. 37), come mostra, ad esempio, l’art 4(9) della legge sulla
borsa tedesca (Wertpapierhandelsgesetz) che estende il diritto di difesa tipico del rito penale alla fase preparatoria della supervisory authority. Allo stesso modo il Financial Conduct Authority inglese vede oggi
attenuati i suoi poteri investigativi e di raccolta d’informazioni 38 nel caso di soggetti sottoposti ad indagine.
Più in generale, la nota pronuncia Grande Stevens dei giudici di Strasburgo, al di là delle affermazioni
sul doppio binario sanzionatorio e sui confini della matière pénale (sulle quali si è concentrata la più parte dell’attenzione dottrinale 39), ha ben evidenziato, nel testo della dissenting opinion, la direttrice verso
cui muovono gli Stati europei: «per assicurare l’integrità dei mercati europei e rilanciare la fiducia degli
investitori nei mercati, hanno creato (…) sanzioni amministrative inflitte da autorità “indipendenti”
nell’ambito di procedure inquisitorie, non egualitarie e sbrigative». E ancora: «queste autorità dispongono di poteri inquisitori (…) imponendo talvolta alla persona controllata/sospettata l’obbligo di collaborare con i propri accusatori. È evidente la tentazione di delegare a questi “nuovi” procedimenti amministrativi la repressione di condotte che non possono essere perseguite con gli strumenti classici del
diritto penale e della procedura penale». Del tutto condivisibile, dunque, la chiosa finale dei giudici Karakaş e Pinto: «ma la pressione dei mercati non può prevalere sugli obblighi internazionali di rispetto
dei diritti dell’uomo, sussistenti in capo agli Stati aderenti alla Convenzione» 40.
QUALCHE RILIEVO SULLO SCENARIO ITALIANO
Il processo per i delitti dell’economia non è dotato, nel nostro sistema, di una autonomia formale
espressamente disegnata dal legislatore. È stata piuttosto la pratica giudiziale, nel corso degli anni, a
dipingerne il volto con tinte atipiche, fatte di prassi forensi e di istituti rimodulati nelle aule di giustizia
per far fronte alla peculiarità delle circostanze da accertare 41.
Nondimeno, pur in assenza di un vero e proprio sottomodello normativo, non mancano disposizioni
a carattere derogatorio sparse nelle trame dell’ordinamento. È il caso, senza pretesa di esaustività, della
già ricordata attribuzione al Tribunale in composizione collegiale dei reati societari (art. 33-bis, comma
1, lett. d), c.p.p. 42), dell’estensione delle captazioni telefoniche e telematiche ai delitti di abuso di infor-
35
Si infonde così vigore alle prove precostituite con un giudice penale che rischia di soccombere di fronte all’autorevolezza
delle conclusioni raggiunte dagli organismi tecnici di riferimento. Parla di «limitazione della libertà di prova di regola rivendicata dal giudice in processi aventi ad oggetti reati diversi da quelli riguardanti l’impresa», E. Amodio, I reati economici nel prisma
dell’accertamento processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1499.
36
Sull’esperienza inglese: S. Clarke, Insider Dealing, Oxford, 2013, par. 20 e 23.
37
Cfr. M. Bontempelli, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, Milano, 2009; O. Mazza, L’utilizzabilità processuale del verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, in Corriere trib., 2000, p. 1280; R. Orlandi, Atti e informazioni della
autorità amministrativa nel processo penale. Contributo allo studio delle prove extracostituite, Milano, 1992.
38
Conferitigli dalla parte XI del Financial Service and Markets Act (FSMA) del 2000.
39
G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens”
nell’ordinamento italiano, in Dir. pen. cont., 3-4, 2014, p. 201; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta
applicazione dell’art. 50 della Carta?, ibidem, p. 219.
40
Sentenza Corte e.d.u., 7 luglio 2014, Grande Stevens c. Italia (ricorsi n. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10),
opinione in parte concordante e in parte dissenziente dei giudici Işil Karakaş (presidente) e Paulo Pinto de Albuquerque.
41
Cfr., volendo, il nostro Processo penale e reati societari: fisionomia di un modello «invisibile», in G. Canzio-G.D. Cerqua-L.
Lupária (a cura di), Diritto penale delle società, t. 2 (I profili processuali), Padova, 2014, p. 1059.
42
Come modificato dall’art. 6, d.lgs. n. 61/2002.
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mazioni privilegiate e manipolazione del mercato (art. 266, comma 1, lett. f), c.p.p. 43), della previsione
d’una ipotesi speciale d’incidente probatorio che consente il compimento anticipato di perizie complesse di natura tecnico-contabile (art. 392, comma 2, c.p.p.) 44, del conferimento agli organi inquirenti di
specifiche facoltà circa la raccolta di evidenze, anche informatiche, presso gli istituti bancari (artt. 248,
comma 2, e 255 c.p.p.). Senza dimenticare la disciplina del processo penale alle società (d.lgs. n. 231/
2001) che rappresenta un esperimento per molti versi unico in un panorama comparativo che, per lo
più, vede applicare, con pochi correttivi, le regole del rito per le persone fisiche anche al giudizio nei
confronti dell’ente 45.
La sfida che va ad aprirsi nell’attuale periodo storico chiama allora in causa proprio le “pressioni”
provenienti, per così dire, dall’esterno dei nostri confini: quale approccio prediligere di fronte ad esperienze straniere che, come abbiamo visto, prescelgono spesso forme alternative o parallele di ricostruzione giudiziale e introducono nuovi organi in materia di inchiesta ed esercizio dell’azione penale?
Come atteggiarsi rispetto a strumenti europei 46 che sembrano premere per l’istituzione di un canale investigativo differenziato, segnatamente per le indagini bancarie 47?
Ora, non si vuole negare l’utilità di piccole divaricazioni nell’ordinario dipanarsi del procedimento, per
venire incontro alle esigenze di constatazione di fatti articolati e ad alto tasso di tecnicità. Di certo però non
sembra auspicabile imboccare il sentiero che conduce alla istituzione di Procuratori nazionali speciali (sulla
falsariga francese) ovvero a moduli derogatori atti ad alleggerire le garanzie difensive e gli standard probatori o a consentire la piena trasmigrazione di quanto acclarato in sede amministrativa nella piattaforma conoscitiva del giudizio criminale (secondo alcune direttrici emerse nel contesto europeo).
In rapporto a tutti questi profili, la nostra storia processuale ha già scontato le storture e gli effetti collaterali ingenerati dall’inserimento di norme “intruse” rispetto alla geometria del sistema 48. E proprio di recente va segnalato un innesto codicistico (art. 234-bis c.p.p.) 49, passato quasi sotto silenzio, che, con
l’obiettivo di facilitare l’accertamento di reati a prova complessa, rischia di indebolire l’architettura garantistica del nostro rito e le regole fondamentali in materia di raccolta della prova all’estero, come le prime applicazioni, anche inerenti i reati economici, sembrano mostrare. La meccanica del processo, del resto, richiede interventi ben consapevoli delle ripercussioni sugli altri ingranaggi di un congegno assai delicato.
Lo scenario comparativo, dunque, più che indurci all’acquisto “compulsivo” 50 di nuovi “prodotti”
alla boutique del diritto straniero, deve renderci guardinghi rispetto a qualsiasi forzatura diretta a convertire il processo in un arnese per l’attuazione della politica criminale del momento. Il vissuto degli altri legislatori può, nel caso, piuttosto convincerci a meglio riequilibrare il rapporto tra inchieste amministrative e procedimento penale 51, a ricalibrare il nemo tenetur se detegere della persona fisica avanti le
43
Come modificato dall’art. 9, l. n. 62/2005.
44
Cfr. G. Cernuto, La consulenza tecnica e la perizia in materia contabile, in Diritto penale delle società, cit., p. 1193.
45
Per l’esperienza italiana, v., per tutti, G. Paolozzi, Vademecum per gli enti sotto processo. Addebiti “amministrativi” da reato
(d.lgs. n. 231 del 2001), Torino, 2006; A. Presutti-A. Bernasconi, Manuale della responsabilità degli enti, Milano, 2013; G. Varraso, Il
procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2012.
46
Cfr. La circolazione investigativa nello spazio giuridico europeo, L. Filippi-P. Gualtieri-A. Scalfati (a cura di), Padova, 2010.
47
Vengono in rilievo, in particolar modo, la recente Direttiva sull’Ordine europeo di indagine, il Protocollo della Convenzione
di assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea e i testi preparatori su statuto e funzionamento
del futuro European Public Prosecutor Office. Cfr. S. Allegrezza-F. Nicolicchia, L’acquisizione della prova all’estero e i profili transnazionali,
in Diritto penale delle società, cit., p. 1249; M. Caianiello, La nuova Direttiva UE sull’ordine europeo di indagine penale tra mutuo riconoscimento e ammissione reciproca delle prove, in questa Rivista, 2015, III, p. 1, nonché i volumi S. Allegrezza-G. Grasso-G. Illuminati-R. Sicurella (a cura di), Le sfide dell’attuazione di una Procura europea: definizione di regole comuni e loro impatto sugli ordinamenti interni, Milano, 2013 e K. Ligeti (a cura di), Toward a Prosecutor for the European Union. A comparative anlysis, Oxford, 2013.
48
Cfr. Il “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia, A. Bargi (a cura di), Torino, 2013.
49
«È sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare» (inserito dall’art. 2, comma 1-bis, d.l. 18 febbraio
2015, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 aprile 2015, n. 43).
50
A. Scalfati, La procedura penale, la retroguardia autoritaria e la compulsione riformista, in Dir. pen. proc., 2009, p. 937.
51
Cfr. L. Marafioti, Intersezioni tra processo contabile e giustizia penale, in F. G. Scoca-A. F. Di Sciascio (a cura di), Le linee evolutive della responsabilità amministrativa e del suo processo, Napoli, 2014, p. 39.
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autorità ispettive 52 e dell’ente nel processo ex d.lgs. n. 231/2001 53, a rinforzare le regole di esclusione
per la prova raccolta in maniera non corretta fuori dal percorso processuale 54.
Alla fine di questo breve – e inevitabilmente incompleto – percorso lungo gli approcci di contrasto
alla criminalità economica, insomma, si deve forse chiedere al nostro legislatore semplicemente di tenere fuori il processo penale dalle legittime esigenze di neutralizzazione dei delitti “in colletto bianco”,
rispettandone appieno il ruolo ed evitando di inquinarne i gangli con logiche repressive che gli sono (e
devono rimanergli) estranee 55.
52
V., tra gli altri, F. Zacché, Gli effetti della giurisprudenza europea in tema di privilegio contro l’autoincriminazione e diritto al silenzio, in A. Balsamo-R. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 179.
53
Cfr. gli artt. 409 bis e 786 bis della Ley de Enjuiciamiento criminal spagnola e l’art. 21 della Ley 20.393/2009 cilena. Per il sistema americano: B. Garrett, Corporate confessions, in 30 Cardozo L. Rev., 2009, p. 917.
54
Non è possibile trattarne in questa sede, ma sul punto di estremo interesse risulta la c.d. “loi Antigone” belga (loi du 24 octobre 2013 modifiant le titre préliminaire du Code d’instruction criminelle).
55
Cfr., da ultimo, E. Marzaduri, Il processo penale e le scelte di politica criminale, in F. Danovi (a cura di), Diritto e processo: rapporti e interferenze, Torino, 2015, p. 165.
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Scenari
Overviews
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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Pietro Zoerle
DUE ACCORDI TRA ITALIA E MONTENEGRO PER FACILITARE L’APPLICAZIONE DELLE CONVENZIONI EUROPEE DI ESTRADIZIONE E DI ASSISTENZA GIUDIZIARIA
Con la l. 6 maggio 2015, n. 63 (in Gazz. uff., 18 maggio 2015, n. 113) il Parlamento italiano ha autorizzato
la ratifica di due Accordi bilaterali conclusi con il Montenegro il 25 luglio 2013 a Podgorica, finalizzati,
rispettivamente, ad agevolare l’applicazione della Convenzione europea di estradizione (Parigi, 1957) e la
Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (Strasburgo, 1959).
Tali Accordi rafforzano i rapporti di cooperazione fra i due Paesi, particolarmente intensi in numerosi settori fin dal 2006, anno in cui il Montenegro ha proclamato la propria indipendenza dall’Unione
Statale di Serbia e Montenegro, nata dalla dissoluzione delle Repubblica Federale di Jugoslavia.
Le intese in esame vanno ad aggiungersi agli accordi di cooperazione in materia di lotta alla criminalità
(Roma, 2007), di collaborazione strategica (Roma, 2010), di interconnessione elettrica sottomarina (Roma,
2010), oltre che al Protocollo per l’attuazione dell’Accordo tra la comunità europea e la Repubblica del Montenegro sulla riammissione delle persone in posizione irregolare (Roma, 2010).
La proficua collaborazione tra i due Stati si spiega considerando, da un lato, l’aspirazione del Montenegro a diventare parte dell’Unione europea e dell’Alleanza Atlantica, obiettivo per i quali l’Italia
rappresenta un importante alleato (v., per esempio, le recenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica Mattarella riportate in http://www.gov.me/en) e, dall’altro lato, l’interesse del nostro Stato a intensificare i rapporti con un partner collocato sulla sponda opposta del Mar Adriatico, strategico sia sotto il
profilo economico, sia per la sicurezza comune dell’area geografica di riferimento.
In particolare, gli accordi aggiuntivi alle Convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria, oltre a consentire, rispettivamente, le reciproche consegne dei propri cittadini allo Stato richiedente e la
cooperazione nel settore penale, si pongono come ulteriore fine quello di rafforzare «la fiducia reciproca nei rispettivi sistemi di giustizia, presupposto indefettibile e necessario per il reciproco riconoscimento delle sentenze e per una collaborazione nel settore penale di valenza transnazionale» (Analisi
dell’impatto della regolamentazione, Atti parlamentati – Senato della Repubblica, n. 1532, pp. 19 e 24).
Si tenga, inoltre, presente – proprio nell’ottica di intensificare i rapporti di collaborazione in materia
penale – che la Repubblica montenegrina ha firmato il 21 aprile 2015 un accordo di mutua cooperazione
con Eurojust.
A) L’ACCORDO BILATERALE TRA ITALIA E MONTENEGRO AGGIUNTIVO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI
ESTRADIZIONE
Il Montenegro ha aderito alla Convenzione europea di estradizione insieme alla Serbia il 30 settembre
2002 ed è considerato «comme Partie à ce traité avec effet» a partire dal 6 giugno 2006.
Non ha, tuttavia, revocato le riserve agli artt. 6, § 1 e 21, § 2 – a suo tempo depositate dalla Repubblica Federale di Jugoslavia – che consentono il rifiuto dell’estradizione e del transito del proprio cittadino
(v. la pagina dedicata alla riserve in http://conventions.coe.int).
L’Accordo bilaterale concluso con l’Italia ha come obiettivo proprio quello di superare tali limiti,
contenendo «una puntuale disciplina della materia dell’estradizione dei cittadini e del transito degli
stessi sul territorio per le ipotesi in cui un cittadino consegnato da uno Stato terzo ad uno dei due Stati
contraenti debba transitare sul territorio degli stessi» (Atti parlamentari, cit., p. 3).
SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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L’intesa, di conseguenza, pur non avendo effetti abrogativi espressi, implicitamente revoca le citate
riserve depositate dall’allora Repubblica Federale di Jugoslavia, limitatamente ai rapporti tra i due Paesi (Atti parlamentari, cit., p. 13).
Il testo dell’Accordo si compone di tre articoli ed è stato redatto in lingua italiana, montenegrina e
inglese. Nel caso di contrasti interpretativi prevale il testo inglese.
L’art. 1 è dedicato alla regolamentazione dell’estradizione processuale ed esecutiva e consente allo
Stato richiesto di consegnare il proprio cittadino per dare corso a un procedimento penale nello Stato
richiedente ovvero per l’esecuzione di una sentenza di condanna definitiva o di un altro provvedimento restrittivo della libertà personale, «conformemente alle disposizioni della Convenzione Europea» (v.
l’art. 6 della Convenzione europea di estradizione). Nel caso di estradizione processuale, la stessa è
consentita se, secondo la legge di entrambe le Parti, potrebbe essere inflitta una pena non inferiore a
cinque anni, limite espressamente richiesto dal Montenegro. Allo stesso modo, l’estradizione esecutiva
è consentita solo se la pena detentiva da espiare sia pari o superiore a cinque anni (art. 1, § 1). Si tratta,
evidentemente, di limiti decisamente più rigidi rispetto a quelli previsti dall’art. 2 della Convenzione di
estradizione, secondo cui possono dare luogo all’estradizione i fatti che le leggi dei Paesi interessati puniscono con una pena o con una misura di sicurezza di almeno un anno.
È, inoltre, previsto che nel caso di estradizione finalizzata all’esecuzione di una pena ovvero di una
misura altrimenti limitativa della libertà personale, lo Stato richiesto possa dare diretta esecuzione al
provvedimento, invece che procedere alla consegna del soggetto (art. 1, § 2). Parimenti, l’estradizione
processuale può essere condizionata a un ulteriore trasferimento dell’estradato una volta che sia stato
processato, al fine di dare esecuzione nel Paese di origine al provvedimento pronunciato dalle autorità
dello Stato richiedente (art. 1, § 3).
Con riferimento alle condizioni in base alle quali è concessa la consegna, viene stabilito che nel caso
di richiesta di estradizione per due o più reati – considerati tali dalle legislazioni interne di entrambe le
Repubbliche – è sufficiente che per uno solo di essi possa essere irrogata una pena uguale o superiore ai
cinque anni (art. 1, § 4).
L’art. 2 stabilisce che, alle medesime condizioni di cui all’art. 1, le parti possono autorizzare il transito sul proprio territorio di un cittadino consegnato al Paese richiedente da uno Stato terzo, sempre in
conformità alla disciplina contenuta nell’art. 21 della Convenzione di estradizione e salvo ragioni di ordine pubblico.
Infine, l’art. 3 prevede che l’Accordo entrerà in vigore a partire dal sessantesimo giorno dalle avvenute notifiche delle ratifiche a opera delle Parti (art. 3, § 1). È possibile che l’intesa venga modificata con
un accordo scritto (art. 3, § 2). Non sono previsti termini di durata e ogni contraente ha facoltà di esercitare il proprio diritto di recesso in qualsiasi momento, dandone comunicazione tramite i canali diplomatici. La cessazione di efficacia dell’Accordo avrà effetto dopo centottanta giorni dalla comunicazione
del recesso, ma non pregiudicherà le procedure di estradizione e di transito già iniziate (art. 3, § 3).
Il Trattato non ha effetto retroattivo (v. Analisi tecnico normativa, Atti parlamentari, cit., p. 13) e, tuttavia, le richieste di estradizione o di transito potranno basarsi anche su reati che siano stati commessi
prima dell’entrata in vigore dello stesso (art. 3, § 4).
B) L’ACCORDO BILATERALE TRA ITALIA E MONTENEGRO AGGIUNTIVO ALLA CONVENZIONE EUROPEA DI
ASSISTENZA GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE
Il secondo Accordo bilaterale ratificato con la l. 6 maggio 2015, n. 63 si aggiunge alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (Strasburgo, 1959) che l’Italia e il Montenegro hanno ratificato, rispettivamente, il 23 agosto 1961 e il 30 settembre 2002 e che «resta in vigore per tutto quanto non
disciplinato dal presente accordo» (preambolo, l. 6 maggio 2015, n. 63).
L’intesa «rientra tra gli strumenti finalizzati all’intensificazione ed alla regolamentazione dei rapporti di cooperazione posti in essere dall’Italia con l’obiettivo di migliorare la cooperazione giudiziaria internazionale e rendere più efficace, nel settore giudiziario penale, il contrasto al fenomeno della criminalità organizzata» (Dossier n. 251, Camera dei Deputati,10 dicembre 2014).
L’accordo si compone di sei articoli ed è anch’esso stato redatto in lingua italiana, montenegrina e
inglese, con prevalenza della versione anglofona nel caso di controversie interpretative.
L’art. 1 stabilisce che le Parti contraenti si impegnano, in conformità alle disposizioni della ConvenSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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zione europea, a prestarsi la più ampia assistenza giudiziaria in materia penale in particolare con riferimento: alla ricerca e alla identificazione delle persone; alle notifiche di atti e documenti relativi ai procedimenti penali, comprese le comunicazioni degli esiti del processo, le sentenze penali e le informazioni estratte dagli archivi giudiziari; alla citazione di testimoni, persone offese, indagati e imputati, periti per la comparizione volontaria dinanzi all’Autorità competente dello Stato richiedente; all’acquisizione e alla trasmissione di atti, documenti ed elementi di prova; all’espletamento e alla trasmissione di
perizie; all’assunzione di testimonianze o dichiarazioni nonché di interrogatori; al trasferimento temporaneo di detenuti sempre al fine di testimonianze, interrogatori, o comunque per partecipare al compimento di atti processuali; all’esecuzione di accertamenti su cose e persone, all’esecuzione di perquisizioni, congelamenti di beni e sequestri; alla confisca dei proventi di reato e delle cose pertinenti al reato;
alle informazioni in materia di diritto. Oltre a tali materie specifiche, gli Stati si impegnano generalmente a fornirsi qualsiasi altra forma di assistenza che non contrasti con le leggi dello Stato richiesto.
Gli artt. 2 e 3 disciplinano le modalità con le quali deve essere inoltrata la richiesta e come alla stessa
debba essere data esecuzione.
Ciascuna Parte si impegna a soddisfare la domanda di cooperazione rapidamente, tenendo conto dei
termini indicati dallo Stato richiedente. L’unico limite è rappresentato dalla salvaguardia dei principi fondamentali del proprio diritto interno (art. 2, § 1). Qualora non fosse possibile una piena collaborazione, i
rispettivi Ministeri possono accordarsi sulle condizioni entro le quali la richiesta può essere soddisfatta
(art. 2, § 2). Nel caso in cui, inoltre, l’istanza interferisse con un procedimento penale in corso nello Stato
richiesto, quest’ultimo può rinviarne l’esecuzione dandone avviso allo Stato richiedente (art. 2, § 3).
Le richieste e le relative risposte vengono scambiate direttamente tra le autorità giudiziarie interessate, salvo la trasmissione di una copia ai rispettivi Ministeri della giustizia (art. 3, §§ 1 e 2).
L’art. 4 contiene una puntuale disciplina per l’assunzione dell’esame testimoniale ovvero del perito
mediante videoconferenza su domanda dello Stato richiedente, allorché risulti inopportuno o impossibile che la persona si presenti volontariamente nel suo territorio (art. 4, § 1). È condizione necessaria che
lo Stato richiesto disponga dei mezzi tecnici per procedere alle operazioni (art. 4, § 4).
Con le stesse modalità può essere eseguito l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini o
dell’imputato che deve consentirvi. In questa ipotesi è garantita la presenza del difensore nel luogo in
cui la persona si trova ovvero dinanzi all’autorità giudiziaria richiedente, con la predisposizione di un
canale di comunicazione riservato tra il difensore e il proprio assistito (art. 4, § 2).
L’esame per videoconferenza rappresenta l’unica modalità di assunzione dell’esame qualora il soggetto sia recluso nel Paese richiesto (art. 4, § 3).
La domanda deve contenere – oltre all’indicazione dell’autorità richiedente, all’oggetto e al motivo
della domanda, all’identità e alla nazionalità della persona, al nome e all’indirizzo del destinatario, al
reato e all’esposizione sommaria dei fatti (art. 14 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria) –
i motivi per i quali risulta inopportuna o impossibile la presentazione della persona nello Stato richiesto
e la precisa indicazione dei soggetti che riceveranno la dichiarazione (art. 4, § 5).
Le citazioni avvengono secondo la legislazione dello Stato richiesto (art. 4, § 4).
Per quanto riguarda le modalità di espletamento della videoconferenza, è prevista la partecipazione
delle Autorità competenti di entrambi gli Stati, che potranno essere assistite da un interprete. Spetta alla
Parte richiesta procedere all’identificazione del soggetto secondo la propria disciplina interna. Nel corso dell’esame devono essere adottate misure idonee affinché l’esame si svolga sempre secondo i principi fondamentali della legislazione dello Stato richiesto (art. 4, § 7, lett. a).
Se risulta necessario, le Parti si accordano per assumere particolari misure di protezione del soggetto
da sottoporre a esame (art. 4, § 7, lett. b).
È garantita l’assistenza di un interprete (art. 4, § 7, lett. c).
La persona sottoposta all’esame potrà rifiutarsi di rendere dichiarazioni ove ciò sia consentito dalla
legislazione dello Stato richiesto ovvero di quello richiedente (art. 4, § 7, lett. d).
Delle operazioni è necessario procedere a verbalizzazione, a opera dell’autorità dello Stato richiesto,
che verrà trasmessa alla controparte per mezzo dei rispettivi Ministeri di giustizia (art. 4, § 8).
Le spese sono a carico del Paese richiedente, salvo la rinunzia al rimborso da parte dello Stato richiesto (art. 4, § 9).
L’utilizzo del sistema di videoconferenze non è limitato agli esami di periti e testimoni e all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, ma può essere esteso anche alle ricognizioni e ai confronti (art. 4, § 10).
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L’art. 5 disciplina la cooperazione in materia di accertamenti bancari e finanziari. Si rende possibile
lo scambio di informazioni con riferimento alla disponibilità di conti, da parte di persone fisiche o giuridiche nonché dei soggetti abilitati ad accedervi, ovvero di rapporti finanziari con banche o altri istituti
operanti nel settore creditizio, nonché riguardo alle relative movimentazioni. Con tali disposizioni vengono superati i limiti derivanti dal segreto bancario, che, appunto, non potrà essere opposto alla richiesta (art. 5, § 3).
Per quanto riguarda l’entrata in vigore, la durata e le possibili modifiche dell’intesa si applica la
stessa disciplina prevista per l’Accordo aggiuntivo alla Convenzione di estradizione (v. supra).
L’intesa consente di accelerare significativamente i rapporti di cooperazione, permettendo il diretto
scambio di richieste e risposte tra le autorità competenti e non più attraverso i canali diplomatici tradizionali (Analisi dell’impatto della regolamentazione, cit., p. 25).
IL TRATTATO FRA ITALIA E KAZAKISTAN SUL TRASFERIMENTO DELLE PERSONE CONDANNATE
Con la legge 16 giugno 2015, n. 79 (in Gazz. uff., 23 giugno 2015, n. 143) si è autorizzata la ratifica del
Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra la Repubblica Italiana e la Repubblica del Kazakistan
(Astana, 2013), teso a consentire che i cittadini di entrambe le Parti contraenti, condannati e detenuti
nell’altro Stato, siano trasferiti nel Paese di origine per scontarvi la pena residua (Dossier n. 227, Camera
dei Deputati, 15 ottobre 2014).
L’accordo è sintomo dell’intensificazione dei rapporti fra i due Paesi in vari ambiti come – e primariamente – quello economico, quello militare (v. il Trattato di Cooperazione militare, ratificato con la l. 16
giugno 2015, n. 15, in Gazz. Uff., 6 luglio 2015, n. 154), quello del contrasto alla criminalità organizzata
(v. il Trattato di cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata, al traffico illecito di sostanze stupefacenti
e psicotrope, di precursori e sostanze chimiche impiegate per la loro produzione, al terrorismo e ad altre forme di
criminalità, Roma, 2009 nonché il Memorandum sulla cooperazione fra la Procura Generale della Repubblica del
Kazakistan e la Direzione Nazionale Antimafia italiana nella lotta alla criminalità organizzata e al riciclaggio dei
proventi di reato del 28 maggio 2003). Risultano, peraltro, sottoscritti e in corso di ratifica due Accordi di
cooperazione in materia penale e di estradizione (firmati il 22 gennaio 2015, v. www.ambstana.esteri.it),
quest’ultimo particolarmente rilevante nel contesto dei rapporti tra i due Paesi segnato dalla anomala
espulsione nella vicenda “Shalabayeva” (v. Cass. civ., sez. VI, 30 luglio 2014, n. 17407, in CED Cass., n.
632265).
Tornando al Trattato in discorso, ne viene sottolineata l’utilità al fine di sottrarre i cittadini italiani
detenuti in Kazakistan (v., in particolare, Legislatura XVII, Atto di sindacato ispettivo n. 3-00869) al regime
carcerario della ex Repubblica sovietica (in proposito v. Kazakhstan, 2014, Human Rights Report, in
www.state.gov/j/drl/rls/hrrpt/humanrightsreport), mentre non sembrano profilarsi rilevanti effetti sotto il
profilo della deflazione penitenziaria in Italia, stante l’esiguo numero di detenuti kazaki nelle nostre
carceri (secondo l’Analisi di Impatto della Regolamentazione del Governo risultavano al tempo dell’accordo quattro cittadini del Kazakistan detenuti in Italia, numero sceso a due nel 2015 secondo le statistiche
del Ministero della Giustizia, v. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.wp).
L’accordo – che entrerà in vigore dopo il trentesimo giorno dalla ricezione della seconda delle due
notifiche con le quali i Paesi si comunicheranno l’espletamento delle rispettive procedure interne di ratifica (art. 23, § 1) e avrà efficacia anche retroattiva (art. 21) – è stato redatto in lingua italiana, kazaka e
inglese e si compone di ventitre articoli. Le tre versioni fanno egualmente fede, salvo la prevalenza di
quella inglese nel caso di divergenze interpretative (art. 23, § 3). Qualsiasi controversia in merito è rimessa, in prima istanza, a un procedimento consultivo tra le Autorità centrali dei contraenti e, se non
risolta, alla consueta consultazione per via diplomatica (art. 22).
Il Trattato non impedisce alle Parti di cooperare in materia di trasferimento in conformità ad altri accordi internazionali (art. 20). Si rileva, in proposito, che il Kazakistan non ha sottoscritto la Convenzione
europea sul trasferimento delle persone condannate (Strasburgo, 1983), che «costituisce […] lo strumento
giuridico maggiormente applicato in materia di trasferimenti internazionali di detenuti al fine di eseguire condanne definitive» (Dossier n. 227, cit.)
Il trasferimento – su accordo delle parti – della persona condannata con sentenza definitiva può avvenire solo a fronte del suo consenso o di quello del suo legale rappresentante in caso di incapacità (art.
4, § 1, lett. d), sempre che il periodo di pena ancora da scontare sia almeno di un anno dalla data di riceSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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zione della richiesta di trasferimento; è possibile, solo in via eccezionale, che il trasferimento abbia luogo anche se la durata è inferiore (art. 4, § 1 lett. c e § 2). È consentito il trasferimento di minorenni, conformemente alle leggi dei due Stati contraenti (art. 2, § 3).
Il consenso deve essere prestato volontariamente e con piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano. Le procedure da seguire sono quelle dello Stato di condanna, salvo la possibilità per il Paese di origine di effettuare controlli circa il consenso prestato tramite un proprio rappresentante diplomatico (art. 11, §§ 1 e 2).
Vige il principio della doppia incriminabilità (art. 4, § 1 lett. e), secondo il quale il trasferimento è
condizionato alla circostanza che il fatto per il quale la persona è detenuta sia riconosciuto come reato
anche dalla legge del Paese di origine.
Le richieste, corredate dalle informazioni e dai documenti a sostegno, vengono trasmesse e ricevute
dal Ministero della Giustizia per l’Italia e dall’Ufficio del Procuratore Generale per il Kazakistan (art. 3).
In particolare, lo Stato di condanna deve trasmettere le informazioni relative: al condannato e alla sua
residenza; al fatto e alle disposizioni di legge per le quali è stata pronunciata la decisione definitiva di
cui è necessario una copia autentica; alla natura della condanna, alla sua durata e alla data in cui ne è
iniziata l’esecuzione; alla condotta tenuta dal soggetto durante il periodo di detenzione; a eventuali
trattamenti sanitari eseguiti. È, inoltre, necessario l’invio delle dichiarazioni con le quali la persona
condannata e il Paese di condanna confermano il proprio consenso al trasferimento (art. 9, § 2).
Lo Stato di esecuzione dovrà fornire: la documentazione che dimostri che il condannato è cittadino
dello Stato di esecuzione; le indicazioni delle disposizioni di legge in base alle quali il fatto per il quale
la persona è stata condannata costituisce reato anche nello Stato di origine; le informazioni relative alle
norme che disciplinano l’esecuzione della pena imposta da Stati stranieri; il proprio consenso a dare
esecuzione alla restante parte della condanna; qualsiasi altra informazione che lo Stato di condanna ritenga necessaria al fine della decisione (art. 9, § 3).
La richiesta può essere presentata sia dal Paese in cui è in corso l’esecuzione della condanna, sia dallo Stato di origine sia dal condannato (art. 8). È previsto che le Parti contraenti diano informazione del
Trattato ai detenuti ai quali può essere applicato, avvisandoli anche delle conseguenze giuridiche derivanti dal trasferimento (art. 7, § 1). Gli stessi soggetti devono essere costantemente aggiornati su ogni
azione intrapresa nei loro confronti (art. 7, § 2).
Per quanto riguarda gli aspetti formali della domanda di trasferimento, essa e i documenti allegati
devono essere redatti per iscritto, nella lingua del Paese destinatario ovvero in inglese (art. 10, § 1). Solo
la copia della sentenza definitiva deve essere autenticata (art. 10, § 2).
L’istanza di trasferimento può essere rifiutata nel caso in cui la consegna determini per una delle
due Parti contraenti pericoli per la sovranità, per l’ordine pubblico, per la sicurezza, ovvero quando sia
contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento interno o a interessi nazionali (art. 5, § 1, lett. a).
Parimenti, lo Stato di condanna può rifiutare il trasferimento se sono in corso sul suo territorio altri
procedimenti penali, civili o amministrativi nei confronti del soggetto (art. 5, § 1 lett. b). Si tratta, tuttavia, di motivi di diniego non tassativi, essendo possibile che le Parti accettino o rifiutino il trasferimento
«per altri motivi, indipendentemente dalle condizioni previste nel paragrafo 1» (art. 5, § 2).
Una volta raggiunto l’accordo sul trasferimento, gli Stati stabiliscono il tempo, il luogo e le modalità
dello stesso (art. 12).
Dopo aver preso in consegna il proprio cittadino, lo Stato provvede all’esecuzione della condanna
per il periodo di pena residua (art. 13, § 1). Nel caso in cui la natura o la durata della condanna sia incompatibile con la legge dello Stato di esecuzione, è possibile adeguare la condanna a quella prevista
per lo stesso reato nell’ordinamento interno. In particolare, posto che la condanna deve corrispondere
«il più possibile» per natura e durata con quella inflitta dallo Stato di condanna, una pena privativa della libertà personale non può essere modificata in una sanzione pecuniaria (art. 13, § 2 lett. a) e lo Stato di
esecuzione non può applicare una pena più grave, né applicare una pena eccedente la durata massima
della pena prevista per lo stesso reato dalla sua legge interna (art. 13, § 2 lett. b). La persona trasferita
può anche godere della liberazione condizionale anticipata ovvero di altri benefici previsti
nell’ordinamento del proprio Paese (art. 13, § 3). La persona trasferita può pure beneficiare della grazia,
dell’amnistia e degli altri provvedimenti di riduzione della pena concessi da entrambi gli Stati contraenti (art. 15, § 1).
Resta invece competente per la revisione della sentenza solo lo Stato di condanna (art. 14).
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In fase di esecuzione della pena, lo Stato di origine deve comunicare allo Stato di condanna il termine di esecuzione o di cessazione della pena o l’eventuale evasione del condannato. Lo Stato di esecuzione può comunque chiedere una «relazione speciale» circa l’esecuzione della condanna (art. 17, § 1,
lett. a, b e c).
L’accordo disciplina anche il transito di un condannato trasferito da uno Stato terzo attraverso il territorio dell’altra Parte. In questa ipotesi è necessaria un’apposita autorizzazione solo se è previsto un
attraversamento via terra o comunque lo scalo aereo nel suo territorio. Il transito è consentito se non vi
è incompatibilità con la legislazione interna (art. 18, §§ 1 e 2).
Dal punto di vista finanziario, le spese sono sostenute dallo Stato di esecuzione, così come quelle di
transito sono a carico del Paese richiedente (art. 19, §§ 1 e 2).
Infine, il Trattato non ha limiti di durata, salva la possibilità per le Parti di recedervi con comunicazione scritta per via diplomatica. La cessazione avrà effetto dal centoottantesimo giorno successivo alla
data dell’avviso, ma non pregiudicherà eventuali procedure di trasferimento già in corso (art. 23).
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DE JURE CONDENDO
di Orietta Bruno
CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E AI PATRIMONI ILLECITI
Accompagnato da corpose note illustrative, è all’attenzione delle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia del Senato il d.d.l. S. 1687 rubricato «Modifiche alle norme di attuazione del codice di procedura penale, al codice penale, al codice civile e ad altri testi normativi per un contrasto più efficace del fenomeno
corruttivo delle accumulazioni illecite di ricchezza da parte della criminalità organizzata anche mafiosa. Disposizioni per la prevenzione del riciclaggio nei contratti pubblici e nell’erogazione dei finanziamenti pubblici».
Restringendo il campo alle norme di carattere procedurale, va detto che all’art. 129, comma 3, delle
norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (d.lgs. 28 luglio
1989, n. 271) si pensa di aggiungere, alla fine, il seguente periodo teso a prevedere un’attività informativa da parte del magistrato: «Quando esercita l’azione penale per i delitti di cui agli articoli 317, 318,
319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, e 353-bis del codice penale» il pubblico
ministero dà notizia all’Autorità nazionale anticorruzione, informandola sulla imputazione».
Modifiche sono previste, per una maggiore «efficienza», nei procedimenti esecutivi e di cognizione
con detenuti. Più esattamente, all’art. 666 c.p.p. dovrebbero essere apportate le limature che seguono: al
comma 4, il secondo periodo è soppresso; mentre, dopo il comma 4, verrebbero aggiunti altri tre nei
quali dovrebbe stabilirsi che l’interessato il quale ne fa richiesta «è sentito personalmente ovvero, nei
casi previsti dall’art. 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie» del codice di
procedura penale con le tecniche “qui” previste. La novella dovrebbe intervenire, poi, sull’art. 666,
comma 4-ter per cui, ove l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del
giudice, la partecipazione all’udienza dovrebbe svolgersi a distanza, mediante il collegamento audiovisivo, anche nelle ipotesi diverse da quelle ex art. 146 disp. att. coord. e trans. Si prevede, quindi, l’applicazione, in quanto compatibile, del menzionato art. 146-bis, commi 2, 3, 4 e 6. Mancando mezzi adeguati, il giudice prescrive che l’interessato venga sentito, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di
sorveglianza del luogo. Si vorrebbe introdurre anche un comma 4-quater per cui, nei casi del comma 4ter, l’organo giurisdizionale, se reputa necessaria, in ogni caso, la presenza dell’interessato all’udienza,
«ne dispone la traduzione».
Per l’art. 146-bis delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di rito dovrebbe
mutare il comma 1 da sostituirsi così: «quando si procede nei confronti di persona che si trova in stato
di detenzione per taluno dei delitti indicati nell’art. 51 comma 3-bis, nonché nell’art. 407, comma 2, lett.
a), numero 4) del codice, la partecipazione al dibattimento, anche per fatti diversi, avviene a distanza: a)
quando sussistono gravi ragioni di ordine pubblico e di sicurezza, anche penitenziaria; b) qualora il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento. La necessità di accorciare il segmento dibattimentale è valutata anche in relazione al fatto che, nei confronti dello stesso imputato, siano contemporaneamente in corso distinti
processi presso diverse sedi giudiziarie».
Tutto il resto della proposta di legge rappresenta un coacervo di previsioni che agiscono sul codice
penale (non solo inasprendo le pene per alcuni reati che mirano a combattere la criminalità organizzata,
in particolar modo quella mafiosa e la sua capacità di ingerirsi nei circuiti dell’economia e delle istituzioni di governo locali), ma anche l’allestimento di nuove fattispecie criminose ed un aggiustamento
delle circostanze aggravanti e diminuenti. Cospicua l’interferenza, inevitabilmente, anche con le previsioni del Codice antimafia; significativo pure il previsto pacchetto di norme circa la trattazione prioritaria dei procedimenti relativi a sequestro e confisca.
È stata concepita anche un’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Spiccano, infatti, le norme che dovrebbero disciplinare la confisca per sproporzione al reddito o all’attività economica. Si chiude con il previsto maquillage
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del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, e del d.lgs. 22 giugno 2007, n. 109.
Non mancano norme sulle disposizioni in materia di vittime e misure di protezione e in tema di scioglimento degli enti locali conseguente a fenomeni di condizionamento di tipo mafioso o similare.
TRAVISAMENTO IN CASO DI MANIFESTAZIONI E CORTEI
D’interesse è anche il progetto di legge C. 3093, assegnato alla Commissione Affari costituzionali con la
richiesta del parere della Commissione Giustizia, come voluto dall’art. 73 del reg. Camera. Il disegno di
legge, d’iniziativa dell’on. Molteni e altri reca il titolo «Modifiche all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975,
n. 152, e all’articolo 380 del codice di procedura penale, concernenti il delitto di travisamento in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico».
Il suddetto disposto decreta, ad oggi, che «È vietato l’uso dei caschi protettivi, o di qualunque altro
mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si
svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino».
Si tratta di una disposizione complementare al codice penale volta a garantire il bene giuridico
dell’ordine pubblico da indebite minacce rappresentate dall’occultamento, totale o parziale, della propria immagine nello svolgersi di pubbliche manifestazioni. Peraltro, i commi 2 e 3 del menzionato art. 5
chiariscono che «il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con la ammenda da 1.000 a
2.000 euro». Per detta contravvenzione l’arresto in flagranza è facoltativo.
Tuttavia, considerando che sempre più spesso frange di soggetti violenti riescono ad infiltrarsi in
eventi pacifici e procedono a scontri, tafferugli, etc., rendendosi irriconoscibili alle Forze dell’ordine, ad
avviso dei proponenti si rende imprescindibile ammodernare la previsione normativa, onde «accentuare il rango penale del travisamento, incorniciandolo nella fattispecie di delitto» e, dunque, sanzionandolo con la multa e la reclusione.
Nel concreto, il cambiamento dovrebbe così realizzarsi: in primis, l’art. 5 della legge n. 152 del 1975
dovrebbe essere sostituito come segue «Chiunque viola il divieto di cui al secondo periodo del primo
comma è punito con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da 20.000 a 30.000 euro». Sono sanciti
ulteriori aumenti di pena per i casi in cui il soggetto sia in possesso di uno strumento atto, chiaramente,
ad offendere.
In secondo luogo, il disvalore sociale della tipologia di reato impone di prevedere, a livello procedimentale, l’arresto obbligatorio e non facoltativo nelle ipotesi di flagranza di reato. In effetti, all’art. 380,
comma 2, c.p.p. dovrebbe essere aggiunta la lettera m-quater riferita al delitto di travisamento in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico, di cui all’art. 5, comma 1, secondo periodo,
della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni.
REVISIONE DEL PROCESSO A SEGUITO DI SENTENZE DELLA CEDU
Merita di essere altresì segnalata la proposta di legge C. 3009 («Modifiche al codice di procedura penale e
alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice, di cui al decreto legislativo 28 luglio
1989, n. 271, in materia di revisione del processo a seguito di una sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo»), d’iniziativa dell’on. Ottobre.
Come si legge nella Relazione di accompagnamento, il disegno di legge – attribuito alla Commissione Giustizia – si propone di introdurre l’istituto della revisione quale mezzo straordinario di impugnazione da esperire ogni qualvolta una pronuncia della Corte e.d.u. abbia constatato l’iniquità del processo celebrato in Italia, per inosservanza di taluna delle disposizioni di cui all’art. 6, § 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ciò, a maggior ragione in un ordinamento, come il nostro, dove mancano strumenti in grado di porre rimedio alle violazioni del menzionato
art. 6, § 3 della Cedu.
Si pensa all’inserimento del titolo IV-bis nel libro nono del codice di rito, intitolato “Revisione a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Si prevede, innanzitutto, un nuovo articolo, il 647-bis («Revisione a seguito delle sentenze della CorSCENARI | DE JURE CONDENDO
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te europea dei diritti dell’uomo»), per il quale «È ammessa la revisione delle sentenze di condanna
quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato con sentenza definitiva la violazione di taluna delle disposizioni dell’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (…)».
Quanto ai profili di legittimazione attiva, possono chiedere il mezzo di gravame il condannato, la
persona che sullo stesso esercita l’autorità tutoria e il Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Qualora sia quest’ultimo a proporre l’istanza, le persone ora ricordate possono unirla alla sua.
Spetta all’art. 647-quater delineare i caratteri formali della richiesta: essa deve contenere, a pena di
inammissibilità, la specifica segnalazione delle violazioni riscontrate dalla Corte e.d.u. e della loro «incidenza determinante sul processo giudicato iniquo» e va presentata nella cancelleria della Corte di cassazione entro un anno dalla data in cui la decisione della Corte e.d.u. è diventata definitiva, corredata
di copia autentica della medesima pronuncia irrevocabile. L’istanza è sottoscritta, sempre a pena di
inammissibilità, «da un difensore iscritto nell’albo speciale per il patrocinio davanti alla Corte di cassazione».
Decorsi 30 giorni dal deposito della richiesta, il Supremo collegio delibera in ordine all’ammissibilità
della stessa, con procedimento in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p. Qualora la domanda non sia
ammissibile (perché proposta fuori dei casi di legge o senza rispettare le formalità appena menzionate),
l’organo di legittimità lo dichiara con ordinanza; se è manifestamente inammissibile, può condannare il
privato al pagamento di una somma alla cassa ammende.
Se, viceversa, l’atto risulta ammissibile, la Cassazione trasmette gli atti alla Corte d’appello individuata ai sensi dell’art. 11 c.p.p. In caso contrario, vengono eseguite le notifiche del caso. Avverso tali
provvedimenti non è ammessa impugnazione.
Salvo che il Giudice designato ravvisi la sussistenza di taluna delle esigenze cautelari ex art. 274
c.p.p. che consentono alla Corte d’appello di applicare una misura coercitiva (artt. 281-285 c.p.p.),
quest’ultima, entro 20 giorni dalla ricezione degli atti, dichiara, nelle forme dell’art. 666 c.p.p., la sospensione dell’esecuzione della pena quando reputa che, dall’attuazione della sentenza impugnata,
possa derivare un’ingiusta detenzione. Avverso le ordinanze che decidono sulla sospensione dell’esecuzione e sull’applicazione delle misure coercitive ovvero sulla revoca della sospensione, possono ricorrere per cassazione il condannato e il procuratore generale presso la Corte d’appello.
Il presidente della Corte d’appello emette un decreto di citazione entro 30 giorni dalla ricezione degli atti. Nel giudizio di revisione, l’organo giurisdizionale procede alla rinnovazione dei soli atti ai quali
si riferiscono le violazioni accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché all’assunzione o
alla rinnovazione delle sole prove che ritiene assolutamente indispensabili ai fini della decisione. Nel
caso di revisione, i termini di prescrizione del reato sono sospesi. Si applicano le disposizioni degli artt.
637, 638, 639, 640 e 642 c.p.p.
Copia della sentenza di condanna della Corte e.d.u. viene trasmessa alla Presidenza del Consiglio,
che, a sua volta, la inoltra al Ministero della Giustizia ove, dopo essere stata tradotta in italiano, viene
mandata al Procuratore generale presso la Corte di cassazione (art. 201-bis disp. att. e coord., da introdursi sempre in seno a questa novella).
SCENARI | DE JURE CONDENDO
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Marcello Stellin
TUTELA DELLA VITTIMA VULNERABILE – CROSS EXAMINATION
(Corte e.d.u., 28 maggio 2015, Y. c. Slovenia)
La pronuncia in esame s’iscrive all’interno di quel filone giurisprudenziale, inaugurato con l’importante precedente Doorson c. Paesi Bassi (Corte e.d.u., 26 marzo 1996), afferente al bilanciamento tra il
principio del contraddittorio e la tutela del teste. Il canone dialettico rileva in parte qua principalmente
nel suo portato soggettivo (quantunque detto profilo sia inscindibilmente connesso alla c.d. funzione
fondativa della cross examination): secondo la Corte, infatti, l’esercizio del diritto di difesa, riconosciuto
all’imputato, non può spingersi sino all’annichilimento dei diritti fondamentali del dichiarante (quali la
vita, la libertà e la sicurezza) sanciti in via generale dall’art. 8 della Convenzione, dovendo piuttosto essere oggetto d’un bilanciamento rispetto a questi ultimi.
Si volga un rapido sguardo ai fatti.
La ricorrente, cittadina ucraina residente in Slovenia, lamenta innanzi alla Corte europea la violazione degli artt. 3, 8 e 13 della Convenzione: l’autorità giudiziaria avrebbe, infatti, disatteso gli obblighi
scaturenti dalle prime due norme che, nel caso di specie, impongono di assicurare una tutela effettiva ai
consociati vittime di delitti a sfondo sessuale; il processo penale instaurato in relazione ai fatti di causa
sarebbe stato, al contrario, affetto da ingiustificata lentezza, carenza d’imparzialità ed avrebbe, inoltre,
causato alla persona offesa sofferenze non rese necessarie dall’accertamento dei fatti e dall’esercizio dei
diritti difensivi. La ricorrente non avrebbe, dunque, avuto accesso ad un rimedio tangibile, ai sensi
dell’art. 13, per quel che attiene alle violazioni subite (§ 73).
La vicenda in esame muove dalla denuncia presentata dalla madre della persona offesa nel luglio
2002: stando a quanto narrato, tra luglio e dicembre 2001, la giovane donna, all’epoca dei fatti quattordicenne, sarebbe stata vittima di plurimi abusi sessuali da parte di un amico di famiglia.
Dopo oltre quattro anni di indagini, questo soggetto veniva accusato di violenza sessuale ai danni di
un minore: nel corso di siffatto arco temporale, la vittima veniva ascoltata dapprima dalla polizia e,
successivamente, sempre in fase investigativa, da una corte territoriale; l’indagato, dal canto suo, negava gli addebiti; un esperto ginecologo, rilevate alcune contraddizioni nel racconto della giovane, riteneva che non vi fossero chiari indici d’abuso; uno psicologo, al contrario, riscontrava la sintomatologia tipica di tali esperienze (§§ 9-24).
Nel corso del giudizio la persona offesa veniva esaminata sia dal difensore dell’accusato sia, successivamente, dall’imputato stesso: la cross examination condotta da quest’ultimo durava ben quattro ore.
Le domande di costui – volte essenzialmente a dimostrare la natura calunniosa delle accuse –, spesso
talmente provocatorie e ripetitive da rendere necessaria l’ammonizione da parte del giudice, ingeneravano un forte stress nella teste: l’udienza veniva più volte sospesa a causa dell’agitazione e del pianto di
quest’ultima (§§ 31-38).
Lo psicologo ed il ginecologo ch’erano stati interpellati in fase d’indagine confermavano il loro responso (§§ 42, 43); un nuovo perito ginecologo non riscontrava, invece, discrasie tra le evidenze cliniche
e quanto narrato dalla vittima (§ 44); un esperto ortopedico – nominato, invece, sulla scorta della prospettazione difensiva dell’imputato, il quale aveva sostenuto l’incompatibilità delle condotte addebitategli con le sue condizioni fisiche (una ridotta motilità del braccio) – escludeva che alcuni eventi potessero essersi verificati nei modi descritti dall’odierna ricorrente (§§ 45-49). Tale parere instillava un ragionevole dubbio in seno all’organo giudicante: l’imputato veniva, dunque, assolto in data 29 settembre
2009 (§ 51), non essendo stata raggiunta pienamente la prova della sua colpevolezza: la sintomatologia
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psichica accusata dalla vittima avrebbe, infatti, potuto essere ascritta anche al comportamento dell’ex
marito della madre, già giudicato in altro procedimento (§ 53).
La Corte europea ravvisa innanzitutto la violazione dell’art. 3 Cedu sotto il profilo procedurale: nonostante la complessità della vicenda, il procedimento penale era stato caratterizzato da notevoli ed ingiustificati periodi d’inattività, tali per cui dalla notizia di reato fino alla pronuncia di primo grado erano trascorsi oltre sette anni. Quantunque non sia possibile accertare se tale inerzia abbia influenzato
l’esito del giudizio, siffatto modus procedendi – chiosa la Corte – non soddisfa certamente il criterio della
“tempestiva reazione dell’autorità”, che discende dall’art. 3 (§ 99). Giova sottolineare, a questo proposito, che la Corte è solita ravvisare una violazione della norma in commento allorquando le inadempienze dell’autorità giudiziaria determinino lo spirare dei termini prescrizionali: con riferimento a fattispecie di violenza contro la persona si veda il recentissimo precedente Milena Felicia Dumitrescu c. Romania
(Corte e.d.u., 24 marzo 2015) nonché il caso Valiuliene c. Lituania (Corte e.d.u., 26 marzo 2013).
Le riflessioni più interessanti attengono, tuttavia, alle doglianze afferenti al mancato rispetto dell’art.
8. Richiamata la giurisprudenza edita sul punto, la Corte si sofferma, in particolare, sulle implicazioni
della cross examination laddove tale strumento venga esercitato personalmente dall’imputato. Vale la
pena rammentare che siffatta prerogativa, esclusa all’interno del sistema italiano – nonostante il tenore
letterale dell’art. 111, comma 3, Cost., che recepisce l’art. 6 § 3 lett. d) Cedu –, negli ordinamenti in cui è
prevista incontra, solitamente, specifiche limitazioni laddove il teste sia vittima di un delitto a sfondo
sessuale o comunque vulnerabile [cfr., in relazione al processo penale inglese, le ss. 34 e 35 dello Youth
Justice and Criminal Evidence Act (1999)]. Atteso, quindi, che il diritto all’autodifesa non autorizza il ricorso a «qualsivoglia argomento difensivo», la Corte rammenta che «un confronto diretto» tra l’imputato e la vittima di un delitto sessuale determina «un ulteriore trauma per quest’ultima», tale da richiedere un attento scrutinio, da parte dei giudici nazionali, soprattutto qualora le domande vertano su
questioni intime (§ 106).
Nel caso di specie, l’imputato – benché assistito da un difensore – aveva interrogato personalmente
la vittima, cercando di screditarne l’attendibilità (sulla scorta di una supposta predisposizione al mendacio) e di fare emergere la natura strumentale delle accuse, finalizzate ad ottenere un risarcimento: atteso che l’esame incrociato non può essere utilizzato «quale strumento d’umiliazione e d’intimidazione
del teste» (§ 108) e che compete al giudice assicurare la lealtà dello stesso (cfr. il nostrano art. 499, comma 6, c.p.p.), la Corte ritiene che il tenore delle domande e delle insinuazioni abbia ecceduto sensibilmente i limiti del diritto di difesa (§ 109).
Un ulteriore fattore di stress patito dalla vittima potrebbe essere, inoltre, costituito dal fatto che il difensore dell’imputato, il quale aveva parimenti condotto il controesame, fosse stato informalmente consultato da costei a ridosso dei fatti [circostanza che per l’ordinamento sloveno non assurge a motivo
d’incompatibilità (§ 111)]; a ciò deve aggiungersi che uno dei ginecologi interpellati aveva travalicato i
limiti della propria funzione, spingendosi a sindacare l’attendibilità della dichiarante, con conseguente
ulteriore affaticamento per la persona offesa, ch’era stata, quindi, indebitamente sottoposta ad un’intervista all’interno di una sede impropria, da parte di personale a ciò non preparato (§§ 111-113).
Sulla scorta di tali premesse i Giudici europei ritengono che l’autorità nazionale non abbia garantito
un’adeguata protezione alla vittima, né sia del resto addivenuta ad un equo bilanciamento tra i diritti di
cui all’art. 8 e quelli della difesa sanciti, invece, dall’art. 6 della Convenzione, con conseguente violazione della prima norma (§§ 115-116). Il case law strasburghese è piuttosto copioso sul punto: per quel che
attiene, viceversa, ad ipotesi sperequative a favore della tutela del teste, si vedano i precedenti Rosin c.
Estonia (Corte e.d.u., 19 novembre 2013) ed A.S. c. Finlandia (Corte e.d.u., 28 settembre 2010); per
un’equa mediazione tra i contrapposti interessi cfr., invece, il caso S.N. c. Svezia (Corte e.d.u., 2 luglio
2002).
NE BIS IN IDEM
(Corte e.d.u., 23 giugno 2015, Butnaru e Bejan–Piser c. Romania)
La pronuncia in commento potrebbe fungere da parametro interpretativo, aggiungendo un importante
tassello al dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla nozione d’identità fattuale (interpretata
in termini tendenzialmente restrittivi dal secondo formante), dalla cui ampiezza dipende la portata applicativa dell’art. 649 c.p.p., il quale sancisce il divieto d’un secondo giudizio ove in ordine al medesimo
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fatto siano già intervenuti una sentenza ovvero un decreto penale di condanna irrevocabili.
La vicenda in esame s’iscrive all’interno di una vertenza civilistica afferente alla proprietà d’un immobile che vedeva uno dei ricorrenti contrapposto ad un soggetto che abitava lo stabile (§ 6): quest’ultimo aveva esperito una sorta di ricorso diretto, per percosse e lesioni, a carico dei suddetti, i quali, a
suo dire, in data 2 giugno 2004, si sarebbero introdotti nel suo domicilio a seguito d’effrazione ed ivi
l’avrebbero colpito; minacce di morte sarebbero state, inoltre, profferite a suo danno da parte di uno di
essi in data 27 maggio 2004 (§ 9). Il giudice adito, ritenute insufficienti le prove, aveva assolto gli odierni ricorrenti per i reati loro ascritti in data 7 novembre 2005: la decisione diventava definitiva in data 24
gennaio 2006 (§§ 10, 11).
Nel frattempo, tuttavia, il 31 maggio 2005, il pubblico ministero rinviava a giudizio gli imputati per
il delitto di rapina posta in essere con violenza (§ 12). In data 7 marzo 2006 entrambi i ricorrenti venivano condannati rispettivamente per rapina (con violenza) e concorso: secondo l’accusa, confermata a seguito d’istruzione dibattimentale, gli imputati, in concorso tra loro, si sarebbero introdotti con scasso
all’interno dell’abitazione della vittima, avrebbero minacciato e percosso costei, sottraendole, infine, alcuni beni (§ 13).
Esperiti senza successo tutti i mezzi d’impugnazione ordinari e straordinari [tramite cui veniva denunciata l’inosservanza del divieto di bis in idem (§§14-21)], i ricorrenti, adita la Corte e.d.u., si dolgono
della violazione dell’art. 4 del Settimo Protocollo addizionale alla Convenzione europea: detta norma
[senza precludere la litispendenza (§§ 32, 37)] vieta che un soggetto venga perseguito, giudicato ovvero
punito da un organo giurisdizionale di uno stato membro per un reato a seguito del quale, conformemente all’ordinamento dello stato medesimo, sia già stata pronunciata una sentenza definitiva
d’assoluzione o di condanna (§ 45).
Pur applicando, anche nel caso di specie, i criteri invalsi in materia di ne bis in idem (si vedano, a
questo proposito, i noti precedenti, datati 20 maggio 2014, Hakka c. Finlandia, Glantz c. Finlandia, Pirttimaki c. Finlandia, Nykanen c. Finlandia) la Corte europea appare piuttosto parca quanto a premesse metodologiche. Occorre, infatti, rammentare che il Collegio è solito pronunciarsi in ordine al rispetto della
norma in esame sulla scorta di un vaglio articolato in quattro punti, concernenti il carattere penalistico
dei procedimenti incardinati, l’identità delle fattispecie concrete, la sussistenza d’una statuizione irrevocabile, nonché la duplicità delle procedure (cristallina, sul punto, la recente Corte e.d.u., 27 gennaio
2015, Rinas c. Finlandia).
Essendo incontestata la natura criminale di entrambi gli iter giurisdizionali, i Giudici strasburghesi
procedono direttamente alla verifica dell’identità fattuale e della duplicazione dei procedimenti (§ 30).
Atteso che, ai fini della regola in commento, i reati addebitati devono essere «in sostanza i medesimi» (§ 31), la Corte muove da un raffronto tra la prima e la seconda imputazione (§ 32), considerate nella loro manifestazione storico-naturalistica, vale a dire volgendo lo sguardo a quello «insieme di circostanze fattuali concrete, ascritte al medesimo imputato ed indissolubilmente legate tra di loro nello spazio e nel tempo, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della pronuncia d’una sentenza di condanna o dell’instaurazione d’un procedimento penale» (§ 34). La comparazione tra l’accusa di percosse
e lesioni, da un lato, e quella di rapina con violenza, dall’altro, non potrà, quindi, assumere quale metro
di riferimento gli elementi costitutivi delle fattispecie criminose astratte, bensì le condotte che, secondo
la prospettazione accusatoria, il reo avrebbe concretamente posto in essere (§ 36).
Nel caso di specie la Corte nota, quindi, che gli addebiti elevati a carico degli imputati nel corso dei
due procedimenti avevano quale oggetto un identico comportamento, a base violenta, compiuto dai
medesimi agenti ai danni della stessa vittima. Nel secondo iter, però, l’imputazione era stata accresciuta
d’un ulteriore elemento fattuale, afferente alla lesione del patrimonio del soggetto passivo del reato (§
37): ciò non toglie, tuttavia, che i fatti possano essere considerati essenzialmente identici, anche laddove
le condotte oggetto delle distinte accuse rivelino elementi concreti in parte differenti (§ 38). Il comportamento violento effettivamente oggetto d’addebito – chiosa, infatti, la Corte – se, da un lato, coincide in
toto con la condotta sottesa all’imputazione di percosse e lesioni, costituisce, d’altro canto, «un elemento
essenziale» dell’accusa di rapina con violenza: esso risulta, infatti, completamente assorbito in quest’ultima fattispecie concreta, senza che residui alcun elemento dell’imputazione più ristretta (§ 42).
Ritenuti sostanzialmente identici i comportamenti violenti (§ 44), la Corte europea valuta, quindi, la
duplicazione dei procedimenti: atteso, infatti, che il canone in commento viene vulnerato allorché, qualora siano stati instaurati due procedimenti paralleli (opzione in sé non preclusa), il secondo non venga
interrotto a seguito della finalizzazione del primo (§ 47), la Corte ravvisa l’inosservanza del divieto di
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bis in idem a causa della duplicità dei giudizi per i medesimi fatti violenti, in quanto, all’indomani della
definitiva assoluzione degli imputati per i delitti di percosse e lesioni (24 gennaio 2006), veniva pronunciata in primo grado una condanna per rapina con violenza (7 marzo 2006) (§ 48).
DIVIETO DI TORTURA – LIBERTÀ MORALE – ASSISTENZA DIFENSIVA
(Corte e.d.u., 18 giugno 2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina)
La pronuncia in commento esplora, tra le varie questioni, la relazione intercorrente tra la libertà morale
dell’imputato (considerata sotto il profilo del diritto a non essere costretti a rendere dichiarazioni contra
se), il diritto all’assistenza difensiva e l’equità processuale.
I ricorrenti sono due giovani coniugi. All’epoca dei fatti essi erano interessati alla risoluzione di una
vertenza civilistica afferente all’eredità di un immobile (§ 7). La loro controparte era stata trovata uccisa
dopo che, alcuni giorni prima, uno dei ricorrenti si era recato presso di lei per tentare di dissuaderla
dalla prosecuzione della lite (§ 8): sulla scena del crimine c’erano una finestra rotta ed una zappa (§ 9),
sulla quale successivamente sarebbero state rinvenute le impronte del ricorrente. Il giorno del ritrovamento del corpo (27 giugno 2008) entrambi i coniugi venivano condotti con un pretesto presso gli uffici
della polizia, ivi arrestati per omicidio, interrogati in ordine ai loro spostamenti (§ 12) e trattenuti per la
notte (§ 13). A seguito d’un esame medico legale compiuto il giorno successivo (28 giugno) venivano
riscontrate ferite ed ematomi sul corpo del ricorrente, databili a pochi giorni addietro e compatibili con
l’impatto con frammenti di vetro (§ 14). L’indagato, che si era giustificato adducendo una caduta accidentale (§ 15), riportato presso gli uffici della polizia, rifiutava di ammettere il crimine: egli veniva,
quindi, ripetutamente torturato e, dietro minacce di riservare lo stesso trattamento alla moglie, firmava
una confessione (§ 16). Veniva, tuttavia, nominato un difensore: in presenza di costui, l’indagato – non
avendo potuto conferire con esso prima del nuovo interrogatorio ed avendo timore di subire ulteriori
abusi – ribadiva la propria confessione (§ 19). Nel frattempo anche la moglie, dietro minacce e violenze,
accusava il marito (§§ 20-21). In data 30 giugno, in presenza del legale, il ricorrente confermava di nuovo la propria ammissione di responsabilità, salvo ritrattarla pochi minuti dopo, denunciando le vessazioni subite ed affermando di avere potuto interloquire privatamente col difensore solo poco prima
[quest’ultimo, tuttavia, avrebbe poi dichiarato che tale colloquio sarebbe avvenuto già anteriormente al
primo interrogatorio garantito, celebrato due giorni prima (§§ 22-55)].
In data 1 giugno il pubblico ministero interrogava personalmente i due indagati: rilevate alcune discrasie tra la confessione ed il referto autoptico, avallava la versione di entrambi i coniugi e decideva di
lasciare cadere le accuse (§§ 23, 24). Il ricorrente veniva, tuttavia, prelevato dalla polizia mentre si trovava nell’ufficio del procuratore e sottoposto ad ulteriori abusi (§§ 25-28).
Venivano, quindi, incardinati plurimi procedimenti a carico degli agenti di polizia coinvolti nei fatti
summenzionati; ad entrambi i coniugi veniva riconosciuto lo status di vittime: essi venivano ascoltati e
sottoposti ad accertamenti medici, volti ad accertare e a valutare le lesioni da costoro riportate. Le indagini, tuttavia, [interrotte e riaperte circa otto volte a seguito di numerosi rimbalzi tra l'autorità inquirente e quella giurisdizionale (§ 92)] venivano definitivamente concluse alla fine del 2012, essendo le ferite
riscontrate sul corpo del ricorrente, a detta dell’autorità giudiziaria, aspecifiche ovvero compatibili con
pratiche autolesionistiche e le doglianze di costui generiche ed in parte contraddittorie (§§ 29-59).
Quanto riferito della di lui moglie veniva ritenuto parimenti infondato (§ 45).
Il ricorrente veniva rinviato a giudizio l’11 novembre 2008 (§ 60). Dopo avere ordinato un approfondimento investigativo (§ 61), la corte territoriale condannava l’imputato alla pena di anni 14 di reclusione, sulla scorta della prima confessione (poi ritrattata) e di altri elementi, quali le impronte ritrovate
sul luogo del delitto ed alcune tracce ematiche, presenti sui propri abiti, probabilmente collegabili alla
vittima (§ 63). Venivano respinte le tesi difensive afferenti alle torture subite ed all’alterazione delle
prove a carico [a detta del ricorrente, la polizia lo avrebbe, infatti, costretto ad impugnare la zappa sequestrata (§ 51)]. La condanna veniva annullata (§ 64) ma successivamente riconfermata, anche sulla
scorta delle confessioni rese in presenza del legale (§ 65).
Adita la Corte europea entrambi i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 3 (tanto sotto il profilo
sostanziale, quanto sotto quello procedurale) della Convenzione (§ 71); colui ch’era stato costretto ad autoincriminarsi, in assenza del difensore, mediante torture, lamenta anche il mancato rispetto dell’art. 6 §§ 1 e 3
lett. c), essendo state le dichiarazioni indizianti poste alla base della sentenza di condanna (§ 98).
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L’art. 3 viene ritenuto vulnerato sotto entrambe le prospettive: da un lato, infatti, l’autorità nazionale
non era stata in grado di fornire una spiegazione delle lesioni riportate dai ricorrenti (§ 79), reputate
dagli esperti in buona parte compatibili con gli eventi da costoro narrati (§ 55) [sussiste, infatti, una presunzione a carico della parte pubblica per quel che attiene ai sinistri occorsi nel periodo in cui un soggetto si trova sottoposto al suo controllo (§ 78)]; dall’altro, le investigazioni afferenti a tali eventi erano
durate ben quattro anni ed erano state concluse sostanzialmente disattendendone i risultati (§ 92).
Sussiste parimenti una violazione del combinato disposto tra i §§ 1 e 3 lett. c) dell’art. 6. Il diritto
all’assistenza difensiva – chiosa la Corte – per quanto non assoluto, costituisce il cuore dell’equità processuale (§ 101): tale prerogativa, «garanzia del privilegio contro l’autoincriminazione e fondamentale
salvaguardia contro i maltrattamenti» (§ 102), dovrebbe essere, infatti, assicurata «sin dal primo interrogatorio» condotto dalla polizia (ove maggiore è la vulnerabilità del sospettato), salvo specifiche ragioni non rendano necessaria una deroga; sussiste, tuttavia, un pregiudizio per il diritto di difesa laddove le dichiarazioni autoincriminanti rese «senza avere potuto accedere al patrocinio del difensore
siano utilizzate per una condanna» [(§ 101) cfr. Corte e.d.u., Grande Camera, 27 novembre 2008, Salduz
c. Turchia). Nel caso di specie, l’imputato avrebbe avuto diritto all’assistenza difensiva sin dal primo
interrogatorio condotto in data 27 gennaio 2008, nella qual sede egli non aveva reso alcuna confessione
(§ 104). La circostanza che il ricorrente abbia più volte ribadito l’ammissione di colpevolezza, quantunque in presenza del legale, potrebbe trovare, a detta dei Giudici, agevole spiegazione con riferimento al
fatto che il soggetto fosse stato ancora intimidito per le violenze pregresse e temesse di subirne ulteriori
[(§ 107) si veda anche il precedente Corte e.d.u., 31 marzo 2015, Nalbandyan c. Armenia]. La discordante
versione tra imputato e difensore in ordine al momento in cui il primo colloquio in forma riservata
avrebbe avuto luogo dev’essere, inoltre, considerata cum grano salis, vista la repentina ed inspiegata ritrattazione avvenuta in data 30 giugno 2008, poco dopo l’ennesima dichiarazione confessoria (§ 108).
L’autorità giudiziaria nazionale ha quindi fondato la condanna anche sulle prime ammissioni di colpevolezza del ricorrente, omettendo, tuttavia, di verificare se queste fossero state rilasciate in un contesto
di «piena libertà» (§ 109). Per tali ragioni il Collegio ritiene che i diritti dell’imputato «alla libertà
dall’autoincriminazione ed all’assistenza legale siano stati ingiustamente violati nel corso dei primi interrogatori condotti dalla polizia e che a tali restrizioni non sia stato posto rimedio nel corso del processo» (§ 110).
Una notazione, sul punto, è doverosa. L’assenza del difensore e le vessazioni subite dal ricorrente,
stando all’analisi compiuta dalla Corte, sembrano intersecarsi tra loro, concorrendo ad annichilire la libertà morale dell’imputato; l’impiego ai fini decisori dei dicta scaturenti da questo duplice vulnus suggella, infine, la complessiva iniquità del procedimento. La Corte mantiene, dunque, un approccio saggiamente definito olistico. In un caso analogo, tuttavia, il Collegio strasburghese, pur giungendo alla
medesima conclusione, aveva proceduto in termini differenti, rivelando un atteggiamento forse più rigoroso: nel precedente Kaçiu e Kotorri c. Albania (Corte e.d.u., 27 giugno 2013), la Corte aveva, infatti, ritenuto che l’utilizzo in chiave probatoria delle dichiarazioni estorte (problematica esaminata partitamente rispetto a quella afferente al diniego difensivo) fosse già ex se suscettibile di minare l’equità processuale.
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CORTE COSTITUZIONALE
di Wanda Nocerino
L’EFFETTO DOMINO DELLA SENTENZA LORENZETTI: “PORTE APERTE” PER LA CONFISCA IN EXECUTIVIS
(Corte cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109)
La Corte costituzionale, con sentenza 15 giugno 2015, n. 109, ha dichiarato illegittimi gli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 c.p.p., nella parte in cui «non consentono che, su istanza degli interessati, il
procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica», violando gli artt. 111, comma 1, e
117, comma 1, Cost., in riferimento all’art. 6, § 1, Cedu. I giudici della Consulta tornano ad occuparsi
del processo “a porte aperte”, aggiungendo un nuovo tassello per adeguare l’ordinamento interno ai
precetti della Cedu, così come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo a partire dalla sentenza
Bocellari e Rizza contro Italia, 13 novembre 2007, n. 399/02, relativa all’applicazione di misure di prevenzione e confermata dalla nota sentenza Lorenzetti contro Italia, del 10 aprile 2012, relativa alla riparazione dell’ingiusta detenzione.
La questione di legittimità è stata sollevata dalla terza sezione penale della Corte di cassazione, a seguito di una vicenda processuale piuttosto complessa, in cui il giudice dell’esecuzione aveva disposto
la confisca di una statua di rilevantissimo valore storico e artistico nei confronti di un soggetto che era
rimasto estraneo al procedimento di cognizione. Il proprietario del bene, in sede di opposizione, ex art.
667, comma 4, c.p.p., aveva chiesto, più volte, che il procedimento si svolgesse in forma pubblica: tale
istanza era stata però rigettata. La parte aveva quindi proposto ricorso di fronte ai giudici di legittimità,
lamentando, in via preliminare, l’illegittimità della procedura di esecuzione per violazione dell’art 6,
par. 1, Cedu, visto il mancato accoglimento della domanda di procedere in presenza del pubblico. La
Corte di cassazione, condividendo la doglianza difensiva, dubitava quindi della legittimità degli artt.
666, comma 3, 667, comma 4, e 676 c.p.p., in quanto, disponendo tali articoli che l’udienza dovesse
svolgersi «in camera di consiglio», ci sarebbe stata una violazione degli artt. 117, comma 1, e 111 Cost.
Come precisato dall’art. 676 c.p.p., il giudice dell’esecuzione ha svariate competenze per cui il tema
della confisca è solo uno tra i molteplici che possono essere da questi trattati: bene ha fatto dunque la
Corte a chiarire, sin dalle prime battute del suo iter motivazionale, che la questione sollevata riguardasse in modo specifico ed esclusivo non tutti i procedimenti che si svolgono di fronte al giudice
dell’esecuzione, ma unicamente le ipotesi di applicazione di detta misura patrimoniale.
Così delimitato il petitum, la Consulta si è potuta concentrare sulla quaestio vera e propria, ossia verificare la “tenuta” dell’assetto normativo domestico rispetto alla garanzia della pubblicità delle udienze
sancita dall’art. 6 CEDU.
La norma convenzionale, come interpretata dalla costante giurisprudenza di Strasburgo, «tutela le
persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e
costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo
scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della Cedu: ossia l’equo processo». Non solo, dunque, una forma di garanzia per l’accusato contro decisioni illegali, ma anche un incentivo alla trasparenza dell’operato dei
magistrati, affinché svolgano le loro funzione correttamente e coscienziosamente, onde preservare (rectius: incentivare) la fiducia del cittadino nei confronti dell’apparato giudiziario.
Né vale a sminuire la carica espansiva del principio de quo, l’assenza di un esplicito richiamo
all’interno della Carta costituzionale: «la pubblicità del giudizio – specie di quello penale – rappresenta,
in effetti, un principio connaturato ad un ordinamento democratico» (ex plurimis, sentenze n. 373 del
1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989).
Pur ponendosi come garanzia imprescindibile di un equo processo tanto a livello sovranazionale,
quanto interno, il principio di pubblicità non ha valore assoluto, dovendo retrocedere in presenza di
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particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel
caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza
n. 12 del 1971). È lo stesso art. 6 Cedu a precisare, nel suo secondo paragrafo, che, ove le condizioni del
caso concreto lo impongano, l’autorità giudiziaria possa procedere a porte chiuse (ad es., per il carattere
altamente tecnico del contenzioso).
E nell’ipotesi di specie, ha rilevato correttamente la Corte, non sussistono ragioni che possano giustificare suddetta deroga: innanzitutto in un procedimento funzionale all’applicazione di una misura
ablativa si discute del diritto di proprietà, tutelato dall’art. 1 Prot. 1 Cedu, e dunque valore fondamentale dell’ordinamento; né in simili evenienze il contenzioso può essere considerato a carattere tecnico, posto che una decisione sulla confisca di un bene richiede dei meri accertamenti di fatto, sia in relazione al
nesso tra reato e res, sia per quanto riguarda le condizioni che consentono di disporla nei confronti dei
terzi. Anzi, proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, la pubblicità si dimostra essenziale per tutelare proprio quei soggetti che sono rimasti estranei alla fase di cognizione.
Con la pronuncia in commento, la Corte costituzionale ha dato piena continuità alle due sentenze n.
93 del 2010 e n. 135 del 2014, riguardanti rispettivamente il procedimento di prevenzione e quello per
l’applicazione di misure di sicurezza; muta solo l’oggetto, mentre le argomentazioni possono dirsi sostanzialmente sovrapponibili. In quest’ottica appare ancor più lodevole il percorso intrapreso dai giudici costituzionali, orientato alla massima espansione del principio di pubblicità delle udienze.
L’ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL PROCESSO “SEGRETO” DINANZI AL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
(Corte cost., sent. 5 giugno 2015, n. 97)
Il Tribunale di sorveglianza di Napoli sottopone alla Corte una questione di illegittimità costituzionale
della disposizione combinata degli artt.666, comma 3, e 678, comma 1, c.p.p., in contrasto con gli artt.
111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., imponendo che il procedimento di sorveglianza si svolga mediante udienza «segreta».
Ai sensi dell’art. 678, comma 1, c.p.p., il Tribunale di sorveglianza «procede a norma dell’art. 666», il
quale, al comma 3, dispone che «il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore di ufficio
all’interessato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle
parti e ai difensori».
Dal combinato disposto dagli articoli in esame risulterebbe inequivocabilmente che i procedimenti
di sorveglianza abbiano luogo in camera di consiglio, richiamando la disciplina generale dell’art. 127
c.p.p., che al sesto comma dispone che «l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico».
Depositata pochi giorni prima della sentenza n. 109 del 2015, la pronuncia in esame non solo ne
condivide l’oggetto, ma anche segue alla medesima camera di consiglio e al medesimo estensore, tanto
che le due sentenze possono dirsi sostanzialmente “gemelle”.
Il processo segreto, senza il controllo popolare, con esiti potenzialmente incidenti sulle libertà personali potrebbe, tuttavia, lacerare il rapporto fiduciario nei confronti della giustizia, nonché, in particolare, minare le garanzie costituzionali dell’equo processo consacrate nell’art. 111, comma 1 Cost., ed il
principio della pubblicità dei procedimenti giudiziari espresso dall’art. 6, § 1, della Cedu. Ai sensi del
citato art. 6 «[O]gni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente […]; [L]la
sentenza deve essere resa pubblicamente […]».
Il suddetto contrasto implicherebbe, poi, un’ulteriore incompatibilità con l’art. 117, comma 1, Cost.
(identificato dalla giurisprudenza costituzionale quale norma che contiene disposizioni volte a regolare
i rapporti tra ordinamento interno e comunitario), rispetto a cui l’art. 6 Cedu, quale norma interposta,
assume valenza integrativa.
La questione non è del tutto nuova nello scenario comunitario e nazionale.
La Corte di Strasburgo, in alcune pronunce rese nei confronti dello stato italiano (di cui già detto in
precedenza) ha già evidenziato che le procedure «in camera di consiglio» ledono la garanzia convenzionale dell’equo processo.
Proprio in applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, anche la Corte costituzionale ha seguito tale orientamento. Basti pensare alla sentenza n. 93/2010, in cui la Corte dichiara incostituzionali gli articoli 4 della legge 27 luglio 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone
pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni
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contro la mafia), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per
l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle
forme dell’udienza pubblica; nonché alla sentenza n. 135/2014: il 21 maggio 2014 la Corte costituzionale ha depositato la decisione con cui dichiara «l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678,
comma 1, e 679, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il
procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica». Tuttavia il principio della
pubblicità delle udienze, non espressamente consacrato nella carta costituzionale, ma connaturato ad
ogni ordinamento democratico (sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989), non ha valore
assoluto: può cedere in presenza di peculiari ragioni giustificative, purché «obiettive e razionali» (sent.
n. 212/1986) e nel caso del dibattimento penale, al fine di tutelare «beni a rilevanza costituzionale»
(sent. 12/1971). D’altra parte è lo stesso art. 6 Cedu a precisare, nel suo secondo paragrafo, che, ove le
condizioni del caso concreto lo impongano, l’autorità giudiziaria possa procedere a porte chiuse (ad es.,
per il carattere altamente tecnico del contenzioso).
A seguito della suddetta ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale rileva la possibile applicazione
delle conclusioni già raggiunte relativamente all’applicazione di misure di sicurezza e prevenzione al
procedimento di sorveglianza: le materie di competenza del Tribunale di sorveglianza, per le quali deve essere osservato il predetto procedimento riguardano, in particolare, la concessione delle misure alternative alla detenzione (artt. 47 ss, legge n. 354 del 1975, art. 94, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, recante il
«Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»), sia nel corso dell’esecuzione della pena
che anteriormente al suo inizio (art. 656, comma 6, c.p.p.), la liberazione condizionale (art. 682 c.p.p.), il
differimento dell’esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive limitative della libertà personale (art. 684 c.p.p.), la sospensione della pena detentiva inflitta per reati commessi in relazione allo
stato di tossicodipendenza (art. 90, d.p.r. n. 309 del 1990), l’estinzione della pena per esito positivo
dell’affidamento in prova al servizio sociale e della liberazione condizionale (art. 236, comma 1, disp.
att. c.p.p.). In questi casi, infatti, il Tribunale di sorveglianza, analogamente all’accertamento compiuto
per l’applicazione di misure di sicurezza, deve valutare, nel dare esecuzione ai provvedimenti di condanna, «l’attualità e il grado di pericolosità sociale dell’istante».
Per tali motivi, la Corte, con sentenza del 5 giugno 2015, n. 97, accoglie la questione di illegittimità
parziale degli artt. 666, comma 3 e 678, comma 1 c.p.p., «nella parte in cui non consentono che il procedimento innanzi il Tribunale di sorveglianza nelle materie di competenza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della pubblica udienza».
CONTESTAZIONI TARDIVE: DALLA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI DIFESA AL PERICOLO DI UNA “DISCRIMINAZIONE ALLA ROVESCIA”
(Corte cost., sent. 9 luglio 2015, n. 139)
La Corte costituzionale con sentenza 9 luglio 2015, n. 139, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 517 c.p.p.,
per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui «nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione» .
La decisione de qua rappresenta l’ultima di un lungo e tortuoso iter giurisprudenziale. Ai sensi
dell’art. 517 c.p.p., la pubblica accusa può ampliare l’originaria imputazione quando, a seguito delle
prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale «emerge un reato concorrente ai sensi dell’art. 12,
lett. b), c.p.p., ovvero una circostanza aggravante» in precedenza non contestati: il legislatore del 1988
nulla aveva previsto con riguardo alla facoltà dell’imputato, in siffatte situazioni, di promuovere un rito
alternativo avente ad oggetto il reato concorrente. Ad una iniziale resistenza della Corte (sentenze 28
dicembre 1990, n. 593; 6 luglio 1992, n. 316; 19 marzo 1993, n. 101), una prima apertura si è avuta con
sentenza 30 giugno 1994, n. 265, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p.
«nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento
l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente
contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti
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di indagine, al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto l’applicazione della pena in ordine alle originarie imputazioni», consentendo
all’imputato di promuovere il patteggiamento nell’ipotesi di contestazione suppletiva cd. “patologica”,
ossia fondata sugli atti delle indagini preliminari, che avrebbero imposto al pubblico ministero di formulare l’imputazione nei modi ordinari. Nell’occasione la Corte ha rilevato che «quando in presenza di
un evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del
fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione
sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa dell’imputato precludere l’accesso ai riti speciali».
Altro precedente condizionante è stata la sentenza 14 dicembre 2009, n. 333, con cui la Consulta ha
ritenuto, sulla scia della sentenza 265/1994, che la preclusione all’accesso ai riti alternativi, nel caso di
contestazione dibattimentale “tardiva” del «fatto diverso o reato concorrente», contrastasse con gli artt.
3 e 24, comma 2 Cost., dichiarando la parziale illegittimità costituzionale degli artt. 516 c.p.p. (in applicazione dell’art. 27, l. 11 marzo 1953, n. 87) e 517 c.p.p., «nella parte in cui non prevede la facoltà per
l’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso
contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti
di indagine al momento di esercizio dell’azione penale». Anche in tali circostanze la Corte rileva violazione del diritto di difesa e del principio di uguaglianza.
Le soluzioni proposte in precedenza dalla Consulta non avevano incontrato i favori della dottrina. Il
criterio della prevedibilità della rettifica dell’imputazione era stato giudicato non praticabile nemmeno
nell’ipotesi, ritenuta “fisiologica”, in cui gli elementi, sulla base dei quali arricchire l’originaria contestazione, fossero stati acquisiti nel corso del dibattimento.
Con la sentenza n. 237/2012 la Corte costituzionale ha rilevato come le considerazioni poste a base
delle precedenti decisioni fossero riferibili anche alla contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti,
in quanto parimenti idonea a determinare «un significativo mutamento del quadro processuale». Essa
ha evidenziato innanzitutto la violazione del principio di uguaglianza che deriva dal negare all’imputato l’accesso al giudizio abbreviato in caso di contestazione del reato concorrente, a fronte della opposta
possibilità concessa a chi si è visto attribuire il reato nei tempi e nelle forme ordinarie. Inoltre i Giudici
della Consulta, nel ricordare che già con la sentenza n. 333/2009 era stata messa in discussione l’indissolubilità del binomio “premialità-deflazione”, hanno sciolto il sinallagma tra riduzione di pena ed
economia processuale, sottolineando che quest’ultima «[...] non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa».
Le conclusioni attuali della Corte confermano, quindi, orientamenti intrapresi e già avallati nel corso
del tempo.
Va evidenziato che il solo Tribunale di Lecce, con la suddetta ordinanza di rinvio, aveva rilevato
un’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p.: nel caso di contestazione dibattimentale «tardiva», tanto di un reato concorrente che di una circostanza aggravante, sarebbe stato doveroso garantire all’imputato il diritto di accedere al rito abbreviato anche in relazione ad imputazioni diverse da quello oggetto della nuova contestazione. La negazione di un simile diritto avrebbe importato,
a giudizio del Tribunale salentino, anche in questa ulteriore ipotesi, una violazione agli artt. 3 e 24
Cost., dal momento che una simile preclusione impedirebbe all’imputato di adottare una strategia difensiva legata all’intera vicenda processuale (la convenienza della richiesta di un rito speciale potrebbe,
infatti, venire meno con la modifiche delle imputazioni a carico del soggetto). Inoltre una simile estensione sarebbe doverosa alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, sentenze Cass. del 21 novembre 1990, 20 novembre 1997, 6 luglio 1998, 19 novembre 1999, 24 ottobre 2000):
la richiesta parziale del giudizio abbreviato è inammissibile (la richiesta deve essere effettuata con riferimento alla totalità degli addebiti, in quanto, in presenza di una richiesta parziale «il processo non sarebbe definito nella sua interezza e sarebbe in tal modo ingiustificato l’effetto premiale derivante dallo
speciale rito voluto dal legislatore al fine di deflazionare il ricorso alla fase dibattimentale per ciascun
processo e non per ciascun reato, secondo quanto previsto dall’art. 438 c.p.p.»).
Sul punto la Corte costituzionale si è già pronunciata nelle sentenza 333/2009 (concernente la contestazione “tardiva” del fatto diverso o del reato concorrente) e 237/2012 (attinente alla contestazione “fisiologica” del reato concorrente): pur non ritenendo «implausibile» il consolidato orientamento giurisprudenziale, a cui il giudice a quo ha fatto riferimento, la Suprema Corte ha ritenuto la possibilità che,
nei giudizi oggettivamente cumulativi, la richiesta di rito abbreviato sia esperita solo limitatamente alla
contestazione tardiva, negando la facoltà dell’imputato, che aveva proceduto secondo il rito ordinario,
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di avvalersi di una ingiustificata riapertura dei termini per la richiesta di rito alternativo anche con riferimento alla contestazione principale, avvalendosi, in tal modo, del vantaggio di ottenere uno sconto di
pena per l’intero processo, grazie alla mera tardività della contestazione di un’aggravante o di un reato
concorrente di rilievo marginale rispetto al complesso dei temi d’accusa.
L’imputato si sarebbe venuto, così, a trovare in una posizione non uguale ma addirittura privilegiata
rispetto a cui si sarebbe trovato se la contestazione fosse avvenuta nei modi ordinari, creando così una
«discriminazione alla rovescia».
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SEZIONI UNITE
di Rosa Gaia Grassia
NULLITÀ A REGIME ASSOLUTO IN CASO DI OMESSO AVVISO DELL’UDIENZA CAMERALE AL DIFENSORE DI
FIDUCIA
(Cass., sez. un., 10 giugno 2015, n. 24630)
Chiamate a pronunciarsi sul regime giuridico della nullità conseguente all’omesso avviso dell’udienza
camerale al difensore di fiducia tempestivamente nominato, nel procedimento di sorveglianza, le Sezioni Unite hanno sostenuto la configurabilità di una nullità di ordine generale, assoluta ed insanabile,
sia dell’udienza - del cui avviso vi è stata la mancata notifica – che degli atti successivi, inclusa
l’ordinanza conclusiva, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p..
Preliminarmente, la Suprema Corte ricostruisce il quadro normativo di riferimento, individuato non
solo nei su menzionati articoli, ma anche nel modulo operativo delineato dal combinato disposto degli
artt. 666 e 678 c.p.p. - alla cui applicazione è soggetta l’autorità giudiziaria nel decidere un reclamo in
fase di esecuzione, in garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio –, e nel rispetto delle garanzie
di giurisdizionalità che l’art. 2, punto 96, l. delega 16 febbraio 1987, n. 81 impone sia ai procedimenti di
concessione o di diniego dei permessi premio, sia alla procedura di reclamo dinanzi al Tribunale di
Sorveglianza. Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’adeguamento ai principi di efficienza processuale e di ragionevole durata del processo non giustifica la compressione delle garanzie fondamentali
dell’imputato o del detenuto, tra cui innanzitutto l’effettività e l’immutabilità del diritto di difesa, che,
se non rispettate integralmente anche nella fase esecutiva della pena, comprometterebbero il fine rieducativo della stessa. È pertanto obbligatoria la partecipazione del difensore alla camera di consiglio che si
celebra dinanzi al Tribunale di Sorveglianza.
Successivamente, la Corte si sofferma sull’ipotesi in cui in udienza camerale sia presente un difensore diverso da quello nominato dall’interessato, per mero errore non regolarmente avvisato, e sulla questione – ad essa demandata con ordinanza di rimessione della Prima Sezione penale della Cassazione –
circa il tipo di nullità che venga a configurarsi.
Le Sezioni Unite, sul punto, si pronunciano a favore di una nullità a regime assoluto, ex art. 179
c.p.p., e diversi sono gli argomenti che pongono a sostegno della propria tesi, partendo, sul piano sistematico, dalla connotazione della difesa tecnica “non solo come diritto, ma anche come garanzia di
ordinamento”, e dunque come libertà di scegliere un difensore di fiducia, sicché la difesa d’ufficio costituisce un’ipotesi subordinata alla mancanza di un difensore di fiducia, o al suo venir meno, e cioè un
elemento sussidiario all’assenza di un’opzione fiduciaria, ma non una sua alternativa (Cass., sez. un., 8
ottobre 2009, n. 39060). Peraltro, nel caso in esame, atteso il presupposto dell’avviso regolarmente effettuato per la designazione come sostituto di un difensore immediatamente disponibile, la stessa può ritenersi senza dubbio illegittima.
Invero, al riguardo, le Sezioni Unite sottolineano che la condizione necessaria per un’efficace ed effettiva assistenza tecnica, intesa come complesso di diritti, poteri e facoltà attribuiti al soggetto preposto
alla difesa, risiede “nello studio e nella conoscenza degli atti del procedimento”, che non sono garantiti
nel caso in cui il giudice, nonostante la rituale e tempestiva nomina fiduciaria da parte dell’interessato,
proceda irritualmente alla designazione di un legale d’ufficio, nonché, a seguito della mancata comparizione obbligatoria di quest’ultimo in udienza, alla consecutiva nomina, come sostituto, di un difensore prontamente reperito, ex art. 97, comma 4, c.p.p..
Tale orientamento è già stato supportato, in giurisprudenza, dalla Corte costituzionale, con sentenza
n. 450 del 1997, nonché dalla Corte di Strasburgo (Corte e.d.u., 9 aprile 1984, Goddi c. Italia), riguardo,
rispettivamente, all'inapplicabilità dell'art. 108 c.p.p. nel caso di sostituzione temporanea dell'incarico,
attesa la connotazione e la persistenza della titolarità in capo al difensore, originariamente nominato di
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fiducia o designato d'ufficio, ed alla violazione del diritto di difesa che si configura tutte le volte in cui
l'autorità giudiziaria non abbia disposto, dopo la nomina del difensore in udienza, un rinvio o una sospensione.
Le Sezioni Unite avvalorano poi la propria tesi, sul piano letterale, facendo riferimento al concetto di
“assenza” richiamato dall’art. 179, comma 1, c.p.p., da intendersi come situazione dell’avvocato che dovrebbe essere presente e non lo è, e nella quale rientra pertanto anche l’ipotesi del difensore già nominato, la cui mancata partecipazione è ascrivibile all’omissione dell’avviso dovutogli.
Ne deriva, dunque, che la nullità dell’articolo in parola sussista anche in caso di partecipazione,
all’espletamento dell’atto, di un difensore diverso da quello di fiducia o d’ufficio, assente poiché non
avvisato nei modi legislativamente previsti, per cui non è permesso porre rimedio alla mancata inderogabile presenza dell’avvocato attraverso la nomina di un difensore d’ufficio, e, in caso di assenza di
questi, di un legale immediatamente reperibile ex art. 97, comma 4, c.p.p., giacché, in caso contrario,
l’autorità giudiziaria si sostituirebbe all’imputato nella scelta di un avvocato, tra l’altro da lui già compiuta, violando così i principi fondamentali sul diritto di difesa, nonché il combinato disposto degli artt.
96 e 97, comma 4, c.p.p..
Ad avviso della Corte, peraltro, un simile rigore interpretativo è convenzionalmente orientato alla
giurisprudenza sovranazionale, che ha più volte imputato al nostro ordinamento l'assenza di forme di
controllo e di intervento dell'autorità giudiziaria procedente in caso di carenze nell'esercizio del mandato difensivo del legale nominato d'ufficio (Corte e.d.u., 13 maggio 1980, Artico c. Italia), comportando
una frustrazione del principio di effettività della difesa, a sua volta condizione necessaria per il rispetto
dei principi contenuti nell'art. 6 C.e.d.u. e per un effettivo contraddittorio tra le parti (Corte e.d.u., sez.
III, 13 settembre 2006, Sannino c. Italia, § 39).
Ulteriore argomentazione apportata infine dalle Sezioni Unite a favore di quanto da esse sostenuto è
l'introduzione del comma 8-bis nell'art. 157 c.p.p. (come modificato dall'art. 2, comma 1, d.l. 21 febbraio
2005, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 aprile 2005, n. 60), che ha previsto che la sola notificazione al difensore di fiducia sia del tutto equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell'atto, alla
notifica effettuata all'imputato personalmente, così valorizzando il ruolo del suddetto difensore, in
quanto unico ed efficace veicolo informativo circa la natura e il contenuto degli atti processuali che riguardano l'assistito.
In conclusione, emerge dunque che, con la sentenza in oggetto, la Corte, nell'ottica della tutela
dell'interesse della collettività al corretto svolgimento del processo, ha riaffermato il valore assoluto e
imprescindibile del diritto all'assistenza tecnico-fiduciaria, che non può ridursi a mero adempimento
formale, costituendo lo “strumento per inverare i principi del giusto processo e, in particolare, per rendere effettivo il contraddittorio e garantire la parità fra le parti”.
SITI E PAGINE WEB DI GIORNALI ONLINE: AMMISSIBILITÀ E LIMITI DELLA SEQUESTRABILITÀ
(Cass., sez. un., 17 luglio 2015, n. 31022)
Le Sezioni Unite sono state investite della duplice questione relativa all’ammissibilità del sequestro
preventivo, anche parziale, primum di un sito web, deinde della pagina web di una testata giornalistica
telematica debitamente registrata.
Il ricorso è stato ad esse demandato, con ordinanza di rimessione, dalla prima sezione della Corte di
Cassazione, la quale aveva osservato che, pur non essendo controversa la possibilità del sequestro di
beni immateriali, la giurisprudenza di legittimità non aveva particolarmente approfondito il tema attinente all’ammissibilità del sequestro preventivo mediante oscuramento di singole pagine web o di interi siti, per quanto lo avesse generalmente ammesso.
Investita della questione, la Corte ha preliminarmente posto in evidenza che il sequestro di risorse
telematiche o informatiche diffuse sul web comporta un intervento sul prestatore di servizio (cd. Internet Service Provider), affinchè impedisca l’accesso al sito o alla singola pagina, così determinando necessariamente l’inibitoria di una specifica attività.
Ne deriva, dunque, l’impossibilità di limitare la misura cautelare ad un vincolo di indisponibilità
sulla cosa, in tal caso non mero oggetto materiale, ma prodotto intellettuale.
La motivazione addotta dalle Sezioni Unite, in particolare, prende le mosse dalla definizione di Internet non come luogo o spazio, ma come metodologia di comunicazione ipertestuale, finalizzata a gaSCENARI | SEZIONI UNITE
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rantire l’accesso a qualsivoglia contenuto digitale inserito su sistemi informatici connessi alla rete.
Pertanto, la Corte ha fornito risposta al primo quesito, in merito all’individuazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo, facendo riferimento al d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, sul commercio elettronico, e richiamando la disposizione secondo cui l’autorità giudiziaria può esigere che il prestatore di un
servizio della società di informazione ‘‘impedisca o ponga fine alle violazioni commesse’’.
Nello specifico, la disposizione in tema di sequestro probatorio, di cui all’art. 254-bis c.p.p., permette
che sia ordinato al fornitore dei servizi di conservare e proteggere adeguatamente i dati originali, consecutivamente all’acquisizione di copia di essi su adeguato supporto, ma nessuna analoga disposizione
consente, nell’ambito del sequestro preventivo, il potere di ordinare al destinatario del provvedimento
di compiere determinate attività, con lo scopo di raggiungere l’oscuramento della pagina web sequestrata.
È tuttavia pacifica, a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione del Consiglio d’Europa sottoscritta a Budapest il 23 novembre 2001, e poi ratificata con legge 18 marzo 2008, n. 48, l’equiparazione
tra dato informatico e res, il che ne consente sia il sequestro probatorio che quello preventivo.
A giudizio della Corte, dunque, qualora ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità, è ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 c.p.p., di un sito web o di una singola pagina telematica, perfino impedendo al fornitore
dei relativi servizi di attivarsi per rendere gli stessi inaccessibili (concordemente, Cass., sez. I, 4 giugno
2014, n. 32846 e Cass., sez. V, 25 novembre 2013, n. 10594).
Così disponendo, le Sezioni Unite esaminano poi la seconda questione, stavolta partendo da
un’accurata ricostruzione storica afferente al tema della libertà di stampa, e soffermandosi in particolar
modo sull’art. 21 Cost. e sulla legge federale 8 febbraio 1948, n. 47, nonché sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e sulla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU).
È stata in tal modo messa in luce la tutela rafforzata accordata alla suddetta libertà di stampa, che
impedisce il ricorso al sequestro preventivo in ipotesi diverse da quelle tassativamente previste dalla
legge a titolo di eccezioni, e che è stata generata, secondo i giudici di legittimità, da un’interpretazione
evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa”, il quale ad oggi ricomprende anche i
giornali telematici.
È questo il fondamento della decisone della Corte, secondo la quale l’assimilazione funzionale della
testata giornalistica telematica a quella tradizionale ne comporta la soggezione alla normativa – sia di
rango costituzionale, sia di livello ordinario – che disciplina l’attività di informazione professionale diretta al pubblico, sicchè il giornale online, al pari di quello cartaceo, non potrà essere oggetto di sequestro preventivo al di fuori dei casi previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa.
CONFISCA E CAUSA ESTINTIVA DEL REATO: LA MISURA SOPRAVVIVE ALLA PRESCRIZIONE SOLO SE DIRETTA
E PRECEDUTA DA SENTENZA DI CONDANNA
(Cass., sez. un., 21 luglio 2015, n. 31617)
È possibile, anche in caso di intervenuta prescrizione, la confisca del prezzo o del profitto del reato, e,
qualora questi siano costituiti da denaro, la confisca delle somme di cui l’interessato ha la disponibilità
è sempre da qualificare come confisca diretta, senza la necessità di provarne la derivazione.
Così si sono pronunciate le Sezioni Unite sulle due connesse questioni ad esse demandate: se, cioè,
sia possibile disporre la confisca del prezzo del reato anche qualora questo sia dichiarato prescritto, ovvero quando manchi una sentenza di condanna o di patteggiamento, e se per la confisca di somme di
denaro depositate su conto corrente debba disporsi l’ablazione per equivalente o quella diretta, e, in
quest’ultimo caso, se debba o meno ricercarsi il nesso pertinenziale tra denaro e reato, ed in che limiti.
Notevolmente problematica appare la prima questione all’analisi della Corte, atteso il proliferare dei
diversi istituti di confisca che ha caratterizzato negli ultimi anni il contesto normativo, tra codice sostanziale e leggi speciali, diversificandoli sulla base della specifica natura della res da assoggettare alla
misura, del reato cui la cosa si riferisce e degli esiti del processo in cui il vincolo è applicato.
La Corte fissa allora dei limiti, premettendo che le soluzioni adottate possono valere solo per i tipi di
confisca in oggetto, ossia nel caso ex art. 322-ter c.p. e per ogni altro tipo di confisca con funzioni preventive, e non in ogni caso di misura ablatoria, giacchè questa, per le diversità applicative e normative di ogni
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disciplina particolare, potrebbe assolvere a funzioni distinte nell’ordinamento penale e criminale.
Complessa appare, pertanto, l’evoluzione dottrinaria, giurisprudenziale e di fonte sovranazionale
sul punto, che ha portato all’affermazione del convincimento secondo il quale la confisca del prezzo del
reato non costituisca una vera e propria pena, ragion per cui non presuppone necessariamente un giudicato formale di condanna come unica fonte adatta a svolgere le funzioni di titolo esecutivo; fondamentale è invece, così come sostenuto anche da plurime pronunce della Corte di giustizia europea (da
ultimo, Corte e.d.u., sez. II, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia), che la responsabilità sia stata accertata con
una sentenza di condanna, anche se il processo è stato definito con una dichiarazione di estinzione del
reato per prescrizione.
Anche a parer delle Sezioni Unite, dunque, non sussiste natura punitiva nella confisca del “prezzo
del reato” (così intendendo il corrispettivo dato o promesso, al fine di indurre o istigare un terzo a
commettere un reato), atteso che il patrimonio dell’imputato non è colpito in misura superiore al pretium sceleris proveniente dal fatto illecito, il quale, in quanto frutto di un negozio contrario a norme imperative, non fornirebbe neanche il titolo civilistico alla ripetizione, e considerato che la confisca in parola è orientata al ripristino della situazione di fatto antecedente alla commissione del fatto di reato come, ad esempio, quella prevista ex art. 5, d.lgs. n. 231 del 2001, in punto di responsabilità delle persone giuridiche seguenti da reato -.
La res, in sostanza, pur costituendo il legittimo oggetto della confisca necessaria, ex art. 240, comma
2, n. 2, c.p., per la pericolosità intrinseca che mantiene, rappresenta la retribuzione per l’illecito, e quindi non è mai entrata a far parte del patrimonio del reo.
Per siffatte ragioni, la confisca in oggetto non manifesta incompatibilità con l’assenza di un giudicato
formale di condanna, purché sia stata accertata la responsabilità penale del confiscato, in modo non
equivoco. Solo nel caso in cui vi sia un giudicato sostanziale di condanna, anche se sia stata accertata la
causa estintiva del reato, o una preesistente sentenza di condanna, avvenuta antecedentemente alla maturazione della causa estintiva stessa, il giudice penale disponente potrà confermare la confisca.
In altri termini, quindi, la natura non sanzionatoria della confisca del prezzo del reato impone
l’accertamento della responsabilità con sentenza di condanna, anche se il processo sia successivamente
definito con una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, giacchè, in caso contrario, si legittimerebbe un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e
la percezione, da parte di quest’ultimo, di una res quale prezzo del reato, non consenta l’ablazione di
tale prezzo per il solo maturare del termine prescrizionale, la cui incidenza ricade sulla pena ma non
sulla misura di sicurezza patrimoniale.
D’altro canto, il reo che non rinunci alla prescrizione – a cui, ai sensi dell’art. 157 c.p., si può sempre rinunciare – di fatto accetta la precedente dichiarazione di responsabilità, rendendo così inaccettabile che il
consecutivo provvedimento estintivo vanifichi l’ablazione del prezzo del reato dal suo patrimonio.
Tale soluzione è apparsa, alla Sezioni Unite, compatibile con gli ultimi afflati della Corte Costituzionale (sentenza n. 49 del 2015) e della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte e.d.u., sez. II, 11 febbraio 2007, Drassich c. Italia), che non avevano escluso la compatibilità in esame, purché ci si fosse adeguati ai prodromi essenziali per l’accertamento di una responsabilità penale individuale, quanto meno
in termini sostanziali, purché chiari, inequivoci ed oltre ogni ragionevole dubbio.
Essa appare allora come un monito della Corte ai giudici: per mantenere la confisca per un reato ormai prescritto, è necessario motivare estesamente in punto di responsabilità dell’imputato.
La compatibilità in questione, tuttavia, va esclusa in caso di confisca per equivalente, ex art. 322-ter,
comma 2, c.p., laddove l’ablazione patrimoniale acquisisce una rilevanza afflittiva e sanzionatoria per
l’assenza di nessi di pertinenzialità con il reato, ad eccezione dei fini della quantificazione del prezzo o
del profitto, cui parametrare l’ablazione. In sostanza, dunque, quando intercede la prescrizione o altra
causa estintiva del reato, cade anche la confisca per equivalente.
Invero, quest’ultima, per costante giurisprudenza di legittimità, ha natura sanzionatoria, atteso che
ripristina la situazione economica modificata dall’illecito a favore del reo.
Da tale considerazione prende poi le mosse la pronuncia della Corte in merito alla seconda questione sottoposta alla sua attenzione, giacché proprio la natura sanzionatoria ed afflittiva della confisca per
equivalente – la quale, nell’impossibilità della confisca diretta, colpisce le disponibilità economiche del
reo anziché la cosa derivante dal reato – fa sì che, laddove il profitto o il prezzo del reato siano costituiti
da una somma di denaro, questa perda qualsiasi connotato di autonomia in merito all’identificabilità
fisica, unita al patrimonio dell’autore dell’illecito.
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È allora confisca diretta, e non per equivalente, quella volta a recuperare le somme di denaro, profitto del reato, acquisite ai conti correnti del reo, la quale, per la particolare natura del bene, non richiede
prova della derivazione diretta dal reato, pur presupponendo un’analoga nozione di “condanna”, anche se successivamente seguita da una declaratoria di prescrizione del reato.
Ad avviso delle Sezioni Unite, insomma, qualsiasi trasformazione subita dalla massa di denaro derivante dal reato – nel caso specifico, la confusione con altri beni fungibili in un conto corrente dedicato,
al pari di investimenti in beni immobili – rappresenta sempre profitto di reato, sintagma interno alla
confisca diretta, e, solo quando il reo è incapiente anche in liquidità finanziarie, soccorre la confisca per
equivalente nei confronti di “altri” beni.
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Giada Bocellari
ABOLITIO CRIMINIS E REVOCA DELLA SENTENZA: I POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE IN CASO DI ERRORE DEL GIUDICE DI COGNIZIONE NELL’INTERPRETAZIONE DELLA NORMA PENALE
(Cass. sez. I, 8 giugno 2015, n. 24399)
La questione oggetto dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite riguarda la possibilità per il giudice dell’esecuzione di revocare una sentenza di condanna emessa dopo l’entrata in vigore di una legge
abrogatrice del reato contestato, allorquando il giudice del merito abbia trascurato tale legge, aderendo
ad un’interpretazione giurisprudenziale solo successivamente disattesa da una pronuncia a Sezioni
Unite.
In particolare, nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, si censura l’ordinanza del giudice
dell’esecuzione con la quale è stata respinta la richiesta di revoca di una sentenza emessa ex artt. 444 e
ss. c.p.p. e divenuta irrevocabile il 24 settembre 2010, per il reato di cui all’art. 6, c. 3 d.lgs. 286/1998
(omessa esibizione da parte dello straniero del passaporto o di altro documento di identificazione e del
permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato): la
disposizione da ultimo richiamata risulta, infatti, così modificata in momento antecedente sia alla
commissione del fatto sia alla sentenza predetta, per effetto dell’art. 1, c. 22, lett. h), l. 94/2009, sulla cui
portata, tuttavia, si è inizialmente paventato un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità, risolto solo nel 2011 da una pronuncia a Sezioni Unite, la quale ha chiarito che la modifica legislativa deve intendersi quale abolitio criminis con riferimento ai cittadini extracomunitari irregolari sul territorio
dello Stato (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011, n. 16453). Il giudice dell’esecuzione ha respinto l’istanza di
revoca osservando che la sentenza era frutto di una interpretazione solo successivamente ritenuta erronea dalla Suprema Corte e, pertanto, non emendabile ex art. 673 c.p.p. Proposto ricorso avverso il provvedimento di rigetto, l’ordinanza in esame rimette la questione al vaglio delle Sezioni Unite, evidenziando l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità, in casi
analoghi, di ottenere la revoca della sentenza.
Secondo un primo orientamento, infatti, tale facoltà esula dai poteri del giudice dell’esecuzione, trattandosi di errore del giudice di cognizione, censurabile solo con gli ordinari mezzi di impugnazione e
non più rimediabile in fase esecutiva, in quanto l’art. 673 c.p.p. si applica solo se l’abolitio (o la dichiarazione di incostituzionalità) intervenga dopo la decisione del giudice (Cass., sez. I, 4 luglio 2014, n. 34153
e 34154) e non potendosi, peraltro, ammettere la revoca quando l’abrogazione implicita derivi da un
mutamento di indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez. I 21 febbraio 2013, n. 13411; Cass., sez. I 22 maggio 2013, n. 40296; Cass., sez. I 11 luglio 2006, n. 27121; Cass., sez. I 13 luglio 2006, n. 27858). Secondo
una diversa impostazione, invece, la revoca della sentenza è possibile anche quando la condanna venga
erroneamente pronunciata dopo l’intervenuta abrogazione, atteso che né la disciplina dell’art. 673
c.p.p., né l’art. 2, c. 2 c.p. distinguono tra giudicato formatosi prima ovvero successivamente all’abolitio
criminis (Cass., sez., I 2 dicembre 2014, n. 1611; Cass., sez. V 17 giugno 2014, n. 38773; Cass., sez. I 15 luglio 2013, n. 37976; Cass., sez. I 29 gennaio 2014, n. 12982; Cass., sez. I 9 febbraio 2012, n. 35851; Cass.,
sez. I, 6 dicembre 2011, n. 1000).
La Corte ha, dunque, rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: “se è consentito al giudice
dell’esecuzione revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata
dopo l’entrata in vigore di una legge che ha abrogato la fattispecie incriminatrice, allorché detta legge
non è stata oggetto di esame da parte del giudice della cognizione”.
Occorre evidenziare che la questione posta muove dall’assunto che si sia effettivamente in presenza
di una successione di leggi penali nel tempo che abbia ab origine comportato un’abolitio criminis e che
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
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questa non sia stata erroneamente rilevata dal giudice di cognizione; tuttavia, il caso dal quale
l’ordinanza in esame trae origine riguarda, come detto, un’ipotesi in cui si erano succedute diverse interpretazioni giurisprudenziali sulla portata della disposizione di cui all’art. 6, c. 3 d.lgs. 286/1998, non
tutte conformi nel ritenere sussistente un’abolitio e culminate solo in un secondo momento in una pronuncia a Sezioni Unite orientata in tal senso (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011, n. 16453, cit.).
Pare, dunque, che la soluzione cui la Suprema corte addiverrà dipenderà, in larga misura, dalla natura, legislativa o giurisprudenziale, che si riterrà di ravvisare nell’abolitio criminis sottoposta al vaglio
di legittimità: nel primo caso, non parrebbe potersi dubitare circa l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p.; nel
secondo, la possibilità di ammettere la revoca sarebbe, invece, sicuramente da escludere a fronte di
quanto statuito dalla Corte costituzionale (Corte cost. 230/2010), che ha fermamente escluso, stante (tra
l’altro) la riserva di legge in materia penale, la possibilità di riconoscere all’overruling giurisprudenziale
favorevole la capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti.
Se si considera, tuttavia, che la decisione del Giudice delle Leggi da ultimo richiamata, pronunciandosi sulla stessa problematica e in ordine alla medesima normativa (art. 6, c. 3, d.lgs. 286/1998), ha ritenuto “non implausibile” che la richiesta di revoca, con riferimento a tale fattispecie incriminatrice, si
basi sulla successione nel tempo non già di leggi, bensì di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima norma di legge, suggerendo così la natura giurisprudenziale dell’abolitio ed escludendo
l’operatività dell’art. 673 c.p.p., le Sezioni Unite difficilmente potranno discostarsi da tale assunto, almeno per quanto riguarda il caso specifico sottoposto al loro vaglio; ben diverso ed auspicabile invece,
potrebbe essere il principio generale, ogniqualvolta il giudice di cognizione, per mero errore, non rilevi
l’intervenuta abolitio criminis che sia di natura legislativa e non frutto di una interpretazione giurisprudenziale, ancorché avallata dalle Sezioni Unite.
Pare evidente che se la decisione, in aderenza a quanto statuito dalla Corte costituzionale, fosse quella innanzi prospettata, residuerebbe un non trascurabile problema di disparità di trattamento, benché,
in quest’ottica, la Corte e.d.u. abbia chiarito che sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implichi la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie
con quelle più recenti, dovendosi, dunque, conferire maggior tutela e più incisivo riguardo alla certezza
dei rapporti giuridici esauriti che non al diverso trattamento riservato a posizioni analoghe (Corte
e.d.u., 28 giugno 2007, Perez Arias vs Spagna).
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Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Violazione dei diritti dell’equo processo e
loro applicabilità d’ufficio nel giudizio di cassazione
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 20 MARZO 2015, N. 11648 – PRES. FIALE; REL. DI NICOLA
Qualora la Corte di cassazione accerti, nonostante non sia stata oggetto di specifico motivo di ricorso, la violazione
dei diritti dell’equo processo, questi vanno ugualmente applicati, anche d’ufficio, al caso in esame (fattispecie relativa a omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello che aveva riformato in peius la decisione di assoluzione di primo grado).
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Bologna – in riforma della pronuncia assolutoria emessa, a seguito di rito abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Parma – ha condannato, concessa l’attenuante prevista dall’art. 609-bis,
comma 3, c.p. P.F. alla pena, condizionalmente sospesa, di anni 2 di reclusione (oltre alla pena accessoria e al risarcimento civile dei danni), avendolo ritenuto responsabile del delitto previsto dall’art. 609bis c.p., perché, a bordo dell’autobus TEP, linea 15 di cui era autista, costringeva C.M. a subire atti sessuali ed in particolare, attribuendosi specifiche conoscenze per alleviare il mal di schiena, mentre stava
praticando un massaggio (al di sopra della maglietta) alla schiena della C., con violenza consistita nel
bloccarle le mani, infilava le proprie al di sotto della maglia toccandole il seno destro e, successivamente, in modo repentino, infilava la mano all’interno del pantalone toccandole la zona pubica ed introducendo un dito nella vagina, tentando infine di baciare la vittima.
1.1. La Corte distrettuale è pervenuta alla suddetta conclusione dopo aver dato conto delle rationes
decidendi della sentenza di primo grado e condiviso totalmente i motivi di impugnazione proposti dal
Procuratore generale contro di essa, affermando che la versione della persona offesa, peraltro neppure
posta in discussione dal G.u.p., fosse intrinsecamente ed estrinsecamente attendibile sul rilievo che la C.
aveva riferito, nell’immediatezza dei fatti ed a fonti diverse, la patita violenza sessuale, descrivendola
negli stessi termini, nei vari momenti e nelle varie sedi.
La vittima inoltre non aveva alcun interesse o ragione per accusare un soggetto che non conosceva,
se non di vista, e di cui non sapeva neppure il nome, tanto che il fidanzato (T.A.), anch’egli conducente
di autobus ed al quale la persona offesa aveva immediatamente riferito il fatto, era stato indotto a chiedere al proprio ufficio notizie, tratte sulla base dei turni di lavoro, circa la persona del conducente del
mezzo dove aveva viaggiato la C.
L’accusa era poi caduta su un soggetto che, come affermato dai responsabili dell’azienda, sentiti come testi, aveva in corso un procedimento disciplinare per fatti analoghi ed era sottoposto, per la stessa
ragione, a procedimento penale (agli atti del processo era stata acquisita la copia della sentenza con la
quale il P. era stato condannato, in primo grado, in relazione al delitto di cui all’art. 609-bis c.p. poiché,
sull’autobus di cui era autista, in violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio, costringeva con
violenza Pi.El. a subire atti sessuali; infatti, contro la volontà di quest’ultima, dopo averle bloccato le
mani e aver messo una mano sotto la sua maglia, le toccava la pancia ed i fianchi; inoltre dopo aver tentato di baciarla sulla bocca, riusciva a baciarla sul collo e su una guancia, dicendole: “dammi un bacio
altrimenti non parto”, in (Omissis).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LORO APPLICABILITÀ
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1.2. La Corte d’appello ha ritenuto tale ultimo dato provvisto di indubbia e risolutiva rilevanza perché, se anche fosse giunta voce alla C. che un collega del fidanzato, tal P., cinque anni prima era stato
accusato di molestie sessuali, conoscenza di cui non vi era la benché minima prova, era processualmente risultato che, quando la vittima rivolse le accuse nei confronti dell’autista della linea 15, ella non sapeva trattarsi del P., circostanza che apprese solo dopo che il T. si era informato presso i propri uffici;
soprattutto, mai avrebbe potuto conoscere le modalità del fatto in precedenza ascritto all’imputato, del
tutto simile a quello per il quale si procedeva, di tal che le similitudini comportamentali che caratterizzavano le due diverse vicende, nel racconto delle rispettive parti lese, non potevano che essere lette
come definitiva conferma della veridicità della denuncia della C.
Secondo la Corte territoriale siffatto quadro già da solo avrebbe consentito di attribuire piena credibilità alla versione della C., sicché andava censurato l’approdo cui era pervenuto il primo Giudice il
quale, senza neppure considerare taluni riscontri alle dichiarazioni della persona offesa provenienti
dallo stesso imputato, si era limitato a contrapporre alla chiara versione della vittima la mera negativa
del P., la cui versione avrebbe trovato, secondo il G.u.p., conforto esterno nelle dichiarazioni di due cittadine rumene (le sorelle R.C. e S.), dichiarazioni che lo stesso giudicante aveva valutato non prive di
“qualche elemento di ombra”.
1.3. Le due ragazze – sentite dapprima dal difensore dell’imputato ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p., poi
dalla polizia giudiziaria e infine dal G.u.p. nel corso del giudizio abbreviato – avevano riferito, secondo
il giudice d’appello “con un diverso grado di precisione e di dettaglio”, di essersi trovate sull’autobus
numero 15 in data (Omissis), intorno alle 14.30; di essere salite sul mezzo in piazzale (Omissis), ove si
trovava l’abitazione di S., e di essere scese al capolinea di via (Omissis), ove avrebbero dovuto prendere
l’autobus numero 12 sino a (Omissis); C. si era fermata nella parte anteriore del mezzo, accanto
all’autista, aveva scambiato con lui alcune parole e gli aveva lasciato un bigliettino con il suo numero di
telefono. Entrambe le ragazze avevano riferito che al capolinea di via (Omissis) erano le uniche passeggere ad essere rimaste sull’autobus, dal quale erano scese ed avevano atteso a lungo la coincidenza per
(Omissis), attesa determinata, a dire delle due donne, da una modifica degli orari dei bus.
1.4. Le predette dichiarazioni, anche a prescindere dal tema della loro attendibilità, sono state ritenute dalla Corte felsinea sfornite di prova circa il fatto che il giorno in cui, a dire delle dichiaranti, esse sarebbero salite sull’autobus condotto dal P., fosse proprio il 2 luglio; quanto a C., sentita per la prima
volta a sommarie informazioni testimoniali dalla difesa di P., la Corte d’appello ha osservato che la dichiarazione si apriva con la domanda del difensore “lei ricorda se il giorno (Omissis), utilizzò la linea 15
dell’autobus TEP a Parma”, così dando per scontato che si stesse parlando di un fatto accaduto per
l’appunto il (Omissis), con la conseguenza che la evidente suggestività della domanda aveva, di fatto,
compromesso la genuinità delle risposte che la teste era stata poi chiamata in seguito a fornire sullo
specifico punto del giorno in cui l’episodio da lei riferito si sarebbe verificato.
Peraltro, la sorella, cioè colei che stabilmente si serviva della linea 15, scendendo in via (Omissis) per
poi salire sull’autobus della linea 12, per raggiungere il posto di lavoro, presso una famiglia di (Omissis), aveva reiteratamente ribadito di non ricordare il giorno esatto, risultando in tal modo difficile contrastare la versione della parte offesa su un dato rimasto, anche in esito all’approfondimento istruttorio
disposto dal G.u.p., incerto.
Del resto, è apparsa alla Corte di merito inverosimile la circostanza che proprio nell’arco temporale,
peraltro assai ristretto (dalle ore 14.35 alle ore 14.40 circa) – in cui l’imputato si sarebbe reso responsabile della denunciata violenza sessuale ai danni della C. – certamente presente sull’autobus della linea 15,
nella corsa in partenza dal capolinea (Omissis) alle ore 14.06 ed in arrivo al capolinea di via (Omissis) alle ore 14.37, per averlo ammesso lo stesso imputato – una giovane ragazza moldava, mai vista né conosciuta in precedenza, attaccava bottone con lui, intrattenendolo una conversazione sull’afa, lasciandogli, dopo non più di cinque minuti di scambi di battute, il proprio numero di telefono, risultato così
provvidenzialmente utile per contrastare le accuse rivoltegli dalla C.
1.5. Da ciò il rilievo circa l’inidoneità delle dichiarazioni delle due ragazze a incrinare la credibilità
della vittima in quanto, se vero che la versione di quest’ultima non poteva coesistere con quella delle
sorelle R., era comunque ipotizzabile che le R. avessero scientemente mentito per aiutare P. o che
l’episodio da loro riferito fosse accaduto in un giorno diverso dal (Omissis) o in orario diverso da quello
delle 14.30/14.40, essendo processualmente risultato che l’imputato, quello stesso pomeriggio, aveva
effettuato il medesimo percorso, una seconda volta, tra le 15,52 e le ore 15,58.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, tramite il difensore, P.F. affidando il gravame a cinque articolati motivi.
[Omissis]
2.4. Con il quarto motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. per la contraddittorietà, la manifesta illogicità e la carenza di motivazione della sentenza su un punto decisivo per il
giudizio costituito dal ritenuto mancato riscontro fornito dalle sorelle R. alla versione dell’imputato.
Si argomenta come la sentenza della Corte distrettuale affronti tale decisiva questione premettendo
un’affermazione nettissima circa il fatto che, quanto alle dichiarazioni rese dalle sorelle R. ed anche a
prescindere dal tema della loro attendibilità, non vi sarebbe alcuna prova che il giorno in cui le stesse
sarebbero salite, a loro dire, sull’autobus condotto dal P., fosse proprio il (Omissis).
Ricorda sul punto il ricorrente come le dichiaranti abbiano reso plurime deposizioni e che il G.u.p.,
disponendone d’ufficio l’audizione, ne volle saggiare precisione, coerenza e sincerità.
L’approfondimento istruttorio disposto in sede di giudizio abbreviato assume, secondo la prospettazione del ricorrente, un particolare rilievo anche ai fini della qualità della prova acquisita: in via diretta da parte del giudice e in contraddittorio tra le parti.
Tant’è che il G.u.p., tirando le somme sul punto decisivo delle dichiarazioni rese dalle sorelle R. e nonostante qualche ombra, ha affermato in sentenza che le due testimonianze si confermavano reciprocamente e presentavano una serie di dettagli su luoghi e tempi che conferivano alle stesse una peculiare
consistenza. Né vi erano, per le due testimoni, elementi dai quali desumere la falsità della deposizione.
Non risultava che conoscessero o avessero mai incontrato prima il P.; sono state sentite numerose volte,
anche nel contraddittorio delle parti e non si sono mai contraddette; l’ipotesi che fossero state contattate
per rendere una falsa testimonianza sull’accaduto presupponeva una assai improbabile convergenza di
una serie di circostanze (tra le quali le coincidenze tra le fermate dell’autobus condotto dal P. ed i luoghi
di abitazione e di lavoro delle ragazze, i giorni, gli orari dei bus) difficilmente riscontrabile nella realtà.
Dato, poi, che la verifica degli orari e del personale, che si trovava alla guida dell’autobus numero 15
negli orari già indicati, aveva consentito di desumere che le tre donne non potevano trovarsi su due diverse corse del mezzo di trasporto, doveva concludersi nel senso di una insanabile divergenza tra le
due diverse versioni dell’accaduto sicché, considerati anche gli elementi di ombra e di luce già evidenziati per entrambi i racconti, non era possibile addivenire con tranquillizzante certezza ad una pronuncia di responsabilità nei confronti del P. che, quindi, doveva essere mandato assolto, sia pure ai sensi
dell’art. 530, comma 2, c.p.p. dal reato ascrittogli.
[Omissis]
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Con il quarto motivo di gravame, che non è stato spinto sino alle sue naturali conseguenze con la denuncia della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U., il ricorrente sostanzialmente si duole del fatto che
il Giudice d’appello ha diversamente valutato, rispetto al giudice di primo grado, le dichiarazioni rese dalle sorelle R. formando il proprio convincimento circa la loro inidoneità a neutralizzare la versione dichiarativa della persona offesa su base meramente cartolare e quindi valutando, per il tramite dell’atto scritto, le
dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al primo giudice, il quale invece si era formato l’opposto convincimento sulla base di una percezione diretta delle prove orali assunte nel contraddittorio tra le parti.
2.1. Questa Corte (Sez. III, 22 ottobre 2014, n. 1989, dep. 16 gennaio 2015, S., non mass.), seguendo un
orientamento di legittimità già tracciato in precedenti arresti, ha affermato, alla luce delle decisioni assunte dalla Corte e.d.u. a partire dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011, che è violato l’art. 6
paragrafo 1, C.E.D.U. quando il Giudice d’appello non abbia, salvi i casi di impossibilità di ripetizione
dell’atto o per altre gravi ragioni, sentito i testimoni e valutato la loro attendibilità in prima persona e
ciò sul rilievo, desunto dalle pronunce del Giudice europeo, che “la valutazione dell’attendibilità di un
testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni”.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LORO APPLICABILITÀ
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È stato anche sottolineato, nella richiamata pronuncia di questa Sezione, come i Giudici europei abbiano fornito un’interpretazione del processo equo, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione,
precisando che le modalità di applicazione del principio convenzionale (del processo equo), nei procedimenti davanti le Corti d’appello nazionali, devono misurarsi con le caratteristiche specifiche della tipologia procedimentale del giudizio di impugnazione disegnato dai singoli Stati, nel senso che detto
giudizio non deve necessariamente replicare le regole procedimentali del primo grado dovendosi perciò “tener conto dell’insieme del procedimento nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo svolto
dalla Corte d’appello” (C.e.d.u., Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, p. 39), fermo restando tuttavia che
“nel caso in cui, una Corte d’appello è chiamata ad esaminare i fatti e la legge e quindi a compiere una
valutazione completa circa la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, non può, secondo i principi del
giusto processo, correttamente giungere a decidere di tali questioni senza effettuare una valutazione diretta delle prove” (C.e.d.u., Popovic c. Moldavia, 27 novembre 2007; Id., Costantinescu c. Romania, 27 giugno 2000; Id., Marcos Barrios c. Spagna, 21 settembre 2010).
Tali principi sono stati successivamente ribaditi dalla Corte e.d.u. nelle procedure Manolachi c. Romania (ricorso n. 36605/04) sentenza 5 marzo 2013; Flueras c. Romania (ricorso n. 17520/04) sentenza 9
aprile 2013; Hanu c. Romania (ricorso n. 10890/04) sentenza 4 giugno 2013; e da ultimo Mischie c. Romania (ricorso n. 50224/07), sentenza 16 settembre 2014 con significative precisazioni.
2.2. In particolare, per quanto qui interessa, la sentenza Mischie ha ribadito che il Giudice di secondo
grado deve procedere, nei casi di ribaltamento dell’esito del primo giudizio, all’assunzione delle prove
orali anche d’ufficio ed ha perciò chiarito che non occorre una richiesta di parte per ottenere l’audizione
dei testimoni (p. 39), dovendo il giudice d’appello prendere “misure positive a tal fine” (in tal senso anche la pronuncia Manolachi, citata, p. 50 nonché Hanu c. Romania, cit., p. 38, 4 giugno 2013).
È interessante notare come la Corte e.d.u., nel pervenire a tale conclusione, abbia nuovamente ricordato che dall’assenza di un’espressa richiesta di parte non possa desumersi una mancanza di interesse
del ricorrente nel suo processo, giungendo, per questa via, a respingere l’eccezione di mancato esaurimento dei rimedi interni sollevata dal governo, il quale aveva sostenuto (p. 28) che il ricorrente non
aveva chiesto ai giudici di disporre una nuova audizione dei testimoni, pur essendo stato posto nelle
condizioni di poter utilizzare utilmente questa possibilità, tanto da essere stato ascoltato di persona da
parte dei giudici, tra cui l’Alta Corte.
Si tratta di un orientamento che pone in crisi l’indirizzo autorevolmente espresso dalla Quinta Sezione di questa Corte secondo il quale non è rilevabile d’ufficio, in sede di giudizio di legittimità, la
questione riferita alla violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come
interpretato dalla sentenza della Corte e.d.u. del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, questione che,
secondo la richiamata pronuncia di questa Corte, dovrebbe essere fatta valere, ai sensi dell’art. 581
c.p.p., mediante illustrazione delle ragioni di fatto e di diritto a suo sostegno, specificandosi in motivazione che la scelta dell’imputato di non proporre richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale determina, altresì, l’impossibilità di attivare il rimedio C.E.D.U., il cui presupposto è la “consumazione” di tutti i rimedi del sistema processuale domestico (Sez. V, 20/11/2013, n. 51396, Basile ed altri,
Rv. 257831), riaprendo dunque il problema se, in assenza di una specifica doglianza della parte interessata nei motivi di ricorso, la Corte di cassazione possa o meno rilevare d’ufficio la violazione dell’art. 6
C.E.D.U.. Va ricordato, sul punto, come la sentenza Trupiano (Sez. II, 25 febbraio 2014, n. 13233, rv.
258781) ed altre decisioni di questa Corte (per tutte, Sez. V, 7 maggio 2013, Marchetti, n. 28061, rv.
255580), pur non affrontando le tematiche poste dalla sentenza Basile, siano giunte ad affermare la rilevabilità d’ufficio nel giudizio di cassazione della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U., epilogo
recentemente ribadito dalla Seconda Sezione di questa Corte che ha affermato il principio secondo il
quale è rilevabile di ufficio, anche in sede di giudizio di legittimità, la questione relativa alla violazione
dell’art. 6 C.E.D.U., così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 5
luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, posto che le decisioni di questa Autorità, quando evidenziano
una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione E.D.U.,
assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale sono state pronunciate
(Sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, dep. 12 gennaio 2015, Di Vincenzo, rv. 261555).
Secondo il Collegio, occorre dare continuità a quest’ultimo indirizzo, dovendosi anche considerare
come i Giudici europei abbiano più volte ribadito che la regola del previo esaurimento dei rimedi interni va applicata con flessibilità e senza eccessivo formalismo (Cardot c. Francia del 19 marzo 1991, serie A
n. 200, 18, p. 34), non potendosene fare un’applicazione automatica in quanto tale regola non riveste un
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carattere assoluto ed essendo indispensabile, nel valutare se essa sia stata osservata, tener conto delle
particolari circostanze del caso concreto (Van Oosterwijck c. Belgio del 6 novembre 1980, 18, p. 35).
Ne consegue che, al cospetto di pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale,
già censurate in sede europea, la mancata proposizione di un motivo specifico di gravame, diretto a
denunciare nel corso del processo la violazione del principio dell’equo processo, non può essere di
ostacolo ad un intervento giurisdizionale teso ad eliminare, in itinere iudicii ed ex officio, una situazione
di illegalità convenzionale che scaturisce dalla violazione del principio dell’equo processo, per di più
anteriormente alla formazione del giudicato, essendo sufficiente che la parte interessata abbia comunque impugnato la decisione a lei sfavorevole affinché possa dirsi osservato, secondo la giurisprudenza
della Corte e.d.u. (Mischie c. Romania – ricorso n. 50224/07 cit.), il requisito del previo esaurimento dei
rimedi interni.
In altri termini, alla rilevabilità d’ufficio della violazione convenzionale è possibile pervenire in base
ad un’interpretazione dell’art. 609, comma 2, convenzionalmente conforme senza necessità che debba
essere sollevata una questione di legittimità costituzionale della richiamata norma processuale in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui non prevede che la Corte di cassazione possa rilevare d’ufficio la violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea così come interpretata dai giudici
di Strasburgo.
3. Ne consegue che la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U. – pur non essendo stata oggetto di
specifica censura, con i motivi di ricorso – può essere, nel caso in esame, rilevabile d’ufficio.
Quanto poi ai casi nei quali detta violazione si materializza, questa Corte ha chiarito che l’esigenza
della rinnovazione del dibattimento per escutere, nel contraddittorio con l’imputato, i testimoni a carico
deve essere stata agganciata alla decisività della prova orale da assumere e alla necessità avvertita dal
giudice di appello di rivalutare l’attendibilità del teste (Sez. V, 25 settembre 2013, n. 47106, Donato e altro, rv. 257585).
È stato anche opportunamente chiarito, attraverso approdi interpretativi compatibili con il dictum
dei Giudici europei in parte qua, che tale obbligo tuttavia non sussiste quando il giudice d’appello compia una diversa valutazione di prove non dichiarative, ma documentali (Sez. VI, 15 aprile 2014, n.
36179, Dragotta, rv. 260234; Sez. II, 25 febbraio 2014, n. 13233, Trupiano, rv. 258780), oppure quando il
primo giudice non abbia negato l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni delle persone offese, ed
egli, per affermare la penale responsabilità dell’imputato, si sia limitato a fornire una lettura coerente e
logica del compendio probatorio palesemente travisato nella decisione impugnata (Sez. III, 18 settembre 2014, n. 45453, P., rv. 260867), con l’ulteriore precisazione che l’obbligo di rinnovare l’istruzione e di
escutere nuovamente i dichiaranti, gravante sul giudice d’appello qualora valuti diversamente la loro
attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado, costituisce espressione di un generale principio
di immediatezza (Sez. II, 24 aprile 2014, n. 32619, P.g. in proc. Pipino e altro, rv. 260071).
In conclusione, nel caso di decisione di appello difforme da quella del giudice di primo grado, non è
più sufficiente che la seconda sentenza sia logicamente più persuasiva della prima e che contenga
un’adeguata confutazione delle ragioni poste a base della decisione riformata (requisiti che la sentenza
impugnata ampiamente possiede) ma è necessario che, in base all’art. 6 C.E.D.U., così come interpretato
dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause Dan c. Moldavia, Manolachi c. Romania, Flueras c. Romania; Hanu c. Romania e Mischie c. Romania, il giudice d’appello, qualora ribalti l’esito
del primo giudizio pervenendo alla “reformatio in peius” della sentenza assolutoria di primo grado, deve
assicurare il rispetto del principio dell’oralità, non essendo sufficiente l’instaurazione di un contraddittorio sulla prova dichiarativa cartolare, tutte le volte in cui il secondo giudice fondi il proprio convincimento su prove orali apprezzate in modo diverso dalla valutazione che di esse ne ha fatto il primo
giudice; e così come quest’ultimo ha proceduto direttamente alla loro assunzione nel rispetto del principio del contraddittorio e del principio di oralità, allo stesso modo il secondo giudice deve rinnovare la
prova orale non potendo adottare il contrario convincimento “senza effettuare una valutazione diretta
delle prove” dovendo l’imputato avere, affinché il processo sia equo, “la possibilità di confrontarsi con i
testimoni alla presenza di un giudice chiamato, alla fine, a decidere la causa, in quanto l’osservazione
diretta da parte del giudice dell’atteggiamento e della credibilità di un determinato testimone può essere determinante per l’imputato”.
Come la stessa giurisprudenza europea ammette, il principio di oralità (anche da assicurare nel giudizio d’appello in caso di ribaltamento della prima decisione, nei termini sopra precisati), non è assoluto nel senso che può non trovare applicazione nei casi di impossibilità di ripetizione della prova (p. 33,
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Dan c. Moldavia, cit.), di particolare vulnerabilità del teste (come i minori) o di altre gravi ed eccezionali
ragioni nella specie non sussistenti e neppure desumibili sulla base degli atti accessibili alla Corte.
4. Sicché appare fuori discussione come, nel caso in esame, il giudizio di penale responsabilità sia
stato fondato su un diverso apprezzamento delle dichiarazioni delle sorelle R.
Tali dichiarazioni sono state stimate, su base meramente cartolare, come inidonee ad incrinare la
credibilità della persona offesa e sono state ritenute dal Giudice d’appello, sulla base dei soli verbali di
causa e senza la loro diretta assunzione, come dotate di “un diverso grado di precisione e di dettaglio”,
contrariamente agli approdi cui era pervenuto il primo giudice che aveva disposto la diretta audizione
e che aveva ritenuto che le due testimonianze si confermassero reciprocamente e presentassero una serie di dettagli su luoghi e tempi che conferivano alle stesse una peculiare consistenza.
È fondato dunque il rilievo formulato dal ricorrente secondo il quale l’approfondimento istruttorio
disposto in sede di giudizio abbreviato aveva assunto un particolare spessore anche ai fini della qualità
della prova acquisita: in via diretta da parte del giudice e in contraddittorio tra le parti.
Perciò la svalutazione delle dichiarazioni testimoniali a discarico, in assenza di una diretta assunzione di esse, ha rivestito, nell’economia della decisione, un ruolo decisivo per la condanna dell’imputato, posto che anche le ipotesi alternative – pur plausibili e attraverso le quali la Corte territoriale ha
ritenuto autosufficiente, a prescindere dal dichiarato delle sorelle R., la narrazione della persona offesa
e i riscontri su di essa acquisiti – sono state delineate in assenza della rinnovazione della prova orale,
all’esito della quale, nel contraddittorio delle parti, le formulate ipotesi potevano risultare rafforzate,
convalidando maggiormente la loro plausibilità, oppure smentite, ribaltando il convincimento fondato,
invece, su basi meramente cartolari.
5. In definitiva, la penale responsabilità dell’imputato è stata affermata in violazione dell’art. 6
C.E.D.U. nell’interpretazione data dalla Corte e.d.u. e sopra richiamata, i cui principi, ai fini della celebrazione di un processo equo, vanno applicati, anche d’ufficio, nel caso in esame.
Da ciò deriva, assorbiti tutti i motivi di ricorso, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio
ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna che – previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con l’esame, se possibile, di R.C. e S. – procederà a nuovo giudizio.
[Omissis]
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FILIPPO GIUNCHEDI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università Niccolò Cusano di Roma
La Cassazione e la tela di Penelope.
I giudici “guardiani” dell’equo processo
Supreme Court and Penelope’s canvas.
Judges are the fair trial “guardians”
La Corte europea dei diritti dell’uomo impone che il giudice di appello non possa riformare in peius una sentenza
di proscioglimento senza aver prima avuto un contatto diretto con la fonte di prova dichiarativa. La Cassazione ha
avallato questo modello estremamente garantistico offrendo ampia espansione alla rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale; le Corti di appello, con atteggiamento ostinatamente refrattario, continuano, invece, a perseguire
un modello di giudizio di seconda istanza mediante una rivisitazione ex actis.
La peculiarità della decisione che si annota consiste nello specificare come, indipendentemente dal fatto che
la violazione della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia stata dedotta nel ricorso di legittimità, la Suprema Corte sia tenuta ad esaminare d’ufficio la questione in quanto relativa alla violazione dei diritti dell’equo processo.
Si tratta di un approccio estremamente importante che testimonia l’effettiva penetrazione dei principi europei nel
tessuto connettivo del nostro processo penale.
The European Court of Human Rights requires that the appellate court can not reform in peius acquittals witout a
direct contact with the source of evidence declarative. The Supreme Court has endorsed this model extremely
protective nature offering a wide expansion to the renewal of education hearing; the appeal courts, with stubbornly refractory attitude, continue to pursue a model of appeal judgment by revisiting ex actis.
The peculiarity of the decision is to specify how, regardless of whether the violation of the renewal of education
hearing is presented in the application of legality, the Supreme Court is required to consider on the issue because
of infringement of the rights fair trial.
It is a very important approach that demonstrates the effective penetration of the Europeans in the connective
tissue of our criminal process.
L’HABITAT DI RIFERIMENTO E L’HUMUS SOVRANAZIONALE
Le intersezioni tra processo penale interno e fonti sovranazionali connaturano con sempre maggiore intensità le decisioni e le trame argomentative tessute dai giudici italiani, i quali si trovano a muoversi in
un network normativo multilivello sempre più complesso e articolato, costretti a rapportarsi con interpretazione conforme e contro-limiti che impediscono torsioni esegetiche in rottura con il dato normativo interno in ragione della natura di norme interposte delle fonti sovranazionali 1. In questo contesto il
giudice rischia di incorrere nella tentazione di Icaro, il quale pur dovendo spiccare il volo per uscire dal
labirinto normativo, deve evitare di cedere alla fascinazione delle fonti sovranazionali, sforzandosi di
volare ad una quota tale da consentirgli, da un lato, di usufruire dell’elasticità esegetica offerta dalle
fonti sovranazionali così come filtrate dalla loro giurisprudenza e, dall’altro, di evitare voli troppo ardi-
1
La letteratura sul tema è copiosissima e ogni saggio offre sfumature utili al fine di una ortodossa ricostruzione dei rapporti.
Per un breve quadro di sintesi sia consentito rinviare a F. Giunchedi, I principi, le regole, le fonti, in A. Gaito (a cura di), Procedura
penale, Milano, 2015, p. 22 ss.
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ti “ammaliato” dalle sirene dell’etica dei valori, pena il rischio di cadere rovinosamente, con la conseguente perdita di certezza del diritto 2.
D’altronde un sistema penale non più esclusivamente «statocentrico» 3 espone il giudice alle intemperie della molteplicità delle fonti e alla responsabilità di dover comprendere, mediante una difficile ars
interpretandi, quale legge applicare, spostando il polo dei rapporti verso un’attività ermeneutica legata
al carattere fluttuante del diritto che investe la logica della completezza dei principi, piuttosto che quella ingannevole dei valori 4.
Ed allora pur ribadendo ancora una volta la primazia dell’interpretazione conforme, ove il limite è
costituito dall’analesticità di talune norme, tali da far operare il sindacato di legittimità costituzionale
secondo l’insegnamento delle capostipiti “sentenze gemelle” 5, non possono sottacersi ipotesi in cui di
fronte ad interpretazioni di resistenza allo spirito europeo, risulta necessario ripristinare l’ortodossa
chiave di lettura, soprattutto quando lo sviamento dal precedente non trova ragion d’essere nella peculiarità del caso concreto.
Allo stesso tempo non può trascurarsi come, in materia penale, vada emergendo un formante giurisprudenziale che assevera la preferenza della Cassazione per la soluzione di maggiore rilevanza pratica, quale garanzia per le parti per l’esito migliore della causa, vale a dire lo ius litigatoris. In particolare
questa attività che va a disancorarsi dal precedente, deve realizzarsi laddove tenda a favorire l’imputato. In breve, lo sviamento dalla giurisprudenza consolidata dovrebbe avere un effetto pratico pro reo
in aderenza al canone della considerazione di non colpevolezza. Fuori da questa ipotesi, in campo penale, la digressione interpretativa non è ammissibile in quanto le esigenze di certezza rispetto alle altre
discipline risultano maggiormente marcate, poiché strettamente aderenti al principio di legalità. Aspetto questo che non può essere confinato alle sole norme sostanziali, considerata l’ancillarità a queste di
quelle di diritto processuale penale 6.
LA REFORMATIO IN PEIUS IN APPELLO. QUESTIONI VECCHIE PER PROBLEMI NUOVI
Uno dei settori dove si è registrata una maggiore “ribellione” al precedente a causa di un’intensa trama
esegetica dettata dall’influsso europeo, è quello della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei
casi di potenziale riforma della sentenza di proscioglimento.
La questione interpretativa è a tutti nota e trova il suo più vivido esempio nella decisione Dan c.
Moldavia 7, non certo la prima, ma sicuramente quella maggiormente “reclamizzata” grazie alla sensibilità di qualche autore 8 più lungimirante di altri che ne ha colto le potenzialità e conseguentemente la
necessità di abbandonare lo stantio schema di un giudizio di appello ex actis, in vista di un giudizio
connotato dagli essentialia del giusto processo e del processo accusatorio in genere, quali oralità, immediatezza e garanzia del contraddittorio per la prova.
2
L’immagine mitologica costituisce la felice intuizione di V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto
penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, spec. p. 34 ss., il quale spiega come «per uscire dal labirinto penale – oltre a conoscere e
neutralizzare le sue più subdole insidie – occorre evitare di affidarsi a fragili “ali di cera”, spiccando voli inebrianti e troppo arditi; piuttosto è bene entrarvi con la cautela di Teseo, equipaggiati dell’etica del limite, e muniti di un filo che possa ricondurre
all’uscita» (p. 41).
3
L’espressione è da attribuire a R.E. Kostoris, Verso un processo penale non più statocentrico, in A. Balsamo-R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 3 ss.
4
N. Irti, Diritto senza verità, Roma-Bari, 2011, p. 68. Il richiamo ai valori può però risultare fuorviante in quanto interpretare
in funzione del valore, rischia di spingere verso derive esegetiche in rottura con il sistema, quasi che a sorreggerli vi sia
un’ottica machiavellica di fine che giustifica i mezzi; diverso, invece, è il procedere coerentemente con i principi che guidano le
nostre azioni in linea con le norme. Per imprescindibili approfondimenti, non possibili in questa sede, G. Zagrebelsky, La legge e
la sua giustizia, Bologna, 2008, p. 207 ss.
5
C. cost., sent. 24 ottobre 2007 n. 348, in Giur. cost., 2007, p. 3475; Id., sent. 24 ottobre 2007 n. 349, ibidem, p. 3535.
6
Il profilo analizzato è denso di implicazioni e non può essere risolto in poche battute. Per una recente sintesi degli aspetti
richiamati sia consentito il rinvio a F. Giunchedi, In nome della nomofilachia. La Cassazione cerca di prevenire i fenomeni di overruling, in www.archiviopenale.it.
7
Corte e.d.u., 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, in www.echr.coe.int.
8
A. Gaito, Verso una crisi evolutiva del giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m.
impugna l’assoluzione, in Arch. pen., 2012, p. 349.
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Si tratta, in buona sostanza, di ripristinare quei principi che erano stati legislativamente recepiti mediante l. 20 febbraio 2006, n. 46, ma che la Corte costituzionale 9 non ha ritenuto conformi alla Carta
fondamentale in quanto lesivi della parità delle armi tra p.m. e imputato, posto che il primo sarebbe risultato irragionevolmente privato di un potere concesso al secondo 10. La decisione ha omesso di considerare che la parità delle parti nel processo non si traduce in un’assoluta parificazione delle posizioni
processuali, dovendosi adattare alle specifiche caratteristiche di ogni tipo di processo 11, così da diversificare le armi a disposizione dell’una o dell’altra parte 12.
Ed infatti oggigiorno siamo a discutere su questioni vecchie che generano problemi nuovi in quanto
se la formulazione dell’art. 593 c.p.p. prima dell’intervento della Corte costituzionale, imponeva
l’appello avverso le sentenze di proscioglimento solo in ipotesi in cui risultasse necessaria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale senza margini interpretativi per il giudice, attualmente, mancando
la norma di riferimento, si creano delle sacche di arbitrio incontrollabile che hanno generato questo fiorente panorama di legittimità a causa dell’ostinata ritrosia dei giudici di appello nello snaturare un giudizio relegato a mero controllo cartolare della pregressa regiudicanda 13. L’incipit proveniente da Strasburgo si pone nel recupero dei fondamentali del giusto processo (modalità di assunzione della prova,
oralità ed immediatezza, in primis) che non tollerano strozzature nel giudizio di seconda istanza il quale, per come si sviluppa nella prassi quotidiana, costituisce il portato di una concezione inquisitoria.
Le policrome decisioni della Cassazione, censuranti questo modus operandi in contrasto con i “comandamenti” europei, ammoniscono circa la mancanza di penetrazione della cultura accusatoria nel
tessuto connettivo del giudizio di secondo grado, cosicché le Corti territoriali in sede di rinvio vengono
“costrette” a rinnovare l’istruzione dibattimentale per conformarsi ai principi emergenti dalla oramai
univoca giurisprudenza della Corte europea, ferma nel censurare la malpractice di effettuare giudizi di
appello in cui l’accusa domanda la riforma della sentenza di assoluzione mediante una mera rivisitazione dei verbali delle testimonianze assunte in primo grado 14. Eppure l’art. 111 Cost. non distingue tra
processo di primo grado e giudizio di appello 15.
Allo stesso tempo non può trascurarsi l’energia che sprigionano le pronunce della Corte di Strasburgo. È indubitabile che ogni sistema giuridico possa dotarsi del modello più acconcio alle proprie coor-
9
C. cost., sent. 6 febbraio 2007 n. 26, in Giur. cost., 2007, p. 221, con osservazioni di A. Bargi-A. Gaito, Il ritorno della Consulta
alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penali) e F. Caprioli, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e “parità delle armi” nel processo penale; alla quale ha fatto seguito in riferimento al giudizio abbreviato C.
cost., sent. 20 luglio 2007 n. 320, in Giur. cost., 2007, p. 3096, con osservazione di F. Caprioli, Limiti all’appello del pubblico ministero
e parità delle parti nel giudizio abbreviato.
10
Per A. Scalfati, Bilancio preventivo di una riforma: principi buoni e norme da ritoccare, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio. Legge 20 febbraio 2006, n. 46 “legge Pecorella”, Milano, 2006, p. 23, «non è irragionevole, peraltro,
dinanzi ai tempi e ai mezzi dei quali dispone, che il pubblico ministero perda molte chances di capovolgere il proscioglimento
tramite un giudizio “sulle carte”».
11
La questione non è stata trattata con la dovuta completezza da parte della Consulta, trascurando, ad esempio, i procedimenti a contraddittorio differito che manifestano come la parità delle parti non di traduca necessariamente in parità delle armi.
Sul punto v. A. Andronio, sub art. 111 Cost., in R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino,
2006, p. 2113.
12
Sullo specifico aspetto sia consentito il richiamo alle considerazioni contenute in S. Furfaro-F. Giunchedi, La “parità delle
armi” tra Costituzione, diritto sovranazionale e alchimie interpretative, in A. Gaito (a cura di), La disciplina delle impugnazioni tra riforma e controriforma. L’incostituzionalità parziale della “legge Pecorella”, Torino, 2007, p. 17 ss.
13
Con spirito fortemente critico A. Gaito, Verso una crisi evolutiva del giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle
prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, cit., p. 351, spiega come «la celebrazione di giudizi di secondo grado con
controllo esclusivamente o prevalentemente cartolare (con la rinnovazione istruttoria ancora relegata ad ipotesi marginali discrezionalmente rimesse agli umori della Corte d’appello), al di fuori e senza tener conto dei parametri del giusto processo europeo, non può più essere intesa quale modulo standardizzato immodificabile».
14
Senza pretesa di esaustività, oltre alla già ricordata “Dan c. Moldavia”, cfr. Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Mischie c. Romania, in www.echr.coe.int; Id., 4 giugno 2013, Kostecki c. Polonia, ivi; Id., 4 giugno 2013, Hanu c. Romania, ivi; Id., 9 aprile 2013,
Fluera c. Romania, ivi; Id., 5 marzo 2013, Manolachi c. Romania, ivi; Id., 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito, ivi;
Id., 21 settembre 2010, Marcos Barrios c. Spagna, ivi; Id., 27 novembre 2007, Popovic c. Moldavia, ivi; Id., 18 maggio 2004, Destreheme
c. Francia, ivi; Id., 9 luglio 2002, P.K. c. Finlandia, ivi; Id., 27 giugno 2000, Costantinescu c. Romania, ivi.
15
In questa prospettiva A. Gaito, Verso una crisi evolutiva del giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, cit., p. 351, sottolinea come «anche il processo d’appello, cioè, deve essere “giusto”,
con tutto quanto ne consegue in termini di prova, oralità e contraddittorio».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA CASSAZIONE E LA TELA DI PENELOPE
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dinate di politica criminale, ma è altrettanto indubitabile che gli Stati che aderiscono alla Convenzione
europea devono garantire uno standard minimo che ritroviamo tra gli essentialia dell’equo processo il
quale, a tutta prima, conduce alla primazia del principio di immediatezza 16 che in Cassazione, a fronte
della chiusura delle corti territoriali, ha trovato la sua massima espansione. Basti pensare che, seppur
timidamente, va affiorando l’idea di renderlo operativo ogni qualvolta si prospetti la possibilità di una
riforma della decisione di primo grado, sia questa di proscioglimento che di condanna 17. Questa ulteriore propaggine interpretativa significa che l’eccezione (id est l’appendice istruttoria) è destinata a divenire la regola 18 in ragione della forte connotazione cognitiva del processo penale italiano (quindi non
solo di primo grado) che trova il suo più fulgido esempio nei poteri istruttori posti in capo al giudice 19
esercitabili in ogni fase processuale 20.
Sul piano sistematico l’ingresso della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non costituisce un
particolare problema in quanto l’iniziativa ex officio soggiace al presupposto dell’«assoluta necessità» che,
nel caso di specie, è caratterizzato dall’interpretazione fornita dalla Corte europea, ferma nell’imporre la
realizzazione di un processo in linea con i parametri convenzionali 21. D’altronde, l’ingresso nel nostro sistema penale della giurisprudenza europea, come canone interpretativo, non trova ostacoli nella natura
interposta delle norme della Convezione europea, dato che la Costituzione non disciplina il giudizio di
appello; aspetto questo che consente un’applicazione “senza ostacoli” delle norme della C.e.d.u.
D’altro canto, colto lo spirito e la ragion d’essere di un istituto, non possono legittimarsi prassi distorte tese ad arginare l’incremento della piattaforma probatoria ogni qualvolta possano emergere elementi utili alla decisione 22. In un sistema che si fonda sulla considerazione di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva e sul diritto dell’imputato all’acquisizione di ogni mezzo di prova a suo favore, la
recezione dei dicta europei in tema di obbligatorietà della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
per consentire al giudice di percepire personalmente il sapere del teste della cui attendibilità si dubita,
non rappresenta altro che il minimo etico in epoca di giusto processo 23.
16
Sul tema v. l’imprescindibile contributo di D. Chinnici, L’immediatezza nel processo penale, Milano, 2005. Sull’immediatezza
in tema di necessità della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ancora D. Chinnici, Contraddittorio, immediatezza e parità
delle parti nel giudizio di appello. Estenuazioni interne e affermazione europee, in Proc. pen. giust., 2015, n. 3, p. 172.
17
Cass., sez. II, 24 aprile 2014, n. 32619, in CED Cass., n. 260071, secondo cui «in tema di valutazione della prova testimoniale
da parte del giudice d’appello, l’obbligo di rinnovare l’istruzione e di escutere nuovamente i dichiaranti, gravante su detto
giudice qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (obbligo sancito dall’art. 6
C.e.d.u., come interpretato dalla sentenza della Corte e.d.u. del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, cit.), costituisce espressione di un generale principio di immediatezza, e trova pertanto applicazione non solo quando il giudice d’appello intenda riformare “in peius” una sentenza di assoluzione, ma anche nell’ipotesi in cui vi sia stata condanna in primo grado».
In dottrina v. il commento di G. Spangher, Riforma in appello (proscioglimento vs condanna) e principio di immediatezza, in Giur.
it., 2014, p. 2592, per il quale «la decisione pone al centro della sua motivazione lo stretto collegamento che deve sussistere tra
l’immediatezza e la valutazione di quanto emerso in dibattimento, ritenendo che un completo e complesso elemento come quello dell’accertamento della responsabilità non possa essere eseguito mediante una semplice lettura delle parole verbalizzate. Il
principio di immediatezza che governa (con la sanzione della nullità assoluta speciale (art. 525, cpv., c.p.p.) (il giudizio di primo
grado deve regolare anche quello di seconda istanza che, per effetto di questa giurisprudenza, che si va consolidando, acquista
una nuova “vitalità”, a dispetto di quanti ne ipotizzano (con varie modalità) il superamento».
18
Per G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, 2015, p. 121, «al fondo si colloca e si rafforza il principio di immediatezza che deve governare non solo il giudizio di prime cure, ma ogni decisione del giudice dove il rapporto con
la prova lo renda possibile».
19
G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, cit., p. 121.
20
Si pensi agli artt. 409, comma 4, 421-bis, 422, 441, comma 5, 506, 507, 603, comma 3, 666, comma 5, e 678, comma 2, c.p.p.
21
Questa soluzione, seppur in termini più generali, è suggerita da C. Fiorio, La prova nuova nel processo penale, Padova, 2008, p. 170.
22
Per la giurisprudenza «deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606, lett. d), c.p.p., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante» (Cass., sez. IV, 23 gennaio 2014, n. 6783, in CED Cass., n. 259323).
F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2013, p. 394, con straordinaria chiarezza, spiega come
sia «decisiva quella prova che (se fosse stata inserita nel contesto di tutte le altre prove valutate dal giudice) avrebbe portato
all’illogicità della motivazione. La motivazione sarebbe diventata incoerente, contraddittoria, logicamente improbabile perché
avrebbe dato spazio al ragionevole dubbio».
23
Estremamente utile per un’ortodossa lettura dei poteri posti in capo a parti e giudice nel giudizio di appello la ricca disamina di F.R. Dinacci, La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di rinvio, in Cass. pen., 2007, spec. p. 3505 ss.
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IL CASO SOTTO ESAME: LA NECESSITÀ DI SAGGIARE L’ATTENDIBILITÀ DI TESTI A DISCARICO
La vicenda trattata dalla decisione in commento risulta assai peculiare e tale da portare a coniare il fondamentale principio di diritto costituente il presupposto per la risoluzione dell’ipotesi concreta. Come
anticipato, il dato realmente innovativo della decisione è costituito dalla possibilità per la Corte di cassazione di affrontare, indipendentemente da uno specifico motivo di ricorso, la lesione di un diritto
dell’equo processo (in concreto quello secondo cui per riformare in peius una decisione di proscioglimento il giudice, in aderenza al principio di immediatezza, deve udire personalmente i testimoni ritenuti decisivi onde poterne valutare l’attendibilità) annullando con rinvio affinché la Corte territoriale
disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Nello specifico la Corte di appello di Bologna aveva condannato un imputato, assolto in primo grado dal G.u.p. di Parma, accusato di violenza sessuale ai danni di una ragazza che a bordo dell’autobus
(di cui l’imputato era l’autista) aveva deciso di farsi massaggiare da questo il quale aveva dato sfogo ad
inequivocabili atteggiamenti di violenza sessuale.
Secondo la Corte territoriale felsinea le due testimoni a discarico dell’imputato, escusse dal G.u.p., il
quale, nonostante fossero state sentite nel corso delle investigazioni difensive dal difensore dell’imputato, aveva voluto saggiarne egli stesso l’attendibilità, non avevano riportato elementi tali da affermare
con precisione di trovarsi proprio il giorno del fatto-reato sull’autobus in quanto potenzialmente fuorviate dalla suggestività della domanda, formulata dal difensore, circa la collocazione temporale dell’episodio.
Per la Cassazione i giudici di appello avrebbero dovuto riesaminare le due sorelle in considerazione
della decisività delle dichiarazioni delle stesse ai fini della pronuncia di condanna, poiché dalla «rinnovazione della prova orale, all’esito della quale, nel contradditorio delle parti, le formulate ipotesi potevano risultare rafforzate, convalidando maggiormente la loro plausibilità, oppure smentite, ribaltando
il convincimento fondato, invece, su basi meramente cartolari» 24.
L’aspetto che ha generato l’interpretazione focalizzata nella massima consiste nella circostanza che
nel ricorso l’imputato, pur essendosi diffuso in articolate censure sotto il profilo del vizio di motivazione circa la ritenuta inattendibilità delle due sorelle, non aveva dedotto la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in osservanza dei dicta strasburghesi 25.
La Suprema Corte ha ritenuto che, nonostante il motivo non sia stato devoluto, operi la rilevabilità
d’ufficio in aderenza al tenore dell’art. 609, comma 2, prima parte, c.p.p. a mente del quale «la Corte decide altresì le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo».
IL CANTO DELLE MUSE: LA CASSAZIONE “ISPIRATA” DALLA CORTE DI STRASBURGO
Si tratta ovviamente di interpretazione espansiva rispetto ai consolidati arresti in materia, secondo cui
rientrano nella sfera di applicazione della norma in discorso solo quelle questioni processuali – dalle
quali vanno escluse quelle che richiedono un apprezzamento di merito, precluso al giudice di legittimità 26 – che involgono invalidità (nullità assolute, inammissibilità e abnormità) ovvero inutilizzabilità,
proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., riqualificazione giuridica del fatto 27, ne bis in idem e questioni di legittimità costituzionale 28.
24
Così la sentenza annotata al § 4 dei Motivi della decisione.
25
Si legge al § 2 del Considerato in diritto: «Con il quarto motivo di gravame, che non è stato spinto sino alle sue naturali conseguenze con la denuncia della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.e.d.u., il ricorrente sostanzialmente si duole del fatto che il
Giudice d’appello ha diversamente valutato, rispetto al giudice di primo grado, le dichiarazioni rese dalle sorelle R. formando il
proprio convincimento circa la loro inidoneità a neutralizzare la versione dichiarativa della persona offesa su base meramente
cartolare e quindi valutando, per il tramite dell’atto scritto, le dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al primo giudice, il quale
invece si era formato l’opposto convincimento sulla base di una percezione diretta delle prove orali assunte nel contraddittorio
tra le parti».
26
Cass., sez. VI, 2 maggio 2011, n. 21877, in CED Cass., 250263; Id., sez. IV, 17 dicembre 2010, n. 2586, ivi, n. 249490; Id., sez.
VI, 21 settembre 2010, n. 37767, ivi, n. 248589.
27
Cass., sez. VI, 27 settembre 2004, n. 41972, in CED Cass., n. 229901, tanto che non compete alla Cassazione, in assenza di
specifiche deduzioni, verificare cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste e
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Allo stesso tempo risulta pacificamente ammesso che l’art. 609, comma 2, c.p.p. operi svincolato
dall’effetto devolutivo desumibile dal sistema oltre che dall’espressa previsione del combinato disposto
degli artt. 606, comma 3, e 609, comma 1, c.p.p. 29. Detto principio va poi modellato con la peculiare ipotesi di condanna per la prima volta in appello seguita ad un proscioglimento in primo grado con formula preclusiva del diritto ad impugnare. In questo caso, sulla base dell’obiter dictum delle Sezioni unite
“Andreotti” 30, se, da un lato, può apparire raccomandabile che l’imputato assolto in primo grado –
qualora il pubblico ministero appelli sulla base della diversa valutazione dell’attendibilità di testimoni
– formalizzi con una memoria l’esigenza di rinnovare l’istruzione dibattimentale; dall’altro lato, la necessità di armonizzare il diritto interno con quello convenzionale impone un formante esegetico che ne
recepisca gli influssi e si ponga ad un livello di operatività svincolato dall’iniziativa di parte posto che
«”le Corti nazionali hanno l’obbligo di adottare misure positive a tal fine, anche se il ricorrente non ha
fatto richiesta”, e la mancata escussione da parte della Corte d’appello dei testimoni in prima persona e
il fatto che la Suprema Corte non cerchi di porvi rimedio rinviando il caso alla Corte d’appello per un
nuovo esame degli elementi di prova, riduce sostanzialmente il diritto di difesa del ricorrente; ciò in
quanto “uno dei requisiti di un processo equo è la possibilità per l’imputato di affrontare i testimoni in
presenza di un giudice che deve decidere la causa, perché le osservazioni del giudice sul comportamento e la credibilità di una certa testimone possono avere conseguenze per l’imputato”)» 31.
La possibilità di fruire dell’interpretazione di una decisione della Corte e.d.u. non solo quando questa abbia deciso il caso specifico, è possibile in quanto per l’«art. 32, paragrafo 1, C.e.d.u., la competenza
della Corte e.d.u. “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della
Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa”; la Corte costituzionale può, nondimeno,
a sua volta interpretare la Convenzione, purché nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea
formatasi al riguardo, ma “con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011). L’art. 46, paragrafo 1, C.e.d.u. impegna, inoltre, gli
Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte e.d.u. sulle controversie di cui sono
parti”; soggiungendo, nel paragrafo 2, che “la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato
dei ministri che ne controlla l’esecuzione”» 32. D’altro canto le Sezioni unite sono state limpide nello
spiegare come «le decisioni della Corte e.d.u. che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto (non
correlata in via esclusiva al caso esaminato) della normativa interna sostanziale con la C.e.d.u. assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della
predetta Corte internazionale» 33.
Si tratta, pertanto, di un approdo che pare destinato a stratificarsi, superando con ciò talune, ingiustificate, resistenze all’operatività diffusa dei principi dell’equo processo 34.
che, quindi, implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali il cui onere è posto in capo alla parte in ragione del
principio di autosufficienza del ricorso (Cass., sez. un., 16 luglio 2009, n. 39061, in CED Cass., n. 244328).
28
Per più ampi riferimenti in merito v. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1967, p. 174 ss.
29
Esemplarmente A. Bargi, Il ricorso per cassazione, in A. Gaito (diretto da), Le impugnazioni penali, Torino, 1998, p. 556.
30
Cass., sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276, in Cass. pen., 2004, p. 811, chiara nello scandire che il ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna in appello dell’imputato prosciolto in primo grado con la formula ampiamente liberatoria «per non
aver commesso il fatto» possa essere proposto anche per violazioni di legge non dedotte, perché non deducibili per carenza di
interesse all’impugnazione in appello.
31
Così la parte motiva di Cass., sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, in CED Cass., n. 261555, per la quale «è rilevabile di ufficio,
anche in sede di giudizio di legittimità, la questione relativa alla violazione dell’art. 6 C.e.d.u., così come interpretato dalla sentenza della Corte e.d.u. del 4 giugno 2013, nel caso Hanu c. Romania, cit., posto che le decisioni di questa Autorità, quando evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione e.d.u., assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale sono state pronunciate».
32
Ancora Cass., sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, cit., § 20.3.1 del Considerato in diritto.
33
Cass., Sez. un., ord. 19 aprile 2012, n. 34472, in CED Cass., n. 252933, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv. in l. 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 C.e.d.u. in relazione alla possibilità per il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei
principi dettati in materia dalla Corte e.d.u., e modificando il giudicato, di sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del
giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione.
34
Secondo Cass., sez. V, 20 novembre 2013, n. 51396, in CED Cass., n. 257831, «non è rilevabile d’ufficio, in sede di giudizio
di legittimità, la questione riferita alla violazione dell’art. 6 C.e.d.u., così come interpretato dalla sentenza della Corte e.d.u. del 5
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RIPENSARE IL RUOLO DELLA CASSAZIONE: DA “VERTICE” DELLA GIURISDIZIONE A “BUSSOLA” PER LO IUS
CONSTITUTIONIS
Non sempre, però, i rapporti tra le due Corti risultano così armoniosi, complice talvolta la Corte costituzionale che, vestendo i panni del “custode” di detti rapporti a causa del rango interposto delle norme
convenzionali, genera il c.d. chilling effect utilizzando la tecnica del distinguishing 35 così da immunizzare
da un’interpretazione convenzionalmente orientata in ragione di diversificazioni sostanziali, preclusive
dell’influenza sovranazionale.
L’imperativo “Not in my backyard” costituisce, quindi, un rischio concreto per la penetrazione dei
principi europei, così come è già avvenuto in precedenti della Consulta 36 e, nello specifico ambito della
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale 37, della Cassazione. Infatti non si può sottacere come, talvolta, si ecceda nell’utilizzo dell’interpretazione conforme, cosicché germinano pronunce che manifestano l’insofferenza verso l’«abuso della strategia di circolazione del precedente, che prendendo il posto
di una compiuta argomentazione finisce per fare apostasia» 38. Impostazione questa che reca con sé il
rischio di un downgrading delle garanzie promananti dalla Corte europea, utilizzando l’escamotage della
diversificazione del precedente sovranazionale dal caso concreto così da impermeabilizzarlo dall’influsso dell’interpretazione conforme.
È un rischio che esiste: spetta ai giudici, “guardiani” della legge, fare buon uso dell’attività interpretativa mediante un ortodosso utilizzo degli “arnesi” di cui sono dotati, previo bilanciamento tra margine nazionale di apprezzamento e contro-limiti 39 senza che con ciò l’attività interpretativa sfoci in un
abbassamento delle garanzie 40.
In tutto ciò la Cassazione continuerà ad esercitare quella funzione di Corte Suprema che gli assegna
l’art. 65 ord. giud. o, in considerazione della possibilità del ricorso in sede europea 41, il suo ruolo sarà
luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, cit., questione riconducibile, con adattamenti, alla nozione del vizio di “violazione di legge” e, dunque, da far valere, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., mediante illustrazione delle ragioni di fatto e di diritto a suo sostegno.
(In motivazione la Corte ha precisato che la scelta dell’imputato di non proporre richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale determina, altresì, l’impossibilità di attivare il rimedio C.e.d.u., il cui presupposto è la “consumazione” di tutti i rimedi del sistema processuale domestico)».
35
Ad evitare pericolose generalizzazioni, va specificato che valorizzando il distinguishing, mediante l’utilizzo dei casi e
quindi del precedente, si tende a radicare non tanto il principio di diritto, ma piuttosto la situazione concreta che la massima ha
regolato. Ciò all’evidente scopo di evitare assimilazioni inopportune per ipotesi apparentemente identiche in quanto generalizzate dalla massima, ma di fatto radicalmente differenti. Per più ampie considerazioni si consenta il rinvio a F. Giunchedi, In nome della nomofilachia. La Cassazione cerca di prevenire i fenomeni di overruling, cit., p. 9 s.
36
C. cost., sent. 22 luglio 2011 n. 236, in Giur. cost., 2011, p. 3021, con osservazione di C. Pinelli, Retroattività della legge penale più favorevole fra CEDU e diritto nazionale. V., anche, lo stimolante saggio di C. Sotis, La “mossa del cavallo”. La gestione dell’incoerenza nel sistema
penale europeo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, spec. p. 490 s. secondo il quale «la sentenza della Corte costituzionale, è tuttavia, e al di là
delle affermazioni di bon ton istituzionale in esso contenute, una sentenza di chiusura al dialogo e non di apertura».
37
Prova ne sia Cass., sez. V, 20 novembre 2013, n. 51396, cit., che ha giustificato il non accoglimento della richiesta di annullamento con rinvio per violazione dei principi dell’equo processo per non avere il giudice di appello disposto la rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale nel riformare in peius una sentenza di proscioglimento, poiché «la mancata denuncia della questione, con appositi motivi di ricorso per cassazione, è una scelta processualmente rilevante, dipendente evidentemente dal disinteresse alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale da parte di chi era stato già assolto: ma rilevante anche perché determina una omessa attivazione, da parte dell’imputato, del rimedio processuale nel sistema nazionale, che lo pone, non essendosene doluto, nella condizione di non poter attivare il rimedio C.e.d.u., il quale presuppone la consumazione di tutti i rimedi
del sistema processuale domestico, sulla questione stessa».
38
C. Sotis, La “mossa del cavallo”. La gestione dell’incoerenza nel sistema penale europeo, cit., p. 491.
39
Conclude il suo studio V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, cit., p.
171, prendendo atto che «nessuno degli attori in gioco, insomma, sembra disposto a recitare il ruolo di deuteragonista, o di corifeo, e rinunciare così al munus di custode ultimo del labirinto; sarà piuttosto nell’ordito del dialogo, nella forza argomentativa
delle singole pronunce e nel magnetismo della loro carica assiologica, che andrà emergendo, volta a volta, l’auctoritas nomoteta, e
la “parola” destinata a prevalere».
40
C. cost., sent. 4 dicembre 2009 n. 317, in Giur. cost., 2009, p. 4747 – con osservazioni di G. Ubertis, Sistema multilivello dei diritti fondamentali e prospettiva abolizionista del processo contumaciale e F. Bilancia, Con l’obiettivo di assicurare l’effettività degli strumenti di garanzia la Corte costituzionale italiana funzionalizza il «margine di apprezzamento» statale, di cui alla giurisprudenza CEDU, alla
garanzia degli stessi diritti fondamentali – spiega come «il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie».
41
Sui rapporti tra giudizio di cassazione e giudizio sovranazionale si rinvia a F.M. Iacoviello, Il quarto grado di giurisdizione: la
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destinato a mutare? Il pluralismo delle fonti che, come spiegato, porta ad un continuo dialogo tra le
Corti a causa dello sfumare della sovranità nazionale, se, da una parte, rende imprescindibile un maggior sforzo interpretativo; dall’altra, impone alla Cassazione di individuare «una lettura che risulti di
volta in volta coerente con i valori emergenti dalla Costituzione, dalla Ce.d.u. o dal diritto comunitario» 42.
Questa proiezione centrifuga della legalità offre rinnovata forza alla funzione nomofilattica, la quale
«non può ritenersi mutata nella sostanza, ma nell’oggetto» 43, dovendosi oggi muovere in un ambito
normativo e ideologico molto più vasto, ove a maggior ragione si rende necessaria una “bussola” interpretativa. Funzione che non può che spettare alla Corte di cassazione.
Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2011, p. 794; e, volendo, F. Giunchedi, La tutela dei diritti fondamentali previsti dalla
CEDU: la Corte europea dei diritti dell’uomo come giudice di quarta istanza?, in Arch. pen., 2013, p. 113.
42
E. Lupo, Il ruolo della cassazione: tradizioni e mutamenti, in Arch. pen., 2012, p. 172. In tema v., anche, G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, cit., p. 89 ss.
43
E. Lupo, Il ruolo della cassazione: tradizioni e mutamenti, cit., p. 172.
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Il querelante non può più opporsi
al decreto penale di condanna
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 27 FEBBRAIO 2015, N. 23 – PRES. CRISCUOLO; REL. NAPOLITANO
È costituzionalmente illegittimo l’art. 459, comma 1, c.p.p. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, l. 16 dicembre
1999, n. 479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni
in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione
forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla
definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avezzano, con ordinanza del 7
agosto 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111, comma
2, e 112 Cost., dell’art. 459, comma 1, c.p.p. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, l. 16 dicembre 1999, n.
479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e
altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario.
Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di
esercizio della professione forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di
condanna.
Premette il rimettente che l’ufficio del pubblico ministero ha esercitato l’azione penale nei confronti
dell’imputato D.G.A., depositando richiesta di emissione di decreto penale di condanna in relazione al
reato di cui all’art. 388, terzo e quarto comma, cod. pen., nonostante l’espressa opposizione del querelante alla definizione del procedimento mediante decreto penale di condanna formulata ex art. 459,
comma 1, c.p.p.
Unitamente alla richiesta di emissione di decreto penale l’Ufficio del pubblico ministero ha chiesto di
sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, c.p.p. nella parte in cui prevede,
per i soli reati perseguibili a querela, il potere in capo al querelante di opporsi alla definizione del procedimento con decreto penale di condanna, per contrasto di detta norma con gli artt. 3, 101 e 111 Cost.
In particolare, il rappresentante dell’ufficio della Procura rileva il contrasto della norma citata con
l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevolezza della disposizione e della violazione del principio di uguaglianza, in quanto il potere attribuito dalla legge al querelante di opporsi alla definizione
del procedimento attraverso il rito monitorio non risponderebbe ad alcun interesse giuridicamente apprezzabile.
Secondo il pubblico ministero, la persona offesa dal reato è, in primo luogo, portatrice di un interesse a veder dichiarata la penale responsabilità dell’autore del reato con la conseguente irrogazione di
una sanzione penale, interesse che viene parimenti soddisfatto sia attraverso lo svolgimento del processo con un qualsiasi rito, anche speciale, che si conclude con una sentenza, sia attraverso il rito speciale
di cui all’art. 459 e seguenti, c.p.p. attesa la natura di sentenza del decreto penale di condanna.
In secondo luogo, la persona offesa dal reato è portatrice di un interesse al risarcimento dei danni
patrimoniali e non conseguenti al reato, interesse che non sempre è soddisfatto all’esito della definizioAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL QUERELANTE NON PUÒ PIÙ OPPORSI AL DECRETO PENALE DI CONDANNA
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ne del processo penale sia nel caso di definizione con decreto penale di condanna, che in caso di definizione con «patteggiamento», ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Infatti, in tali casi, è esclusa dal legislatore qualsiasi delibazione da parte del giudice penale in ordine alla pretesa risarcitoria della parte offesa, che
dovrà essere fatta valere successivamente in sede civile.
Pertanto il querelante non vede leso alcun suo diritto dalla definizione del procedimento a mezzo
del rito di cui all’art. 459 c.p.p., visto che detto rito si conclude con l’applicazione di una sanzione penale nei confronti del responsabile e che, in ogni caso, è garantita la tutela risarcitoria in sede civile come
avviene anche in caso di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.
La possibilità concessa dalla legge al querelante di opporsi alla definizione del procedimento a mezzo dell’emissione del decreto penale di condanna sarebbe, dunque, irragionevole, risolvendosi esclusivamente nell’infliggere al querelato la sofferenza consistente nello svolgimento del processo, in modo
da trasformare quest’ultimo da strumento di accertamento dei fatti in una sanzione nei confronti
dell’autore del reato.
Sottolinea, infine, il pubblico ministero che la facoltà concessa dall’art. 459 c.p.p. di opporsi alla definizione del procedimento con decreto penale di condanna, contrasterebbe con il principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. in quanto l’instaurazione del processo con rito ordinario a
seguito dell’opposizione comporterebbe una inevitabile dilatazione dei tempi processuali, nonché una
violazione dell’art. 101 Cost. in quanto sottrarrebbe al pubblico ministero la titolarità dell’esercizio
dell’azione penale.
Premesso quanto sopra, il GIP del Tribunale ordinario di Avezzano ritiene, innanzitutto, che sussista
la rilevanza della questione atteso che dalla decisione della stessa dipende la definizione del procedimento mediante l'emissione di decreto penale di condanna come richiesto dal pubblico ministero, ovvero l’obbligo di rigettare la richiesta con rimessione degli atti al pubblico ministero perché proceda con
altro rito.
Inoltre, secondo il rimettente, la questione non è manifestamente infondata in quanto la norma configura un vulnus al principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost., principio di
carattere generale che, nell’attuale sistema costituzionale, non prevede deroghe né con riferimento
all’esercizio dell’azione né con riferimento alle modalità di esercizio della stessa da parte del pubblico
ministero.
Con particolare riguardo al profilo della modalità di esercizio dell’azione penale, il rimettente osserva che l’ordinamento processuale rimette la scelta del rito (giudizio direttissimo, immediato, ordinario,
procedimento per decreto) esclusivamente all’ufficio del pubblico ministero, in presenza ovviamente
dei presupposti di legge previsti per i singoli riti. Fanno eccezione solo il rito abbreviato in cui la scelta
è rimessa alla volontà dell’imputato e l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. dove è richiesto
l’accordo tra accusa ed imputato. In tali casi, osserva il rimettente, il legislatore ha fatto una precisa scelta di favorire riti premiali con chiare caratteristiche deflattive, scelta coerente con i principi costituzionali del diritto di difesa, del contraddittorio e della ragionevole durata del processo sanciti dall’art. 111
Cost., non prevedendo alcuna possibilità né per il querelante, né per la parte offesa dal reato di opporsi
alla scelta del rito, sebbene nell’ipotesi di cui all’art. 444 c.p.p. sia preclusa, come nel caso di procedimento per decreto ex art. 459 c.p.p., al giudice qualsiasi delibazione in ordine alle eventuali pretese risarcitorie derivanti dal reato.
Anche il procedimento per decreto di cui all’art. 459 e seguenti c.p.p., prosegue il rimettente, ha natura premiale ed è finalizzato ad una funzione deflattiva in ossequio al principio di ragionevole durata
del processo, così come il rito abbreviato ex art. 438 c.p.p. e l’applicazione pena ex art. 444 c.p.p.
Non sarebbe comprensibile, quindi, la ragionevolezza della scelta legislativa costituente l’unico caso
nell’ordinamento in cui è previsto che l’ufficio del pubblico ministero sia condizionato nella scelta della
modalità di esercizio dell’azione penale in palese violazione del principio della obbligatorietà
dell’azione penale ex art. 112 c.p.p. che, a suo giudizio, non tollera limitazioni, e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.
Il GIP del Tribunale ordinario di Avezzano ritiene, dunque, condivisibile l’assunto del pubblico ministero secondo il quale il querelante è in primo luogo portatore di un interesse a veder dichiarata la
penale responsabilità dell’autore del reato con la conseguente irrogazione di una sanzione penale, interesse che viene parimenti soddisfatto sia attraverso lo svolgimento del processo con un qualsiasi rito,
anche speciale, che si conclude con una sentenza, sia attraverso il rito speciale di cui agli artt. 459 e ss.
c.p.p., attesa la natura di sentenza del decreto penale di condanna.
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In secondo luogo il querelante è portatore di un interesse al risarcimento dei danni conseguenti al
reato, interesse che non sempre è soddisfatto all’esito della definizione del processo penale, sia nel caso
di definizione con decreto penale di condanna che in caso di definizione con «patteggiamento» ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. In entrambi i casi, infatti, è esclusa dal legislatore qualsiasi delibazione da parte del
giudice penale in ordine alla pretesa risarcitoria della parte offesa, che dovrà essere fatta successivamente valere in sede civile. Sarebbe, quindi, irragionevole la diversità di disciplina per quanto riguarda
la facoltà del querelante di opporsi alla scelta del rito con cui definire il procedimento penale prevista
solo per il decreto penale di condanna.
La norma sembrerebbe non trovare alcun ragionevole fondamento, oltre a prestarsi ad una illegittima forzatura della funzione del processo che da strumento di accertamento dei fatti diventerebbe per sé
stesso una sanzione nei confronti dell’autore del reato.
Inoltre, sottolinea il rimettente, l’esercizio della facoltà di opposizione da parte del querelante comporta necessariamente il ricorso ad altro rito con una inevitabile ed ingiustificata dilatazione dei tempi
di definizione del processo in palese violazione del principio della ragionevole durata del processo di
cui all’art. 111 Cost.
Il parametro della ragionevolezza sarebbe poi violato dalla norma censurata anche con riferimento
al fatto che sebbene la facoltà di opposizione alla definizione con rito monitorio sia prevista solo in caso
di reati procedibili a querela, una stessa facoltà di opposizione in capo al querelante non è prevista con
riferimento alle ipotesi di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.
In conclusione, il legislatore del 1999 nell’estendere l’applicabilità del procedimento per decreto ai reati
perseguibili a querela avrebbe valorizzato a tal punto questo concetto da sconfinare in una illegittima (e unica in tutto l’ordinamento processuale), limitazione del potere costituzionale di scelta della modalità di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico mistero, dimenticando che la perseguibilità a querela è solo
una condizione di procedibilità per taluni fatti già previsti come reato dall’ordinamento, che è rimessa alla
sussistenza di un particolare interesse della persona offesa. Ma una volta espressa, da parte di quest’ultima,
la volontà di procedere mediante la querela, il processo è sottoposto a tutte le prerogative costituzionali inerenti l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ed alle garanzie di cui all’art. 111 Cost.,
prerogative e garanzie che appaiono violate dalla disciplina impugnata.
2. Si è costituita l’Avvocatura generale dello Stato chiedendo il rigetto della questione di costituzionalità.
Secondo la difesa statale l’art. 459, comma 1, prima parte, c.p.p. non presenta alcun profilo di irragionevolezza, ove si consideri l’interesse della persona offesa da un reato procedibile a querela ad assicurarsi, qualora si opponga alla definizione del procedimento mediante l’emissione di un decreto penale di condanna, la possibilità di costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni ex delicto.
Del resto la persona offesa, prima della formulazione da parte del pubblico ministero dell’emissione di
un decreto penale di condanna, non potrebbe costituirsi parte civile, ex art. 79 c.p.p., non essendo stata
ancora esercitata l’azione penale, né potrebbe costituirsi successivamente a tale richiesta, giacché ad essa, rimasta ignota al danneggiato, farebbe seguito la pronuncia del decreto penale di condanna.
La norma in questione non sarebbe censurabile neanche per disparità di trattamento con riferimento ai
reati perseguibili d’ufficio, essendo evidente la loro non omogeneità con i reati procedibili a querela, in relazione ai quali l’ordinamento giuridico riconosce alla persona offesa un potere di impulso processuale.
Né sarebbe utilmente invocabile il principio dell’obbligatorietà dell'azione penale, sancito dall’art.
112 Cost., giacché la norma in questione, lungi dal paralizzare l’esercizio dell’azione penale, inciderebbe solo sulle modalità di siffatto esercizio, precludendo al pubblico ministero di optare per un rito alternativo lesivo degli interessi della persona offesa dal reato.
Non sarebbe pertinente nemmeno il richiamo al principio della ragionevole durata del processo,
enunciato dall’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost., giacché non sarebbe irragionevole la dilatazione dei tempi processuali determinata dalla norma in questione, che risulta preordinata a salvaguardare l’interesse della persona offesa alla soddisfazione della sua pretesa risarcitoria, altrimenti destinata ad essere inappagata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avezzano ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, c.p.p. (come sostituito dall’art. 37, comma 1, l. 16 dicembre 1999, n. 479 – Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizioAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL QUERELANTE NON PUÒ PIÙ OPPORSI AL DECRETO PENALE DI CONDANNA
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ne monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al
giudice di pace e di esercizio della professione forense), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna.
Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 112 Cost., in quanto la possibilità di condizionare la scelta della modalità di esercizio dell’azione penale riconosciuta al querelante si porrebbe
in palese contrasto con il principio della sua obbligatorietà, che non prevede deroghe né con riferimento
al suo effettivo esercizio né con riferimento alla relativa modalità di svolgimento da parte del pubblico
ministero.
Risulterebbe violato anche l’art. 111 Cost., in quanto la facoltà del querelante di opporsi alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna, comportando necessariamente il ricorso ad
altro rito, determinerebbe una inevitabile ed ingiustificata dilatazione dei tempi di definizione del processo in palese violazione del principio della ragionevole durata.
Infine, con riferimento alla violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il rimettente ritiene che la facoltà di opporsi alla definizione del procedimento con il decreto penale di condanna non trovi alcuna giustificazione ragionevole nella tutela di un interesse del querelante, così come
non trovi alcuna giustificazione la diversità di disciplina rispetto alla definizione del procedimento mediante richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. che non prevede un’analoga facoltà di opposizione in capo al querelante.
2. La questione è fondata con riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.
2.1. Giova premettere che il procedimento per decreto è un rito premiale che risponde ad evidenti
esigenze deflattive. Nella relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, supplemento ordinario n. 93), il procedimento per decreto è
definito uno «strumento privilegiato di definizione anticipata del procedimento», tale da consentire «il
maggior risparmio di risorse e la maggior semplificazione».
Com’è noto, con il decreto penale di condanna il giudice per le indagini preliminari applica
all’imputato, su richiesta del pubblico ministero, una pena pecuniaria ridotta fino alla metà, senza la
necessità di alcuna attivazione preventiva del contraddittorio.
L’imputato può presentare opposizione, nei 15 giorni successivi alla notifica del decreto, determinando l’instaurazione di un processo mediante il rito immediato o mediante altro rito speciale quale il
patteggiamento o il giudizio abbreviato.
I benefici premiali consistono, in primo luogo, nella possibilità di una riduzione della pena fino alla
metà del minimo edittale e, in secondo luogo, nella esclusione della condanna alle pene accessorie così
come della condanna al pagamento delle spese del procedimento. Inoltre il decreto penale di condanna,
anche se divenuto esecutivo, non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, e il reato
si estingue se, nei cinque anni successivi per i delitti e nei due anni successivi per le contravvenzioni,
l’imputato non commette altri reati della stessa indole. In tal caso si estingue ogni effetto penale e la
condanna non è di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena.
Nella versione originaria, prima della modifica avvenuta nel 1999, il procedimento per decreto era
riservato ai soli reati perseguibili d’ufficio. Questa limitazione, come si legge nella relazione al progetto
preliminare al nuovo codice di procedura penale, trovava la sua giustificazione nella maggiore complessità degli accertamenti richiesti per i reati a procedibilità condizionata, che non si addiceva alle caratteristiche di snellezza e celerità proprie del rito monitorio. L’art. 37, comma 1, l. n. 479 del 1999, ha
profondamente innovato la disciplina del procedimento per decreto, estendendo il rito anche ai reati
perseguibili a querela, «se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa
dichiarato di opporvisi».
2.2. La norma, sin dal suo ingresso nell’ordinamento, è stata oggetto di forti critiche per i suoi tratti
di assoluta eccentricità.
Il legislatore, infatti, nel disciplinare istituti per certi versi simili, quali l’opposizione all’archiviazione ex art. 409 c.p.p. e l’opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del
fatto ex art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice
di pace, a norma dell’art. 14, l. 24 novembre 1999, n. 468), ha riconosciuto tale facoltà alla persona offesa
e non al querelante.
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Inoltre, nei casi sopra descritti, dell’opposizione all’archiviazione e dell’opposizione alla sentenza di
non doversi procedere per tenuità del fatto, l’opposizione del querelante e, più in generale, della persona offesa si rivolge nei confronti di una pronuncia del giudice (di archiviazione o di non doversi procedere) che certamente non è satisfattiva dell’interesse dell’opponente. Diversamente, invece, con l’emissione del decreto penale di condanna il querelante vede soddisfatta la sua «volontà» di punizione dell’imputato.
2.3. La norma censurata non trova una valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante.
La persona offesa, nel processo penale, è portatrice di un duplice interesse: quello al risarcimento del
danno che si esercita mediante la costituzione di parte civile, e quello all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, che si esercita mediante un’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero.
A tal proposito deve essere ribadito il rilievo, già altre volte sottolineato da questa Corte, secondo il
quale l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all’interesse del soggetto danneggiato, nell’ambito del processo penale, di
avvalersi del processo medesimo ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica.
In tal senso, proprio con riferimento al decreto penale di condanna, questa Corte, prima della riforma del 1999, ha ritenuto infondata la richiesta di una pronuncia volta a escludere l’ammissibilità del ricorso al procedimento speciale disciplinato dal Titolo V del Libro VI c.p.p., nel caso la persona offesa
dal reato avesse manifestato in modo esplicito, anteriormente all’esercizio dell’azione penale,
l’intenzione di costituirsi parte civile (ordinanza n. 124 del 1999).
Con la citata pronuncia questa Corte ha ancora una volta ribadito che «l’eventuale impossibilità per
il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare
l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, traendone la conclusione che ogni "separazione
dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata come una menomazione o
una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale", essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale (sentenze n. 443
del 1990, n. 171 del 1982 e n. 166 del 1975)».
In tale occasione si è anche rilevato che «risulterebbe improprio un sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo, sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste la qualità di parte» (ordinanza n. 124 del 1999).
Ciò detto, deve anche osservarsi che la possibilità di esercitare l’azione civile nel processo penale da
parte del querelante mediante l’opposizione alla definizione del procedimento con il decreto penale di
condanna è del tutto incoerente con la mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione nella
disciplina del “patteggiamento”. In tal caso, infatti, qualora il condannato avanzi richiesta di applicazione della pena e ottenga il consenso del pubblico ministero, al querelante, anche se costituito parte civile, non resta alcun potere di interdizione del rito dovendo trovare esclusivamente nella sede civile il
luogo della tutela del proprio interesse al risarcimento del danno. Ne consegue che la diversità di disciplina tra il procedimento per decreto e quello relativo all’applicazione della pena su richiesta delle parti
non trova una ragionevole giustificazione nell’interesse alla costituzione di parte civile della persona
offesa/querelante.
A tal proposito non rileva il fatto che i due riti alternativi non siano completamente assimilabili, sia
perché ciò è ininfluente in relazione al canone di razionalità della norma, sia perché «Il principio di cui
all’art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell’identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale
secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe» (sentenza n. 1009 del 1988), come appunto nel caso in esame. Si consideri, poi, che
l’attuale disciplina non esclude che, a seguito dell’opposizione del querelante, che è ostativa alla definizione mediante decreto penale di condanna, il procedimento sfoci proprio nel rito di cui all’art. 444
c.p.p., con la conseguenza che viene egualmente negata la possibilità di trovare nel processo penale la
sede per far valere le pretese civilistiche.
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2.4. La possibilità per il querelante di opporsi alla definizione del procedimento con decreto non trova adeguata giustificazione neanche in relazione all’interesse della persona offesa all’accertamento della responsabilità dell’autore del reato, interesse che si realizza mediante l’attività di supporto e di controllo rispetto all’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero.
La persona offesa, infatti, ai sensi dell’art. 90 c.p.p. può partecipare al procedimento penale, anche a
prescindere dalla costituzione di parte civile e, in particolare, può, in ogni stato e grado del procedimento, presentare memorie e indicare elementi di prova, con esclusione del giudizio di cassazione.
Si tratta di un interesse da cui deriva la possibilità di esercizio di plurimi diritti o facoltà, in «una sfera di azione che tende a realizzare, mediante forme di “adesione” all’attività del pubblico ministero ovvero di “controllo” su di essa, una sorta di contributo all’esercizio dell’azione penale» (sentenza n. 353
del 1991).
Sotto il profilo dell’attività di supporto dell’azione del pubblico ministero deve ricordarsi che, perché questi possa chiedere l’emissione del decreto penale di condanna, è necessario che gli elementi raccolti nell’indagine preliminare risultino idonei non solo a sostenere un’accusa in giudizio ex art. 125
disp. att., c.p.p., ma a provare con certezza la responsabilità dell’imputato. Inoltre, nella fase delle indagini, il querelante è, ovviamente, titolare di tutti i poteri della persona offesa e può fornire tutto il supporto che ritenga necessario all’azione del pubblico ministero (mediante l’indicazione di fonti di prova).
Quanto al controllo sull’esercizio dell’azione penale, deve evidenziarsi che la richiesta di decreto penale di condanna è una modalità di esercizio dell’azione penale e che, qualora la stessa venga accolta, il
procedimento si conclude con l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato (querelato) con
piena soddisfazione del corrispondente interesse del querelante.
Risulta evidente, pertanto, la differenza dai casi in cui il potere di opposizione riconosciuto alla persona offesa è diretto: a) a sollecitare l’esercizio dell’azione penale (opposizione all’archiviazione ex art.
409 c.p.p.); b) ad impedire la definizione del giudizio con una pronuncia di improcedibilità per la tenuità del fatto (art. 34, d.lgs. n. 274 del 2000).
Nel caso del decreto penale di condanna, infatti, la rappresentazione dei fatti esposta in querela ha
trovato riscontro nell’attività d’indagine del pubblico ministero e il querelante ha visto accolta la sua
richiesta di punizione del querelato.
In conclusione il querelante, quale persona offesa dal reato, non ha alcun interesse meritevole di tutela che giustifichi la facoltà di opporsi a che si proceda con il rito semplificato, fermo restando che qualora l’imputato proponga opposizione, questi è rimesso nei pieni poteri della persona offesa (o della
parte civile) per le successive fasi del giudizio.
2.5. Si è ipotizzato che il querelante, in quanto tale, abbia un interesse specifico e distinto da quello
della persona offesa dal reato a che il procedimento non si concluda con il decreto penale di condanna,
interesse identificato nella possibilità di rimettere la querela.
Anche sotto questo aspetto tale interesse non è idoneo a fornire una ratio adeguata alla norma censurata che rimane intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà
di opposizione alla definizione del processo mediante l’applicazione della pena su richiesta delle parti e
che reca una rilevante menomazione al principio della ragionevole durata del processo.
La facoltà di opposizione del querelante, infatti, determina un ingiustificato allungamento dei tempi
del processo e, soprattutto, ostacola la realizzazione dell’effetto deflattivo legato ai riti speciali di tipo
premiale che, nelle intenzioni del legislatore, assume una particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo “accusatorio” adottato con la riforma del codice di procedura penale.
È bensì vero che la giurisprudenza della Corte ha affermato più volte che il principio della ragionevole
durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, il cui sacrificio
non è sindacabile, ove frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (ex plurimis sentenza n.
159 del 2014, ordinanze n. 32 e n. 318 del 2008), ma in questo caso è proprio assente la suddetta “ratio”.
Secondo questa Corte al principio della ragionevole durata del processo enunciato al secondo comma dell’art. 111 Cost. «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una
dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza (sentenza n. 148 del 2005)»
(sentenze n. 63 e n. 56 del 2009).
La norma in esame, in definitiva, cagiona una lesione del principio della ragionevole durata del processo, senza che la stessa sia giustificata dalle esigenze di tutela del querelante o della persona offesa, le
quali, in virtù di quanto sopra rilevato, devono ritenersi congruamente garantite.
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2.7. La censurata facoltà si pone, quindi, in violazione del canone di ragionevolezza e del principio
di ragionevole durata del processo, costituendo un bilanciamento degli interessi in gioco non giustificabile neppure alla luce dell’ampia discrezionalità che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto al legislatore nella conformazione degli istituti processuali (ex multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216
del 2013; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013).
Lo scrutinio di ragionevolezza, in questi ambiti, impone, infatti, alla Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con
il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze
obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). A questo scopo può essere utilizzato il
test di proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella
meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di
detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014).
In applicazione di tali principi, conclusivamente, deve osservarsi che, una volta ampliato il campo
dei reati per i quali è possibile definire il procedimento con il decreto penale di condanna comprendendovi anche i reati procedibili a querela (con il dichiarato scopo di favorire sempre più il ricorso ai riti
alternativi di tipo premiale per assicurare la deflazione del carico penale necessaria per l’effettivo funzionamento del rito accusatorio), l’attribuzione di una mera facoltà al querelante, consistente nell’opposizione alla definizione del procedimento mediante il decreto penale di condanna, introduce un evidente elemento di irrazionalità. Ciò in quanto: a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante
rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d’ufficio; b) non corrisponde ad
alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all’esigenza di
rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie
dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una
analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l’applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l’esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo.
2.8. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve affermarsi che l’art. 459, comma 1, c.p.p. nella
parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione di decreto penale di condanna, viola gli artt. 3 e 111 Cost.
Resta assorbita la censura relativa alla violazione dell’art. 112 Cost.
[Omissis]
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STEFANO RUGGERI
Professore associato di Procedura penale italiana ed europea – Università di Messina
Procedimento per decreto penale e
opposizione preventiva del querelante.
Linee-guida per un modello partecipativo
di giustizia penale monitoria
Penal order and preventative opposition of the complainant
Guide-lines for a participatory model of penal order proceedings
Con la recente sentenza n. 23 del 2015 la Corte costituzionale dichiara incostituzionale l’opposizione preventiva al
rito monitorio, promossa dal querelante nei procedimenti per reati perseguibili a querela. La decisione consente
una messa a fuoco dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, una giurisprudenza che abbandona oggi la
tradizionale ricostruzione del rito, concepito quale procedimento a contraddittorio eventuale e differito, alla ricerca
di una nuova legittimazione della tutela monitoria. Questo scritto si allontana dall’argomentazione della Corte che,
esaltando l’accelerazione procedimentale prodotta dal procedimento per decreto, lascia intravedere i chiari segni
di un modello lontano dall’equilibrio tra valori confliggenti verso cui da anni si muove specie la giurisprudenza europea. Nell’evidenziare la necessità di una ricostruzione del rito in esame orientata ai diritti della persona, la presente analisi mira inoltre a mettere a punto alcune linee-guida per la definizione di un modello partecipativo di giustizia penale monitoria.
In its recent judgment No. 23 of 2015, the Italian Constitutional Court has declared the regulation on penal order
procedures unconstitutional, in that it enabled the complainant to a preventative opposition to a penal order in
case of criminal proceedings for offences that can only be prosecuted after a lawsuit by the victim. This ruling reveals a significant development in the constitutional case-law, which has shifted from the traditional understanding of penal order procedures, characterised by a subsequent involvement of the defence, towards a new constitutional justification. The present discussion departs from the reasoning of the Constitutional Court which, while
exasperating the need for a speedy criminal justice, highlights a view of criminal proceedings that steps away
from the balances among conflicting interests towards which especially the European Court has moved for several years. This paper stresses the need for a human rights-oriented reflection, while elaborating some guide-lines
for the establishment of a truly participatory model of penal order procedures.
PREMESSA
Con la sentenza n. 23 del 2015 la Corte costituzionale ha deciso sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 459 c.p.p., sollevata dal Tribunale ordinario di Avezzano con riguardo all’opposizione
preventiva al rito monitorio, promossa dal querelante nei procedimenti per reati perseguibili a querela.
La questione sorse in séguito all’iniziativa del pubblico ministero che, nel formulare richiesta di decreto
penale nonostante l’opposizione del querelante, investì l’autorità giurisdizionale della legittimità della
disciplina codicistica rispetto a due parametri costituzionali. In primo luogo, rispetto al principio di ragionevolezza, nella misura in cui l’opposizione preventiva del querelante, così come strutturata dalla l.
n. 479 del 1999, non soddisferebbe alcun interesse giuridicamente apprezzabile. In secondo luogo, rispetto al principio di ragionevole durata del processo, sacrificato a giudizio dell’organo requirente dalla
necessità per il pubblico ministero di optare per il rito ordinario in conseguenza dell’iniziativa della
persona offesa. Nell’investire il giudice delle leggi, il Tribunale di Avezzano aggiunse a tali censure una
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terza, concernente il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che non tollererebbe alcuna interferenza sulle modalità di adizione della giurisdizione da parte del pubblico ministero. La Corte costituzionale accoglie tuttavia la questione rispetto alle più ristrette censure proposte dal pubblico ministero,
argomentando sulla violazione sia del canone della ragionevolezza per carenza di scopo legittimo della
soluzione legislativa sia del principio di durata ragionevole del procedimento.
La decisione si lascia apprezzare, più che per le conclusioni cui perviene, perché consente una messa
a fuoco dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul procedimento monitorio, una giurisprudenza che sin dai suoi esordi 1 ha segnato la ricostruzione dominante di questo rito, determinandone la sopravvivenza nonostante radicali censure mosse dalla dottrina 2 e accompagnandone il passaggio all’attuale codificazione 3. Nell’abbandonare significativamente la tradizionale ricostruzione del
rito, il giudice delle leggi sembra tuttavia orientarsi verso una fragile legittimazione del procedimento
monitorio, un procedimento la cui compatibilità coi canoni del fair trial deve essere oggi definita alla luce sia della Costituzione che della Convenzione europea. Il presente scritto si allontana dall’argomentazione della Corte che, esaltando l’accelerazione procedimentale prodotta dal procedimento per decreto, lascia intravedere i chiari segni di un modello lontano dall’equilibrio tra valori confliggenti verso cui
da anni si muove specie la giurisprudenza europea. Nell’evidenziare la necessità di una ricostruzione
del rito in esame orientata ai diritti della persona, l’analisi che segue mira a mettere a punto alcune linee-guida per la definizione di un modello partecipativo di giustizia penale monitoria.
UNA LACUNA SIGNIFICATIVA E LA RICERCA DI UNA GIUSTIFICAZIONE COSTITUZIONALE DELLA TUTELA
MONITORIA PENALE
Un profilo balza immediatamente all’occhio nell’argomentazione della Corte costituzionale ed è, come
si diceva, un dato mancante. Nel complesso ragionamento del giudice delle leggi non si ritrova alcun
accenno all’usuale configurazione della tutela monitoria penale in termini di procedimento a contraddittorio differito ed eventuale, configurazione con cui la Corte ha esordito per decenni pressoché ogni
decisione su questo rito e in nome della quale è stata giustificata la sua complessiva legittimità costituzionale all’indomani della riforma costituzionale del 1999 4. Né appare determinante il fatto che il giudice delle leggi, nel definire le caratteristiche del rito, menzioni la non necessità di “attivazione preventiva del contraddittorio” 5. Tale circostanza non impronta in sé il procedimento alla logica del contraddittorio successivo, in quanto non rende la scelta oppositiva necessariamente espressiva del dissenso
dell’imputato rispetto all’assetto decisorio raggiunto col decreto penale. Il che porta a interrogarsi su
che basi la Corte sorregga oggi la giustificazione costituzionale del rito, questione ben più consistente e
anzi preliminare rispetto a quella della legittimità dell’opposizione al procedimento.
Per rispondere a quest’interrogativo occorre riandare alle implicazioni ultime della teorica tradizionale, tra le quali forse la più determinante è stata la svalutazione della portata decisoria del decreto penale, degradato a decisione preliminare e, in quanto tale, solo provvisoriamente risolutiva della colpevolezza dell’imputato poiché destinata a essere “posta nel nulla” a seguito della proposizione dell’opposizione. Tale conclusione, costantemente invocata dalla giurisprudenza sia costituzionale 6 che di legittimità 7, è stata recentemente rimessa in discussione dalla Corte costituzionale 8, senza che da ciò sia
tuttavia derivato un ripensamento della valenza del decreto penale e dell’accertamento in esso contenu1
C. Cost., sent. 18 marzo 1957 n. 46, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
2
G. Tranchina, Il procedimento per decreto penale e l’art. 24 della Costituzione, in Riv. dir. proc., 1961, pp. 516 ss.
3
C. Cost., sent. 15 luglio 1991 n. 344, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
4
Tra le altre, C. Cost., ord. 15 gennaio 2003 n. 8, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html. Analogamente, gran parte della
letteratura processualistica: per tutti v. E. Marzaduri, sub art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, in Legislazione pen., 2000, p. 767 s.; G.
Giostra, Contraddittorio (principio del): II) diritto processuale penale, in Enc. giur., VIII, Roma, 2001, 8. Personalmente, non ho mai ritenuto persuasiva tale giustificazione specie alla luce del modello forgiato dalla riforma costituzionale del 1999. Cfr., volendo, S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale. Dalla logica dell’accertamento sommario alla dinamica del giudizio, Torino, 2008, pp. 133 ss., 160 ss.
5
Considerato in diritto, § 2.1.
6
C. Cost., ord. 28 luglio 2004 n. 292, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
7
Cass., sez. III, 9 maggio 1997, S., in Cass. pen., 1998, p. 3366.
8
C. Cost., ord. 24 luglio 2007, n. 323, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
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to 9. La sentenza in commento, spingendosi oltre, non esita a valorizzare l’accertamento monitorio, richiedendo che l’azione del pubblico ministero vòlta a ottenere l’emanazione di un decreto penale sia
giustificata dall’acquisizione di elementi idonei non già a sostenere l’accusa in giudizio bensì a “provare con certezza la responsabilità dell’imputato” 10. Con questa formula la Corte smentisce, sia pur indirettamente, il tradizionale approccio al procedimento per decreto, allontanandosi drasticamente da
quell’impostazione dell’accertamento monitorio in termini di mera verosimiglianza della colpevolezza 11 che sotto la vigenza del codice del 1930 aveva fornito forse il più consistente argomento a favore
della sua intrinseca provvisorietà. In questa prospettiva la scomparsa di ogni riferimento alla classica
configurazione del rito appare il risultato inevitabile dell’adozione di una così forte caratterizzazione
dell’azione penale e dell’accertamento di responsabilità penale condotti in forma monitoria.
In definitiva, la sentenza in commento sembra iscriversi all’interno di un processo evolutivo in atto
della giurisprudenza costituzionale, un processo ancora tuttavia in fase di assestamento e alla ricerca di
una legittimazione plausibile per un rito ancora lontano dal modello di fair trial verso cui sempre più
convergono esperienze giurisprudenziali nazionali e internazionali. La Corte non fornisce una chiara
alternativa alla teorica del contraddittorio eventuale e differito, ma dalla sua iniziale e apparentemente
asettica descrizione del rito sembra emergere la focalizzazione di una giustificazione costituzionale del
rito sul piano della ragionevole durata del processo che, intesa in termini di massima deflazione e concentrazione procedimentale, anticipa e a sua volta sorregge la prima censura d’incostituzionalità.
IRRAGIONEVOLEZZA DELL’OPPOSIZIONE PREVENTIVA DEL QUERELANTE PER CARENZA DI SCOPO LEGITTIMO
Su questa base argomentativa, la Corte individua la prima causa d’incostituzionalità della disciplina
impugnata nell’irragionevolezza dell’opposizione preventiva del querelante. Accogliendo in buona
parte l’impostazione dell’ordinanza di rimessione, la Corte sviluppa un’argomentazione dalla quale
emerge un doppio profilo d’irragionevolezza. In primo luogo, un’irragionevolezza intrinseca, per carenza di giustificazione della norma censurata rispetto alla posizione e agli interessi di cui il querelante
è portatore nel procedimento penale. In secondo luogo, un’irragionevolezza estrinseca, perché l’opposizione preventiva del querelante attribuirebbe al privato un potere in grado di restringere ingiustificatamente il ventaglio delle possibili modalità di esercizio dell’azione penale: un potere del tutto inedito e
non riconosciuto in altri riti, pur caratterizzati da altrettanta contrazione procedimentale.
Sennonché la Corte, dopo avere programmaticamente asserito la carenza di valide giustificazioni
della disciplina impugnata, argomenta, sulla falsariga delle cadenze dell’ordinanza di rimessione, la
sussistenza di un duplice interesse di cui la persona offesa è portatrice nel processo penale: interesse al
risarcimento del danno e all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato 12, e, si dovrebbe
anzi forse dire, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato e (di regola, conseguentemente) al risarcimento del danno. Interessi legittimi, quindi, in quanto riconosciuti all’offeso dalla legge
processuale, ma rispetto ai quali l’opposizione preventiva del querelante costituirebbe uno strumento
inadeguato. Il discorso si allontana comunque subito dall’opposizione del querelante, spostandosi l’attenzione della Corte sugli interessi partecipativi dell’offeso nel processo penale. L’interesse all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato troverebbe “piena soddisfazione” nella richiesta del
pubblico ministero che, in quanto forma di esercizio dell’azione penale, convergerebbe verso la “richiesta di punizione del querelato” 13. L’interesse risarcitorio costituirebbe invece una mera aspettativa dell’offeso in un sistema ispirato alla tendenziale separazione tra i procedimenti civile e penale, un’aspettativa destinata tuttavia a essere frustrata nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti
e quindi persino con l’instaurazione del rito monitorio, laddove con l’opposizione a decreto penale
9
Per maggiori approfondimenti della questione cfr., volendo, S. Ruggeri, L’ord. 24 luglio 2007, n. 323 della Corte costituzionale.
Un cauto ovverruling nel segno della tradizione, in Cass. pen., 2009, p. 156 ss.
10
Considerato in diritto, § 2.4.
11
D. Siracusano, I provvedimenti penali e le motivazioni implicite per relationem e sommarie, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, p. 380;
E. Marzaduri, L’applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell’imputato, Milano, 1985, p. 155 s.
12
Ibid., § 2.3.
13
Ibid., § 2.4.
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l’imputato chiedesse l’applicazione di una pena patteggiata 14. Insomma, il ragionamento svolto dalla
Corte denota una ben diversa concezione dell’iniziativa monitoria del pubblico ministero rispetto alla
posizione dell’offeso, iniziativa che, se per un verso soddisferebbe pienamente l’interesse dell’offeso a
vedere condannato il reo, per un altro frustrerebbe un interesse privo di reale o incondizionata consistenza.
L’impostazione seguita non appare persuasiva sotto nessuno dei due profili, la combinazione dei
quali fa trapelare un pericoloso modello di concepire l’amministrazione della giustizia penale. Così, con
riguardo all’interesse all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, si può anzitutto dubitare che la decisione monitoria, che può essere revocata sol che s’instauri il giudizio oppositivo e anzi
quale che sia la forma che assuma l’opposizione a decreto, soddisfi appieno l’interesse dell’offeso all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato. Ma quel che più appare discutibile è che la querela esprima una “volontà di punizione dell’imputato” 15, laddove essa solo condiziona la procedibilità e,
più precisamente, la possibilità di una pronuncia di merito sull’imputazione 16, così come l’opposizione
alla richiesta di archiviazione esprime solo il dissenso rispetto a una pronuncia che non soddisfa
l’interesse della persona offesa al processo, non alla punizione del reo. Il richiamo alla volontà di pena
del reo sembra porsi in linea di continuità con l’impostazione della sent. n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che significativamente evocò la categoria processual-civilistica della soccombenza riferita alla
pretesa punitiva del pubblico ministero, impostazione che rivela una concezione erronea e fortemente
autoritaria dell’accertamento penale 17.
Quanto all’interesse risarcitorio, il discorso della Corte appare fortemente contraddittorio. I giudici costituzionali richiamano la propria giurisprudenza anteriore alla riforma del 1999, secondo cui l’ordinamento non potrebbe farsi carico della “determinazione meramente potestativa” 18 della persona offesa,
che parte non è 19. La formula non è del tutto chiara ma lascia intendere che la volontà indeterminata di chi
ha ancora non ha portato i propri interessi in giudizio, costituendosi come parte processuale, non può essere presa in considerazione. Sennonché ciò non sarebbe comunque determinante, dato che il legittimo interesse risarcitorio del danneggiato, anche una volta che questa si sia costituita parte civile, può essere travolto dalle scelte compiute da altre parti processuali. Qui s’innesta il profilo esterno dell’irragionevolezza della soluzione legislativa che, raffrontata con quella in tema in patteggiamento, mostrerebbe una discrasia
evidente. In effetti, nel rito patteggiato non solo l’offeso non è legittimato ad alcuna opposizione preventiva
ma l’accordo sulla pena, maturato tra i soggetti legittimati, non lascia inoltre alcuno spazio per la soddisfazione della pretesa risarcitoria o restitutoria del danneggiato dal reato. Il che equivale a dire che, se il sistema non dà voce a chi è parte, a fortiori non potrebbe farsi carico di chi parte ancora non è.
A ben guardare, il confronto col procedimento patteggiamento non dimostra l’inconsistenza
dell’interesse dell’offeso a vedere soddisfatto nel processo penale, una volta costituitosi parte civile, le
proprie richieste risarcitorie. Altrettanto significativo è l’esempio del giudizio abbreviato che, anche se
ispirato al modello della separazione dei procedimenti 20, dà voce al danneggiato del reato, consentendogli di ottenere una pronuncia sulla questione civile dal giudice penale, seppur alle condizioni di un
rito che come un out-out gli viene imposto dall’imputato. È estremamente pericoloso pensare a un modello di giustizia penale in cui le determinazioni di alcune parti possano travolgere le determinazioni di
altre, già legittimamente costituitesi, senza che sia loro fornita l’occasione di esprimersi sulle scelte procedimentali e difendere la propria “sopravvivenza” nel processo penale 21.
La questione della ragionevolezza dell’opposizione preventiva del querelante andrebbe quindi riformulata, una volta rideterminata l’effettiva portata degli interessi dell’offeso, interessi che solo possono essere postulati rispetto all’accertamento sul merito dell’imputazione e a una pronuncia sul merito
14
Ibid., § 2.3.
15
Considerato in diritto, § 2.2.
16
S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale, cit., pp. 210 ss.
17
Ulteriori considerazioni critiche possono leggersi in S. Ruggeri, Inappellabilità dei proscioglimenti e tutela del contraddittorio
nei giudizi a rischio di condanna (ripercorrendo Corte cost. sent. 6 febbraio 2007 n. 26), in Riv. it. dir. proc. pen., pp. 790 ss.
18
C. Cost., ord. 16 aprile 1999 n. 124, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
19
Considerato in diritto, § 2.3.
20
Art. 441, comma 4, c.p.p.
21
In tal senso, con riguardo al procedimento patteggiato, F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, 1987, p. 1042.
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della richiesta risarcitoria, laddove sussistano i requisiti perché sia avanzata nel processo penale. E rispetto a questo duplice interesse sarebbe probabilmente bastato argomentare l’irragionevolezza della
norma censurata per il fatto che essa attribuiva all’offeso un potere di opposizione non tanto preventivo
quanto aprioristico, privo delle benché minima direzione finalistica e non espressivo quindi dei legittimi interessi partecipativi del querelante 22.
RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCEDIMENTO E DIRITTO A PARTECIPARE AL PROCESSO PENALE
Altrettanto insidioso è il secondo motivo d’incostituzionalità. Una volta argomentata la carenza d’interesse legittimo dell’opposizione preventiva del querelante, i giudici costituzionali concludono in modo
del tutto assertivo che essa determina anche un “ingiustificato allungamento dei tempi processuali”,
frustrando così l’effetto deflattivo dei riti speciali e il modello accusatorio delineato dai codificatori del
1988 23. Si potrebbe obiettare che tra i riti speciali proprio il procedimento monitorio – in quanto erede
del Mandatsverfahren austriaco e dello Strafbefehlsverfahren tedesco 24, quindi di una tradizione culturale
ancora oggi fortemente impegnata dalla Inquisitionsmaxime e dalla ricerca della verità materiale – è
estremamente lontano dai sistemi adversarial 25 cui pure solo in parte s’ispirò la presente codificazione.
Ma quel che più stupisce è che la Corte si rifaccia al modello accusatorio, o accusatorio attenuato, perseguito nel 1988, laddove è da anni evidente una sempre più accentuata convergenza di sistemi d’ispirazione e tradizione diversa verso standard comuni di tutela dei diritti della persona, frutto dell’incidenza sempre più massiccia dell’international human rights law e, in Europa, della poderosa (seppur a
volte alquanto aggressiva) giurisprudenza della Corte di Strasburgo. E appunto rispetto a questi canoni
comuni di fair trial, piuttosto che rispetto al modello accusatorio che storicamente informò la codificazione nel 1988, va testata la legittimazione dei vari strumenti processuali.
D’altra parte, nel ragionamento della Corte l’irragionevole durata del procedimento non poggia sulla violazione dei canoni dell’accusatorietà ma sull’assenza di un legittimo interesse che giustifichi
l’allungamento dei tempi processuali 26. Se la ragionevole durata del procedimento ha fornito la base
giustificativa per affrontare il primo motivo d’incostituzionalità, le conclusioni attorno ad esso sviluppate sorreggono a loro volta il secondo motivo, congiungendo le due censure in un unico blocco assiologico. Tuttavia, il legame che la Corte instaura tra i due motivi d’incostituzionalità segna anche
l’inevitabile punto di debolezza dell’intera argomentazione. In effetti, la sentenza in commento lascia
chiaramente trapelare un modello che esalta l’accelerazione procedimentale prodotta dal procedimento
per decreto al punto da considerarla un valore bilanciabile con la partecipazione dialettica delle parti al
processo penale. Certo la ragionevole durata del procedimento non è il “maggior risparmio di risorse e
la maggior semplificazione” 27 ma è per definizione il risultato di un bilanciamento tra interessi confliggenti. Ciò tuttavia presuppone che il processo già soddisfi le condizioni delineate dal secondo comma
dell’art. 111 Cost. e, più in generale, tutti i requisiti qualitativi del modello di fair criminal process, risultante dalle prescrizioni costituzionali e convenzionali. È estremamente pericoloso che la ragionevole
durata sia intesa come massima celerità procedimentale, ma ancor più pericoloso è che in nome di
quest’esasperata rapidità procedimentale sia sacrificata la possibilità per soggetti privati di contribuire
dialetticamente al risultato del processo penale.
Del resto, la consistenza dell’interesse dell’offeso al processo penale è attestata dalla circostanza, riconosciuta dalla stessa Corte, 28 che l’opposizione a decreto penale fa riemergere tutti i poteri di cui ordinariamente gode il danneggiato dal reato, circostanza che al contempo inevitabilmente compromette
la possibilità di una rapida definizione del procedimento. Ma, ancora una volta, si tratta di una prospet-
22
S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale, cit., pp. 88 ss. nt. 25.
23
Considerato in diritto, § 2.5.
24
M. Romanelli, Il giudizio per decreto, in Ann. dir. proc. pen., 1934, pp. 2 ss.
25
Isolato è rimasto il tentativo di ricostruire una diretta discendenza dal procedimento inglese del plea guilty or not guilty.
Cfr. S. Longhi, Il decreto penale e le sue trasformazioni, in Scuola pos., 1911, pp. 337 ss.
26
Considerato in diritto, § 2.5.
27
Ibid., § 2.1.
28
Ibid., § 2.4.
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tiva sottoposta all’iniziativa di altre parti processuali e la sentenza conferma così la preferenza per un
modello nel quale le garanzie partecipative nel procedimento penale non hanno lo stesso peso per tutti
i soggetti coinvolti dall’azione criminosa. Un modello che riflette una visione frammentaria e ancora
prevalentemente dualistica dell’accertamento penale, lontana dall’attenzione che da decenni la Corte
europea sempre più riserva alla necessità di costantemente equilibrare le posizione di tutti i soggetti
coinvolti nella scena processuale, a cominciare dalla vittima e persino dai suoi familiari. Il modello partecipativo della giurisprudenza di Strasburgo esercita del resto un’influenza sempre più visibile
sull’evoluzione della normativa dell’Unione europea, la quale ha recentemente varato un provvedimento che espressamente sancisce, seppur nei limiti tracciati dalle legislazioni nazionali 29, il diritto della vittima ad essere ascoltata nel procedimento penale 30, ponendo così le premesse per il riconoscimento di un autentico diritto al processo della persona offesa dal reato 31.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. LINEE-GUIDA PER LA COSTRUZIONE DI UN MODELLO PARTECIPATIVO DI
GIUSTIZIA MONITORIA
Sebbene la perentorietà con cui la Corte ha sviluppato le proprie argomentazioni non sembri lasciare
spazio per la sopravvivenza di un’opposizione preventiva del querelante al decreto penale, comunque
essa venga strutturata, il legislatore italiano, chiamato a dare attuazione alla normativa UE, non può
non guardare in modo costruttivo al modello di processo penale che sempre più si delinea nella giurisprudenza di Strasburgo, senza considerare come un dato acquisito e incontestabile l’impianto tradizionale del rito monitorio. Necessario è soprattutto rifuggire alla tentazione di voler giustificare a tutti i
costi un procedimento che frustra in modo palese le più elementari garanzie partecipative dei soggetti
privati, sul presupposto, del tutto formalistico, che il contributo dialettico delle parti possa indifferentemente collocarsi prima o dopo la decisione sulla responsabilità penale dell’imputato. Questa concezione non svilisce solo il contraddittorio ma finisce a sua volta per compromettere l’esercizio della giurisdizione penale, allontanandola da quel modello di fairness procedimentale che è indissolubilmente
legato alla possibilità che le parti forniscano il proprio contributo probatorio e argomentativo prima e in
vista della decisione.
La ridefinizione del procedimento per decreto deve muovere dalla fase investigativa. Del resto, nella
sentenza in commento la Corte costituzionale riconosce che nelle indagini preliminari “il querelante è
[…] titolare di tutti i poteri della persona offesa e può fornire tutto il supporto che ritenga necessario
all’azione del pubblico ministero (mediante l’indicazione di fonti di prova)” 32. Sennonché non esistono
strumenti di aggiornamento costante della persona offesa circa gli sviluppi delle investigazioni degli
inquirenti e, ancor peggio, gli strumenti informativi esistenti rivelano una prospettiva indifferenziata,
che non tiene in dovuto conto la diversa posizione della persona offesa e dell’indagato, sul piano tanto
dell’interesse all’informazione quanto dei rischi che da una prematura informazione sui risultati dell’indagine pubblica possono discendere. Significativamente, una riforma delle garanzie informative capace
di calibrare i poteri processuali in considerazione della diversa posizione dei soggetti coinvolti nel procedimento penale non è discesa né dalla riforma legislativa del 2000, pur varata con lo specifico obiettivo di attuare la par condicio richiesta dal nuovo testo costituzionale, né soprattutto dalla recente attuazione della Direttiva 2012/13/UE ad opera del d.lgs. n. 101 del 2014. Per la verità, tale ultima novella
legislativa ha inserito una nuova prescrizione nell’art. 369 c.p.p. che impone al pubblico ministero
d’informare la persona offesa e l’indagato sul loro diritto a ottenere le informazioni consentite ex art.
335, comma 3, c.p.p. 33. Tuttavia, l’operatività di questa previsione è, per un verso, ancorata ai presupposti dell’informazione di garanzia e, per un altro, soggetta ai limiti dell’art. 335 c.p.p., presupposti e
limiti rimasti del tutto invariati.
29
S. Allegrezza, Victim’s statute within Directive 2012/29/UE, in L. Lupária (coord.), Victims and criminal justice. European
standards and national good practices, Wolters Kluwer, 2015, pp. 5 s.
30
Art. 10, Direttiva 2012/29/UE.
31
Di un diritto al processo in capo alla persona offesa certo non poteva ancora parlarsi nel decennio scorso. Cfr. M. Chiavario, Il “diritto al processo” delle vittime dei reati e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. proc., 2001, pp. 938 ss.
32
Considerato in diritto, § 2.4.
33
Art. 369, comma 1-bis, c.p.p.
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Ancor più sorprende che la novella del 2014 non abbia condotto a un ripensamento dell’art. 415-bis
c.p.p., norma di capitale importanza dal punto metodologico perché riconosce un ruolo proattivo alla
difesa nella determinazione dell’azione penale, che non può essere più considerata il frutto della decisione solipsistica del pubblico ministero sulla base dei soli elementi acquisiti nel corso delle indagini
preliminari, come ancora oggi sancisce l’art. 125 disp. att. c.p.p. In effetti, mentre è chiaro il presupposto
negativo dell’avviso di conclusione delle indagini, ossia la scelta di non intraprendere la strada archiviativa, risulta ancora indefinito in quali procedimenti l’informazione è richiesta. L’applicazione di
questo strumento ai riti speciali è perlopiù contestata da dottrina e giurisprudenza, seppur sulla base di
argomentazioni non del tutto coincidenti. Personalmente, ho già espresso in altra sede la mia opinione
quanto all’esclusione del procedimento per decreto, che considero aprioristica e il frutto di una visione
erronea delle indagini preliminari anteriori all’instaurazione del rito monitorio 34, indagini che, a ben
vedere, non appartengono né al procedimento monitorio né ad un rito in particolare, essendo vòlte ad
appurare se ricorrono i presupposti per avviare un processo penale e, in caso affermativo, per scegliere
con quale forma avviarlo 35. Aggiungerei qui che l’inapplicabilità dell’art. 415-bis c.p.p. al procedimento
per decreto non trova, a differenza di quanto accada ad es. per il giudizio immediato, alcuno strumento
di compensazione delle garanzie ivi previste, finendo così col sottrarre alla difesa un’importante occasione per conoscere e contrastare dialetticamente una forma di esercizio dell’azione penale che escluderà ogni forma di coinvolgimento del futuro imputato.
De lege ferenda, andrebbero senz’altro considerate le ricadute di quest’assetto sui diritti partecipativi
della persona. Una riforma che aprisse l’applicazione, pur con qualche adattamento, dell’art. 415-bis
c.p.p. ai procedimenti alternativi dovrebbe così anche consentire alla difesa un contributo dialettico mirato e calibrato sul tipo di azione verso la quale il pubblico ministero si proietta. Il che dovrebbe comportare la specificazione, tra le informazioni dovute, non solo genericamente del contenuto del futuro
addebito ma anche della forma di azione prescelta dal pubblico ministero 36. Né tale prospettiva può essere circoscritta, in un sistema processuale che miri a contemperare i difficili equilibri richiesti dai principi di fair trial, alla sola difesa dell’indagato. La recente legge sulla violenza di genere ha emendato
l’art. 415-bis c.p.p., richiedendo al pubblico ministero d’inviare l’avviso, nei procedimenti per maltrattamenti in famiglia e atti persecutori, anche alla persona offesa 37, garanzia che non può essere evidentemente frustrata dall’adozione di un rito differenziato. Se questa riforma prende in considerazione le
specifiche esigenze di tutela relative a tali fattispecie criminose, non sarebbe a mio avviso irragionevole
prevedere che, seppur per ragioni diverse, anche il querelante fosse preventivamente informato, magari
su sua richiesta, sull’avvio del processo e soprattutto sulla forma d’azione prescelta dal pubblico ministero.
D’altro canto, non si possono disconoscere i limiti di questo strumento processuale che, così com’è
oggi strutturato, non vincola minimamente il pubblico ministero al più gran numero delle iniziative
della difesa senza imporre alcun obbligo motivazione al rigetto delle richieste o delle informazioni probatorie da essa addotte. Né l’indagato può ostacolare la scelta di una determinata forma di esercizio
dell’esercizio dell’azione penale, né la persona offesa è chiamata in questa sede a operare alcuna scelta
quanto all’eventuale partecipazione al futuro processo penale.
Ciò porta a riflettere sulle caratteristiche strutturali del rito monitorio e sul mantenimento dell’attuale schema della decisione emessa senza udienza inaudito reo. Già all’indomani dell’entrata in vigore
del codice del 1988 la dottrina aveva invocato l’applicazione delle regole generali dell’art. 127 c.p.p. per
evitare che potesse essere emessa una pronuncia proscioglitiva senza udienza 38. Il disagio verso la disciplina sul procedimento per decreto riemerse dopo la riforma costituzionale del 1999 con riguardo alla possibilità che l’incompetenza del giudice potesse essere dichiarata “al di fuori di qualsiasi udienza e
34
S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale, cit., pp. 174 ss.
35
Già sotto la vigenza del codice del 1930 Giovanni Tranchina aveva osservato che “il procedimento per decreto comincia[…] ad
acquistare la sua particolare fisionomia solo con la emissione e la notificazione del decreto penale, sicché, inizialmente, la fase istruttoria che precede l’emanazione di tale atto si modella sugli schemi propri della istruzione dei procedimenti pretorili ordinari”. Cfr.
G. Tranchina, Ancora in tema di legittimità costituzionale del procedimento monitorio, in Temi gen., 1966, p. 445.
36
S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale, cit., pp. 176 s.
37
Art. 415-bis, comma 1, c.p.p., così come riformato dal decreto-legge n. 93 del 2014, convertito in l. n. 119 del 2014.
38
E. Marzaduri, sub art. 129 c.p.p., in M. Chiavario (coord. da), Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. II, Torino,
1990, p. 121.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROCEDIMENTO PER DECRETO PENALE E OPPOSIZIONE PREVENTIVA DEL QUERELANTE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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senza essere preceduta da una discussione tra le parti” 39. Ma ancor più preoccupante è che possa continuare a esistere nell’attuale modello interordinamentale di fair trial un’azione rivolta all’emanazione di
una condanna per una pena solitariamente predefinita dall’organo dell’accusa senza che ad altri soggetti processuali sia fornita alcuna possibilità di essere previamente ascoltati e portare i propri interessi
nella sfera processuale.
A mio giudizio, la risposta è e deve essere negativa. Da anni continuo a considerare improcrastinabile l’introduzione anche nel rito monitorio di un contesto d’udienza, quale del resto previsto per l’ipotesi
in cui la domanda di applicazione della pena su richiesta delle parti venga proposta durante le indagini
preliminari 40. Tornando adesso a ragionare sulla questione e rettificando il mio pensiero espresso in
precedenza 41, credo peraltro che a chi con l’azione del pubblico ministero assuma la veste formale
d’imputato debba essere piuttosto riconosciuta la possibilità non solo genericamente di essere ascoltato
prima della decisione ma anche di dissentire rispetto a una decisione sulla propria responsabilità penale emessa sulla base delle sole risultanze degli inquirenti. Non si può non permettere all’imputato di
esprimersi in modo vincolante su un’iniziativa accusatoria che non solo contiene già definita la proposta di pena ma, come si è osservato, frustra in maniera decisiva il suo diritto alla prova e alla possibilità
di contribuire anche in via argomentativa al risultato decisorio e alla determinazione dell’eventuale
sanzione. Ma a questo punto non sarebbe irragionevole prevedere un obbligo per il giudice di ascoltare
anche la persona offesa che avesse all’atto della querela espresso la richiesta di essere informata sull’avvio del processo penale e che ad essa sia consentito, proprio in considerazione della formalizzazione
dell’imputazione, di formulare le proprie richieste risarcitorie davanti alla giurisdizione penale.
Nel modello che qui problematicamente si prospetta, l’azione del pubblico ministero, sebbene già
proiettata verso un determinato esito decisorio, non potrebbe anche qui prescindere da una provocazione al contraddittorio, finalizzata a imporre una stasi al procedimento per consentire alla difesa di
operare le proprie scelte. In linea con la scelta dell’attuale sistema processuale nel segno della tendenziale separazione dei procedimenti civile e penale, si potrebbe peraltro pensare di assegnare un diverso
peso all’inerzia dei soggetti privati. A mio giudizio, un procedimento mirante a una condanna senza
udienza può solo realizzarsi previo l’assenso dell’imputato, non tanto a fronte del rilievo assegnato dalla Costituzione al consenso proprio di questa parte processuale, questione che attiene alla specifica
problematica del contraddittorio nella formazione della prova, quanto in considerazione dell’esigente
giurisprudenza della Corte europea, che consente deroghe al diritto al processo solo laddove esse siano
formulate in modo, se non necessariamente esplicito, comunque inequivoco 42. Diversamente, il silenzio
dell’offeso, danneggiato dal reato, non dovrebbe necessariamente ostacolare l’azione del pubblico ministero tesa al conseguimento di una condanna per una determinata pena. A questo soggetto processuale
andrebbe però riconosciuta la possibilità di costituirsi quale parte civile, precludendo al pubblico ministero di coltivare oltre un’azione che impedisce la sua partecipazione dialettica all’accertamento penale.
Del resto, non si tratta di una prospettiva inedita nella giustizia penale italiana. Già sotto il codice del
1930 la scelta del pretore di avviare indagini istruttorie prima di avviare una procedura monitoria sprigionava un intero fascio di situazioni giuridiche, che coinvolgevano non solo l’imputato, cui andava
contestato l’addebito, ma anche il danneggiato dal reato, il quale proprio nell’avvio dell’istruzione trovava la propria legittimazione a costituirsi parte civile 43. Né quest’opzione poteva venir travolta
dall’adozione del decreto penale 44. Considerarla “come non avvenuta” 45 – giustamente sottolineava la
dottrina dell’epoca – significherebbe dar luogo a un chiaro “diniego di pronuncia” 46, che è quanto un
processo che voglia autenticamente definirsi fair non può mai tollerare.
39
G. Piziali, Il procedimento per decreto, in M. Pisani (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, Milano, 2003, p. 458.
40
S. Ruggeri, Il procedimento per decreto penale, cit., p. 168.
41
Ibid., p. 169.
42
S. Trechsel, Human Rights in Criminal Proceedings, Oxford, 2005, p. 255 s.
43
G. Paolozzi, Il procedimento alternativo per decreto penale, Milano, 1988, p. 162 s.
44
In tal senso si esprimeva tuttavia parte della dottrina (per tutti cfr. N. Levi, La parte civile nel processo penale italiano, Padova,
1936, p. 534), che peraltro giungeva alla conclusione, abbastanza contraddittoria, che la costituzione di parte civile sarebbe tornata a spiegare effetti una volta instaurato il giudizio oppositivo. In tal senso G. Bellavista, Il procedimento penale monitorio, II ed.,
Milano, 1952, p. 120.
45
G. Bellavista, op. loc. cit.
46
F. Cordero, op. cit., p. 757.
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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Particolare tenuità del fatto e procedimenti pendenti
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 15 APRILE 2015, N. 15449 – PRES. MANNINO; REL. RAMACCI
La nuova causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis c.p. ha natura sostanziale e
deve quindi, in base all’art. 2, comma 4, c.p., essere applicata retroattivamente a tutti i procedimenti in corso; se
la questione sorge in sede di legittimità la Corte di Cassazione deve preventivamente valutare se sussistono i presupposti per l’applicazione dell’istituto ed in caso positivo deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito
per la relativa declaratoria.
[Omissis]
1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 30/5/2013 ha confermato la decisione con la quale, in data 16/5/2012, il Tribunale di quella città aveva riconosciuto M.C. responsabile del reato di cui al
d.lgs n. 74 del 2000, art. 11, perché, quale liquidatore della “CAR & COUNTRY s.a.s.”, al fine di evadere
le imposte dirette e sul valore aggiunto, per l’importo complessivo di Euro 466.953,95, costituiva fraudolentemente un trust con il fine di rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione
coattiva (reato commesso in (OMISSIS), data di costituzione del trust. Con la recidiva).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, ponendo
in evidenza la piena legittimità del trust liquidatorio e della conseguente segregazione dei beni, facendo
osservare che la coincidenza tra disponente e trustee sarebbe irrilevante, operando questi al fine di soddisfare i beneficiari.
Rileva, inoltre, come nessuna disposizione imponga al liquidatore le modalità di svolgimento della
liquidazione e che la scelta del trust, nel suo caso, sarebbe stata effettuata al fine di un più efficace conseguimento degli obiettivi propri della procedura liquidatoria, tanto che, come già evidenziato in una
memoria prodotta nel corso del giudizio, l’indicazione dei beneficiari del trust riguarda la massa dei
creditori della società in liquidazione, tra i quali figura anche l’Agenzia delle entrate.
Aggiunge che la sentenza impugnata non avrebbe indicato quali siano state le finalità illecite perseguite mediante la costituzione del trust e che la finalità liquidatoria del trust, che la Corte territoriale
avrebbe indicato come mai comunicata ai creditori sociali, sarebbe stata comunque conoscibile tramite
la Conservatoria dei Registri Immobiliari.
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che la pubblica accusa non avrebbe dimostrato la capienza di due immobili, facenti parte del patrimonio societario, a soddisfare le ragioni di credito dell’erario nonostante l’esistenza di iscrizioni ipotecarie in favore di una banca.
4. Con un terzo motivo di ricorso rileva i medesimi vizi laddove il provvedimento impugnato motiva il trattamento sanzionatorio in relazione all’entità dell’importo evaso, dato che non era stato oggetto
di cognizione del giudice dell’appello e rispetto al quale assumerebbe comunque rilevanza l’esito assolutorio di altro giudizio, concernente i “reati presupposto”.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
5. Con memoria depositata il 18/3/2015 fa inoltre presente di aver depositato nei termini, presso il
medesimo ufficio del Tribunale di Milano ove era stato presentato il ricorso per cassazione, motivi
nuovi che, però, quell’ufficio non ha mai inoltrato, come ha appreso nella precedente udienza del 29 ottobre 2014.
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Evidenziando l’ammissibilità del deposito con le modalità descritte, richiede comunque che sia ammessa la produzione dei documenti allegati ai motivi, che non ha potuto esibire nei precedenti gradi
del giudizio.
All’odierna udienza il difensore del ricorrente ha richiesto escludersi la punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p., introdotto dal d.lgs n. 28 del 2015 in quanto ius superveniens.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è infondato.
Il d.lgs. n. 74 del 2000, art. 11 sanziona, come è noto, chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di
imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette
imposte, per un ammontare complessivo superiore a 50.000,00 Euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura
di riscossione coattiva.
La giurisprudenza di questa Corte ha, nel tempo, chiarito che, ai fini della configurabilità del reato,
si richiede esclusivamente che l’atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui beni siano
idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del credito tributario, non essendo necessaria la
sussistenza di una procedura di riscossione in atto (Sez. 3, 9 aprile 2013, n. 39079, Barei e altro, Rv.
256376; Sez. 3, 6 marzo 2008, n. 14720, P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239970; Sez. 5, 10 gennaio 2007, n. 7916,
Cutillo, Rv. 236053), con la conseguenza che, sotto il profilo psicologico, deve sussistere il dolo specifico, rappresentato dal fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario e, sotto il profilo materiale, deve porsi in essere una condotta fraudolenta atta a vanificare l’esito dell’esecuzione tributaria
coattiva, la quale non configura un presupposto della condotta, in quanto è prevista dalla legge solo
come evenienza futura che la condotta, idonea, tende a neutralizzare (Sez. 3, 6 marzo 2008, n. 14720,
P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239970, cit.).
L’oggetto giuridico del reato in esame non è, pertanto, il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia
generica data dai beni dell’obbligato, cosicché esso può configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori (Sez. 3, 18
maggio 2011, n. 36290, Cualbu, Rv. 251077).
Si tratta, dunque, di un reato di pericolo, rispetto al quale la condotta penalmente rilevante può essere costituita da qualsiasi atto o fatto fraudolento intenzionalmente volto a ridurre la capacità patrimoniale del contribuente stesso, riduzione da ritenersi, con un giudizio ex ante, idonea sia dal punto di
vista quantitativo che qualitativo, a vanificare in tutto od in parte, o comunque rendere più difficile,
una eventuale procedura esecutiva (così Sez. 3, 9 aprile 2013, n. 39079, Barei e altro, Rv. 256376, cit.).
Si è ulteriormente rilevato, considerando il tenore del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 11, che esso contempla, oltre alla alienazione simulata, il generico richiamo ad altri atti la cui connotazione comune è data
dal loro carattere fraudolento, da intendersi come comportamento che, sebbene formalmente lecito –
come peraltro lo è l’alienazione di un bene – sia però caratterizzato da una componente di artificio o di
inganno (Sez. 3, 16 maggio 2012, n. 25677, Caneva e altro, Rv. 252996).
Si è conseguentemente ritenuto configurato il reato in esame in ipotesi di cessione simulata
dell’avviamento commerciale (Sez. 3, 16 maggio 2013, n. 37389, P.M. in proc. Ravera, Rv. 257589), cessione di immobili e quote sociali alla convivente da parte di un commercialista (Sez. 3, 9 aprile 2013, n.
39079, Barei e altro, Rv. 256376, cit.), pluralità di trasferimenti immobiliari (Sez. 3, 4 aprile 2013, n.
19524, Antonini, Rv. 255900), costituzione di un fondo patrimoniale ex art. 167 cod. civ. (Sez. 3, 4 aprile
2012, n. 40561, Soldera, Rv. 253400), messa in atto, da parte degli amministratori, di più operazioni di
cessioni di aziende e di scissioni societarie simulate finalizzate a conferire ai nuovi soggetti societari
immobili (Sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 19595, Vichi, Rv. 250471), vendita simulata mediante stipula di un
apparente contratto di “sale and lease back” (Sez. 3, 6/3/2008, n. 14720, P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239970,
cit.).
2. Considerati, dunque, i principi dianzi richiamati e venendo all’esame del primo motivo di ricorso,
deve rilevarsi che, nella fattispecie, la legittimità della costituzione del trust, argomento diffusamente
trattato in ricorso, non è stata minimamente posta in dubbio dai giudici del merito, i quali, invece, hanno posto in evidenza lo scopo fraudolento della costituzione medesima e la finalità unica di sottrarre il
patrimonio del contribuente alla procedura coattiva.
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Ricorda la sentenza impugnata, nel ricostruire la vicenda processuale, che la società, della quale
l’imputato è socio accomandatario e liquidatore, risultava debitrice verso l’erario della somma indicata
nell’imputazione, riguardante le annualità 2001/2005 e per le quali erano state nel tempo notificate diverse cartelle esattoriali, l’ultima delle quali il 18 aprile 2009, tanto che il successivo 3 settembre 2009
veniva effettuata una iscrizione ipotecaria sugli unici immobili della società per una somma pari ad Euro 1.151.828,52, comprensiva di sanzioni di mora.
L’ipoteca veniva successivamente cancellata quando, a seguito di ricorso alla Commissione Tributaria, l’imputato documentava l’alienazione degli immobili in data anteriore all’iscrizione ipotecaria, il
(OMISSIS), a soggetto terzo.
Era poi risultato che, attraverso l’istituzione di un trust, l’imputato, quale liquidatore della società,
aveva trasferito a se stesso, quale trustee, l’intero patrimonio attivo e passivo della società medesima,
con lo scopo evidente di sottrarre i suoi beni alla procedura di riscossione coattiva delle imposte.
3. Diversamente da quanto sostenuto in ricorso, il provvedimento impugnato ha effettuato una valutazione delle emergenze processuali che risulta adeguata e corretta, indicando in maniera esaustiva sulla base di quali dati fattuali doveva ritenersi dimostrata la natura fraudolenta della costituzione del
trust.
Osserva la Corte territoriale che l’operazione effettuata ha comportato, quale unica conseguenza, la
sottrazione del patrimonio societario ad eventuali azioni dell’erario finalizzate alla riscossione delle
imposte, rilevando come disponente e trustee coincidessero con la medesima persona (l’imputato) e che
la dichiarata finalità liquidatoria indicata nell’atto costitutivo del trust non risultava mai comunicata ai
creditori sociali, né emergeva che tale adempimento fosse comunque previsto, rilevando altresì la sostanziale inutilità della costituzione del trust per le finalità indicate, ben potendo i creditori, in caso di
liquidazione, vedere soddisfatti i propri crediti senza problemi di priorità temporale quando il patrimonio sociale sia sufficiente a tale scopo, ovvero, in caso di insufficienza, fare ricorso al concordato
preventivo o alle altre procedure concorsuali di tipo fallimentare.
Rilevano inoltre i giudici del merito l’inesistenza di qualsivoglia elemento atto a dimostrare la effettiva e concreta utilizzazione del trust per soddisfare i creditori della società ed, in particolare,
l’effettuazione, anche parziale, di versamenti all’erario delle somme dovute.
4. Si tratta di argomentazioni stringenti, prive di cedimenti logici o manifeste contraddizioni che indicano come inequivocabilmente accertata in fatto la unica finalità della costituzione del trust, che i
giudici del merito correttamente individuano nella sottrazione del patrimonio al fisco.
A fronte di ciò, il ricorrente oppone censure che, al di là dei richiami alla disciplina generale
dell’istituto utilizzato per porre in essere la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, si risolvono nella contestazione dell’apparato motivazionale del provvedimento impugnato mediante la prospettazione di una personale valutazione degli elementi fattuali valutati dai giudici del merito, che non può
avere ingresso in questa sede di legittimità.
Si tratta poi, in sostanza, di una ricostruzione alternativa della vicenda processuale che risulta smentita da quanto illustrato dai giudici del gravame, i quali, come si è detto, hanno puntualmente spiegato
come risultasse del tutto indimostrata la dichiarata finalità di un più efficace conseguimento degli
obiettivi propri della procedura liquidatoria attraverso la costituzione del trust, stante l’assenza di
qualsivoglia comunicazione in tal senso ai creditori e, soprattutto, l’assenza di comportamenti concludenti, ivi compreso il pagamento anche parziale delle somme dovute all’erario.
5. La motivazione della sentenza impugnata, inoltre, pone in evidenza anche la sussistenza del dolo
specifico richiesto per la configurabilità del reato oggetto di imputazione.
Esso si rinviene, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella volontà dell’agente di sottrarsi al
pagamento delle imposte che superino la soglia prevista e richiede la dimostrazione della strumentalizzazione della causa tipica negoziale o l’abuso dello strumento giuridico utilizzato (v. Sez. 3, 4 aprile
2012, n. 40561l Soldera, Rv. 253400, cit.).
La sussistenza dell’elemento soggettivo, pertanto, ben può essere rinvenuta anche quando, come nel
caso in esame, a fronte della piena conoscenza del debito tributario, il ricorso ad attività formalmente
lecite abbia quale unica concreta conseguenza quella di impedire la riscossione fiscale, difettando ogni
altro dato dimostrativo della effettiva volontà di perseguire le finalità proprie dello strumento giuridico
cui si è fatto ricorso.
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6. Quanto al secondo motivo di ricorso deve rilevarsi che i giudici dell’appello, dando atto di aver
preso cognizione della documentazione prodotta dalla difesa, rilevano come la dichiarata sostanziale
equivalenza tra valore commerciale dei beni ipotecati ed importo del debito verso la banca non risulti
dimostrata.
La Corte territoriale evidenzia anzi come una simile circostanza si ponga in contraddizione rispetto
alle finalità di tutela dei creditori che, secondo il ricorrente, avrebbero giustificato il ricorso al trust.
I giudici del merito hanno quindi fornito risposta alla censura difensiva e le conclusioni cui sono
pervenuti, costituendo un accertamento in fatto, restano estranee al presente giudizio di legittimità.
7. Parimenti infondato risulta il terzo motivo di ricorso.
Nella determinazione del trattamento sanzionatorio, osserva la Corte territoriale, si è tenuto conto,
nell’escludere il riconoscimento delle attenuanti generiche, di un precedente per bancarotta,
dell’assenza di attività risarcitoria, di segnali di ravvedimento e di altri elementi positivi di valutazione,
considerando anche l’importo del tributo evaso.
Non rileva, con riferimento a tale ultimo elemento, l’intervenuta assoluzione in altro processo concernente quelli che vengono indicati come “reati presupposto”, in quanto la Corte territoriale ed il Tribunale hanno tenuto conto (peraltro non esclusivamente, come si è appena visto), ai fini della quantificazione della pena, dell’importo del tributo evaso, senza alcun riferimento alle condotte oggetto di contestazione nell’altro procedimento.
Tale importo, peraltro, è quello indicato nel capo di imputazione e che risulta sottratto alla procedura di riscossione coattiva mediante la costituzione del trust, che poteva certamente essere considerato
dai giudici del merito per valutare la gravità della condotta posta in essere dall’imputato.
8. Quanto ai motivi nuovi, osserva il Collegio che, secondo un consolidato indirizzo assolutamente
prevalente (recentemente confermato da Sez. 2, 12 dicembre 2014 n. 1381 (dep. 14 gennaio 2015), Tomaino e altri, Rv. 261862; Sez. 5,11. 7449, 16 ottobre 2013 (dep. 17 febbraio 2014), Casarubea, Rv. 259526;
Sez. 1, 18 aprile 2013, n. 44324, RG., P.C. in proc. Stasi, Rv. 258319) rispetto all’isolato precedente citato
dal ricorrente (Sez. 6, 15 novembre 2005, n. 46823, Tramonte ed altro, Rv. 232533) ed al quale intende
dare continuità, sono inammissibili i motivi aggiunti al ricorso per cassazione depositati nella cancelleria del giudice “a quo” anziché in quella della Suprema Corte ed ivi pervenuti oltre il termine di quindici giorni prima dell’udienza, in quanto alla specifica disposizione di cui all’art. 585 c.p.p., comma 4,
non si può derogare con applicazione analogica delle modalità di presentazione ex art. 582 c.p.p. o di
spedizione ex art. 583 c.p.p., comma 1.
Neppure risulta ammissibile, inoltre, la produzione documentale, parte della quale già allegata al ricorso, in quanto, avuto riguardo alla natura del reato meglio descritta in precedenza, essa risulta del
tutto ininfluente ai fini del giudizio di legittimità.
9. Resta da esaminare la questione, sollevata in udienza, dell’applicabilità, nella fattispecie, della
causa di non punibilità ora prevista dall’art. 131-bis c.p., introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015.
Il menzionato decreto legislativo non prevede una disciplina transitoria, cosicchè va preliminarmente verificata la possibilità di applicare la nuova disposizione anche ai procedimenti in corso al momento
della sua entrata in vigore.
La natura sostanziale dell’istituto di nuova introduzione induce ad una risposta positiva, con conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito dall’art. 2 c.p., comma 4.
Può anche ritenersi che la questione della particolare tenuità del fatto sia proponibile anche nel giudizio di legittimità, tenendo conto di quanto disposto dall’art. 609 c.p.p., comma 2, trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.
L’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. presuppone, tuttavia, valutazioni di merito, oltre che la necessaria
interlocuzione dei soggetti interessati.
Da ciò consegue che, nel giudizio di legittimità, dovrà preventivamente verificarsi la sussistenza, in
astratto, delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, procedendo poi, in caso di valutazione positiva, all’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile.
10. Dovendosi quindi procedere a tale apprezzamento, rileva il Collegio che l’art. 131-bis c.p., comma 1 delinea preliminarmente il suo ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista una pena
detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla
predetta pena.
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I criteri di determinazione della pena sono indicati dal comma 4, il quale precisa che non si tiene
conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa
da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In tale ultimo caso non si tiene conto del
giudizio di bilanciamento di cui all’articolo 69. Il comma 5, inoltre, chiarisce che la non punibilità si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza
attenuante.
La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, tuttavia, soltanto la prima delle condizioni per
l’esclusione della punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume
dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
Il primo degli “indici-criteri” (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo)
appena indicati (particolare tenuità dell’offesa) si articola, a sua volta, in due “indici-requisiti” (sempre
secondo la definizione della relazione), che sono la modalità della condotta e l’esiguità del danno o del
pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., (natura, specie, mezzi, oggetto,
tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona
offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa).
Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due “indici-requisiti” della modalità della
condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p.,
comma 1, sussista l’”indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista quello
della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare
tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
11. Date tali premesse, va rilevato, procedendo alla preliminare verifica della possibile sussistenza
delle condizioni di applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al caso in esame, che il reato contestato al ricorrente
è quello previsto e sanzionato dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 11, commesso il (OMISSIS), data di costituzione del trust, cosicché, avuto riguardo alla pena prevista dalla menzionata disposizione nella formulazione vigente all’epoca dei fatti (prima dell’intervento modificativo ad opera del D.L. n. 78 del 2010,
convertito con modificazioni, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122 la sanzione era quella della reclusione da sei
mesi a quattro anni) i limiti di pena indicati dall’art 131-bis c.p., comma 1 non risultano superati.
Va quindi accertata la sussistenza delle ulteriori condizioni di legge per l’esclusione della punibilità.
Nell’effettuare tale apprezzamento, il giudice di legittimità non potrà che basarsi su quanto emerso
nel corso del giudizio di merito tenendo conto, in modo particolare, della eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la
particolare tenuità del fatto, riguardando, la non punibilità, soltanto quei comportamenti (non abituali)
che, sebbene non inoffensivi, in presenza dei presupposti normativamente indicati risultino di così modesto rilievo da non ritenersi meritevoli di ulteriore considerazione in sede penale.
12. Alla luce di tali considerazioni, rileva il Collegio che, nel provvedimento impugnato, emergono
plurimi dati chiaramente indicativi di un apprezzamento sulla gravità dei fatti addebitati all’odierno
ricorrente che consentono di ritenere non astrattamente configurabili i presupposti per la richiesta applicazione dell’art. 131-bis c.p.
Invero, la Corte territoriale, come si è già detto, ha ritenuto pienamente giustificata l’irrogazione di
una pena in misura superiore al minimo ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la non reiterazione dei benefici di legge, operando quindi una valutazione che esclude a priori
ogni successiva valutazione in termini di particolare tenuità dell’offesa.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO E PROCEDIMENTI PENDENTI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
71
LORENA PUCCETTI
Avvocato – Foro di Vicenza
Non punibilità per particolare tenuità del fatto:
natura sostanziale e applicazione retroattiva
ai procedimenti in corso
The new Institution of the particular tenuity of the fact:
substantial nature and retrospective application
to ongoing proceedings
La Corte di Cassazione, affrontando per la prima volta alcune questioni problematiche relative all’art. 131-bis c.p.,
introdotto con il d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28, ha affermato che la nuova causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ha natura sostanziale e deve, quindi, in base all’art. 2, comma 4, c.p., essere applicata retroattivamente a tutti i procedimenti in corso compresi quelli pendenti in cassazione. Se la questione dell’applicabilità
dell’istituto è proposta in sede di legittimità, la Corte deve preventivamente verificare l’astratta sussistenza dei relativi presupposti: ove, in base a quanto emerge dal provvedimento impugnato, debba escludersi a priori la tenuità
del fatto, la Corte procederà all’annullamento senza rinvio; se, invece, appaiono astrattamente sussistenti le condizioni di applicabilità dell’art. 131-bis c.p., annullerà la sentenza con rinvio al giudice di merito affinché valuti se
dichiarare il fatto non punibile.
The Supreme Court, examining for the first time some doubts as to Art. 131-bis, Penal Code, handed down by
legislative decree on March 26, 2015 No 28, stated that the new ground for exemption due to the particular tenuity of the fact has substantial nature and thus, according to article 2, paragraph 4, Penal Code, has to be applied
retroactively to all the ongoing proceedings including those that are pending in trial stage of Supreme Court
judgement. The legal pronouncement has also established that, if the matter of applicability to the institution is
proposed in the Supreme Court judgement, the Court has to verify preventively whether the assumptions for the
application of the institution abstractly exist. If, according to what emerges from the contested measure, the tenuity of the fact is to be excluded a priori, the Court must proceed with the cancellation without postponement.
Whereas if the conditions of applicability of Article 131-bis, Penal Code, are judged to be existing even though abstractly, the Court must cancel the decision with a committal hearing with an enquiry by a trial judge who is to decide whether there is enough evidence for the cause to be declared non punishable.
LA VICENDA
Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione ha affrontato alcune questioni sorte con la recente introduzione, mediante il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (entrato in vigore il 2 aprile), dell’art. 131-bis del c.p.,
che disciplina una nuova causa di non punibilità. La norma inserita configura la possibilità di definire il
procedimento con la declaratoria di non punibilità per «particolare tenuità del fatto» relativamente ai
reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena
pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva.
Nel caso di specie al liquidatore di una società in accomandita semplice era stato contestato il reato
di cui all’art. 11, comma 1, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver costituito un trust avente come unica finalità, secondo la tesi accusatoria, quella di rendere inefficace il procedimento di riscossione dei debiti
tributari. L’imputato sosteneva che il trust era stato costituito al fine di un più efficace conseguimento
degli obiettivi propri della procedura liquidatoria e dunque nell’interesse della massa dei creditori tra i
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
72
quali figurava anche l’Agenzia delle Entrate. Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello avevano ritenuto fondata la prospettazione della Procura rilevando che, ancorché il trust apparisse formalmente
lecito, le modalità dell’operazione effettuata palesavano l’intenzione da parte del liquidatore di sottrarsi
alla procedura di riscossione coattiva delle imposte, e dunque il precipuo dolo specifico del reato contestato. Ed in tal senso, la motivazione aveva messo in evidenza che il disponente ed il trustee coincidevano con la medesima persona, ovvero l’imputato, che la dichiarata finalità liquidatoria indicata nell’atto
costitutivo del trust non risultava fosse mai stata comunicata ai creditori sociali, ed infine che non era
mai stato effettuato alcun versamento, anche parziale, delle somme dovute. Sulla base di tali risultanze
processuali, unite al rilievo della sostanziale inutilità del ricorso alla costituzione di un trust per soddisfare le ragioni creditorie, i giudici di merito avevano ritenuto dimostrata la natura fraudolenta della
costituzione del trust.
Avverso la pronuncia d’appello il difensore dell’imputato aveva proposto ricorso per cassazione deducendo diversi motivi attinenti a violazione di legge e vizio di motivazione. Inoltre, all’udienza fissata
per la discussione del ricorso, il medesimo aveva chiesto l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p., in quanto ius superveniens.
Dopo aver esposto le ragioni per le quali il ricorso doveva ritenersi infondato, e nell’esaminare infine
la questione relativa all’applicabilità della causa di non punibilità, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha chiarito alcuni aspetti attinenti all’applicazione dell’istituto nei procedimenti in corso e segnatamente nei giudizi di legittimità.
Tuttavia, sempre la Terza Sezione, con tre successive e distinte ordinanze, come si vedrà, ha preferito rimettere alle Sezioni Unite svariate questioni comprese quelle sulle quali si era già espressa con la
pronuncia in commento 1. Pertanto, pur avendo chiarito il Primo Presidente che le questioni rimesse alle
Sezioni Unite non verranno per il momento affrontate, è evidente che i dubbi sollevati da quella medesima Sezione che ha emesso la pronuncia in esame, tolgono forza ai principi in essa enunciati.
LA RETROATTIVITÀ DELLA NUOVA CAUSA DI NON PUNIBILITÀ
La prima delle questioni esaminate dalla pronuncia de qua è se la nuova causa di non punibilità possa
essere applicata retroattivamente, tenuto conto che il decreto legislativo che ha introdotto l’art. 131-bis
c.p. non ha previsto una specifica disciplina transitoria.
La risposta al quesito dipende dalla natura, sostanziale o processuale, che si deve riconoscere alla
nuova previsione. Al riguardo, in dottrina i primi commentatori della novella legislativa hanno pacificamente affermato che l’istituto va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale. In tale prospettiva, si è
sottolineato che la particolare tenuità del fatto appartiene alla categoria delle cause di non punibilità in
senso stretto. Infatti, la relativa declaratoria presuppone la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi
del fatto tipico, compresa l’offesa che per essere qualificata di particolare tenuità deve ovviamente ricorrere 2. Pertanto, pur sussistendo tutti gli elementi costitutivi del reato, lo stesso deve ritenersi non
punibile per ragioni attinenti a quei principi di proporzione e di economia processuale che stanno alla
base del decreto legislativo 3. In linea con tale posizione è anche la giurisprudenza la quale – nella sentenza che qui si commenta – ha colto subito l’occasione per affermare espressamente la natura sostanziale della particolare tenuità del fatto. Infine, tale soluzione è stata ribadita dalla Relazione, pubblicata
dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, con la quale sono stati offerti alcuni chiarimenti
in ordine all’applicazione del nuovo istituto 4. In particolare, si è sottolineato che l’inquadramento della
1
Si tratta delle seguenti ordinanze: ord. 7 maggio 2015 n. 21014, ord. 7 maggio 2015 n. 21015 e ord. 7 maggio n. 21016, per
un’analisi delle quali si rinvia ad G. Alberti, Particolare tenuità del fatto: le Sezioni Unite non si pronunceranno (per ora), in Diritto
penale contemporaneo, 27 maggio 2015. Il Primo Presidente ha già anticipato che, essendo presupposto indefettibile per la rimessione alle Sezioni Unite l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale che evidentemente per il momento non può riscontrarsi, le
Sezioni Unite per il momento non affronteranno le varie questioni contenute nelle tre ordinanze citate.
2
Sul punto si veda T. Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guida dir., 2015, 15, p. 19. All’esito di
un’analisi sistematica della nuova normativa, definisce la speciale tenuità del fatto una “mera” circostanza di non punibilità, che
esclude l’applicabilità della pena, ma non impedisce l’esistenza del reato e non esclude l’antigiuridicità penale del fatto, C. F.
Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, 5, p. 517.
3
In tal senso, G. Amato, Quella irrilevanza che non è priva di conseguenze, in Guida dir., 2015, 15, p. 27.
4
Relazione n. III/02/2014 a cura di A. Corbo e G. Fidelbo.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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particolare tenuità del fatto nell’ambito del diritto sostanziale muove prima di tutto da un argomento di
natura testuale considerato che la definizione dell’art. 131-bis c.p. si esprime in termini di «esclusione
della punibilità» e non della procedibilità. Logico corollario della riconosciuta natura sostanziale dell’istituto è, come correttamente sostenuto dalla pronuncia in esame, che la norma di cui all’art. 131-bis c.p.
deve considerarsi retroattiva e dunque applicabile ai procedimenti in corso. E ciò perché, essendo la
nuova previsione norma più favorevole, ad essa deve applicarsi la regola stabilita dall’art. 2, comma 4,
c.p. In tal senso, in uno dei primi commenti, si è sottolineato che la nuova previsione di cui all’art. 131bis c.p. in quanto norma più favorevole è destinata ad operare non solo per tutti i procedimenti in corso
ma altresì per i reati commessi prima della sua entrata in vigore 5.
L’impostazione seguita è conforme al pacifico orientamento emerso nelle pronunce della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, nelle quali si è sempre affermato che il concetto di disposizione più
favorevole non si riferisce esclusivamente a quelle concernenti in senso stretto la misura della pena ma
riguarda altresì tutte le norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa. Rientrano dunque fra le disposizioni più favorevoli cui si riferisce l’art. 2, comma 4, c.p. tutte
quelle che ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo, ivi comprese le disposizioni attinenti
ad eventuali cause di estinzione del reato o a cause di non punibilità.
L’applicazione del principio della lex mitior a tutte le norme attinenti i diversi profili della disciplina
di una fattispecie penale è stata ribadita in una pronuncia della Corte Costituzionale in tema di prescrizione e segnatamente in relazione alla legittimità della disciplina transitoria che ha accompagnato
l’entrata in vigore della l. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli, la quale, come è noto, ha modificato il
regime giuridico della prescrizione 6. Peraltro, esaminando i principi sottesi all’art. 2 c.p., la Corte Costituzionale ha confermato che mentre sussiste un divieto costituzionalmente garantito dall’art. 25, comma 2, Cost. di applicazione retroattiva di una norma più sfavorevole rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto, non sussiste invece una corrispondente garanzia costituzionale a tutela
della retroattività della lex mitior. Pertanto, la Corte Costituzionale ha espresso il principio secondo cui,
non essendo la regola di cui all’art. 2, comma 4, garantita da alcuna norma di rango costituzionale, la
legge ordinaria può prevedere eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior. Con la
conseguenza che eventuali norme transitorie possono derogare alla regola codicistica dell’applicazione
retroattiva di una modifica che risulti più vantaggiosa, purché tale deroga sia sorretta da sufficienti ragioni giustificative le quali non contrastino con il principio di ragionevolezza insito nell’art. 3 Cost. 7.
In un’ulteriore decisione, il Giudice delle leggi – nel respingere una questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, l. n. 251 del 2005 con riguardo ad un possibile contrasto con l’art. 117,
comma 1, Cost. e l’art. 7 Cedu – ha altresì precisato che il principio di retroattività della lex mitior così
come riconosciuto nella giurisprudenza della Corte e.d.u. in materia di art. 7 Cedu, concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene e non coincide quindi con quello che nel nostro ordinamento
è regolato dall’art. 2, comma 4, posto che quest’ultimo riguarda qualsiasi modifica in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa 8. In base a tali premesse, viene dunque meno ogni possibile contrasto
con i principi ricavabili dai trattati internazionali ed in particolare con l’art. 7 Cedu, di un regime di diritto intertemporale che ponga limiti all’applicazione di norme sopravvenute più favorevoli al reo 9.
5
Così, G. Spangher, L’irrilevanza del fatto, in Dir. e giust. minorile, 2015, p. 20.
6
C. cost. 23 novembre 2006, n. 393, in Cass. pen., 2007, p. 419.
7
Sul punto si veda E.M. Ambrosetti, La nuova disciplina della prescrizione. Un primo passo verso la costituzionalizzazione del principio di retroattività delle norme penali favorevoli al reo, in Cass. pen., 2007, p. 424. Successivamente, sempre in tema di regime transitorio della prescrizione, la Corte Costituzionale ha ribadito che l’esclusione dell’applicazione retroattiva di una norma più favorevole deve rispondere a un criterio di ragionevolezza. Cfr.: C. cost., sent. 28 marzo 2008 n. 72, in Giur. cost.., 2008, p. 928 con
nota di D. Pulitanò, Retroattività favorevole e scrutinio di ragionevolezza. E ancora, con riguardo ad una diversa disposizione che
prevedeva la non retroattività dell’intervenuta depenalizzazione di alcuni illeciti in materia di esercizio abusivo di attività di
giuoco e scommessa con apparecchi vietati, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui la regola della retroattività favorevole è suscettibile di limitazioni e deroghe, purché le stesse si giustifichino in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo rispetto a quelli posti a fondamento della lex mitior. Cfr. C. cost., 18 giugno 2008 n. 215, in Cass. pen.,
2008, p. 4114.
8
C. cost., sent. 22 luglio 2011 n. 236, in Cass. pen., 2011 con nota di Mari.
9
Sul punto, E. M. Ambrosetti, Sezioni unite e prescrizione. La normativa più favorevole non si applica in appello anche nel caso di assoluzione in primo grado, in Dir. pen e giustizia, 2012, 5, p. 51.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
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In definitiva, tornando alla questione in esame, la declaratoria della particolare tenuità del fatto si
applica ai procedimenti in corso considerato che il d.lgs. n. 28 del 2015 che ha introdotto detto istituto
non contempla alcuna norma transitoria che stabilisca eccezioni alla regola posta in generale dall’art. 2,
comma 4. Peraltro, alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale richiamata, si osserva che il legislatore ben avrebbe potuto prevedere una disciplina transitoria dell’art. 131-bis c.p. anche in deroga all’art. 2, comma 4. Infatti, l’esigenza deflattiva che sta alla base dell’istituto introdotto
dall’art. 131-bis c.p. avrebbe potuto giustificare un’eccezione alla regola della retroattività della lex mitior, non confliggente con quel principio di ragionevolezza preteso dal ricordato orientamento della
Corte costituzionale. Per converso, l’assenza di una norma transitoria pone alcuni aspetti problematici
con riferimento alla applicazione retroattiva dell’istituto nella fase del giudizio di legittimità. In effetti,
mentre l’esigenza deflattiva dell’istituto si concilia con i poteri cognitivi attribuiti al giudice del primo e
del secondo grado, allorché l’applicabilità della particolare tenuità del fatto sorga in fase di legittimità si
determina un aggravio processuale che pare eccessivo in relazione a questioni per definizione esigue.
Infatti, come a breve si andrà ad esaminare, è da dubitarsi che la particolare tenuità del fatto possa essere direttamente dichiarata dalla Corte di Cassazione, dovendo invece comportare l’annullamento con
rinvio al giudice di merito per la relativa declaratoria. Con conseguenze pratiche che evidentemente
vanificano quelle ragioni di economia processuale che stanno alla base del nuovo istituto. Peraltro, pur
prendendo atto di tali possibili effetti che in termini deflattivi si pongono come negativi, va ribadito che
l’assenza di una norma transitoria derogativa dell’art. 2, comma 4, c.p. impone l’applicazione retroattiva dell’istituto anche ai giudizi pendenti in fase di legittimità. Del resto, in relazione agli interessi che si
sono contrapposti nella scelta legislativa, all’esigenza di economia processuale si affianca quella relativa
al principio di proporzione, in ragione del quale appare opportuno evitare l’applicazione della sanzione
penale per fatti bagatellari 10.
L’APPLICABILITÀ DELLA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ
Posto che il difensore, nel corso dell’udienza avanti la Corte Suprema, aveva chiesto l’esclusione della
punibilità per particolare tenuità del fatto, la pronuncia in esame ha affrontato per la prima volta alcune
questioni operative che si pongono nel giudizio di legittimità in relazione all’art. 131-bis c.p.
Trattandosi, come si è visto, di una norma retroattiva, nessun dubbio sul fatto che l’istituto possa
applicarsi ai fatti pregressi sub iudice anche se il procedimento è ormai in Cassazione. Peraltro, le modalità con le quali la particolare tenuità del fatto può assumere rilievo in sede di legittimità devono tener
conto della peculiare natura di detto giudizio.
Al riguardo, in primo luogo, la pronuncia ha affermato che la richiesta di applicazione della particolare tenuità del fatto è proponibile anche nel giudizio di legittimità tenendo conto che in base all’art.
609, comma 2, c.p.p. la Corte decide anche le questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado
d’appello. E fra queste, secondo l’orientamento al quale si è attenuta la pronuncia in esame, rientrano
anche quelle conseguenti allo ius superveniens. 11 Pertanto, la richiesta di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto, oltre che nei procedimenti pendenti in primo e secondo grado, è proponibile anche nei procedimenti in corso che, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 28 del 2015 che ha introdotto l’art. 131-bis c.p., si trovassero già nella fase di legittimità.
Ciò premesso, la pronuncia ha affrontato il problema di quale provvedimento possa assumere la
Corte di Cassazione ove sia proposta la questione della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Ed in tal senso, la sentenza, osservando che l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. presuppone
10
In tal senso, G. Amato, Tra gli indici rilevanti la non abitualità del comportamento, in Guida dir., 2015, 20, p. 83.
11
Come già si è avuto modo di accennare, dopo l’emissione della pronuncia in commento, sempre la Terza Sezione, nel decidere un’altra richiesta di applicazione dell’art. 131-bis avanzata in udienza, con l’ordinanza 7 maggio 2015 n. 21014/2015 ha
rimesso la questione alle Sezioni Unite. Nella citata ordinanza, la Terza Sezione, pur ribadendo la propria convinzione che l’art.
131-bis c.p. sia applicabile nei giudizi pendenti in fase di legittimità ha comunque chiesto alle Sezioni Unite se in sede di legittimità possa essere dedotta per la prima volta e con quali modalità la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. introdotto
successivamente alla proposizione del ricorso. In particolare, ha posto il dubbio se la questione debba essere dedotta attraverso
la formulazione di motivi aggiunti ex art. 585 c.p.p. o di memorie ex art. 121 c.p.p. ovvero ancora oralmente ed infine se possa
essere la Corte ad intervenire ex officio per valutare l’ammissibilità del nuovo istituto. Quelle sopra richiamate sono solo alcune
delle varie questioni sollevate con le tre distinte ordinanze già citate alla nota 1.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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valutazioni di merito oltre che la necessaria interlocuzione dei soggetti interessati, ha espressamente
escluso che la Corte possa annullare senza rinvio la decisione impugnata applicando direttamente la
causa di non punibilità. Ne consegue che, qualora si ponga la questione dell’applicabilità dell’art. 131bis c.p., la Corte deve preliminarmente valutare se sussistano le condizioni di applicabilità del nuovo
istituto e, in caso affermativo, deve provvedere all’annullamento della sentenza con rinvio al giudice
del merito affinché valuti l’applicazione della causa di non punibilità.
Dunque, secondo l’impostazione delineata dalla pronuncia in esame, l’apprezzamento riservato al
giudice di legittimità in ordine alla causa di non punibilità in esame, è esclusivamente rivolto alla preliminare valutazione se vi siano i presupposti per procedere ad un annullamento con rinvio. Ed è in tale
prospettiva che la pronuncia ha svolto il proprio percorso argomentativo, esaminando preventivamente
se nel caso in questione vi fossero astrattamente le condizioni di applicabilità del nuovo istituto.
A tale scopo, anzitutto la decisione ha verificato la sussistenza del primo dei presupposti che condizionano l’applicabilità dell’istituto ovvero il rispetto dei limiti di pena indicati dall’art. 131-bis, comma
1, c.p. in base ai quali deve trattarsi di reato punito con la pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva, ovvero con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. Inoltre, come ricordato
nella motivazione, l’art. 131-bis, comma 4, c.p. precisa che non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e
di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso, la norma stabilisce che ai fini dell’applicazione del
primo comma, e dunque del computo della pena, non si tiene conto del giudizio di bilanciamento di cui
all’art. 69 c.p. In sostanza, si è osservato che in ordine alla tenuità del fatto il valore delle circostanze
speciali risulta rafforzato nel senso che esse non rilevano soltanto quando il giudice ne abbia escluso in
fatto la sussistenza, non essendo sufficiente che non influiscano sull’entità della pena a seguito di giudizio di bilanciamento 12. In base a questa prima verifica, la Corte ha accertato che il reato in questione
rientrava nei limiti di pena entro i quali è applicabile l’istituto.
Peraltro, nel ritenere la particolare tenuità astrattamente applicabile al reato di cui all’art. 10-ter,
d.lgs. n. 74 del 2000 in relazione all’entità della pena, la pronuncia ha implicitamente enunciato un
principio di particolare importanza e cioè che la nuova disposizione riguarda anche le fattispecie che
prevedono soglie di punibilità. Si tratta di una questione controversa posto che nei primi commenti alla
novella legislativa, è stato subito sollevato il dubbio se l’istituto possa applicarsi ai reati che prevedono
soglie di punibilità – in particolare quelli tributari, societari, ambientali, quelli di guida in stato di ebbrezza, etc. – considerato che l’apposizione di tali soglie potrebbe essere intesa come una sorta di presunzione legale di rilevanza penale dei fatti che si collocano al di sopra di esse, incompatibile con
l’istituto introdotto dall’art. 131-bis c.p. La soluzione adottata nella pronuncia appare condivisibile tenuto conto che in tali reati il raggiungimento della soglia determina la rilevanza penale del fatto ma
senza di per sé escludere che un fatto concreto che si ponga poco al di sopra di tale soglia possa beneficiare di un istituto che, in quanto causa di non punibilità, presuppone appunto che il fatto, pur scarsamente offensivo, costituisca reato 13. Tuttavia, successivamente alla pronuncia in esame, la Terza Sezione ha sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite per risolvere anche la questione dell’applicabilità
dell’istituto disciplinato dal nuovo art. 131-bis c.p. ai reati per i quali è prevista una soglia di non punibilità 14.
Svolta la verifica sul rispetto dei limiti di pena, la Corte ha quindi accertato la sussistenza delle ulteriori condizioni di legge per l’esclusione della punibilità. Ed al riguardo, la pronuncia si è soffermata su
quelli che la relazione allegata allo schema di decreto legislativo ha definito “indici-criteri”, ossia la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, precisando che tali indici, ai fini della
esclusione della punibilità, devono sussistere congiuntamente. Quanto alla particolare tenuità, tale requisito, come specificato nella pronuncia, si articola a sua volta – sempre secondo la definizione della
citata relazione – in due “indici-requisiti”, che sono la modalità della condotta e l’esiguità del danno o
del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri direttivi indicati dall’art. 133 c.p. In buona sostanza il
giudice, per poter escludere la punibilità, deve verificare che sussista l’indice-criterio della tenuità
12
G. Amato, Tra gli indici rilevanti la non abitualità del comportamento, cit., p. 84.
13
Condivide la soluzione adottata nella pronuncia in commento G. L. Gatta, Note a margine di una prima sentenza della Cassazione in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), in Diritto penale contemporaneo, 22 aprile 2015.
14
Ord. 7 maggio 2015 n. 21014/2015, in relazione alla quale si rinvia a quanto precisato nelle note 1 e 11.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
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dell’offesa – valutata in base agli anzidetti indici-requisiti relativi alla modalità della condotta e all’esiguità del danno – e che congiuntamente coesista l’altro indice-criterio ovvero quello della non abitualità
del comportamento.
Orbene, per effettuare l’apprezzamento relativo alla sussistenza di tali presupposti, la pronuncia ha
sottolineato che il giudice di legittimità non può che basarsi su quanto emerso nel corso del giudizio di
merito. Ed in particolare, qualora dagli elementi desumibili dalla motivazione del provvedimento impugnato possa già escludersi la particolare tenuità del fatto, nella prospettiva tracciata dalla pronuncia,
il giudice di legittimità deve procedere all’annullamento senza rinvio. Ed in tal senso, nel caso in esame,
la Corte ha rilevato che nel provvedimento impugnato emergevano elementi indicativi della gravità dei
fatti addebitati all’imputato che si ponevano in contrasto con una successiva valutazione di particolare
tenuità del fatto. E ciò perché la Corte territoriale aveva ritenuto pienamente giustificata l’irrogazione
di una pena superiore al minimo, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la
non reiterazione dei benefici di legge, così esprimendo una valutazione aprioristicamente in antitesi con
la particolare tenuità dell’offesa. In definitiva, la pronuncia in commento ha stabilito che in sede di legittimità la Corte deve valutare l’astratta esistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 131-bis c.p.
nella sola prospettiva, in caso affermativo, di un annullamento con rinvio. Diversamente, qualora i presupposti per la declaratoria di tenuità del fatto non appaiano sussistenti, la Corte deve annullare senza
rinvio. Peraltro, il requisito della particolare tenuità del fatto attiene a questioni di merito e può dunque
porsi il problema di quali siano i limiti nei quali incorre il giudice di legittimità nel valutare sia pure
astrattamente l’inesistenza di tale presupposto. La pronuncia in commento, come si è visto, ha affermato che sulla base delle valutazioni che emergono dalla sentenza impugnata, la Corte può ben escludere
l’applicabilità dell’istituto procedendo all’annullamento senza rinvio. Tuttavia, con successiva ordinanza, la medesima Sezione Terza ha posto alle Sezioni Unite il quesito se rientri nei poteri della Corte negare l’applicabilità dell’istituto mediante un annullamento senza rinvio o se invece sia comunque necessario demandare il giudizio sulla particolare tenuità del fatto alla Corte territoriale attraverso un annullamento con rinvio. Nell’ordinanza, la Corte sottolinea il rischio derivante dalla soluzione di dedurre la non applicabilità dell’istituto sulla base del testo della sentenza impugnata, dando luogo a pronunce tranchant di rigetto o annullamento senza rinvio che implicherebbero decisioni fondate sull’analisi di questioni di merito che la Corte non può assumere 15. Va da sé che la soluzione di pretendere comunque un annullamento con rinvio è quella che implica il discostarsi da quelle esigenze deflattive che
l’introduzione dell’istituto si proponeva.
Infine, anche se la questione non è stata sfiorata dalla pronuncia in commento – posto che al fatto
concreto non appariva applicabile la nuova causa di non punibilità – si pone il dubbio se effettivamente
la soluzione indicata dalla Corte di escludere in sede di legittimità la declaratoria di non punibilità ai
sensi dell’art. 131-bis c.p., sia l’unica praticabile. Al riguardo, si sottolinea che il primo degli aspetti problematici da considerare ove si volesse attribuire al giudice di legittimità il potere di applicare direttamente la particolare tenuità del fatto, riguarda la formula di proscioglimento relativa alla causa di non
punibilità che potrebbe essere pronunciata nel giudizio di cassazione. E ciò perché la sentenza ex art.
129 c.p.p., che può essere emessa in ogni fase e grado del giudizio, contempla le cause di estinzione del
reato e la mancanza di una condizione di procedibilità ma non la presenza di una causa di non punibilità. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è sempre mostrata incline ad applicare l’art. 129 c.p.p., in
via di interpretazione analogica o estensiva, anche nel giudizio di legittimità in presenza di una causa
di non punibilità 16. Superando le difficoltà legate al tenore dell’art. 129 c.p.p., il fondamento del potere
di dichiarare l’esistenza di una causa di non punibilità è comunque ravvisabile nell’art. 620, comma 1,
lett. l) c.p.p., che prevede la pronuncia di sentenza di annullamento senza rinvio «in ogni altro caso in cui
la corte ritiene superfluo il rinvio» 17.
Tuttavia, a prescindere dalla formula adottabile in sede di legittimità, altre sono le perplessità che
suscita l’applicazione diretta della causa di non punibilità da parte della Corte di Cassazione. Al riguardo si è in primo luogo posto il dubbio se un’eventuale dichiarazione di non punibilità per partico-
15
Come già sottolineato nella nota 1, le Sezioni Unite non risolveranno per il momento la pur interessante questione.
16
Nella già menzionata Relazione n. III/02/2015, sono riportati specifici precedenti giurisprudenziali di applicazione
dell’art. 129 c.p.p. in sede di legittimità in presenza di cause di non punibilità.
17
In tal senso la Relazione sopra citata.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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lare tenuità del fatto all’esito del giudizio di legittimità, rispetterebbe quel contraddittorio che la disciplina complessivamente dettata per regolare il nuovo istituto promuove nell’interesse dell’imputato e
della persona offesa. In proposito, la già citata Relazione n. III/02/2015 ha sottolineato che nella fase di
legittimità il contraddittorio ha comunque avuto modo di svilupparsi. Inoltre, in relazione all’imputato
vi è da dire che l’eventuale dichiarazione di non punibilità, ancorché rilevante in relazione all’iscrizione
nel casellario giudiziale, costituirebbe in ogni caso una pronuncia più favorevole rispetto ad una precedente sentenza di condanna piena. Quanto alla persona offesa, va precisato che comunque in nessuna
fase del procedimento ad essa è riconosciuta un’eventuale facoltà di opporsi alla pronuncia della sentenza di tenuità del fatto, rilevando soltanto che essa abbia avuto modo di interloquire nel procedimento 18.
Non è dunque nemmeno la paventata violazione del contraddittorio a costituire un serio ostacolo alla prospettiva di una pronuncia diretta da parte del giudice di legittimità. Il vero problema sembra
piuttosto risiedere nel fatto che la valutazione della particolare tenuità del fatto implica un giudizio di
merito che non può essere demandato al Giudice di legittimità. Peraltro, la soluzione offerta dalla pronuncia in commento, la quale ha ricavato dal testo della sentenza impugnata gli elementi per escludere
la particolare tenuità del fatto potrebbe risolversi anche a favore di un’eventuale applicabilità diretta
della causa di non punibilità. Del resto, non mancano precedenti giurisprudenziali nei quali il giudice
di legittimità ha dichiarato l’esistenza di una causa di non punibilità dopo aver rilevato che i presupposti di fatto per la dichiarazione dell’esistenza di tale causa erano desumibili dal testo della sentenza impugnata 19. Quindi, qualora dalla sentenza impugnata emergano già gli elementi di fatto idonei a qualificare la fattispecie come di particolare tenuità, si potrebbe ipotizzare la possibilità di un annullamento
senza rinvio. Tuttavia, residua un ulteriore dubbio. Infatti fra le modifiche introdotte per coordinare
l’ingresso nell’ordinamento dell’art. 131-bis c.p., è stato espressamente previsto l’art. 651-bis c.p.p. al fine di dettare la disciplina degli effetti extra-penali della sentenza che abbia dichiarato la tenuità del fatto. Orbene, tale norma chiarisce che ha efficacia nel giudizio civile o amministrativo di danno la sentenza emessa «in seguito a dibattimento» o «a norma dell’art. 442» salva opposizione della parte civile che
non abbia accettato il rito. Ci si chiede, dunque, se un’eventuale dichiarazione di particolare tenuità del
fatto emessa in sede di giudizio di legittimità potrebbe spiegare la propria efficacia nei giudizi civili e
amministrativi 20.
In conclusione, pur riconoscendo che l’esigenza deflattiva che sta alla base del nuovo istituto dovrebbe incoraggiare l’annullamento senza rinvio qualora dalla sentenza impugnata emergano già gli
elementi di fatto idonei a negare o al contrario ad evidenziare l’eventuale tenuità del fatto, tuttavia tale
soluzione solleva, per le ragioni sopra esposte, una serie di difficoltà non trascurabili. A fronte di queste
perplessità, ne deriva il rischio che l’applicazione dell’istituto in sede di legittimità, divenga occasione
di un poderoso allungamento delle fasi processuali. E che tale rischio sia concreto, lo dimostra il fatto
che la Terza Sezione, la quale con la pronuncia in commento ha dapprima sposato la tesi della possibilità di emettere una pronuncia di annullamento senza rinvio per escludere la tenuità del fatto, ha in seguito rimesso alle Sezioni Unite la questione se tale tipo di giudizio non richieda necessariamente un
annullamento con rinvio.
18
Si veda A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. vuoti normativi e ricadute applicative, in Diritto penale contemporaneo, 7, cui si rimanda per un approfondimento sul ruolo in concreto attribuito alla persona offesa nelle varie fasi procedimentali in relazione all’eventuale sentenza di tenuità del fatto.
19
Cfr. Cass., sez. VI, 26 aprile 2012, n. 17065. In questa pronuncia la Corte ha annullato senza rinvio rilevando la sussistenza
della causa di non punibilità della ritrattazione di cui all’art. 376 c.p. in riferimento al delitto di favoreggiamento personale, a
seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina per effetto della legge 15 luglio 2009, n. 94, che estendeva anche a questa
fattispecie l’applicabilità dell’art. 376 cit., dopo aver rilevato che i presupposti fattuali per la dichiarazione dell’esistenza della
causa di non punibilità erano desumibili dal testo della sentenza impugnata. Pur non riguardando un’ipotesi di ius superveniens
si veda inoltre Cass., sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 9727 in cui la Corte ha annullato senza rinvio applicando l’art. 384 c.p. dopo
aver verificato che all’accertamento di fatto desumibile dalla impugnata pronuncia conseguiva l’applicazione dell’esimente.
20
Solleva tale dubbio anche la Relazione III/02/2015, dubbio legato anche alla formula utilizzabile per la declaratoria di tenuità del fatto, posto che, come si è già sottolineato, l’eventuale pronuncia emessa in forza dell’art. 129 c.p.p., appare difficilmente assimilabile alla sentenza pronunciata in seguito a dibattimento.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
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Accesso abusivo a sistema informatico
e competenza territoriale
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 26 MARZO 2015, N. 17325 - PRES. SANTACROCE; REL.
SQUASSONI
In tema di acceso abusivo ad un sistema informatico o telematico, il luogo di consumazione del delitto di cui
all’art. 615-ter c.p. coincide con quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo
per il trattamento automatico dei dati, digitando la “parola chiave” o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca-dati
memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta.
(In motivazione la Corte ha specificato che il sistema telematico per il trattamento dei dati condivisi tra più postazioni è unitario e, per la sua capacità di rendere disponibili le informazioni in condizioni di parità a tutti gli utenti abilitati, assume rilevanza il luogo di ubicazione della postazione remota dalla quale avviene l’accesso e non invece il
luogo in cui si trova l’elaboratore centrale).
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha esercitato l’azione penale nei confronti di R.M. e S.G. in ordine al reato previsto dall’art. 81 c.p., art. 110 c.p., art. 615-ter c.p., commi 2 e 3,
perché, in concorso tra loro ed agendo la R. in qualità di impiegata della Motorizzazione civile di Napoli, si introducevano abusivamente e ripetutamente nel sistema informatico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per effettuare visure elettroniche che esulavano dalle mansioni della imputata
ed interessavano lo S. (amministratore di una agenzia di pratiche automobilistiche).
Con sentenza in data 2 dicembre 2013, il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Napoli
ha dichiarato la propria incompetenza per territorio ritenendo competente il Giudice del Tribunale di
Roma in ragione della ubicazione della banca-dati della Motorizzazione civile presso il Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti con sede in (Omissis).
Chiesto il rinvio a giudizio da parte del Procuratore della Repubblica per entrambi gli imputati, il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Roma, con ordinanza del 16 giugno 2014, ha sollevato conflitto negativo di competenza per territorio ritenendo che il luogo di consumazione del reato di accesso
abusivo ad un sistema informatico dovesse radicarsi ove agiva l’operatore remoto e, pertanto, a (Omissis).
2. La Prima Sezione penale, cui il ricorso è stato assegnato tabellarmente, con ordinanza del 28 ottobre 2014, n. 52575, depositata il 18 dicembre 2014, rilevato un potenziale contrasto di giurisprudenza,
ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite.
Con decreto in data 23 dicembre 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissandone per la trattazione l’odierna udienza camerale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il quesito posto alle Sezioni Unite è il seguente: “Se, ai fini della determinazione della competenza
per territorio, il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, di cui all’art. 615-ter c.p., sia quello in cui si trova il soggetto che si introduce nel sistema o, invece, quello nel quale è collocato il server che elabora e controlla le credenziali di autenticazione fornite
dall’agente”.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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1.1. La questione è di particolare rilievo dal momento che il reato informatico, nella maggior parte
dei casi, si realizza a distanza in presenza di un collegamento telematico tra più sistemi informatici con
l’introduzione illecita, o non autorizzata, di un soggetto, all’interno di un elaboratore elettronico, che si
trova in luogo diverso da quello in cui è situata la banca-dati.
Gli approdi ermeneutici hanno messo in luce due opposte soluzioni che si differenziano nel modo di
intendere la spazialità nei reati informatici: per alcune, competente per territorio è il tribunale del luogo
nel quale il soggetto si è connesso alla rete effettuando il collegamento abusivo, per altre, il tribunale
del luogo ove è fisicamente allocata la banca-dati che costituisce l’oggetto della intrusione.
1.2. Una sola sentenza della Corte di cassazione ha approfondito il tema in esame, individuando la
competenza territoriale nel luogo ove è allocato il server (Sez. 1, 27 maggio 2013, n. 40303M., Rv.
257252).
Secondo tale impostazione, ciò che rileva ai fini della integrazione del delitto è il momento in cui
viene posta in essere la condotta che si connota per l’abusività (inconferenti essendo le finalità perseguite) che si perfeziona quando l’agente, interagendo con il sistema informatico o telematico altrui, si introduce in esso contro la volontà di chi ha il diritto di estromettere l’estraneo.
Posta la centralità del jus excludendi, la fattispecie si perfeziona nel momento in cui il soggetto agente
entra nel sistema altrui, o vi permane, in violazione del domicilio informatico, sia che vi si introduca
contro la volontà del titolare sia che vi si intrattenga in violazione delle regole di condotta imposte.
Il delitto può, di conseguenza, ritenersi consumato solo se l’agente, colloquiando con il sistema, ne
abbia oltrepassato le barriere protettive o, introdottosi utilizzando un valido titolo abilitativo, vi permanga oltre i limiti di validità dello stesso.
Deriva che l’accesso si determina nel luogo ove viene effettivamente superata la protezione informatica e si verifica la introduzione nel sistema e, quindi, dove è materialmente situato il server violato,
l’elaboratore che controlla le credenziali di autenticazione del client.
Il luogo di consumazione del reato non è dunque quello in cui vengono inserite le credenziali di autenticazione, ma quello in cui si entra nel server dal momento che la procedura di accesso deve ritenersi
atto prodromico alla introduzione nel sistema.
Nella ipotesi di accesso da remoto, l’attività fisica viene esercitata in luogo differente da quello in cui
si trova il sistema informatico o telematico protetto, ma è certo che il client invia le chiavi logiche al server web il quale le riceve “processandole” nella fase di validazione che è eseguita unicamente
all’interno dell’elaboratore presidiato da misure di sicurezza.
In sostanza, l’opzione ermeneutica che ha fissato presso il server il luogo di consumazione del reato
fa leva sulla constatazione che l’effettivo ingresso di cui trattasi si verifica solo presso il sistema centrale
con il superamento delle barriere logiche dopo la immissione delle credenziali di autenticazione da remoto.
Altra sentenza (Sez. 3, 24 maggio 2012, n. 23798C., Rv. 253633), pur senza approfondire, ha affermato, in riferimento al diverso reato di frode informatica, che la competenza territoriale deve essere individuata nel luogo in cui si trova il server all’interno del quale sono archiviati i dati oggetto di abusivo
trattamento.
1.3. Un significativo segnale di mutamento in ordine alla riflessione giurisprudenziale sul luogo di
consumazione del reato di accesso abusivo a sistema informatico può cogliersi in una decisione (Sez. 1,
15 giugno 2014, n. 34165D.B., non massimata); la Corte, nel risolvere il conflitto di competenza sollevato
dall’autorità giudiziaria del luogo di digitazione della password di accesso alle risorse informatiche, ha
rilevato come la questione (non conferente nel caso in esame) fosse fondata su argomenti giuridici e
scientifici meritevoli di attento esame critico e, quindi, di ulteriore analisi in sede di ricostruzione
dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 615-ter c.p.
La ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite – dopo avere evidenziato che il client ed il server sono
componenti di un unico sistema telematico – osserva che l’accesso penalmente rilevante inizia dalla postazione remota ed il perfezionamento del reato avviene nel luogo ove si trova l’utente (diverso da
quello in cui è ubicato il server).
1.4. La impostazione della ricordata sentenza n. 40303 del 2013 della Corte di cassazione è criticata
dal Giudice rimettente (e da parte della dottrina) che puntualizza come l’intera architettura di un sistema per la gestione e lo scambio di dati (server, client, terminali e rete di trasporto delle informazioni)
corrisponde, in realtà, ad una sola unità di elaborazione, altrimenti definita “sistema telematico”.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
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In questa prospettiva, il terminale mediante il quale l’operatore materialmente inserisce username e
password è ricompreso, quale elemento strutturale ed essenziale, nell’intera rete di trattamento e di
elaborazione dei dati, assumendo rilevanza il luogo di ubicazione della postazione con cui l’utente accede o si introduce nel sistema che contiene l’archivio informatico.
2. Prima di esaminare la questione controversa, è opportuno puntualizzare, nello stretto ambito richiesto per risolvere il quesito, la struttura della fattispecie dell’art. 615-ter c.p., iniziando dalla nozione
di introduzione e trattenimento nel sistema.
La materia è già stata passata al vaglio delle Sezioni Unite (sent. 27 ottobre 2011, n. 4694C., Rv.
25129) che ha precisato come le condotte descritte dalla norma sono punite a titolo di dolo generico e
consistono: a) nello introdursi abusivamente in un sistema informatico o telematico protetto da misure
di sicurezza - da intendere come l’accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenute nello stesso
- effettuato sia da lontano (condotta tipica dello hacker), sia da vicino (cioè da persona che si trova a diretto contatto con lo elaboratore); b) nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di
chi ha il diritto di esclusione, da intendere come il persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata o casuale, violando le disposizioni, i limiti e i divieti posti dal titolare del sistema.
2.1. Nel caso che ci occupa (almeno dagli atti in visione di questa Corte) risulta che la R., pur avendo
titolo e formale abilitazione per accedere alle informazioni in ragione della sua qualità di dipendente
della competente amministrazione e di titolare di legittime chiavi di accesso, si è introdotta all’interno
del sistema, in esecuzione di un previo accordo criminoso con il coimputato al fine di consultare
l’archivio per esigenze diverse da quelle di servizio; pertanto, la condotta deve essere considerata di per
sé illecita sin dal momento dell’accesso, essendo irrilevante la successiva condotta di mantenimento.
2.2. Per quanto concerne il bene giuridico, va ricordato che l’art. 615-ter c.p., è stato introdotto nel
nostro ordinamento in esito alla Raccomandazione del Consiglio di Europa del 1989 per assicurare una
protezione all’ambiente informatico o telematico che contiene dati personali che devono rimanere riservati e conservati al riparo da ingerenze ed intrusioni altrui e rappresenta un luogo inviolabile, delimitato da confini virtuali, paragonabile allo spazio privato dove si svolgono le attività domestiche.
Per questo la fattispecie è stata inserita nella Sezione IV del Capo III del Titolo XII del Libro II del
codice penale, dedicata ai delitti contro la inviolabilità del domicilio, che deve essere inteso come luogo,
anche virtuale, dove l’individuo esplica liberamente la sua personalità in tutte le sue dimensioni e manifestazioni.
È stato notato che, con la previsione dell’art. 615-ter c.p., il legislatore ha assicurato la protezione del
domicilio informatico quale spazio ideale in cui sono contenuti i dati informatici di pertinenza della
persona ad esso estendendo la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene costituzionalmente protetto; all’evidenza il parallelo con il domicilio reale – sulla cui falsariga è stata strutturata
la norma – è imperfetto.
In realtà, la fattispecie offre una tutela anticipata ad una pluralità di beni giuridici e di interessi eterogenei e non si limita a preservare solamente i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici protetti, ma ne offre una protezione da qualsiasi tipo di intrusione che possa avere anche ricadute economico-patrimoniali (Sez. 4, 04 ottobre 1999, n. 3067, P., Rv. 214946).
E’ condivisa l’opinione secondo la quale il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p., è di mera condotta
(ad eccezione per le ipotesi aggravate del comma 2, nn. 2 e 3) e si perfeziona con la violazione del domicilio informatico - e, quindi, con la introduzione nel relativo sistema - senza la necessità che si verifichi
una effettiva lesione del diritto alla riservatezza dei dati (Sez. 5, 06 febbraio 2007, n. 11689C., Rv.
236221).
Dal momento che oggetto di tutela è il domicilio virtuale, e che i dati contenuti all’interno del sistema non sono in via diretta ed immediata protetti, consegue che l’eventuale uso illecito delle informazioni può integrare un diverso titolo di reato (Sez. 5, 25 maggio 2009, n. 40078G., Rv. 244749).
2.3. Il legislatore, introducendo con la l. 23 dicembre 1993, n. 547, i cosiddetti computer’s crimes, non
ha enunciato la definizione di sistema informatico o telematico (forse per lasciare aperta la nozione in
vista dell’evoluzione della tecnologia), ma ne ha presupposto il significato.
In argomento, l’art. 1 della Convenzione Europea di Budapest del 23 novembre 2001, definisce sistema informatico «qualsiasi apparecchiature o gruppi di apparecchiature interconnesse o collegate,
una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica dei dati». La giurisprudenza ha fornito una definizione tendenzialmente valida per tutti i reati facenti riferimento alla
espressione “sistema informatico”, che deve intendersi come un complesso di apparecchiature destinaAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
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te a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo attraverso l’utilizzazione (anche parziale) di tecnologie informatiche che sono caratterizzate, per mezzo di una attività di “codificazione” e “decodificazione”, dalla “registrazione” o “memorizzazione” tramite impulsi elettronici, su supporti adeguati, di
“dati”, cioè, di rappresentazioni elementari di un fatto, effettuata attraversi simboli (bit) in combinazioni diverse, e dalla elaborazione automatica di tali dati, in modo da generare informazioni costituite da
un insieme più o meno vasto di informazioni organizzate secondo una logica che consente loro di
esprimere un particolare significato per l’utente (Sez. 6, 04 ottobre 1999, n. 3067 P., Rv. 214945).
In generale, un dispositivo elettronico assurge al rango di sistema informatico o telematico se si caratterizza per l’installazione di un software che ne sovrintende il funzionamento, per la capacità di utilizzare periferiche o dispositivi esterni, per l’interconnessione con altri apparecchi e per la molteplicità
dei dati oggetto di trattamento.
Per evitare vuoti di tutela e per ampliare la sfera di protezione offerta ai sistemi informatici e telematici, è opportuno accogliere la nozione più ampia possibile di computer o unità di elaborazione di informazioni, come del resto la Corte ha già fatto in materia di carte di pagamento, trattandosi di strumenti idonei a trasmettere dati elettronici nel momento in cui si connettono all’apparecchiatura POS
(così Sez. F, 23 agosto 2012, n. 43755C., Rv. 253583).
Nell’ambito della protezione offerta dall’art. 615-ter c.p., ricadono anche i sistemi di trattamento delle informazioni che sfruttano l’architettura di rete denominata client-server, nella quale un computer o
terminale (il client) si connette tramite rete ad un elaboratore centrale (il server) per la condivisione di
risorse o di informazioni, che possono essere rese disponibili a distanza anche ad altri utenti.
La tutela giuridica è riservata ai sistemi muniti di misure di sicurezza perché, dovendosi proteggere
il diritto di uno specifico soggetto, è necessario che questo abbia dimostrato di volere riservare l’accesso
alle persone autorizzate e di inibire la condivisione del suo spazio informatico con i terzi.
3. La condotta illecita commessa in un ambiente informatico o telematico assume delle specifiche peculiarità per cui la tradizionale nozione – elaborata per una realtà fisica nella quale le conseguenze sono
percepibili e verificabili con immediatezza – deve essere rivisitata e adeguata alla dimensione virtuale.
In altre parole, il concetto di azione penalmente rilevante subisce nella realtà virtuale una accentuata
modificazione fino a sfumare in impulsi elettronici; l’input rivolto al computer da un atto umano consapevole e volontario si traduce in un trasferimento sotto forma di energie o bit della volontà
dall’operatore all’elaboratore elettronico, il quale procede automaticamente alle operazioni di codificazione, di decodificazione, di trattamento, di trasmissione o di memorizzazione di informazioni.
L’azione telematica viene realizzata attraverso una connessione tra sistemi informatici distanti tra loro, cosicché gli effetti della condotta possono esplicarsi in un luogo diverso da quello in cui l’agente si
trova; inoltre, l’operatore, sfruttando le reti di trasporto delle informazioni, è in grado di interagire contemporaneamente sia sul computer di partenza sia su quello di destinazione.
È stato notato che nel cyberspace i criteri tradizionali per collocare le condotte umane nel tempo e
nello spazio entrano in crisi, in quanto viene in considerazione una dimensione “smaterializzata” (dei
dati e delle informazioni raccolti e scambiati in un contesto virtuale senza contatto diretto o intervento
fisico su di essi) ed una complessiva “delocalizzazione” delle risorse e dei contenuti (situabili in una
sorte di meta-territorio).
Pertanto non è sempre agevole individuare con certezza una sfera spaziale suscettibile di tutela in
un sistema telematico, che opera e si connette ad altri terminali mediante reti e protocolli di comunicazione.
Del resto, la dimensione aterritoriale si è incrementata da ultimo con la diffusione dei dispositivi
mobili (tablet, smartphone, sistemi portatili) e del cloud computing, che permettono di memorizzare, elaborare e condividere informazioni su piattaforme delocalizzate dalle quali è possibile accedere da qualunque parte del globo.
Va comunque precisato che, se i dati oggetto di accesso abusivo sono archiviati su cloud computing o
resi disponibili da server che sfruttano tali servizi, potrebbe risultare estremamente difficile individuare
il luogo nel quale le informazioni sono collocate.
4. Le esposte osservazioni sono utili per risolvere la questione sottoposta alle Sezioni Unite. In
estrema sintesi, si può rilevare che le due teorie contrapposte sul luogo del commesso reato si ancorano
l’una (quella della Prima Sezione della Corte di cassazione) sul concetto classico di fisicità del luogo ove
è collocato il server e l’altra (quella del Giudice rimettente) sul funzionamento delocalizzato, all’interno
della rete, di più sistemi informatici e telematici.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
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Ora – pur non sminuendo le difficoltà di trasferire al caso concreto il criterio attributivo della competenza territoriale dell’art. 8 c.p.p., parametrato su spazi fisici e non virtuali – la Corte reputa sia preferibile la tesi del Giudice remittente, che privilegia le modalità di funzionamento dei sistemi informatici e
telematici, piuttosto che il luogo ove è fisicamente collocato il server.
4.1. Deve, innanzitutto, ricordarsi come l’abusiva introduzione in un sistema informatico o telematico – o il trattenimento contro la volontà di chi ha diritto di esclusione – sono le uniche condotte incriminate, e, per quanto rilevato, le relative nozioni non sono collegate ad una dimensione spaziale in senso tradizionale, ma a quella elettronica, trattandosi di sistemi informatici o telematici che archiviano e
gestiscono informazioni ossia entità immateriali.
Tanto premesso, si rileva come la ricordata sentenza della Prima Sezione abbia ritenuto che l’oggetto
della tutela concreta coincida con l’ambito informatico ove sono collocati i dati, cioè con il server posto
in luogo noto.
Tale criterio di articolare la competenza in termini di fisicità, secondo gli abituali schemi concettuali
del mondo materiale, non tiene conto del fatto che la nozione di collocazione spaziale o fisica è essenzialmente estranea alla circolazione dei dati in una rete di comunicazione telematica e alla loro contemporanea consultazione da più utenti spazialmente diffusi sul territorio.
Non può essere condivisa, allora, la tesi secondo la quale il reato di accesso abusivo si consuma nel
luogo in cui è collocato il server che controlla le credenziali di autenticazione del client, in quanto, in
ambito informatico, deve attribuirsi rilevanza, più che al luogo in cui materialmente si trova il sistema
informatico, a quello da cui parte il dialogo elettronico tra i sistemi interconnessi e dove le informazioni
vengono trattate dall’utente.
Va rilevato, infatti, come il sito ove sono archiviati i dati non sia decisivo e non esaurisca la complessità dei sistemi di trattamento e trasmissione delle informazioni, dal momento che nel cyberspazio (la
rete internet) il flusso dei dati informatici si trova allo stesso tempo nella piena disponibilità di consultazione (e, in certi casi, di integrazione) di un numero indefinito di utenti abilitati, che sono posti in
condizione di accedervi ovunque.
Non è allora esatto ritenere che i dati si trovino solo nel server, perché nel reato in oggetto l’intera
banca dati è “ubiquitaria”, “circolare” o “diffusa” sul territorio, nonché contestualmente compresente e
consultabile in condizioni di parità presso tutte le postazioni remote autorizzate all’accesso.
A dimostrazione della unicità del sistema telematico per il trattamento dei dati, basti considerare che
la traccia delle operazioni compiute all’interno della rete e le informazioni relative agli accessi sono reperibili, in tutto o in parte, sia presso il server che presso il client.
Né può in contrario sostenersi, come afferma l’orientamento che in questa sede si ritiene di non condividere, che le singole postazioni remote costituiscano meri strumenti passivi di accesso al sistema
principale e non facciano altrimenti parte di esso.
4.2. Da un punto di vista tecnico-informatico, il sistema telematico deve considerarsi unitario, essendo coordinato da un software di gestione che presiede al funzionamento della rete, alla condivisione
della banca dati, alla archiviazione delle informazioni, nonché alla distribuzione e all’invio dei dati ai
singoli terminali interconnessi.
Consegue che è arbitrario effettuare una irragionevole scomposizione tra i singoli componenti
dell’architettura di rete, separando i terminali periferici dal server centrale, dovendo tutto il sistema essere inteso come un complesso inscindibile nel quale le postazioni remote non costituiscono soltanto
strumenti passivi di accesso o di interrogazione, ma essi stessi formano parte integrante di un complesso meccanismo, che è strutturato in modo da esaltare la funzione di immissione e di estrazione dei dati
da parte del client.
I terminali, secondo la modulazione di profili di accesso e l’organizzazione della banca-dati, non si
limitano soltanto ad accedere alle informazioni contenute nel data base, ma sono abilitati a immettere
nuove informazioni o a modificare quelle preesistenti, con potenziale beneficio per tutti gli utenti della
rete, che possono fruire dì dati più aggiornati e completi per effetto dell’interazione di un maggior numero di operatori.
Alla luce di questa considerazione, va focalizzata la nozione di accesso in un sistema informatico,
che non coincide con l’ingresso all’interno del server fisicamente collocato in un determinato luogo, ma
con l’introduzione telematica o virtuale, che avviene instaurando un colloquio elettronico o circuitale
con il sistema centrale e con tutti i terminali ad esso collegati.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
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L’accesso inizia con l’unica condotta umana di natura materiale, consistente nella digitazione da remoto delle credenziali di autenticazione da parte dell’utente, mentre tutti gli eventi successivi assumono i connotati di comportamenti comunicativi tra il client e il server.
L’ingresso o l’introduzione abusiva, allora, vengono ad essere integrati nel luogo in cui l’operatore
materialmente digita la password di accesso o esegue la procedura di login, che determina il superamento delle misure di sicurezza apposte dal titolare del sistema, in tal modo realizzando l’accesso alla
banca-dati.
Da tale impostazione, coerente con la realtà di una rete telematica, consegue che il luogo del commesso reato si identifica con quello nel quale dalla postazione remota l’agente si interfaccia con l’intero
sistema, digita le credenziali di autenticazione e preme il testo di avvio, ponendo così in essere l’unica
azione materiale e volontaria che lo pone in condizione di entrare nel dominio delle informazioni che
vengono visionate direttamente all’interno della postazione periferica.
Anche in tal senso rileva non il luogo in cui si trova il server, ma quello decentrato da cui
l’operatore, a mezzo del client, interroga il sistema centrale che gli restituisce le informazioni richieste,
che entrano nella sua disponibilità mediante un processo di visualizzazione sullo schermo, stampa o
archiviazione su disco o altri supporti materiali.
Le descritte attività coincidono con le operazioni di “trattamento”, compiute sul client, che il d.lgs.
30 giugno 2003, n. 196, art. 4, lett. a), (codice della privacy) definisce come «qualunque operazione o
complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta,
la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione,
la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati».
La condotta è già abusiva (secondo la clausola di antigiuridicità speciale) nel momento in cui
l’operatore non autorizzato accede al computer remoto e si fa riconoscere o autenticare manifestando, in
tale modo, la sua volontà di introdursi illecitamente nel sistema con possibile violazione della integrità dei
dati.
Deve precisarsi in ogni caso che, se il server non risponde o non valida le credenziali, il reato si fermerà alla soglia del tentativo punibile.
Nelle ipotesi, davvero scolastiche e residuali, nelle quali non è individuabile la postazione da cui
agisce il client, per la mobilità degli utenti e per la flessibilità di uso dei dispositivi portatili, la competenza sarà fissata in base alle regole suppletive (art. 9 c.p.p.).
4.3. Il luogo in cui l’utente ha agito sul computer – che nella maggior parte dei casi, è quello in cui si
reperiscono le prove del reato e la violazione è stata percepita dalla collettività – è consono al concetto
di giudice naturale, radicato al locus commissi delicti di cui all’art. 25 Cost.
La Corte costituzionale, infatti, non ha mancato di sottolineare al riguardo (v. sentenza n. 168 del
2006) come il predicato della “naturalità” del giudice finisca per assumere nel processo penale «un carattere del tutto particolare, in ragione della fisiologica allocazione di quel processo nel locus commissi
delicti», giacché la «celebrazione di quel processo in quel luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata quella – più che tradizionale – per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati».
In tale cornice, se l’azione dell’uomo si è realizzata in un certo luogo – sia pure attraverso l’uso di
uno strumento informatico e, dunque, per sua natura destinato a produrre flussi di dati privi di una loro “consistenza territoriale” – non v’è ragione alcuna per ritenere che quel “fatto”, qualificato dalla legge come reato, non si sia verificato proprio in quel luogo, così da consentire la individuazione di un
giudice anche “naturalisticamente” (oltre che formalmente) competente.
Predicato, quello di cui si è detto, che, al contrario, non potrebbe ritenersi affatto soddisfatto ove si
facesse leva sulla collocazione, del tutto casuale, del server del sistema violato.
4.4. D’altra parte, che il fulcro della attenzione normativa sia stato, per così dire, allocato nel luogo in
cui si trova ad operare l’autore del delitto – evocando, dunque, una sorta di sincretismo tra la localizzazione dell’impianto informatico utilizzato per realizzare il fatto-reato e la persona che, proprio attraverso quell’impianto, accede e dialoga col sistema nella sua indefinibile configurazione spaziale – lo si può
desumere anche dal modo in cui risultano strutturate le circostanze aggravanti previste dal comma secondo dell’art. 615-ter c.p.
Se si considera, infatti, l’aggravante di cui al n. 2, del predetto comma, non avrebbe senso alcuno
immaginare una competenza per territorio saldata al luogo – in ipotesi del tutto eccentrico rispetto al
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“fatto” – in cui si trova il server, visto che è proprio l’attività violenta dell’agente (e, dunque, la relativa
collocazione territoriale) a specificare, naturalisticamente, il locus commissi delicti. Allo stesso modo, è
sempre il luogo in cui si trova ed opera l’agente ad essere quello che meglio individua il “fatto”, ove da
esso sia derivata, a norma del n. 3, la interruzione, la distruzione o il danneggiamento del sistema o di
qualche sua componente: è l’operazione di manipolazione, infatti (si pensi alla introduzione di un virus) che qualifica, specificandola in chiave aggravatrice, la condotta punibile, con l’ovvia conseguenza
che è l’azione umana (e non altro) a determinare il “fatto” e con esso il suo riferimento spazio-temporale.
Circostanze, quelle testé evidenziate, che valgono anche per l’aggravante dell’abuso della qualità
pubblica dell’autore del fatto di cui al n. 1, posto che – ancora una volta – è sempre la condotta di accesso a indicare “chi”, “dove” e “quando” hanno realizzato la fattispecie incriminata, qualificandola “abusiva” in ragione delle specifiche disposizioni che regolano l’impiego del sistema.
5. Deve ora, per completezza, rilevarsi che la conclusione è trasferibile alla diversa ipotesi nella quale
un soggetto facoltizzato ad introdursi nel sistema, dopo un accesso legittimo, vi si intrattenga contro la
volontà del titolare eccedendo i limiti della autorizzazione.
In questo caso, non può farsi riferimento all’azione con la quale l’agente ha utilizzato le sue credenziali e dato l’avvio al sistema, dal momento che tale condotta commissiva è lecita ed antecedente alla
perpetrazione del reato.
Necessita, quindi, fare leva sull’inizio della condotta omissiva che, come è stato puntualmente osservato, coincide con un uso illecito dello elaboratore, con o senza captazione di dati.
L’operatore remoto, anche in questo caso, si relaziona, con impulsi elettronici e colloquia con il sistema dalla sua postazione periferica presso la quale vengono trasferiti i dati con la conseguenza che è
irrilevante il luogo in cui è collocato il server per le già dette ragioni.
6. Conclusivamente, va affermato il seguente principio di diritto: “Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, di cui all’art. 615-ter c.p., è quello nel
quale si trova il soggetto che effettua l’introduzione abusiva o vi si mantiene abusivamente”.
7. Consegue che nella specie deve essere dichiarata la competenza dell’autorità giudiziaria del Tribunale di Napoli, atteso che la condotta abusiva è stata contestata come materialmente realizzata dalla
imputata R.M. negli uffici della Motorizzazione civile di (Omissis), dove, servendosi del computer in
dotazione dell’ufficio, essa si sarebbe introdotta abusivamente e ripetutamente nel sistema informatico
del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
[Omissis]
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LUIGI CUOMO
Magistrato – Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione
Reti “client-server” ed accesso abusivo a sistema informatico:
le Sezioni Unite individuano i criteri per stabilire
la competenza territoriale
“Client server networks” and unauthorized access
to computer systems: the Great Chamber specifies
the rules to establish territorial competence
La Suprema Corte con la sentenza in rassegna, fornendo una nozione unitaria di sistema telematico, fissa i criteri
per determinare la competenza territoriale per gli accessi abusivi commessi nelle reti "client-server", stabilendo
che il reato di cui all’art. 615-ter c.p. si consuma non nel luogo in cui si trova il "server" all’interno del quale sono
archiviate le informazioni, ma in quello diverso in cui si trova l’utente che dalla postazione remota digita le credenziali di autenticazione e le invia al sistema centrale.
The Court of Cassation identifies the rules to determine territorial competence for the offences concerning unauthorized access to computer systems. With specific regard to the crime provided for in art. 615-ter of the Criminal
Code, the competent judge is that of the place where the remote user is located.
PREMESSA
Con la sentenza in rassegna le Sezioni Unite, risolvendo un conflitto di competenza, intervengono definitivamente per chiarire se, ai fini della determinazione della competenza territoriale, il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico sia quello in cui si trova l’utente che
si introduce abusivamente nel sistema o, invece, quello nel quale è ubicato il “server” che elabora e controlla le credenziali di autenticazione fornite dall’agente.
La questione, particolarmente avvertita dai giudici di merito, aveva generato incertezze interpretative circa il luogo di consumazione del reato di cui all’art. 615-ter c.p., che poteva coincidere nelle reti
“client-server”, alternativamente, con il punto dal quale l’utente digita le credenziali di accesso o con
quello in cui si trova fisicamente il server all’interno del quale sono archiviate le informazioni oggetto di
trattamento.
Per pervenire alla soluzione, ritenuta in senso tecnico-giuridico maggiormente aderente alla realtà
informatica delle reti e ai meccanismi di funzionamento dei sistemi a circuitazione elettronica, le Sezioni Unite ricostruiscono l’istituto giuridico del «domicilio informatico» e offrono una convincente spiegazione delle ragioni per le quali optano per la prevalenza del luogo fisico (più facilmente individuabile) in cui si trova l’utente, rispetto a quello immateriale in cui sono archiviati i dati e vengono eseguite
le operazioni di autenticazione e di validazione dell’operatore.
L’analitica sentenza della Suprema Corte offre, nei suoi passaggi argomentativi essenziali, lo spunto
per una più ampia riflessione sul «domicilio informatico» e sulle «modalità di funzionamento delle reti
telematiche».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
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IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO
Le tecnologie informatiche costituiscono uno strumento essenziale e irrinunciabile di comunicazione,
informazione, elaborazione e archiviazione dei dati: «la loro diffusione capillare, da un lato ha dato vita
a nuove forme di comunicazione, ma dall’altro ha creato molteplici problemi sul piano giuridico: a
fronte delle enormi possibilità di archiviazione e gestione di grandi quantità di dati, sussiste l’alto rischio di perdita o duplicazione abusiva dei dati immagazzinati» 1.
Per tutelare le informazioni e per prevenire illegittime intrusioni è stato inserito nel codice penale il
reato di cui all’art. 615-ter c.p., che protegge il cosiddetto «domicilio informatico», in tal modo colmando talune lacune strutturali dell’ordinamento penale in materia di “computer crimes”.
La norma intende regolamentare il cosiddetto “cyberspazio”, inteso come luogo di interazione tra
uomo e macchina, all’interno del quale vengono in rilievo «flussi di informazioni digitali, che, spostandosi attraverso reti tra loro collegate, sfuggono alla ordinaria qualificazione delle cose e a una netta distinzione tra una dimensione oggettiva e soggettiva» 2.
Le ragioni che hanno portato all’introduzione nel nostro ordinamento di tale disposizione normativa
vanno ricercate nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica del 1989,
con la quale si chiedeva, tra l’altro, agli Stati membri di assicurare «una protezione, in via anticipata e
indiretta, contro i rischi di manipolazioni informatiche, di danneggiamento dei dati e di spionaggio informatico», che possono derivare dall’accesso non autorizzato a un sistema informatico.
Il ricorso alla sanzione penale era quindi apparso necessario in considerazione della particolare vulnerabilità delle informazioni conservate in formato elettronico, facilmente riproducibili, in gran numero
e in brevissimo tempo, su supporti informatici di piccole dimensioni 3.
L’ambiente informatico, contenendo informazioni e dati personali che devono rimanere riservati e
conservati al riparo da ingerenze e intrusioni provenienti da terzi, rappresenta un luogo inviolabile delimitato da confini virtuali, come uno spazio privato dove si proteggono le attività domestiche, che crea
una interdipendenza immediata con il soggetto che ne è titolare, il quale trascorre al suo interno una rilevante porzione della sua esistenza 4.
È evidente come il personal computer non può essere più considerato un semplice strumento di elaborazione e conservazione di documenti in formato elettronico, ma rappresenta un indispensabile mezzo di catalogazione, applicazione e ricerca attraverso il quale l’individuo esprime le sue capacità professionali, culturali e, più in generale, le proprie facoltà intellettive 5.
Nel sistema informatico è custodita e conservata «una estensione della stessa mente umana, poiché
l’utente, lavorando con la macchina e inserendovi le sue informazioni, affida ad essa le proprie strategie
professionali, i pensieri e i progetti personali, che costituiscono espressioni del vivere quotidiano e della
personalità dell’uomo» 6.
La fattispecie incriminatrice, proteggendo il bene giuridico dell’integrità e della riservatezza delle informazioni, non a caso è stata inserita nella sezione IV del codice penale dedicata ai delitti contro
l’inviolabilità del domicilio, penalmente inteso come luogo dove l’individuo esplica liberamente la personalità in tutte le sue manifestazioni 7.
1
N. Maiorano, Commento all’art. 615-ter c.p., in Lattanzi-Lupo (a cura di) Codice penale – Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, XI, Milano, 2010, p. 1349 ss.
2
R. Scudieri, Un caso di hacking: luoghi reali e luoghi virtuali tra diritto e informatica, in Ciberspazio e diritto, 2006, 7, p. 414.
3
Meritevole di tutela penale appare il contenuto dei sistemi informatici, ossia i dati e i programmi che vi sono immagazzinati e che
l’intruso potrebbe manipolare fraudolentemente, danneggiare e, soprattutto, conoscere e riprodurre (C. Pecorella, L’attesa pronuncia
delle Sezioni Unite sull’accesso abusivo a un sistema informatico: un passo avanti non risolutivo, in Cass. pen., 2012, p. 3692 ss.).
4
È emblematico pensare come negli anni si è modificato il rapporto "uomo-computer", considerato che, se in origine era effettivamente un mezzo per svolgere un’attività professionale, attualmente è un vero e proprio ambito spaziale all’interno del
quale l’individuo proietta tutta la sua personalità, specie con la diffusione crescente dei “social network” e con il maggiore utilizzo del “cloud computing”, che proiettano l’individuo sempre più nel digitale (P. Galdieri, Il domicilio informatico:
l’interpretazione dell’art. 615-ter c.p. tra ragioni di carattere sistematico e forzature, in Dir. informaz. e informatica, 2013, 1, p. 88 ss.).
5
Così L. Cuomo, La tutela penale del domicilio informatico, in Cass. pen., 2000, p. 2990 ss.
6
G. Aronica, L’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico nella giurisprudenza, in Indice pen., 2010, p. 204.
7
La condotta incriminata, all’evidenza, «implica una “interazione” tra l’agente e il sistema attraverso la tastiera o una connessione telematica» (P. Piccialli, Accesso abusivo ad un sistema informatico, in Il corriere del merito, 2012, 4, p. 403).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
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Con la previsione dell’art. 615-ter c.p., introdotto con la l. 23 dicembre 1993, n. 547, «il legislatore ha
assicurato la protezione del "domicilio informatico" quale spazio ideale (ma anche fisico in cui sono
contenuti i dati informatici) di pertinenza della persona, ad esso estendendo la tutela della riservatezza
della sfera individuale, quale bene anche costituzionalmente protetto» 8.
Pertanto, colui che si inserisce abusivamente nell’altrui unità di elaborazione, contro la volontà del
titolare, commette un reato al pari di chi si introduce in un’abitazione senza il consenso dell’avente diritto: la violazione del domicilio informatico è punibile «anche se avviene senza intaccare l’ambito spaziale in cui sono materialmente collocate le apparecchiature, a causa della natura virtuale dei meccanismi di funzionamento delle reti e di trattamento delle informazioni, in quanto il concetto di intrusione
evoca qualunque attività che sia idonea a porre in comunicazione un computer chiamante con un computer risponditore» 9.
L’aggressione ai sistemi informatici e telematici è solitamente realizzata da soggetti con elevate conoscenze e capacità tecnico-informatiche, che vengono definiti “hacker” 10, che hanno la capacità di alterare il funzionamento di rilevanti settori di interesse collettivo in modo assolutamente imprevedibile,
come è del resto sottolineato dalla creazione e dal potenziamento in tutto il mondo di strutture governative deputate alla prevenzione ed al contrasto delle intrusioni informatiche.
LA NOZIONE DI SISTEMA INFORMATICO O TELEMATICO
Le Sezioni Unite, ben consapevoli delle ricadute pratiche della propria decisione, hanno dedicato una
particolare attenzione alla nozione di sistema informatico o telematico, il cui significato deve essere
adeguato al costante sviluppo tecnologico, che interessa dispositivi, reti, infrastrutture e impianti di
preminente rilievo strategico nell’organizzazione della società moderna.
L’art. 1 della Convenzione Europea di Budapest del 23 novembre 2001 fornisce la definizione di «sistema informatico», che viene individuato in «qualsiasi apparecchiatura o gruppo di apparecchiature
interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica dei dati».
La l. n. 547 del 1993, che ha introdotto nel codice penale i cosiddetti «computer’s crimes», non ha enunciato, quale oggetto di tutela, la definizione di «sistema informatico», ma ne ha presupposto il significato ed i profili tecnici.
Il riferimento a strumenti tecnologici impiegati a fini di automazione è inserito in varie disposizioni
di legge, che contengono espressioni come «elaboratore elettronico, «sistema informativo automatizzato», «centro di elaborazione dati», «impianto meccanografico» o altro.
Per evitare vuoti di tutela, il Supremo collegio ha assunto una nozione molto ampia di «computer»,
allo scopo di ricomprendervi tutti i sistemi automatizzati e, quindi, anche quelli a programma variabile,
gli elaboratori cosiddetti dedicati, nonché i calcolatori nei quali l’inserimento del software è precostituito
mediante «firmware» o circuitazione integralmente prestabilita e non mutabile 11.
8
L’art. 615-ter c.p. non si limita a tutelare solamente i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici protetti, ma offre una tutela più ampia che si concreta nello “jus excludendi alios”, quale che sia il contenuto dei dati racchiusi in esso,
purché attinente alla sfera di pensiero o all’attività, lavorativa o non, dell’utente, con la conseguenza che la tutela della legge si
estende anche agli aspetti economico-patrimoniali dei dati sia che titolare dello “jus excludendi” sia persona fisica, sia giuridica,
privata o pubblica, o altro ente» (Cass., sez. VI, 4 ottobre 1999, n. 3067, in CED Cass. n. 214946).
9
Non essendo possibile l’introduzione o il trattenimento fisico dell’intera persona nell’ambiente informatico, l’accesso cui fa
riferimento la norma non è quello materiale, previsto dal reato di violazione di domicilio, ma quello elettronico, telematico o
virtuale, mediante interazione sulla tastiera dell’elaboratore o connessione elettronica tra i computer, ovvero attraverso altre
apparecchiature specifiche, idonee ad entrare in comunicazione con la macchina» (L. Cuomo-R. Razzante, La nuova disciplina dei
reati informatici, Torino, 2009, p. 9 ss.).
10
Hacker è colui che tramite il proprio personal computer trova collegamenti o cerca accessi non autorizzati a informazioni o
banche dati: «si tratta in genere di soggetti caratterizzati da un elevato tasso di conoscenze tecniche e che talvolta sono animati
da motivazioni di carattere politico o ideologiche, muovendo dalla considerazione che l’accesso ai sistemi o ai dati deve essere
garantito a tutti» (R. Garofoli, Manuale di diritto penale – Parte speciale, Vol. II, Nel Diritto Editore, p. 350).
11
Per assecondare tale esigenza sono state, ad esempio, qualificate come sistema informatico «le carte di credito che sono
idonee a trasmettere dati elettronici nel momento in cui si connettono all’apparecchiatura POS” (Cass., sez. fer., 23 agosto 2012,
n. 43755, in CED Cass., n. 253583).
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È comunque necessario che i singoli sistemi utilizzino, in tutto o in parte, tecnologie elettroniche che
trattano e rappresentano informazioni attraverso simboli numerici elementari denominati «bit», che,
organizzati in opportune combinazioni, vengono sottoposti ad elaborazione automatica 12.
Il termine è suscettibile di ricomprendere come possibile oggetto di attacco tanto la macchina nel suo
insieme, quanto i suoi singoli componenti, a condizione che il complesso delle apparecchiature, dei
programmi e delle informazioni sia unitariamente finalizzato all’espletamento di determinate funzioni
e al raggiungimento di specifiche utilità 13.
Con l’espressione «sistema telematico», invece, le disposizioni sui crimini informatici rinviano ad un
insieme combinato di apparecchiature idoneo alla trasmissione a distanza di dati e di informazioni, attraverso l’impiego di tecnologie dedicate alle telecomunicazioni 14.
Nell’ambito dei meccanismi di elaborazione delle informazioni rientrano i sistemi denominati
“client-server”, che indicano una architettura di rete nella quale genericamente un “client” o terminale si
connette ad un “server” per la fruizione di un certo servizio, quale ad esempio la condivisione di una
risorsa hardware o software, ovvero per la consultazione, l’immissione o la modifica di informazioni attraverso la sottostante architettura protocollare.
La Suprema Corte, prendendo posizione in argomento, ha affermato che il sistema telematico per “la
gestione e lo scambio dei dati” a distanza, formato da server, client, terminali e rete di trasporto delle informazioni, corrisponde in realtà ad una sola “unità di elaborazione”.
Il sistema telematico deve considerarsi unitario perché è coordinato da un software di gestione che
presiede al funzionamento della rete, alla condivisione della banca dati, alla archiviazione delle informazioni, nonché alla distribuzione e all’invio dei dati ai singoli terminali interconnessi.
In questa organizzazione logica dei dati rientra anche il sistema telematico in dotazione alla Motorizzazione Civile, che ha sede presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, utilizzato nel caso
in esame dal funzionario infedele per effettuare visure elettroniche nell’interesse di un privato titolare
di una agenzia di pratiche automobilistiche.
Questo schema è replicato anche da altre banche dati di interesse strategico, come “il sistema SDI”
(Sistema Informativo Interforze) in dotazione alle forze di polizia, i cui dati sono archiviati in un server
centrale (fisicamente allocato presso il Ministero dell’interno in Roma), che è consultabile tramite rete
da tutti gli operatori distribuiti sul territorio nazionale.
Il terminale ha, appunto, la funzione di inviare le istruzioni (dalle chiavi logiche di autenticazione alle opzioni di ricerca) al sistema centralizzato, che restituisce all’utente il risultato della propria richiesta
di accesso e di consultazione delle informazioni.
Le banche dati organizzate secondo tale modello presentano la peculiarità che, generalmente, ciascun utente non si limita solo a consultare i dati, ma può modificarli o inserirli secondo regole e criteri
predeterminati.
La sentenza in commento, quindi, perviene alla logica e coerente conclusione che la rete “clientserver” costituisce un “complesso inscindibile” nel quale le postazioni remote non costituiscono soltanto
strumenti passivi di accesso o di interrogazione, ma essi stessi formano parte integrante di un complesso meccanismo, che è strutturato in modo da esaltare la funzione di immissione e di estrazione dei dati
da parte del “client”.
12
In assenza di una puntuale classificazione legislativa, è stata la giurisprudenza a fornire una definizione tendenzialmente
valida per tutte le fattispecie incriminatrici, che fanno riferimento all’espressione «sistema informatico», che esprime «un complesso di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso l’utilizzazione (anche parziale)
di tecnologie informatiche, che sono caratterizzate – per mezzo di un’attività di “codificazione” e “decodificazione” – dalla “registrazione” o “memorizzazione”, per mezzo di impulsi elettronici, su supporti adeguati, di "dati", cioè di rappresentazioni
elementari di un fatto, effettuata attraverso simboli (bit), in combinazione diverse, e dalla elaborazione automatica di tali dati, in
modo da generare “informazioni”, costituite da un insieme più o meno vasto di dati organizzati secondo una logica che consenta loro di esprimere un particolare significato per l’utente» (Cass., sez. VI, 4 ottobre 1999, n. 3067, in CED Cass. n. 214945).
13
I sistemi informatici o telematici di “importanza collettiva” sono presidiati da una tutela rafforzata e «ai fini della configurabilità
della circostanza aggravante dell’essere il sistema di interesse pubblico non è sufficiente la qualità di concessionario di pubblico servizio rivestita dal titolare del sistema, dovendosi accertare se il sistema informatico o telematico si riferisca ad attività direttamente rivolta
al soddisfacimento di bisogni generali della collettività» (Cass., sez. V, 13 dicembre 2010, n. 1934, in CED Cass. n. 249049).
14
Secondo la dottrina, ”telematico” sta per metodo tecnologico di trasmissione e circolazione del pensiero e, quindi, dei dati
o delle informazioni a distanza, mediante l’impiego di un linguaggio computerizzato, che veicola informazioni automatizzate»
(A. Sorgato, Il reato informatico, in Il merito, 2008, 10, p. 42).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
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I terminali remoti, secondo la modulazione di profili di accesso e l’organizzazione logica dei dati,
non si limitano passivamente ad accedere alle informazioni contenute nel “data base”, ma svolgono una
funzione attiva e dinamica nel processo di gestione dei dati, essendo abilitati a immettere nuove informazioni o a modificare quelle preesistenti, con potenziale beneficio per tutti gli utenti della rete, che
possono fruire di dati più aggiornati e completi per effetto dell’interazione di un maggior numero di
operatori.
In base a queste considerazioni può affermarsi che, per il funzionamento di questa tipologia di rete,
il luogo dove sono archiviati i dati non si rivela decisivo e non esaurisce la complessità dei fenomeno
che coinvolge il trattamento e la trasmissione delle informazioni, dal momento che nel cyberspazio (la
rete internet) il flusso dei dati informatici si trova allo stesso tempo nella piena disponibilità di consultazione e di integrazione di un numero indefinito di utenti abilitati, che sono posti in condizione di accedervi ovunque.
Non si può, allora, sostenere che i dati si trovino solo nel server, perché, come ha chiarito la Corte di
cassazione, nella rete così organizzata l’intera banca dati è “ubiquitaria”, “circolare” o “diffusa” sul territorio, nonché compresente e consultabile in condizioni di parità presso tutte le postazioni remote autorizzate all’accesso.
La memorizzazione dei dati ai quali gli imputati hanno avuto indebitamente accesso impone di verificare, ai fini della competenza territoriale, se il reato debba ritenersi consumato al momento della digitazione delle credenziali di autenticazione dalla postazione remota, ovvero presso il server centrale allorquando viene portata a compimento con esito positivo la fase di validazione della password di accesso.
LE MISURE DI SICUREZZA
La difesa giuridica è limitata ai sistemi informatici o telematici «protetti da misure di sicurezza», perché, dovendosi tutelare il diritto di uno specifico soggetto, è necessario che quest’ultimo abbia dimostrato, con la predisposizione di appositi mezzi di protezione logici (o anche fisici), di voler riservare
l’accesso e la permanenza nel sistema alle sole persone espressamente autorizzate 15.
Le misure di sicurezza sono costituite dai meccanismi logici, tecnologici ed organizzativi che tendono ad impedire la commissione di reati informatici e a prevenire altri eventi dannosi per la macchina o
per i dati (più che mezzi di protezione del luogo ove è collocato il computer, si tratta di strumenti protettivi aventi ad oggetto direttamente il sistema informatico).
L’art. 4, comma 3, lett. a), d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice della privacy) definisce “misure minime” «il complesso delle misure tecniche, informatiche, organizzative, logistiche e procedurali di sicurezza
che configurano il livello minimo di protezione richiesto in relazione ai rischi previsti nell’articolo 31» 16.
L’elusione delle barriere protettive può avvenire in qualsiasi modo, sia modificando i presupposti
conoscitivi del software che regola gli accessi, che individuando password con ripetuti tentativi o aggirando in ogni altro modo la protezione 17.
Gli accorgimenti predisposti dal titolare costituiscono una condizione per la verifica dell’abusività
dell’accesso e per semplificare l’accertamento dell’aspetto soggettivo del reato, avvertendo l’intrusore
dell’abuso che sta compiendo 18.
15
Per “misure di sicurezza” devono genericamente intendersi tutti quei «mezzi di protezione sia logica che fisica (materiale o
personale) che il “dominus” del sistema informatico o telematico abbia predisposto al fine di riservare l’accesso o la permanenza
alle sole persone da lui autorizzate» (G. Pestelli, Brevi note in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, in Cass. pen.,
2012, p. 2320 ss.); per approfondimenti v. anche C. Parodi-A. Calice, Responsabilità penali e Internet, in Sole 24 Ore, 2001, p. 65.
16
Suggestivo è il paragone tra le misure protettive contemplate dall’art. 615-ter c.p. e gli «offendicula»: può ben dirsi che si
tratti dell’evoluzione tecnologica di tale categoria di strumenti difensivi (C. Farina, Introduzione nel sistema informatico di uno studio professionale e appropriazione dell’archivio clienti, in Dir. pen. proc., 2009, p. 725).
17
Integra il delitto di introduzione abusiva in un sistema informatico o telematico l’accesso ad un sistema che sia protetto da
un dispositivo costituito anche soltanto da una parola chiave o "password"» (Cass., sez. II, 21 febbraio 2008, n. 36721, in CED
Cass. n. 242084).
18
Cfr. C. Pecorella, L’attesa pronuncia delle Sezioni Unite sull’accesso abusivo a un sistema informatico: un passo avanti non risolutivo, in Cass. pen., 2012, p. 3692 ss.; L. Cuomo, Misure di sicurezza e accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, in Cass. pen.,
2002, p. 1018 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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LE CONDOTTE SANZIONATE
Le Sezioni Unite, per risolvere la questione oggetto della rimessione, sono state preliminarmente chiamate a verificare se il dipendente infedele, che aveva consultato ed estratto i dati elettronici per scopi
estranei a quelli di servizio, avesse posto in essere un accesso abusivo o un mantenimento illecito
all’interno del sistema telematico.
Al fine di ricostruire il percorso logico seguito dalla Suprema Corte è necessario chiarire come debbano interpretarsi i termini “accesso” (o meglio “introduzione”) e “mantenimento” all’interno di un sistema informatico o telematico.
L’art. 615-ter c.p. punisce “l’introduzione abusiva”, che consiste nella instaurazione di un “dialogo
comunicativo” con il sistema, che può avvenire con «l’utilizzo di password carpite da terzi, l’impiego di
appositi software per individuare parole chiave, l’ingresso in livelli di accesso diversi da quelli per cui si
è legittimati, o contravvenendo a specifici regolamenti che disciplinino tempi, modalità o qualifiche
dell’accesso» 19.
La condotta incriminata implica una interazione tra l’agente e il sistema, realizzata mediante
l’utilizzo di una tastiera o l’attivazione di una connessione telematica e concerne la «intrusione da parte
di colui che non sia in alcun modo abilitato» 20, che non si esaurisce nel solo uso dell’hardware, ma richiede un dialogo attivo con il software» 21: l’introduzione può avvenire “da lontano”, cioè per via elettronica, allorché venga utilizzato un altro elaboratore, ovvero “da vicino”, ad opera di chi si venga a
trovare a diretto contatto con il sistema informatico 22.
L’intrusione deve consistere, per superare la barriera di perimetrazione elettronica posta a protezione del sistema informatico, in un ingresso abusivo reso possibile «per l’uso di parole chiave, codici o altri strumenti duplicati, rubati, sottratti, ricevuti o comunque utilizzati in modo illecito» 23.
Per la giurisprudenza il termine “accesso” è riferito «non tanto al semplice collegamento fisico o
all’accensione dello schermo, quanto a quello logico, ovvero al superamento della barriera di protezione
che rende possibile il dialogo con il sistema, in modo che l’agente venga a trovarsi nella condizione di conoscere dati o informazioni», perché è solo in quel momento che può dirsi realizzata la situazione di pericolo per la riservatezza dei dati e dei programmi, che giustifica l’intervento della sanzione penale 24.
L’abuso in esame discende da una clausola di “antigiuridicità speciale”, che estende l’oggetto della
interpretazione della fattispecie alla normativa extrapenale, cui è demandato il compito di regolare
l’accesso lecito al sistema informatico, distinguendo le condotte di ingresso o mantenimento clandestine
e fraudolente.
Il semplice fatto che qualcuno riesca a superare le misure di sicurezza costituisce, in sé, un attentato
alla affidabilità dei sistemi di elaborazione, esponendo a pericolo il bene giuridico della integrità dei dati, che potrebbero essere stati danneggiati, copiati o contaminati da “virus informatici” 25.
19
S. Civardi, La distinzione fra accesso abusivo a sistema informatico e abuso dei dati acquisiti, in Dir. informaz. e informatica, 2009, 1, p. 60.
20
Cass., sez. V, 30 settembre 2008, n. 1727, in CED Cass. n. 242939. Non integra il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615-ter c.p.) – che ha per oggetto un sistema informatico protetto da misure di sicurezza e richiede che l’agente
abbia neutralizzato tali misure – colui che, senza avere concorso nell’accesso abusivo e conseguente indebito trasferimento (cosiddetto trascinamento) della cartella contenente dati riservati del proprio datore di lavoro dall’area protetta alla cosiddetta area
comune del sistema informatico, a cui possono accedere tutti i dipendenti, acceda all’area comune avvalendosi solo di dati e
strumenti di cui sia legittimamente in possesso e prenda visione della cartella riservata trasferendola su un dischetto (Cass., sez.
V, del 4 dicembre 2006, n. 6459, in CED Cass. n. 236049).
21
R. Garofoli, Manuale di diritto penale – Parte speciale, Tomo II, Nel Diritto Editore, p. 350; S. Civardi, La distinzione fra accesso
abusivo a sistema informatico e abuso dei dati acquisiti, in Dir. informaz. e informatica, 2009, 1, p. 62; C. Parodi-A. Calice, Responsabilità
penali e Internet, in Sole 24 Ore, p. 54.
22
L.D. Cerqua, Accesso abusivo e frode informatica: l’orientamento della Cassazione, in Diritto e prat. soc., 2000, 16, p. 53.
23
E. Mengoni, Accesso autorizzato al sistema informatico o telematico e finalità illecite: nuovo round alla configurabilità del reato, in
Cass. pen., 2011, p. 2200 ss.
24
Cass., sez. V, 8 luglio 2008, n. 37322, in Cass. pen., 2009, p. 3454; Cass., sez. II, 21 febbraio 2008, n. 36721, in Cass. pen., 2009,
p. 4363.
25
Sulla natura di pericolo del reato v. D. Foti, Accesso abusivo a sistema informatico o telematico. Un “pericoloso” reato di pericolo,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 456.
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Oltre all’introduzione è punito, in via alternativa, anche il mantenimento all’interno del sistema, che
presuppone una legittima ammissione nell’ambiente informatico e una successiva volontà di espulsione
dell’avente diritto.
L’intrusione è prodromica al mantenimento e tale successiva condotta si realizza nei casi in cui a un
ingresso originariamente legittimo faccia seguito un trattenimento illegittimo, che perdura consapevolmente.
La condotta di mantenimento «va intesa come un continuare ad accedere o restare connesso con il
sistema, eccedendo i limiti dell’autorizzazione: in altre parole, il soggetto si trattiene “invito domino”
nel sistema informatico nel momento in cui non “esce” (log-out) dall’ambiente virtuale, interrompendo
il dialogo logico in precedenza instaurato» 26.
Sulla base di queste considerazioni deve ritenersi che l’agente, nel caso specifico, abbia commesso un
“accesso” abusivo e non un mantenimento illecito, essendo irrilevante l’utilizzo della password in dotazione al funzionario infedele, in quanto il colloquio circuitale con il sistema non era finalizzato al compimento di una attività di ufficio, ma ad assecondare fin dall’inizio interessi esclusivamente personali o
privati, in violazione delle prescrizioni e delle disposizioni impartite dall’ente di appartenenza 27.
La materia è già stata affrontata dalla giurisprudenza, che ha esaminato la possibilità di configurare
il reato anche nel caso in cui un soggetto, legittimamente abilitato con rilascio di legittime credenziali
informatiche e ammesso ad utilizzare il sistema elettronico, abbia invece agito per conseguire finalità
illecite.
Le Sezioni Unite hanno definitivamente chiarito che è penalmente rilevante «la condotta di colui che,
pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le
condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema» 28.
26
I. Salvadori, Quando un insider accede abusivamente ad un sistema informatico o telematico? Le Sezioni Unite precisano l’ambito di
applicazione dell’art. 615-ter, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2012, 1-2, p. 376 ss.; S. Logroscino, Il delitto di accesso abusivo a un sistema
informatico o telematico da parte del soggetto abilitato all’accesso, in Riv. pen., 2012, p. 390; E. Mengoni, Accesso autorizzato al sistema
informatico o telematico e finalità illecite: nuovo round alla configurabilità del reato, in Cass. pen., 2011, p. 2200; nella giurisprudenza
numerosi sono i casi in cui è stata affermata la responsabilità di dipendenti infedeli, che, pur se abilitati, dopo essere legittimamente entrati nel sistema informatico dell’amministrazione o della società di appartenenza, hanno: 1) effettuato interrogazioni
sul sistema centrale dell’anagrafe tributaria sulla posizione di contribuenti non rientranti, in ragione del loro domicilio fiscale,
nella competenza del proprio ufficio (Cass., sez. V, 24 aprile 2013, n. 22024, in CED Cass. n. 255387); 2) manomesso la posizione
di un contribuente, effettuando sgravi fiscali non dovuti (Cass., sez. II, 6 marzo 2013, n. 13475, in CED Cass. n. 254911); 3) compiuto una interrogazione alla banca dati del Ministero dell’Interno – relativa ad una vettura, usando la propria “password” con
l’artifizio della richiesta di un organo di Polizia in realtà inesistente, necessario per accedere a tale informazione (Cass., sez. V,
22 settembre 2010, n. 39620, in CED Cass. n. 248653); 4) acquisito indebitamente notizie riservate tratte dalla banca dati del sistema telematico di informazione interforze del Ministero dell’Interno, per l’utilizzo in attività di investigazione privata (Cass.,
sez. V, 13 febbraio 2009, n. 18006, in CED Cass. n. 243602); 5) alterato i dati contenuti nel sistema in modo tale da fare apparire
insussistente il credito tributario dell’Erario nei confronti di numerosi contribuenti (Cass., sez. V, 30 settembre 2008, n. 1727, in
CED Cass. n. 242938).
27
Ed infatti, «commette il reato previsto dall’art. 615-ter c.p. il soggetto che, «avendo titolo per accedere al sistema, lo utilizzi
per finalità diverse da quelle consentite» (Cass., sez. V, 8 luglio 2008, n. 37322, in CED Cass., n. 241202), «contro la volontà
espressa o tacita del titolare» (Cass., sez. V, 18 gennaio 2011, n. 24583, in CED Cass., n. 249822), «per raccogliere dati protetti per
finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, in quanto la norma non
punisce soltanto l’accesso abusivo ma anche la condotta di chi vi si mantenga contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo» (Cass., sez. V, 10 dicembre 2009, n. 2987, in CED Cass., n. 245842; Cass., sez. V, 13 febbraio 2009, n. 18006, in
CED Cass., n. 243602). In dottrina v. R. Flor, Permanenza non autorizzata in un sistema informatico o telematico, violazione del segreto
d’ufficio e concorso nel reato da parte dell’extraneus, in Cass. pen., 2009, p. 1509 ss.; G. Aronica, L’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico nella giurisprudenza, in Indice pen., 2010, 1, p. 209; F. D’arcangelo, L’accesso ad un sistema informatico operato mediante
abuso del proprio titolo di legittimazione, in Il corriere del merito, 2009, 6, p. 660.
28
Cfr. Cass., sez. un., 27 ottobre 2011, n. 4694, in CED Cass., n. 251269; è stato, così, superato l’orientamento che tendeva ad
escludere la configurabilità del reato a carico del soggetto che, avendo titolo per accedere al sistema, continuava ad utilizzarlo
per acquisire informazioni per finalità estranee a quelle di ufficio, ferma restando la sua responsabilità per i diversi reati eventualmente configurabili (cfr. Cass., sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 39290, in CED Cass., n. 242684; Cass., sez. V, 29 maggio 2008, n.
26797, in CED Cass., n. 240497; Cass., sez. V, del 20 dicembre 2007, n. 2534, in CED Cass., n. 239105). In dottrina V. Spinosa, La
prima sentenza delle Sezioni Unite sui reati informatici: interpretazione estensiva della condotta di permanenza abusiva nel sistema, in Indice pen., 2013, 1, p. 121 ss.
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IL LUOGO DI CONSUMAZIONE DEL REATO
Il reato si consuma al momento dell’intrusione, in quanto l’elusione o la manipolazione delle barriere
elettroniche è indice della volontà di penetrare all’interno del sistema, mentre non è necessario che il
responsabile abbia agito per fini di lucro o semplicemente per gioco, ovvero abbia effettivamente carpito informazioni o impedito il funzionamento dell’unità di elaborazione, sebbene, di regola, l’intrusione
è preordinata alla lettura o alla duplicazione dei dati.
La disposizione, per la natura generica del dolo, prescinde dalle concrete finalità dell’agente e dagli
effetti provocati all’interno dell’elaboratore: non si richiede che all’introduzione faccia seguito l’acquisizione di informazioni segrete o riservate, la duplicazione o l’alterazione di dati, il danneggiamento del
sistema o la consultazione degli archivi senza il pagamento di un canone 29.
Con le tecnologie di comunicazione, il concetto di condotta, teorizzato per una realtà fisica nella quale le conseguenze sono percepibili ed empiricamente verificabili nel luogo dove si trova l’agente, sfuma
nella dimensione virtuale.
Il comando trasferito mediante tastiera corrisponde ad una “condotta smaterializzata” e rappresenta
uno degli elementi costitutivi dei reati informatici, che si connota per l’estrinsecazione di un atto di volontà dall’operatore attraverso un impulso elettronico diretto al computer 30.
Tutte le azioni che avvengono in rete assumono l’aspetto di comportamenti comunicativi, che consistono nella trasmissione o nel trasferimento di dati elettronici, come le istruzioni che vengono scambiate tra i sistemi informatici per coordinarne il reciproco funzionamento o i contenuti multimediali che
sono trasmessi tra gli utenti che utilizzano la tecnologia.
Il soggetto attivo è in grado di agire contemporaneamente sia sul computer di partenza, che su quello di destinazione, producendo uno o più eventi, i cui esiti dipendono dal tipo di istruzioni inviate e dai
programmi in concreto utilizzati 31.
Il concetto di sistema informatico prescinde dal luogo fisico ove sono conservati i dati, per cui il riferimento al tradizionale concetto di “violazione di domicilio”, al quale si è ispirata la creazione del domicilio informatico, non pare più attuale e pertinente 32.
La dimensione “aterritoriale” del cyberspazio si è incrementata negli ultimi anni con la diffusione
del “cloud computing”, che permette di memorizzare, archiviare, elaborare e condividere files su piattaforme delocalizzate in rete, alle quali è possibile accedere da qualunque punto del globo.
Il termine indica un sistema deputato alla archiviazione, elaborazione e uso di dati su computer
“remoti”, ossia un procedimento di “virtualizzazione delle macchine”, per l’accesso decentralizzato a
un gruppo di risorse informatiche condivise e modulari, che possono essere rapidamente attivate con
minima interazione con il fornitore di servizi: in altre parole si tratta di una rete che assicura la disponibilità dei dati digitali ovunque (documenti, librerie, applicazioni, ecc.), essendo soltanto necessario
l’utilizzo di una connessione di rete e, se previste, delle credenziali di autenticazione alla piattaforma 33.
Alcuni profili problematici potrebbero porsi qualora i dati oggetto di intrusione o accesso abusivo
siano archiviati su “cloud computing” o su un server che sfrutta tali servizi, perché sarebbe oltremodo di
difficile individuazione il luogo nel quale le informazioni sono archiviate e, inoltre, dovrebbe stabilirsi
29
Il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico, «è un reato di mera condotta, che si perfeziona con la violazione del
domicilio informatico e, quindi, con l’introduzione in un sistema costituito da un complesso di apparecchiature che utilizzano
tecnologie informatiche, senza che sia necessario che l’intrusione sia effettuata allo scopo di insidiare la riservatezza dei legittimi
utenti o che si verifichi una effettiva lesione alla stessa» (Cass., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 11689, in CED Cass. n. 236221). In dottrina A. Trucano, Sull’irrilevanza dello scopo perseguito nell’accesso abusivo ad un sistema informatico, in Giur. it., 2012, p. 1877.
30
In argomento v. M. Luberto-G. Zanetti, Il diritto penale dell’era digitale: caratteri, concetti e metafore, in Indice pen., 2008, 1, p. 500.
31
L. Cuomo-R. Razzante, La nuova disciplina dei reati informatici, Torino, 2009, p. 9 ss.; G. Pica, Internet, in Dig. pen., Agg., Torino, p. 426 ss.
32
C. De Robbio, Giurisdizione e competenza in materia penale, in Giur. di Merito, 2003, 12, p. 2610: il concetto cui fa riferimento
l’art. 615-ter c.p. (ma il discorso può essere esteso a buona parte dei reati informatici) nasce attraverso l’inserimento di informazioni (si pensi al software applicativo e operativo) e si separa all’esterno grazie ad altre informazioni (si pensi alle chiavi logiche
che delimitano l’accesso nel sistema)»
33
La tecnologia in parola è in costante crescita, come dimostra il proliferare di programmi come “Dropbox”, “Google Drive”,
“iCloud” e “SkyDrive” (D. La Muscatella, La ricerca delle fonti di prova sulle reti di cloud computing: le nuove frontiere delle investigazioni digitali tra profili giuridici e questioni operative, in Ciberspazio e diritto, 2013, 14, p. 477 ss.; A. Del Soldato, Attività di analisi forense su sistemi di cloud computing, in Ciberspazio e diritto, 2013, 14, p. 449 ss.).
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quale sia la legge applicabile (ossia quella di appartenenza del soggetto che ha subito l’accesso illecito o,
in alternativa, quella del luogo straniero ove sono memorizzati i dati).
In relazione allo sfruttamento di queste tecnologie è importante stabilire se l’abusiva consultazione o
l’illecito accesso a informazioni, anche da dispositivi portatili o mobili, deve intendersi consumato nel
luogo ove si trovi l’utente o, alternativamente, in quello nel quale è collocato il server che contiene i dati.
Gli scenari futuri avranno sviluppi non ancora pienamente immaginabili, se si pensa alle opportunità offerte dalla diffusione dei cosiddetti “wearable devices”, che «sono dispositivi miniaturizzati “indossabili”, che si integrano con il corpo del fruitore, essendo concepiti per interagire costantemente con colui che li indossa, per agevolare l’utente nelle sue azioni e per consentirgli di accedere alle informazioni
raccolte in qualsiasi momento (es. sistemi per impiego biomedicale che monitorano parametri vitali o
per interagire con l’ambiente esterno al fine di accedere a luoghi, beni, servizi, conti correnti, ecc.)» 34.
Le Sezioni Unite, consapevoli delle ricadute della loro decisione sulle nuove modalità di comunicazione e di archiviazione a distanza dei dati, partendo dalla considerazione che il sistema di gestione dei dati
è unitario, hanno cercato di comporre definitivamente il conflitto, fornendo una soluzione semplificata
per individuare il giudice competente in grado di ampliare la sfera della giurisdizione nazionale e di ridurre le possibilità di contrasti tra diverse autorità giudiziarie o di ricorso a rogatorie internazionali.
I PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
In considerazione della natura ubiquitaria dei reati informatici, che fa assumere rilevanza tanto al punto da cui fisicamente l’intrusore digita le credenziali di autenticazione per interrogare il server centrale,
quanto all’area ove è ubicato il sistema presidiato dalle misure di sicurezza, la giurisprudenza di legittimità ha in precedenza optato per la rilevanza esclusiva del luogo in cui si trova il domicilio informatico che racchiude i dati oggetto di protezione.
La Suprema Corte, risolvendo un conflitto di competenza analogo a quello in esame, ha attribuito
preminenza al luogo dove è fisicamente collocato il server contenente i dati, che elabora e controlla le
credenziali di autenticazione del client, a nulla rilevando la diversa ubicazione del terminale remoto dal
quale è partita l’interrogazione dell’elaboratore centrale 35.
Per giungere a tali conclusioni, è stato valorizzato non solo lo “ius excludendi” del titolare, ma soprattutto
la funzione di verifica e controllo della genuinità delle credenziali di autenticazione inserite dall’utente, attraverso una procedura informatica di validazione di conformità che è eseguita presso il server.
Più precisamente, l’accesso avviene nel luogo in cui è effettivamente superata la protezione informatica e si verifica l’introduzione nel sistema e, quindi, là dove è materialmente situato il server violato,
ossia l’elaboratore che controlla le credenziali elettroniche del client.
Il luogo in cui si consuma il reato, quindi, non è quello nel quale vengono inseriti i dati idonei a entrare nel sistema, bensì quello in cui si verifica l’accesso che, per i server che distribuiscono informazioni diffuse sul territorio, coincide con la sede dell’Amministrazione centrale ove è allocato il sistema telematico.
A tale scopo non possono prendersi in considerazione né le successive condotte di acquisizione e
uso dei dati, né il luogo in cui l’accesso al sistema è iniziato attraverso i terminali che costituiscono meri
strumenti passivi di consultazione.
La procedura di accesso deve ritenersi un atto prodromico alla introduzione con strumenti virtuali
che avviene solo nel momento in cui si entra effettivamente nel server dopo avere completato la validazione o la verifica delle credenziali dell’utente che, appunto, è eseguita dal sistema centrale.
Nel momento in cui l’utente digita le credenziali non fa cessare la propria condotta, ma la fa strumentalmente proseguire, ancorché smaterializzata, sino al compimento della verifica all’ingresso delle
misure di sicurezza logiche presenti sul “server web”, essendo queste che manifestano lo jus excludendi
del “dominus loci”.
D’altro canto, è sempre il server web violato che conserva le informazioni dell’accesso o della permanenza del client, mantenendo traccia all’interno dei “file-log” di tutte le attività compiute a partire dall’accesso
sino all’uscita dal sistema (tra cui indirizzo IP del client, login, data di accesso e pagine visitate).
34
E. Germani-L. Ferola, Il wearable computing e gli orizzonti futuri della privacy, in Dir. informaz. e informatica, 2014, I, p. 75 ss.
35
Cass., sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303, in CED Cass., n. 257252.
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In realtà, il criterio attributivo della competenza territoriale sulla base del luogo in cui è allocato il
server non è isolato e non è stato affermato solo per il reato di cui all’art. 615-ter c.p., ma trova riscontro
anche in altro indirizzo giurisprudenziale riguardante il reato di frode informatica, in relazione al quale
è stata ritenuta decisiva la sede aziendale che ospita l’elaboratore elettronico le cui informazioni siano
state illecitamente manipolate 36.
L’opzione ermeneutica che ha fissato presso il server il luogo di consumazione del reato fa leva sulla
considerazione che l’ingresso attraverso un dispositivo di immissione dei dati a distanza si verifica nel
momento in cui il sistema telematico controlla in modo univoco la dichiarazione di identità della persona o individua con certezza l’utente legittimo 37, al quale viene così consentito di superare i meccanismi di difesa contro le intrusioni indesiderate 38.
Questa soluzione, però, determina come conseguenza il radicamento della competenza territoriale
sempre nel luogo dove è ubicato il server, senza tacere che se l’unità di elaborazione centrale è ubicata
all’estero (ad esempio sfruttando piattaforme su “cloud”) potrebbero porsi anche profili di giurisdizione
e la necessità di ricorrere a rogatorie internazionali per la raccolta delle tracce informatiche e delle impronte telematiche 39.
La dottrina ha evidenziato in senso critico le ricadute del radicamento della competenza territoriale
nel luogo di ubicazione del server per la anomala «concentrazione in Roma della gran parte delle banche dati pubbliche (ministeri, centri di comando delle forze di polizia, ecc.), che rischierebbe di diventare il foro competente per gran parte dei reati di accesso abusivo a sistema informatico o telematico» 40.
L’originario criterio attributivo della competenza è stato successivamente confutato e contraddetto
dalla ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite, fino al punto di spingersi a sostenere
che il client e il server sono i componenti e gli elementi costitutivi (hardware) di un unico sistema telematico, per cui l’accesso penalmente sanzionato inizierebbe dalla postazione remota e, quindi, il perfezionamento del reato avverrebbe nel luogo ove si trova l’utente 41.
La ricostruzione alternativa proposta dalla giurisprudenza sarebbe in grado di soddisfare anche l’esigenza – cui è ispirato il criterio della competenza territoriale – di rendere più agevole e rapida la raccolta degli elementi di prova, così da «assicurare un maggior controllo sociale nel luogo in cui è avvenuta la attività illecita» 42.
36
La Terza Sezione, con sentenza del 24 maggio 2012, n. 23798, in CED Cass., n. 253633, ha affermato che «ai fini della determinazione della competenza territoriale, nel reato di frode informatica il momento consumativo va individuato nel luogo di
esecuzione della attività manipolatoria del sistema di elaborazione dei dati, che può coincidere con il conseguimento del profitto anche non economico. (Fattispecie nella quale il luogo di commissione del reato è stato individuato nella sede della società
gestita dagli imputati, presso la quale si trovavano i server contenenti i dati oggetto di abusivo trattamento)».
37
A. Gasparre, Palleggio di fascicoli da un Foro all’altro per determinare la competenza territoriale, in Dir. e giustizia, 2013, p. 1133.
38
La «consumazione» del reato va individuata nel momento in cui il soggetto sia riuscito ad eludere le “misure di protezione” e a conquistare la possibilità di accedere ai dati contenuti nel sistema» (G. Aronica, L’accesso abusivo ad un sistema informatico
o telematico nella giurisprudenza, in Indice pen., 2010, 1, p. 204): e, cioè, quando l’agente, avendo avuto accesso abusivamente al
sistema, abbia preso cognizione dei dati, delle informazioni e dei programmi ivi rinvenibili (R. Flor, Art. 615-ter c.p.: natura e funzioni delle misure di sicurezza, consumazione del reato e bene giuridico protetto, in Dir. pen. proc., 2008, p. 109).
39
Per superare tali inconvenienti, i segnali di un possibile mutamento di indirizzo all’interno della giurisprudenza della Prima Sezione potevano già cogliersi nella sentenza 15 luglio 2014, n. 34165, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1503: in tale vicenda processuale,
concernente una ipotesi di accesso al sistema SDI del Ministero dell’Interno, il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale di
Roma aveva sollevato il conflitto ex art. 28 c.p.p. con il tribunale di Firenze, che aveva precedentemente dichiarato la propria incompetenza per ragioni territoriali. In motivazione, la Suprema Corte ha messo in luce la problematicità del tema, con affermazioni che preludevano a una nuova presa di posizione sull’argomento, osservando che «le argomentazioni del pubblico ministero che ha sollecitato
il conflitto e del giudice che l’ha sollevato, così come quelle delle parti intervenute, hanno il pregio di sviscerare con maestria argomenti
scientifici e giuridici, dibattuti sia in giurisprudenza sia in dottrina, meritevoli di attento vaglio critico, attesa la rilevanza delle questioni
agitate e la ricordata incidenza su procedimenti che risultano svolti in ambiti territoriali diversi».
40
Così C. F. Grosso, Su di un’interessante controversia interpretativa in tema di luogo del commesso reato e di giudice competente per
territorio in materia di accesso abusivo in un sistema informatico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1522; M. Bellacosa, Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico: in attesa delle Sezioni Unite, in www.penalecontemporaneo.it;
G. Amato, Sanzionato l’ingresso e il trattenimento illecito: irrilevanti i collegamenti dal terminale periferico, in Guida dir., 2011, 45, p. 80.
41
Cass., sez. I, 28 ottobre 2014, n. 52575, in www.cortedicassazione.it.
42
C. Pecorella, La Cassazione sulla competenza territoriale per il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, in
www.penalecontemporaneo.it
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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La problematica dianzi esposta evidenzia come in materia si contrappongano due modi profondamente diversi di intendere la spazialità dei reati informatici, uno ancorato al concetto classico di fisicità
e di materialità del luogo dove è collocato il server, l’altro più attento alle modalità di funzionamento
delocalizzato (all’interno della rete) dei sistemi informatici e telematici.
LA SOLUZIONE DELLE SEZIONI UNITE
Le Sezioni Unite si sono orientate per una soluzione diversa, che tende a ritenere violata la riservatezza dei dati o il “domicilio informatico” nel luogo in cui materialmente avviene la digitazione delle
credenziali di accesso ed il loro invio al sistema telematico.
Per giungere a questa conclusione, che radica la competenza territoriale nel luogo in cui si trova la
postazione remota (c.d. “client”), la Suprema Corte ha considerato l’intera architettura di sistema (server, terminali e rete di trasporto delle informazioni) come un unico elaboratore elettronico, altrimenti
definito “sistema telematico”.
A fondamento di questa ricostruzione si pone un diverso modo di concepire il funzionamento delle reti e di intendere il concetto di “sistema informatico”, che deve essere considerato nel suo complesso, comprensivo del server contenente la banca dati così come dei terminali ad esso collegati o interconnessi.
In questa prospettiva, il terminale, ancorato ad una specifica localizzazione fisica, opererebbe in un
contesto immateriale e delocalizzato, in grado di coinvolgere contemporaneamente tutti gli ambiti attraverso i quali esso opera: un dato immesso o modificato da una sede periferica si inserisce contestualmente nel sistema informatico centrale ed è contestualmente presente in tutta la rete.
La competenza radicata nel luogo in cui si trova il client valorizza l’unica condotta materiale qualificabile come “azione informatica” e riconducibile alla volontà del soggetto agente, che consiste nella digitazione dal terminale periferico di “username” e “password”, oltre che nella pressione del tasto di invio.
La sola condotta criminosa fisicamente percepibile, nel senso di “movimento muscolare” dell’agente,
è proprio l’attivazione del terminale periferico da parte dell’operatore, perché l’impulso (sotto forma di
energie o bit) parte, non può più essere bloccato, determina automaticamente il superamento delle barriere informatiche di accesso e pone automaticamente il soggetto agente nella condizione di consultare
le informazioni contenute nella banca dati 43.
Anche in tal senso rileva non il luogo in cui si trova il server, ma quello decentrato da cui l’operatore,
a mezzo del client, interroga il sistema centrale che gli restituisce le informazioni richieste, che entrano
nella sua disponibilità mediante un processo di visualizzazione sullo schermo, stampa o archiviazione
su disco o altri supporti materiali.
Le descritte attività coincidono con le operazioni di “trattamento” compiute sul client, che l’art. 4,
lett. a), d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice della privacy) definisce come «qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la
registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la
selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati».
In effetti, la concezione della architettura di rete come un “unico sistema telematico” consente di sostenere
che il reato, nella sua versione commissiva (l’intrusione) si consuma nel luogo ove si trova il terminale utilizzato dall’operatore perché quella, a prescindere dalla presenza o meno di dati, è una delle porte di accesso 44.
La soluzione ricostruttiva delle Sezioni Unite aderisce all’impostazione dell’ordinanza di rimessione,
che, abbandonando il criterio della collocazione spaziale del server, opta per quello della localizzazione
del “client”, che «non costituisce soltanto un mezzo di accesso ma, al pari del computer denominato server ubicato presso la sede centrale, corrisponde ad un componente informatico essenziale» 45.
La Suprema Corte, seguendo un’opzione interpretativa che asseconda il reale funzionamento delle
reti telematiche, ha superato ogni sovrapposizione tra realtà virtuale e dimensione materiale, prendendo atto che «quando si parla di introduzione in un sistema informatico non viene in rilievo l’ingresso
43
C. F. Grosso, Su di un’interessante controversia interpretativa, cit., p. 1524 ss.
44
D. Minotti, Per la cassazione l’oggetto della tutela concreta coincide con il luogo dove sono conservati i dati, in Guida dir., 2013, 43, p. 76.
45
P. De Martino, Rimessa alle Sezioni Unite una questione in tema di competenza territoriale del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico, in www.penalecontemporaneo.it
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | RETI “CLIENT SERVER” ED ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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all’interno dell’apparecchio fisicamente collocato presso una piuttosto che un’altra sede (il server), ma
l’accesso nel suo complesso, di cui fanno parte non soltanto l’hardware centrale ma tutti i terminali collegati.
In tal senso acquista importanza il punto di accesso alla rete, inteso come luogo fisico attraverso il
quale l’utente fa ingresso in una realtà immateriale e delocalizzata più complessa, nella quale confluiscono e vengono trattate le informazioni, fisicamente raccolte nella banca dati, che sono state inserite
dai terminali periferici, contemporaneamente presenti in ogni punto interconnesso.
Qualora il sistema telematico in questione fosse osservato secondo le tradizionali, ma insufficienti
categorie fisico-spaziali, si potrebbe essere indotti a scomporre e suddividere la rete e i singoli elementi
costitutivi tra loro, separando i terminali periferici dal server centrale.
Al contrario, l’intero sistema telematico si caratterizza proprio per un processo costante di continua
interazione tra il server e i client: da una parte, le postazioni periferiche consentono l’immissione di nuove informazioni e la consultazione dei dati già raccolti, dall’altra il patrimonio comune di dati acquisiti
ed elaborati è contestualmente compresente e consultabile presso tutte le postazioni remote abilitate.
Le singole postazioni remote non sono meri “strumenti di accesso” al sistema, ma costituiscono esse
stesse il sistema, in quanto partecipano in modo interattivo alla acquisizione e alla integrazione dei dati e
hanno in ogni momento, e contestualmente, la disponibilità delle informazioni raccolte nel “data-base”.
L’accesso dopo l’inserimento delle chiavi logiche non coincide con l’ingresso all’interno del server fisicamente collocato in un determinato luogo, ma con l’introduzione telematica o virtuale, che avviene
instaurando un colloquio elettronico o circuitale con il sistema centrale e, al contempo, con tutti i terminali ad esso collegati.
L’utilizzo delle credenziali di autenticazione e la pressione del tasto di invio presso i terminali locali
determina l’istantaneo perfezionamento della fattispecie delittuosa, in quanto trasmette la stringa di
comandi che provoca l’immediato accesso alle informazioni presenti nella banca dati.
L’intrusione nel sistema informatico o telematico è integrata già con la digitazione alla tastiera dei
comandi con cui si richiede a un elaboratore di fornire determinati dati o di eseguire una operazione,
instaurando un dialogo logico e automatizzato con il terminale richiedente.
Se si condivide questa ricostruzione, coerente con la realtà di una rete telematica, l’identificazione
del luogo del commesso reato coincide con quello in cui, dalla postazione remota, è inserita la password
(procedura di “login”), viene premuto il tasto di invio e, di conseguenza, il soggetto si pone nella condizione di acquisire, leggendole, le informazioni 46.
Il luogo dal quale l’utente si è immesso nella rete – che nella maggior parte dei casi è quello in cui si
reperiscono le prove del reato e la violazione è stata percepita dalla collettività – è consono al concetto
di giudice naturale, radicato al “locus commissi delicti” di cui all’art. 25 Cost.
La rilevanza dell’ubicazione della postazione remota, peraltro, soddisfa anche l’esigenza di rendere
più agevole e rapido lo svolgimento delle indagini e di affermare il diritto e la giustizia proprio nel luogo in cui è stato commesso l’illecito, in quanto le prove di un accesso abusivo sono certamente nel “server”, ma anche nel terminale (“client”) per mezzo del quale è stata commessa l’intrusione 47.
Se l’azione dell’uomo si è realizzata in un certo luogo – sia pure attraverso l’uso di uno strumento
informatico e, dunque, per sua natura destinato a produrre flussi di dati privi di una loro "consistenza
territoriale" – non v’è ragione alcuna per ritenere che quella condotta, qualificata dalla legge come reato, non si sia verificata proprio in quel contesto territoriale.
Per sostenere la esclusiva rilevanza del luogo di utilizzo del dispositivo “mobile” o “remoto” le Sezioni Unite ricorrono anche ad un altro indice di localizzazione della condotta, rappresentato dalle modalità di configurazione delle circostanze aggravanti, che rinviano ad una azione umana fisicamente
ben determinata e al luogo spazialmente circoscritto in cui si trova l’agente, come nel caso della commissione del fatto con violenza sulle cose o alle persone e del danneggiamento o interruzione del sistema per effetto di attività manipolatorie (ad esempio con introduzione di virus).
La conclusione descritta è idonea a orientare l’interprete anche nei casi in cui il collegamento al sistema centrale sia realizzato da un dispositivo mobile (del tipo “tablet” o “smartphone”) o in movimento
sul territorio.
46
C.F. Grosso, Su di un’interessante controversia interpretativa, cit., p. 1524 ss.
47
S. Aterno, Osservazioni a Cass. pen., sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303, in Cass. pen., 2014, p. 1706.
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In tali evenienze, qualora non sia possibile ricostruire con precisione il luogo attraversato al momento dell’accesso abusivo, la competenza per territorio sarebbe comunque determinabile attraverso le regole suppletive di cui all’art. 9 c.p.p. 48.
La tecnologia è in continua evoluzione e i sistemi informatici o telematici stanno diventando dispositivi sempre più versatili e complessi: il legislatore deve fissare al più presto regole certe per stabilire la
competenza territoriale, armonizzando tra loro alcuni parametri come il luogo in cui si trova il sistema
telematico, il server, la banca dati o l’autore del reato.
Al momento, le modalità di risoluzione del contrasto proposte dalle Sezioni Unite rappresentano
l’unica spiegazione tecnica al passo con la più avanzata tecnologia, caratterizzata da un progressivo fenomeno di accesso “virtualizzato” e “remotizzato” alle informazioni, specie rispetto ai casi in cui la
banca dati violata non si trovi in un luogo fisicamente individuabile, ma sia delocalizzata attraverso
servizi di “cloud computing”.
Nell’era del “cloud-computing”, che viene considerato per definizione un luogo o un ambiente virtuale nel quale l’uomo conserva i propri dati e i documenti informatici, è necessario elaborare nuove regole
giuridiche per governare l’accesso ad informazioni, a “risorse-web” o a dati, destinati ad essere fruiti
contemporaneamente da una moltitudine di soggetti residenti in più luoghi.
La fissazione di criteri innovativi per stabilire la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria nei
reati commessi nella rete informatica globale potrà certamente contribuire a tracciare un nuovo percorso ermeneutico in grado di adeguare il diritto penale alla evoluzione delle tecnologie.
48
M. Bellacosa, Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico: in attesa delle Sezioni
Unite, in www.penalecontemporaneo.it
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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO E LEGISLAZIONE ITALIANA DI ATTUAZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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FRANCESCA RUGGIERI
Professore ordinario di diritto processuale penale – Università degli Studi dell’Insubria
Ordine di protezione europeo e legislazione italiana
di attuazione: un’analisi e qualche perplessità
The European protection order and the Italian law complying with
the Directive 2011/99/EU: an analysis and some questions
L’Autore analizza il testo della direttiva 2011/99/UE e della legge di attuazione al fine di evidenziarne ratio, pregi e
criticità.
The Author analyses the text of the Directive 2011/99/EU and the implementing law in order to highlight itsratio,
strengths and weaknesses.
INTRODUZIONE. LA DIRETTIVA SULL’ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO
Ai sensi dell’art. 21, Direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre
2011 sull’ordine di protezione europeo, gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione alla direttiva
entro l’11 gennaio 2015 1. Il legislatore italiano vi ha provveduto, con un mese di ritardo, con il d.lgs. 11
febbraio 2015, n. 9 2, in forza della legge di delegazione europea del 2013 3.
Per comprendere contenuto e limiti del provvedimento interno è necessario preliminarmente ricostruire struttura e contenuto della Direttiva.
Come è noto, invero, dopo l’abolizione del sistema a pilastri, tutte le direttive, analogamente a quanto avveniva, prima di Lisbona, per le decisioni quadro, pongono agli Stati membri dei vincoli di risultato (cfr. art. 288 TFUE), che i singoli ordinamenti devono soddisfare attraverso la normativa nazionale di
attuazione, nel rispetto delle peculiarità di ognuno ed entro il termine previsto da ciascuna direttiva.
Dopo la scadenza del termine 4 per il recepimento della direttiva, però, qualora, come in parte sembra
avvenuto nel caso in esame, si sia provveduto all’adozione di una normativa nazionale parziale od insufficiente, le eventuali omissioni o imprecisioni nella fase di attuazione producono ulteriori effetti. Da
un lato il cittadino può convenire lo Stato membro avanti il proprio giudice nazionale per vederlo condannato al risarcimento del danno derivante dall’inadempimento degli obblighi comunitari. Dall’altro
le norme europee che riconoscono specifiche posizioni soggettive e sono caratterizzate dalla chiarezza e
dalla precisione sono direttamente applicabili nei c.d. rapporti verticali (ovvero con le autorità pubbli1
Il provvedimento è pubblicato in G.U.U.E., 21 dicembre 2011, l. 338/2.
2
Il provvedimento è pubblicato in G.U., 23 febbraio 2015, n. 44.
3
Si tratta, più precisamente della l. 6 agosto 2013, n. 6, recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e
l’attuazione di altri atti dell’Unione.
4
Prima della scadenza del termine, come più volte affermato dalla Corte di Giustizia, gli Stati membri hanno una sorta di
obbligo di lealtà (cfr. art. 4.3 TFUE), in forza del quale devono astenersi dall’emanare norme incompatibili con i provvedimenti
dell’Unione. Sempre prima della scadenza del termine, la Corte costituzionale (sent. 25 gennaio 2010, n. 28, in www.cortecostitu
zionale.it) ha affermato che la norma interna in contrasto con la direttiva può essere oggetto di incidente di costituzionalità sia ex
art. 11 sia a norma dell’art. 117 Cost.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO E LEGISLAZIONE ITALIANA DI ATTUAZIONE
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che) e possono quindi comportare la disapplicazione del diritto interno difforme.
La Direttiva 5 si compone di 42 considerando, 25 articoli e 2 allegati.
Nella parte iniziale, dopo l’enunciazione dell’obiettivo di «conservare e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia» e della base giuridica del provvedimento (l’art. 82, par. 1 TFUE), sono richiamate le sollecitazioni del c.d. programma di Stoccolma al fine di «migliorare la normativa e le misure pratiche di sostegno per la protezione delle vittime» e le analoghe riflessioni di Parlamento e Consiglio 6. In questa cornice la Direttiva, nel rispetto delle differente tradizioni giuridiche degli Stati Membri, non comporta alcuno specifico obbligo di innovazione 7.
L’intervento dell’UE è volto a consentire, nel rispetto del principio del mutuo riconoscimento 8, la
circolazione dei provvedimenti di carattere penale 9 diretti a «proteggere una persona da atti di rilevanza penale di un’altra persona tali da mettere in pericolo, in qualsiasi modo, la vita o l’integrità fisica,
psichica e sessuale di detta persona, ad esempio prevenendo molestie di qualsiasi forma, incluse quelle
alla dignità o alla libertà personale di detta persona, ad esempio prevenendo rapimenti, stalking e altre
forme indirette di coercizione, e che mirano a prevenire nuovi atti criminali o a ridurre le conseguenze
di atti criminali precedenti» 10. Il provvedimento UE si applica a tutte le vittime, non solo a quelle oggetto di violenze di genere 11; ma non concerne la protezione dei testimoni 12 né le misure dirette essenzialmente ad altri scopi, quale ad es. il reinserimento sociale del reo 13.
I provvedimenti a protezione delle vittime emessi da uno Stato devono poter essere attuati anche
negli altri Stati membri allorché la vittima, esercitando il suo diritto alla libera circolazione, decida di
trasferirsi o comunque di spostarsi in altro luogo 14.
Nell’assicurare la libertà e contestualmente la sicurezza della vittima nello spazio giudiziario europeo, la Direttiva promuove la circolazione dei relativi provvedimenti di protezione secondo la medesima ratio che caratterizza gli altri “prodotti” del sistema giustizia (si pensi emblematicamente al MAE):
le «misure di protezione adottate in conformità della legge di uno Stato membro («Stato di emissione»)» 15 devono poter essere eseguite anche nello «Stato di esecuzione» 16. È la vittima stessa che deve
poter richiedere una simile estensione da uno Stato all’altro 17: a tal fine deve essere adeguatamente in-
5
Per un primo commento v. L. Camaldo, Novità sovranazionali, in questa Rivista, 2012, p. 15 ss.
6
Cfr. rispettivamente i nn. 1, 2, 3, 4 e 5 del considerando.
7
Cfr. rispettivamente i nn. 8-10 del considerando.
8
Cfr. ancora il n. 2 del considerando, che richiama il principio sottinteso anzitutto dall’art. 82 del TFUE. Analogamente cfr.
anche il considerando n. 18.
9
Si noti, peraltro, che, contestualmente alla direttiva in discorso, in ambito civile è stato emesso il regolamento UE 606/2013,
che non a caso prevede come dies a quo per la relativa applicazione negli ordinamenti degli Stati Membri l’11 gennaio 2015, e che
è specificamente dedicato al reciproco riconoscimento delle misure di protezione in materia civile. Per un primo, ma esauriente confronto tra i due provvedimenti v. on line l’articolo di C. Moioli, Le nuove misure “europee” di protezione delle vittime di reato in materia penale e civile, in Eurojus.it, 27 febbraio 2015.
10
Considerando n. 9.
L’art. 1 della Direttiva, che ne specifica l’obiettivo, recita: «La presente direttiva stabilisce le norme che permettono all’autorità giudiziaria o equivalente di uno Stato membro, in cui è stata adottata una misura di protezione volta a proteggere una
persona da atti di rilevanza penale di un’altra persona tali da metterne in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la dignità,
la libertà personale o l’integrità sessuale, di emettere un ordine di protezione europeo onde consentire all’autorità competente
di un altro Stato membro di continuare a proteggere la persona all’interno di tale altro Stato membro, in seguito a un comportamento di rilevanza penale o a un presunto comportamento di rilevanza penale, conformemente al diritto nazionale dello Stato
di emissione».
11
Considerando n. 9.
12
Considerando n. 11.
13
Considerando n. 9.
14
Cfr. considerando n. 6.
15
Considerando n. 7.
16
Considerando n. 7.
17
Ai sensi dell’art. 6, comma 2 della Direttiva, intitolato alla “emissione dell’ordine di protezione europeo”, «L’autorità giudiziaria o equivalente dello Stato di emissione può emettere un ordine di protezione europeo solo su richiesta della persona protetta
(…)». Ivi, al comma 3, è contemplata anche la disciplina relativa all’ipotesi che la richiesta sia presentata direttamente allo Stato
di esecuzione.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO E LEGISLAZIONE ITALIANA DI ATTUAZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
101
formata 18. A sua volta, la persona che si suppone possa recare pregiudizio alla vittima (la «persona che
determina il pericolo») 19 avrà diritto al contraddittorio in sede di adozione della misura, nel rispetto
dell’art. 6 CEDU e dell’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione 20.
Le misure di protezione sono specificatamente e tassativamente indicate dalla Direttiva 21 che, all’art.
5, intitolato alla «necessità di una misura di protezione esistente in base al diritto nazionale», precisa che «un
ordine di protezione europeo può essere emesso solo se nello Stato di emissione è stata precedentemente adottata una misura di protezione che impone alla persona che determina il pericolo uno o più dei
seguenti divieti o delle seguenti restrizioni: a) divieto di frequentare determinate località, determinati
luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta; b) divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma, con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro; o c) divieto o regolamentazione dell’avvicinamento alla persona protetta
entro un perimetro definito». Tuttavia, al fine di assicurare comunque una forma di tutela anche nello
Stato di esecuzione, “l’autorità competente dello Stato di esecuzione non è tenuta ad adottare in tutti i
casi la stessa misura di protezione adottata dallo Stato di emissione, e dispone di un margine di discrezione per l’adozione di ogni misura che ritenga adeguata e consona alla propria legislazione nazionale
in un caso analogo per assicurare una protezione costante alla persona protetta alla luce della misura di
protezione adottata nello Stato di emissione quale descritta nell’ordine di protezione europeo» 22. Allorché, peraltro, nello Stato di esecuzione la misura sia violata, è sempre lo Stato di emissione a provvedere eventualmente in senso restrittivo, fatti salve gli autonomi ed eventuali poteri sanzionatori dello Stato di esecuzione 23.
«Tenendo presente il principio del riconoscimento reciproco su cui si basa la presente direttiva, gli
Stati membri dovrebbero promuovere, per quanto possibile, un contatto diretto tra le autorità competenti al momento dell’applicazione della presente Direttiva» 24. Ciascuno Stato membro designa le autorità «competenti ad emettere ed a riconoscere un ordine di protezione europeo» 25, potendo anche indicare un’«autorità centrale» 26.
L’ordine di protezione europeo, secondo il modello di cui all’allegato 1 della Direttiva, contiene tutte
le informazioni necessarie a identificare la persona protetta e i dati relativi al suo soggiorno nello Stato
di esecuzione, nonché tutti i dati relativi all’autorità dello Stato di emissione ed al relativo provvedimento 27. La sua trasmissione all’autorità dello Stato di esecuzione «è effettuata con qualsiasi mezzo che
lasci una traccia scritta, in modo tale da consentire all’autorità competente dello Stato di esecuzione di
18
Considerando n. 35 e art. 6, comma 5 della Direttiva.
19
Ai sensi dell’art. 2, n. 4) della Direttiva, la «persona che determina il pericolo» è «la persona fisica alla quale sono stati imposti uno o più divieti o restrizioni di cui all’articolo 5».
20
Cfr. considerando n. 17 e art. 6, comma 4 della Direttiva. La Direttiva assicura comunque «i diritti fondamentali garantiti
dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, conformemente all’articolo 6 TUE» (considerando n. 37); inoltre, nella sua attuazione «gli Stati membri
sono invitati a tener conto dei diritti e dei principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1979, sull’eliminazione di
tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna» (considerando n. 38).
Per la lingua utilizzabile cfr. l’art. 17 della Direttiva.
21
Cfr. considerando n. 19. Ai sensi dell’art. 2, n. 2) della Direttiva, per «misura di protezione» si intende «una decisione in materia penale, adottata nello Stato di emissione conformemente alla legislazione e alle procedure nazionali, con la quale uno o più
divieti o restrizioni di cui all’articolo 5 sono imposti alla persona che determina il pericolo al fine di proteggere la persona protetta contro un atto di rilevanza penale che può metterne in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l’integrità sessuale».
22
Considerando n. 20.
23
Cfr. considerando n. 26, l’art. 11 della Direttiva, intitolato alla “legislazione applicabile e competenza dello Stato di esecuzione”,
l’art. 12, che regola la “notifica in caso di violazione”, e soprattutto l’art. 13, che riserva in modo esplicito allo Stato di emissione la
competenza (l’articolo la definisce come «competenza esclusiva») sulle vicende della misura di protezione e, di conseguenza,
dell’ordine di protezione europeo.
24
Considerando n. 30. L’art. 16 della Direttiva, a sua volta, promuove le consultazioni tra autorità competenti prevendendo che
«ove opportuno, le autorità competenti dello Stato di emissione e dello Stato di esecuzione possono consultarsi per agevolare la
corretta ed efficace applicazione della presente Direttiva».
25
Cfr. art. 3 della Direttiva.
26
Cfr. art. 4 della Direttiva.
27
Cfr. art. 7 della Direttiva.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO E LEGISLAZIONE ITALIANA DI ATTUAZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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accertarne l’autenticità. Tutte le comunicazioni ufficiali sono effettuate direttamente tra tali autorità
competenti» 28. «L’autorità competente dello Stato di esecuzione che riceve un ordine di protezione europeo lo riconosce senza indugio e adotta le misure che sarebbero previste dalla legislazione nazionale
in un caso analogo per garantire la protezione della persona protetta» 29. A tale scopo può trattarsi di
misure penali, amministrative o civili 30, purché si tratti di misura che «corrisponda quanto più possibile
alla misura di protezione adottata dallo Stato di emissione» 31.
I «motivi di non riconoscimento di un ordine di protezione europeo» 32, infine, possono essere suddivisi a seconda che concernano profili in senso lato formali (l’incompletezza o l’omessa individuazione
di una delle misure di protezione indicate nella direttiva) 33 o sostanziali, questi pressoché tutti relativi
al reciproco rispetto della sovranità degli Stati membri. In questa prospettiva, con riferimento alle qualità della «persona che determina il pericolo», l’ordine può non essere riconosciuto con riguardo alla sua
età od alla circostanza che la persona gode di una particolare immunità 34. Se si fa riferimento al fatto,
invece, il riconoscimento può essere negato qualora l’«atto non costituisca reato secondo la legislazione
dello Stato di esecuzione» 35, ovvero, trattandosi di un fatto soggetto anche alla giurisdizione dello Stato
di esecuzione, in base alla legislazione di quest’ultimo è intervenuta amnistia o è decorsa la prescrizione 36. Infine, l’ordine europeo può non essere riconosciuto nel rispetto del principio del ne bis in idem 37.
In tali casi lo Stato di esecuzione oltre a informare lo Stato di emissione, deve avvisare «ove opportuno,
la persona protetta circa la possibilità di chiedere l’adozione di una misura di protezione conformemente al diritto nazionale» e in relazione alle conseguenti possibilità di impugnazione 38.
IL D.LGS. N. 9 DEL 2015
Nel dare attuazione alla direttiva il legislatore nostrano, dopo aver individuato alcune definizioni 39che riprendono quelle della Direttiva, anche linguisticamente, in particolare con riferimento alla
«persona che determina il pericolo» 40, individua per prima cosa le «autorità competenti» ai sensi degli
artt. 3 e 4 della Direttiva, optando per una soluzione centralizzata.
È il Ministero della Giustizia che deve provvedere «alla trasmissione e alla ricezione delle misure di
28
Art. 8, comma 1, della Direttiva. Il comma 2 di questa disposizione disciplina il ricorso alla Rete Giudiziaria Europea o ad
Eurojust nel caso in cui non siano note le relative autorità nazionali competenti.
29
Art. 9, comma 1, della Direttiva. Il comma 4 di tale disposizione disciplina l’ipotesi in cui l’informazione trasmessa con
l’ordine di protezione europeo risulti incompleta, nel qual caso l’autorità competente dello Stato di esecuzione «informa senza
indugio l’autorità competente dello Stato di emissione con ogni mezzo che lasci traccia scritta, assegnandole un termine ragionevole per fornire l’informazione mancante».
30
Art. 9, comma 1, della Direttiva.
31
Art. 9, comma 2, della Direttiva. Il comma 3 di tale disposizione disciplina le informazione che a questo punto devono essere date alla «persona che determina il pericolo», possibilmente omettendo le notizie circa l’indirizzo o «altri dati di contatto»
della persona protetta.
32
Questo è il titolo dell’art. 10 della Direttiva.
33
Cfr. art 10, comma 1, lett. a) e b) della Direttiva.
34
Cfr. art 10, comma 1, lett. e) ed h) della Direttiva.
35
Cfr. art 10, comma 1, lett. c) della Direttiva.
36
Cfr. art 10, comma 1, lett. d) e f) della Direttiva.
37
Cfr. art. 10, comma 1, lett. g) e i) della Direttiva.
38
Cfr. art. 10, comma 2 della Direttiva. V. anche l’art. 14 della Direttiva, relativo ai motivi di interruzione delle misure adottate sulla
base di un ordine di protezione europeo (ad esempio qualora si abbia contezza che la vittima non si trovi nello Stato di esecuzione).
39
Art. 2 d.lgs. n. 9 del 2015.
40
Art. 2, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 9 del 2015.
Ai sensi del medesimo comma 1, lett. b) e c) il decreto definisce rispettivamente la «misura di protezione» come «una decisione
adottata in materia penale da un organo giurisdizionale o da altra diversa autorità competente, che si caratterizzi per autonomia,
imparzialità e indipendenza, di uno Stato membro dell’Unione europea con la quale vengono applicati divieti o restrizioni finalizzati a tutelare la vita, l’integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l’integrità sessuale della persona protetta contro
atti di rilevanza penale», l’«ordine di protezione europeo» come una decisione adottata dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro con la quale, al fine di continuare a tutelare la persona protetta, viene disposto che gli effetti della misura di protezione si estendano al territorio di altro Stato membro in cui la persona protetta risieda o soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare».
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ORDINE DI PROTEZIONE EUROPEO E LEGISLAZIONE ITALIANA DI ATTUAZIONE
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protezione e degli ordini di protezione europei, nonché della corrispondenza ad essi relativa» 41. La corrispondenza diretta tra autorità giudiziarie è permessa solo «nei limiti indicati» dal decreto legislativo 42.
In sede di procedura attiva, il Ministro, in particolare, riceve l’ordine di protezione europeo (e gli
eventuali successivi provvedimenti di modifica) predisposto dall’autorità giudiziaria italiana e lo trasmette «con qualsiasi mezzo idoneo a comprovare l’autenticità del documento, previa traduzione nella
lingua di detto Stato» allo Stato di esecuzione 43, riceve da quest’ultimo l’eventuale rifiuto di riconoscimento 44 e lo comunica al giudice procedente per l’informazione alla persona protetta. In sede di procedura passiva, reciprocamente, riceve l’ordine dallo Stato estero e lo invia alla Corte d’appello ai fini del
riconoscimento 45, dovendo altresì richiedere l’integrazione delle eventuali comunicazioni mancanti allorché la Corte d’appello ritenga l’ordine incompleto 46 e quindi, se del caso, informare lo Stato di emissione nel caso di non riconoscimento 47. È sempre il Ministero, inoltre, che informa la persona protetta e
la persona che determina il pericolo, anche tramite l’autorità competente dello Stato di emissione, del
riconoscimento dell’ordine di protezione europeo 48. Sembra che solo nel caso di violazione dell’ordine
di protezione in sede di procedura passiva il legislatore preveda che «la Corte di appello informa
l’autorità competente dello Stato di emissione» 49.
Nel nostro Paese l’ordine di protezione europeo è emesso, su richiesta della persona protetta, «dal
giudice che dispone una delle misure cautelari previste dagli articoli 282-bis e 282-ter» c.p.p. 50 ovvero,
come è noto, «dal giudice che procede» (art. 279 c.p.p.), il più delle volte dal giudice per le indagini preliminari nella fase procedimentale.
L’unica modifica, che la legge di attuazione delle direttiva ha inserito nel codice di rito, è funzionale
ad assicurare tale possibilità di richiesta: il nuovo comma 1-bis dell’art. 282-quater, dedicato agli «obblighi di comunicazione» recita: «con la comunicazione prevista dal comma 1» ovvero in occasione della
informazione circa i provvedimenti di «allontanamento dalla casa familiare» (art. 282-bis c.p.p.) e di
«divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» alla vittima e alla polizia competente «la persona offesa è informata della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione
europeo» 51.
La richiesta delle persona protetta deve indicare «a pena di inammissibilità, il luogo in cui la persona
protetta ha assunto o intende assumere la residenza, la durata e le ragioni del soggiorno». Con riferimento alle «ragioni del soggiorno» la relazione di accompagnamento precisa che tale indicazione «appare strettamente strumentale alla successiva valutazione del “grado di necessità della protezione” imposta dall’art. 6, comma 1, della Direttiva» 52.
L’ordinanza relativa all’ordine di protezione europeo, secondo il modello dell’allegato A al decreto,
41
Art. 3, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
42
Art. 3, comma 2, d.lgs. n. 9 del 2015.
43
Art. 6, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015. Il comma citato prevede poi che l’autorità giudiziaria che ha emesso l’ordine di protezione europeo provveda «ad analoga comunicazione nei casi in cui adotti provvedimenti di revoca, modifica, proroga o nei
casi di annullamento o sostituzione della misura o dell’ordine di protezione europeo».
44
Art. 6, comma 2, d.lgs. n. 9 del 2015.
45
Art. 8, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
46
Art. 8, comma 3, d.lgs. n. 9 del 2015.
47
Art. 9, comma 4, d.lgs. n. 9 del 2015.
48
Art. 10, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
Cfr. anche l’art. 11, comma 2 del decreto per la comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato di emissione,
«secondo le modalità indicate nell’articolo 6», delle decisioni «in ordine alla proroga, al riesame, alla modifica, all’annullamento
ovvero alla sostituzione della misura di protezione posta alla base dell’ordine di protezione europeo» nonché «della sentenza
emessa per i fatti posti alla base della misura di protezione».
49
Art. 10, comma 5, d.lgs. n. 9 del 2015.
50
Art. 5, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
51
Art. 4, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
52
Schema di d.lgs. – Attuazione della Direttiva 2011/99/UE sull’ordine di protezione europeo – Relazione Schema di decreto
legislativo recante: “Attuazione della direttiva 2011/99/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione europeo” reperibile sul sito del Parlamento (http://documenti.camera.it/apps/nuovosito/attigoverno/Schedalavori/getTesto.ashx?fi
le=0117_F001.pdf&leg=XVII#pagemode=none), in fine al commento dell’art. 5 dell’articolato.
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contiene le informazioni necessarie a identificare la persona protetta e la persona che determina il pericolo, l’autorità di emissione, la «data di deposito del provvedimento contenente la misura di protezione
in base alla quale è stato emesso l’ordine di protezione europeo», i fatti che hanno portato all’adozione
della misura, nonché, tra l’altro, i «divieti e restrizioni imposti dalla misura di protezione, ivi compreso
l’eventuale utilizzo di dispositivo tecnologico di controllo in conformità alle previsioni di cui all’articolo
275-bis c.p.p.» 53. Il provvedimento, attraverso il Ministero, come si è già osservato, è trasmesso allo Stato estero per l’esecuzione.
Nella procedura passiva, il riconoscimento è rimesso alla «Corte di appello nel cui distretto la persona protetta, in sede di richiesta, ha dichiarato di soggiornare o di risiedere o presso cui ha dichiarato
l’intenzione di soggiornare o di risiedere» 54, a cui il Ministero trasmette l’ordine di protezione europeo.
A parte l’ipotesi cui si è già accennato e che ricalca quanto previsto dalla direttiva nel caso di incompletezza delle informazioni ricevute 55, la Corte, che decide entro dieci giorni dal ricevimento «senza formalità» 56 e senza contraddittorio, dispone di una serie di casi di non riconoscimento solo in parte coincidenti con quelli previsti dalla direttiva. In particolare, oltre al rispetto del principio di doppia incriminazione 57, del ne bis in idem, della giurisdizione nazionale e delle cause di estinzione del reato o della
pena 58, delle cause di immunità o di non punibilità 59, l’art. 9, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 9 del 2015, prevede che la Corte non riconosca l’ordine di protezione europeo anche quando «la misura di protezione
comporti obblighi non riconducibili a quelli delle misure cautelari regolate dagli articoli 282-bis e 282ter del codice di procedura penale». Tale circostanza è anche motivo di cessazione «degli effetti del riconoscimento dell’ordine di protezione europeo» ai sensi dell’art. 12, comma 2, lett. b) medesmo decreto, allorché lo Stato di emissione abbia comunicato una modifica in quel senso il contenuto della misura
di protezione 60.
In caso di riconoscimento, il provvedimento, attraverso come si è visto il Ministero della Giustizia, è
comunicato alla persona protetta, a quella che determina il pericolo ed alle autorità (polizia giudiziaria,
servizi, etc.) competenti per l’esecuzione 61. In caso di violazione delle prescrizioni dell’ordine di protezione la Corte, su richiesta della Procura generale, provvede se del caso inasprendole 62, nel rispetto delle norme del codice di rito 63 e informandone l’autorità competente dello Stato di emissione 64. A
quest’ultimo, come indicato nella Direttiva, sono comunque riservate tutte le decisioni «sulla validità e
sull’efficacia dell’ordine di protezione europeo» 65.
53
Cfr., analiticamente, l’art. 5, comma 3, d.lgs. n. 9 del 2015. Il comma 4 di tale disposizione prevede la ricorribilità per cassazione del provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di emissione dell’ordine di protezione. Il procedimento cui la norma rinvia è quello contenuto nella l. 22 aprile 2005, n. 69, in tema di mandato d’arresto europeo, di cui si richiamano i commi 1, 3, 4, 5, 6 dell’art. 22: ovvero le disposizioni in tema di ricorso per cassazione, salvo il comma 2, relativo alla
sospensione dell’esecuzione della sentenza.
54
Art. 7 d.lgs. n. 9 del 2015.
55
Art. 8, comma 3, d.lgs. n. 9 del 2015.
56
Art. 8, comma 2, d.lgs. n. 9 del 2015.
57
Art. 9, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 9 del 2015.
58
Cfr. art. 9, comma 2, lett. d), e), f) ed i), d.lgs. n. 9 del 2015.
59
Cfr. art. 9, comma 2, lett. g) ed h), d.lgs. n. 9 del 2015.
60
L’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 9 del 2015, nell’elencare i motivi di cessazione degli effetti dell’ordine prevede, tra l’altro, la
decorrenza dei termini di cui all’art. 308 c.p.p., il fatto che la persona protetta non si trovi all’interno del territorio nazionale, ovvero la circostanza che la persona che determina il pericolo sia stata ristretta in carcere in forza di provvedimento dell’autorità
nazionale italiana per fatti diversi da quelli posti alla base dell’ordine di protezione europeo. Anche in tal caso il provvedimento
della Corte, adottato ai sensi dell’art. 8 d.lgs. n. 9 del 2015, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 22 l. n. 69 del 2005.
61
Cfr. art. 10, comma 1, d.lgs. n. 9 del 2015.
62
Cfr. art. 10, commi 2-5, d.lgs. n. 9 del 2015.
63
A tal proposito, l’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 9 del 2015 prevede che «all’interrogatorio previsto dall’articolo 294 del codice
di procedura penale procede il Presidente della Corte d’appello o un magistrato della Corte da lui delegato».
64
Cfr. art. 10, comma 5, d.lgs. n.9 del 2015.
65
Cfr. art. 11 d.lgs. n. 9 del 2015.
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QUALCHE RIFLESSIONE CONCLUSIVA
Sono molteplici le opzioni che, a prima lettura, destano perplessità nella legge di attuazione italiana: la
mancata previsione di qualsiasi forma di contraddittorio di fronte alla Corte d’appello nella procedura
passiva; l’inserimento tra i casi di rifiuto di una ipotesi non prevista dalla direttiva; la scelta di privilegiare ancora una volta il ruolo del Ministro della Giustizia in netta controtendenza rispetto alla possibilità di un dialogo diretto tra autorità giudiziarie 66; il fatto che, infine, a pena di inammissibilità la richiesta dalla persona offesa debba contenere le «ragioni del soggiorno».
Il primo profilo, giustificato dalla Relazione al decreto con riferimento all’«incompatibilità della natura cautelare dei provvedimenti da adottare» 67, avrebbe ben potuto essere articolato anche diversamente, nel rispetto della necessaria segretazione circa le informazioni sulla persona da proteggere.
Del secondo non si trova alcun riscontro nella Relazione e non se ne comprende la ragione. Pur considerando che si registra una sostanziale sovrapposizione tra le misure di protezione di cui all’art. 5 della Direttiva e le disposizioni di cui agli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p., il rifiuto al riconoscimento allorché si
tratti di obblighi non riconducibili a queste due ultime disposizioni appare del tutto ingiustificato. Se si
riflette sulla possibilità di ricorrere al dispositivo di controllo di cui all’art. 275-bis c.p.p. così come indicato dall’art. 5, comma 3, d.lgs. n. 9 del 2015, la disposizione sembrerebbe consentire anche un rifiuto
qualora, viceversa, si possa procedere solo ai sensi dell’art. 275-bis citato. In ogni caso, l’imprecisa attuazione della Direttiva lascia aperta la possibilità di una tutela risarcitoria dell’interessato per i danni
conseguenti all’omesso riconoscimento di un ordine di protezione europeo in forza del motivo di rifiuto nazionale qui criticato. Ancor prima, peraltro, si potrebbe optare per una diretta applicazione della
Direttiva, con correlativa disapplicazione del detto motivo di rifiuto nazionale, valutando se all’ordine
di protezione di cui è richiesto il riconoscimento possa essere data attuazione con l’adozione di una misura che risulta «adeguata e consona alla propria legislazione nazionale in un caso analogo».
Il terzo profilo rimarca un approccio tradizionale alle disposizioni in tema di assistenza giudiziaria,
affidando i relativi rapporti all’Esecutivo, senza alcuna considerazione delle sempre più diffuse sollecitazioni che, proprio da parte dell’Unione Europea, sono volte a privilegiare i rapporti diretti tra autorità
giudiziarie senza il filtro governativo.
Il quarto, infine, sembra aprire la sindacabilità sui motivi dell’esercizio del diritto alla libera circolazione da parte della vittima che non sembra offrire alcun margine di apprezzamento all’organo giurisdizionale. Se la persona che richiede la protezione va all’estero in ferie per un breve periodo, il grado
di protezione sarà diverso da quello che potrebbe invocare qualora si recasse in un altro Stato membro
per lavoro per un periodo più lungo? Se l’intento era quello, già ricordato, di valutare il grado di necessità della protezione, il legislatore forse avrebbe più opportunatamente dovuto far riferimento se del
caso alle modalità del soggiorno.
66
Per queste riflessioni critiche v. già M. Troglia, L’ordine di protezione europeo dalla direttiva alla recente legislazione italiana di
recepimento: alcune riflessioni critiche, in corso di pubblicazione su Cass. pen., 2015, § 329.
67
Relazione Schema di decreto legislativo, cit., a proposito degli artt. 8 e 9 (trattati unitariamente dell’articolato).
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ELGA TURCO
Dottore di ricerca – Università del Salento
La riforma delle misure cautelari
The reform of the precautionary measures
Continua il legislatore a “punzecchiare” il libro IV del codice di procedura penale, questa volta con un intervento ad
ampio raggio – che coinvolge l’attività del “primo” giudice e quella del tribunale del riesame – finalizzato non tanto
a colmare deficienze intrinseche al sistema cautelare prefigurato dal codice bensì a supplire ad una constatata rinuncia alla sua interpretazione, innalzando, ex professo, il livello delle garanzie de libertate.
The lawmaker is carry on reforming the Book IV of the Criminal Procedure Code, this time with a farreaching intervention – involving both the activities of the “first” judge and the activities of the Court of review – aimed not
only to bridge deficiencies inherent to the system of the precautionary measures but also to take care of a renounce of its interpretation, raising, ex professo, the level of de libertate guarantee.
RILIEVI INTRODUTTIVI
Il male endemico del sovraffollamento carcerario, che, pur con intensità diverse, si è abbattuto da tempo sul sistema penitenziario italiano, sino a determinare una situazione non più tollerabile – certificata
dalla celebre sentenza Torreggiani 1–, data la sua attitudine a pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto 2, ha messo a dura prova il nostro legislatore, il quale, muovendosi nella
assoluta certezza che alla causazione del fenomeno contribuisce in maniera certamente decisiva l’uso
“spasmodico” della custodia in carcere, è intervenuto animato dal buon proposito di ridimensionare
l’orbita applicativa della cautela più estrema.
E, ancora una volta, deludendo le aspettative dei molti, si è affidato a timide opere di restyling: con ritocchi sparsi qua e la, in poco più di tre anni, con decreti d’urgenza e leggi di conversione, ha inciso, non sempre in maniera armonica e coerente, su singoli aspetti della disciplina contenuta nel libro IV del codice di rito 3, anziché realizzare una più coraggiosa opera di rinnovamento sistemico dell’intero impianto cautelare.
1
Si tratta della pronuncia della Corte europea (Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, in Cass. pen., 2013, p. 11, con
nota di G. Tamburino, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3
C.e.d.u. per non aver garantito ai detenuti uno spazio minimo «considerato accettabile dal Comitato per la prevenzione della tortura». A
commento della sentenza, cfr. anche G. Della Morte, La situazione carceraria italiana viola strutturalmente gli standard sui diritti
umani (a margine della sentenza Torreggiani c. Italia), in Diritti umani e diritto internazionale, 2013, p. 147 ss.; M. Dova, Torreggiani c.
Italia, un barlume di speranza nella cronaca del sistema sanzionatorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 948 ss.; F. Viganò, Sentenza pilota
della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un
anno, in Dir. pen. cont., 9 gennaio 2013, con cui si è intimato all’Italia di adottare specifici rimedi di ordine sistemico per porre
fine alla drammatica situazione nella quale versano le carceri italiane.
2
Cfr., sul punto, C. cost., sent. 9 dicembre 2013 n. 279, in Giust. pen., 2013, I, p. 289, con cui la Consulta ha ammonito il legislatore affinché non tardi a introdurre misure, sia “interne” che “esterne”, specificamente mirate al ripristino di condizioni compatibili con i parametri costituzionali.
3
Cfr. il d.l. 26 giugno 2014, n. 92 (convertito, con modificazioni, in l. 11 agosto 2014, n. 117), che ha modificato il comma 2-bis
dell’art. 275 c.p.p., prevedendo il divieto di applicazione della custodia in carcere – fatte salve alcune particolari ipotesi – se il
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
107
Ultima nata – figlia, come le altre, di una gestazione troppo sbrigativa – è la legge 16 aprile 2015, n.
47 4, sul cui «pennone campeggia la bandiera della lotta contro gli abusi della prassi» 5.
Sorretta da una matrice “reattiva” rispetto agli orientamenti consolidatisi sulla disciplina vigente
nella giurisprudenza di legittimità – troppo spesso incurante del principio secondo cui “il carcere è extrema ratio”, che echeggia dal dettato costituzionale e dalle varie norme disseminate nell’intero impianto
codicistico –, la novella si muove lungo quattro direttrici 6: 1) fissa nuovi “paletti” che limitano il ricorso, in generale, allo strumento cautelare; 2) attribuisce maggiore concretezza ai principi di adeguatezza
e gradualità della misura custodiale; 3) rafforza la motivazione del provvedimento restrittivo; 4) incide,
in maniera radicale, sul giudizio di riesame, con previsioni che attengono tanto al procedimento quanto
ai poteri del tribunale distrettuale.
Riflettere sugli obiettivi perseguiti e sui risultati raggiunti e interrogarsi sui risvolti applicativi della
riforma è lo scopo del presente lavoro, elaborato – va precisato – con l’inevitabile sommarietà di una
primissima lettura.
L’ART. 274 C.P.P.: CAMBIA NELLA FORMA MA POCO NELLA SOSTANZA
Partiamo dal duplice e “simmetrico” intervento sulle lett. b) e c) dell’art. 274 c.p.p. 7, realizzato attraverso una precisazione bidirezionale dei caratteri dei pericula ivi contemplati, volta – come si legge nella
Relazione 8 – «a limitare la discrezionalità del giudice, che si vuole più stringente, sia nella valutazione
del pericolo di fuga che in quello di reiterazione del reato»: su un fronte, si affianca al già previsto requisito della “concretezza” quello dell’“attualità”, in perfetto allineamento alle esigenze di cautela di
cui alla lett. a) (pericolo di inquinamento probatorio), che, già da un ventennio 9, contiene la doppia aggettivazione; sul secondo fronte, si sancisce il divieto di desumere la sussistenza dei pericoli di fuga e di
reiterazione «esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».
La prima puntualizzazione è un chiaro esempio di pleonasmo normativo: come se fosse possibile
individuare un pericolo «concreto» e, nel contempo, potenziale, rectius non attuale.
Ma il legislatore, a scanso di equivoci, ha voluto comunque rendere omogenea, in parte qua, la normativa concernente le connotazioni delle tre esigenze cautelari: con intenti dichiaratamente 10 restrittivi
rispetto all’elaborazione della Corte di cassazione che, con troppa disinvoltura, ha portato avanti
un’opera di delimitazione del requisito della “concretezza” 11 che lo differenziasse da quello dell’“attualità”, non espressamente richiamato 12.
giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena irrogata non sarà superiore a tre anni; il d.l. 1˚ luglio 2013, n. 78 (convertito, con
modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 94), che ha novellato, in primo luogo, l’art. 280, comma 2, c.p.p., prevedendo la possibilità
di adottare la custodia carceraria solo per i delitti, consumati o tentati, per cui è prevista la pena della reclusione non inferiore
nel massimo a cinque anni (incrementando il limite precedente, pari a quattro anni) ovvero nel caso di delitto di finanziamento
illecito dei partiti e, per evidenti esigenze di coordinamento, ha novellato l’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p., introducendo la locuzione per cui la custodia cautelare in carcere è disposta solo se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione
non inferiore nel massimo a cinque anni; il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito, con modificazioni, in l. 21 febbraio 2014, n.
10), che, intervenuto sull’art. 275-bis c.p.p., ha ridotto la discrezionalità del giudice procedente nella prescrizione di particolari
modalità di controllo (c.d. braccialetto elettronico) in sede di applicazione degli arresti domiciliari.
4
Rubricata «Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n.
354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità».
5
La frase è “presa in prestito” da G. Giostra, Sul vizio di motivazione dell’ordinanza cautelare, in Cass. pen., 1995, p. 2428, che così si esprimeva a proposito della riforma attuata con la l. 8 agosto 1995, n. 332.
6
Sul punto, A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme, Torino, 2015, p. 10.
7
Del quale si occupano gli artt. 1 e 2 della legge in esame.
8
Relazione di accompagnamento alla proposta di legge n. 631 AC, reperibile in www.documenti.camera.it
9
Con la n. 332 del 1995.
10
Si veda, sul punto, la Relazione di accompagnamento, cit.
11
Così si esprime P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Dir. pen.
cont., 3 giugno 2015, p. 5.
12
Cfr., tra le ultime, Cass., sez. V, 15 maggio 2014, n. 24051, in CED Cass. n. 260143; Cass.. sez. VI, 5 aprile 2013, n. 28618, in
CED Cass., n. 255857; Cass., sez. I, 16 gennaio 2013, n. 15667, in CED Cass., n. 255350; Cass., sez. IV, 10 aprile 2012, n. 18851, in
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La seconda esplicitazione è un chiaro esempio di corrività tecnica: saldata la «gravità» non al “fatto”
ma al «titolo di reato per cui si procede» – dunque, alla fattispecie incriminatrice astratta contestata nel
procedimento –, l’ambito applicativo degli inediti “incisi” appare piuttosto teorico, risultando alquanto
difficile – se non impossibile – che, nella pratica, il pubblico ministero possa chiedere – e il giudice disporre – una misura cautelare alla luce della “sola” consistenza della risposta sanzionatoria prevista per
il reato contestato, non fosse altro per la necessità – prescritta dall’art. 274 c.p.p. e affermata da un
orientamento esegetico monolitico della Suprema corte – di ancorare la valutazione prognostica a elementi “concreti” 13.
Anche questa previsione, dunque, va letta nell’ottica di bloccare eventuali prassi applicative fuorvianti: allontanare l’organo decidente da ogni possibile “tentazione” di stravolgere le finalità delle misure cautelari attraverso l’adesione ad un modello decisionale influenzato unicamente dalla gravità
“oggettiva” del reato per cui si procede 14.
Quanto, in particolare, alle situazioni di «concreto e attuale pericolo» di reiterazione, non vi è dubbio
– oggi come ieri – che esse, valutate «anche in relazione alla personalità dell’imputato», possano essere
desunte dalla gravità del “fatto concreto”, alias, da quelle «specifiche modalità e circostanze del fatto»,
espressamente richiamate nella lett. c) dell’art. 274 c.p.p. e che appaiono tasselli imprescindibili per una
corretta prognosi di recidivanza 15.
Infine, l’innesto, sempre in seno alla lett. c), del riferimento al delitto di finanziamento illecito dei
partiti (ex art. 7 l. 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni), seppure appesantisca sgradevolmente la sintassi del testo normativo, è reso doveroso dalla necessità di “sanare” il difetto di coordinamento con l’art. 280, comma 2, c.p.p., così come modificato dal d.l. n. 78 del 2013 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 94 del 2013), che, elevato da quattro a cinque anni il limite minimo del massimo
edittale necessario per l’applicazione della custodia in carcere, ma tenuta ferma la possibilità di ricorrere a tale misura per il delitto di finanziamento illecito dei partiti – punito con la reclusione fino a quattro anni – e, contestualmente, modificato l’art 274, lett. c), c.p.p., anche qui – per evidenti esigenze di
coordinamento – con l’innalzamento da quattro a cinque anni del limite di pena necessario per applicare la custodia in carcere in presenza di un pericolo di ricaduta nei delitti della stessa indole, aveva “dimenticato” di introdurre un richiamo, ai predetti fini, al delitto in questione.
L’ART. 275 C.P.P.: CARCERE COME EXTREMA RATIO SE NON RESIDUA SPAZIO PER LE MISURE INTERDITTIVE E
PER GLI ARRESTI DOMICILIARI CON “BRACCIALETTO ELETTRONICO”
Apprezzabile il tentativo di “mettere ordine” nella farraginosa e complessa disciplina contenuta nell’art. 275 c.p.p. 16, che, più volte maneggiato dal legislatore e dalla Corte costituzionale, ha mutato ripetutamente contenuto e ambito operativo.
Sullo sfondo dell’intervento n. 47, una certezza: recuperare il principio del «minor sacrificio necessario» 17, il quale impone al legislatore di strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità
CED Cass., n. 253863. Sul punto, v. anche Cass., sez. un., 11 luglio 2001, n. 34537, in CED Cass., n. 219600, le quali – in relazione
al pericolo di fuga necessario, ai sensi dell’art. 307 c.p.p., per il ripristino della misura custodiale, dopo la scarcerazione per la
decorrenza dei termini – avevano chiarito che la valutazione prognostica deve essere svolta «non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto,
idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle
imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga».
Va, peraltro, evidenziato che, in alcune occasioni, il giudice di legittimità aveva fatto esplicito riferimento al requisito
dell’«attualità», accanto a quello della «concretezza»: cfr. Cass., sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 3503, in CED Cass. n. 258253; Cass.,
sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 6797, in CED Cass., n. 254936.
13
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari, Rel. n. III/03/2015, in www.cortedicassazione.it., p. 7.
14
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 6.
15
In questo senso, si vedano, tra le altre, Cass., sez. II, 8 ottobre 2013, n. 49453, in CED Cass. n. 257974; Cass., sez. VI, 8 marzo
2012, n. 38763, in CED Cass., n. 253372.
16
Se ne occupano gli artt. 3 e 4 della novella in commento.
17
V. C. cost., sent. 3 maggio 2010 n. 110, in Foro it. 2013, I, c. 1434, con nota di L. Calò.
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graduata” che, assolutamente scevro da automatismi applicativi, riserva al giudice la “graduazione” della
risposta cautelare e impone al medesimo di fare uso della custodia in carcere solo come extrema ratio.
E il recupero si concretizza su tre fronti: l’introduzione di una “fisiologica” possibilità per il giudice
di applicare congiuntamente più misure cautelari, coercitive o interdittive (comma 3, primo periodo),
finora praticabile solo nei due “patologici” casi disciplinati negli artt. 276, comma 1 – trasgressione delle
prescrizioni concernenti una misura cautelare – e 307, comma 1-bis, c.p.p. – scarcerazione per decorrenza dei termini 18; la valorizzazione della soluzione, scoperta di recente dal legislatore, attinente all’applicazione degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275-bis c.p.p. (comma 3bis); la completa rivisitazione – alla luce dei numerosi diktat della Consulta – delle disposizioni concernenti la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura inframuraria (comma 3, secondo periodo).
La nuova formulazione del primo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. 19 non lascia adito a dubbi
circa la possibilità per il giudice, investito di una richiesta di applicazione della custodia in carcere da
parte del pubblico ministero, di verificare la praticabilità di risposte cautelari “graduate” e realizzare,
così, un processo osmotico tra le altre varie misure. Il dato letterale e il principio di legalità scolpito
nell’art. 272 c.p.p. dovrebbero, poi, indurre ad escludere la possibilità di avvalersi di tale strumento anche quale alternativa all’applicazione di una misura meno afflittiva della custodia in carcere 20, almeno
nella fase genetica. E, infatti, nel caso di inasprimento delle esigenze cautelari, al giudice è consentito,
ora, intervenire, indipendentemente dal tipo di misura in atto, con un’ordinanza di applicazione cumulativa: apportata una speculare modifica al comma 4 dell’art. 299 c.p.p. 21, alla già prevista possibilità di
sostituire, su sollecitazione del pubblico ministero, la misura adottata con un’altra più grave, o di disporre l’esecuzione con modalità più gravose, è aggiunta appunto quella di applicare «congiuntamente
altra misura coercitiva o interdittiva». Al fine, proprio, di evitare che l’aggravamento delle esigenze
cautelari possa condurre necessariamente o immediatamente alla misura estrema.
Quanto al nuovo comma 3-bis 22, si tratta di un esempio difficilmente eguagliabile di superfetazione
normativa: il legislatore, per un verso, con la precisazione afferente al monitoraggio a distanza della
persona sottoposta agli arresti domiciliari, vuole “rimarcare” il favor dell’ordinamento per l’utilizzo, alternativamente al carcere, della misura domiciliare corredata dal controllo elettronico 23; favor già chiaramente arguibile dalle modifiche apportate all’art. 275-bis c.p.p. ad opera del d.l. n. 146 del 2013 (conv.
dalla l. n. 10 del 2014) 24, che, rafforzando l’ossatura della citata disposizione, ha trasformato in regola
quella che per tredici anni è stata un’eccezione 25. Per altro verso, prescrivendo al giudice che dispone la
custodia in carcere l’indicazione delle specifiche ragioni per cui ritiene, nel caso concreto, “inidonea” la
misura degli arresti domiciliari con l’applicazione del “braccialetto elettronico”, ribadisce un onere motivazionale già evincibile non solo dal nuovo art. 275, comma 3, primo periodo, c.p.p. 26, ma anche
18
Sul punto, v. Cass., sez. un., 30 maggio 2006, n. 29907, in Dir. e giustizia, 2006, n. 36, p. 51, la quale, muovendo dal principio di legalità di cui all’art. 272 c.p.p., ha precisato che, al di fuori dei casi in cui siano espressamente consentite da singole norme processuali,
non sono ammissibili né «l’imposizione “aggiuntiva”, a una misura coercitiva, di ulteriori prescrizioni non previste dalla legge», né
«l’applicazione “congiunta” di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili».
19
Secondo il quale «la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate».
20
Ad esempio, il giudice non potrebbe disporre cumulativamente le misure dell’obbligo di dimora e della sospensione
dall’esercizio di un pubblico ufficio in luogo degli arresti domiciliari richiesti dal pubblico ministero.
21
Se ne occupa l’art. 9 della novella in commento.
22
Il nuovo comma 3-bis così recita: «Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni
per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275bis, comma 1», c.p.p.
23
Che consente di monitorare continuamente la presenza dell’indagato nel perimetro entro il quale gli è consentito di muoversi.
24
Sul punto, V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 10.
25
La norma prevede che il giudice, nel disporre gli arresti domiciliari, anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, deve disporre le particolari modalità di sorveglianza elettronica non più «se lo ritiene necessario» ma «salvo che le ritenga
non necessarie in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto».
26
Il quale, chiarendo – come già detto – che la custodia in carcere può essere disposta solo quando anche l’applicazione cumulativa di ogni altra misura risulti inadeguata, impone un passaggio valutativo prima e motivazionale dopo. Sul punto, cfr. P.
Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 13, in particolare, nota 37.
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dall’art. 292, comma 2, lett. c-bis), c.p.p., che fissa, tra i requisiti dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, «l’esposizione e l’autonoma valutazione 27
delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» 28.
Restano, ieri come oggi, i problemi applicativi connessi all’utilizzo del “braccialetto elettronico”, dovendo, l’autorità giudiziaria, “fare i conti” con una disfunzione di carattere eminentemente pratico:
l’indisponibilità materiale di questo “misterioso” oggetto – largamente utilizzato, e con successo, in diversi Paesi europei e d’oltre oceano 29 – che non riesce proprio a decollare in Italia 30. Allora, rimane da
chiedersi (ma la domanda è retorica!): il giudice, nel momento in cui, valutata “idonea” la misura cautelare degli arresti domiciliari, secondo la previsione di cui all’art. 275-bis c.p.p., accertasse la mancanza
dei dispositivi elettronici di controllo in questione, dovrà optare per gli arresti domiciliari “semplici” –
ancorché reputati inefficaci a fronteggiare le esigenze cautelari sussistenti – ovvero dovrà concludere
automaticamente per l’”inadeguatezza” della misura domiciliare, con conseguente ricorso alla custodia
in carcere? 31
Passando all’analisi del testo residuo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. 32, com’è noto, esso, nella versione
primigenia – alimentata dall’humus dei principi di adeguatezza e proporzionalità –, era rigorosamente
ispirato al criterio di stretta necessità ed escludeva automatismi valutativi, riservando al giudice la graduazione della risposta cautelare 33.
Nelle versioni successive, a seguito delle c.d. «stagioni emergenziali» 34, ha subito una “mutazione
genetica”. Con riferimento ad un eclettico catalogo di reati – originariamente legati a forme di criminalità organizzata ma, successivamente, anche di matrice diversa –, il legislatore ha cristallizzato una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, quanto all’adeguatezza della sola misura carceraria.
Altrettanto nota è l’incalzante opera demolitoria con cui la Corte costituzionale, in più step – ben nove –, a partire dal 2010, ha fatto, via via, cadere le presunzioni assolute per quasi tutti i reati elencati nel
27
L’inciso «l’autonoma valutazione» è stato aggiunto dalla novella in esame. Sul punto, v. infra, par. 6.
28
In definitiva, anche prima che gli artefici della l. n. 47 appesantissero ulteriormente la formulazione dell’art. 275 c.p.p., con
l’innesto del nuovo comma 3-bis, il giudice, nel valutare l’inadeguatezza degli arresti domiciliari, era tenuto a «adeguatamente
motivare» le ragioni per le quali le esigenze cautelari non potevano essere tutelate con l’impiego del “braccialetto elettronico”:
cfr., in proposito, Cass., sez. II, 9 dicembre 2014, n. 52747, in CED Cass. n. 261718.
29
Per alcuni approfondimenti sulle tecniche di sorveglianza elettronica degli imputati, sperimentate con successo in alcuni
Paesi comunitari (Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Galles, Paesi Bassi e Svezia) ed extracomunitari (Svizzera, USA, Canada, Israele, Australia, Nuova Zelanda e Singapore), si rinvia a I. Barbagallo, La sorveglianza elettronica dei detenuti: profili di diritto
comparato, in Rassegna italiana di criminologia, 2000, fasc. 3-4, p. 353 ss.
30
Difficile da individuare le ragioni dello scarso utilizzo del “braccialetto elettronico”, anche perché il servizio è già totalmente pagato e il giudice che lo applica non deve liquidare alcun compenso.
31
Sul punto v. le osservazioni di P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 14, che così conclude: «Quale che sia la soluzione prescelta, ci si chiede se possa reputarsi accettabile – la domanda ovviamente è retorica – che le valutazioni del giudice della cautela
su di un aspetto nevralgico nell’ottica del minor sacrificio possibile debbano essere condizionate così pesantemente da una disfunzione di carattere eminentemente pratico, che rischia di rendere, nei fatti, la novella un’operazione di facciata piuttosto che
un effettivo argine al ricorso alla custodia in carcere».
32
Il nuovo secondo periodo del comma 3 così recita: «Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di
cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e,
quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Il terzo periodo del comma 3 è stato,
invece, soppresso.
33
R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza del carcere cautelare “obbligatorio”: cade la presunzione assoluta anche per i reati di
“contesto mafioso”, in Giur. cost., 2013, p. 2408.
34
Il riferimento è alle modifiche introdotte: dall’art. 5, comma 1, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni,
dalla l. 12 luglio 1991, n. 203; dall’art. 1, comma 1, d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 novembre
1991, n. 356; dall’art. 2, comma 1, lett. a) ed a-bis), d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009,
n. 38.
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comma 3 in questione 35 – accertato il contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1 e 27, comma 2, Cost. 36 –, trasformandole in presunzioni relative, superabili allorché «siano acquisiti elementi specifici, in relazione al
caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» 37.
La Consulta, nello sciame dei precedenti su citati, ha chiarito che le presunzioni assolute, specie
quando limitano diritti fondamentali della persona, sono «arbitrarie e irrazionali», e dunque violano il
principio di uguaglianza, ove non rispondono «a dati di esperienza generalizzati», riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit: evenienza che si riscontra segnatamente allorché «sia “agevole”
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione
stessa» 38.
Con particolare riferimento ai reati “mafiosi”, ha spiegato che la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere può contare su una congrua “base statistica”, che la rende plausibile per la
generalità dei casi concreti, solo ove riferita al delitto di associazione di stampo mafioso – in considerazione della struttura stessa della fattispecie e delle sue connotazioni criminologiche 39 –, giungendo alla
conclusione che tanto i reati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 40 – commessi con metodo
mafioso, oppure volti ad agevolare le associazioni ex art. 416-bis c.p. –, quanto le ipotesi di concorso
esterno nell’associazione di stampo mafioso 41, non implicano né presuppongono «necessariamente un
vincolo di appartenenza permanente» al sodalizio, «in grado di legittimare, sul piano empiricosociologico, il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria, quale unico strumento idoneo a recidere i
rapporti dell’indiziato con l’ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità» 42 e, dunque, non assicurano alla presunzione assoluta un fondamento giustificativo costituzionalmente adeguato 43.
35
Cfr. C. cost., sent. 21 luglio 2010 n. 265, in Giur. cost., 2010, p. 3169, per i delitti di cui agli art. 600-bis, comma 1, 609-bis e
609-quater c.p.; C. cost., sent. 12 maggio 2011, n. 164, in Giur. cost., 2011, p. 2149, con nota di A. Marandola, Verso un nuovo statuto
cautelare europeo?, per il reato di omicidio volontario ex art. 575 c.p.p.; C. cost., sent. 22 luglio 2011 n. 231, in Giur. cost., 2011, p.
2950, con nota di A. Marandola, Associazione per il narcotraffico e negazione della «ragionevolezza» della carcerazione obbligatoria fra
Corte costituzionale e Sezioni Unite, per le fattispecie prevista dall’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; C. cost., sent. 16 dicembre
2011 n. 331, in Giur. cost., 2011, p. 4554, con nota di L. Scomparin, Anche per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere si trasforma da assoluta in relativa, per il delitto di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina; C. cost., sent. 3 maggio 2012 n. 110, in Giur. cost., 2012, p. 1619, per l’associazione per delinquere
ex art. 416 c.p.p., finalizzata alla contraffazione di prodotti industriali e al loro commercio (di cui agli artt. 473 e 474 c.p.); C.
cost., sent. 23 luglio 2013 n. 232, in Dir. pen. proc., 2014, p. 430, con nota di F. Vergine, Art. 275, 3º comma, c.p.p.: una norma
dall’utilizzo eccessivo, in ordine al delitto di cui all’art. 609-octies c.p.; C. cost., sent. 18 luglio 2013 n. 213, in Cass. pen., 2013, p.
4325, in ordine al delitto di cui all’art. 630 c.p.; C. cost., sent. 29 marzo 2013 n. 57, in Giur. cost., 2010, p. 863, con nota di R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo; da ultimo, C. cost., sent. 26 marzo 2015 n. 48,
in www.cortecostituzionale.it, in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Sul tema, si vedano, tra gli altri, F. Giunchedi, La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare. Frammenti di storia ed equilibri nuovi, in Giur. it., 2013, p. 3; V. Manes, Lo "sciame di precedenti" della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in
Dir. pen. proc., 2014, p. 457; P. Tonini, La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave
probatoria, in Dir. pen. proc., 2014, p. 261.
36
Con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di
mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai
paradigmi punitivi considerati; con l’art. 13, comma 1, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari personali; con l’art. 27, comma 2, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
37
C. cost., sent. n. 265 del 2010, cit.
38
C. cost., sent. n. 48 del 2015, cit.
39
Traducendosi, nel delitto de quo, il vincolo associativo, nell’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, gerarchicamente organizzato e caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, ed
esprime una forza di intimidazione, da cui conseguono condizioni peculiari di assoggettamento e di omertà, che fanno ritenere,
secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, le esigenze cautelari fronteggiabili esclusivamente con la custodia
in carcere: C. cost., sent. n. 265 del 2010, cit.
40
C. cost., sent. n. 57 del 2013, cit.
41
C. cost., sent. n. 48 del 2015, cit.
42
C. cost., sent. n. 48 del 2015, cit.
43
Quanto alle ipotesi di concorso esterno nell’associazione di stampo mafioso, la soluzione era stata preconizzata da R.
Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., p. 2413 ss.
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Non sfugge come il martellante intervento della Corte che, con ripetuti colpi di scalpello, ha asportato pezzo dopo pezzo quanto di meno costituzionalmente sostenibile si era via via sedimentato 44, denuncia una patologia strutturale «che prescinde dal caso di specie, perché non riguarda più soltanto la
legge, ma il legislatore o, più esattamente, il suo modo di legiferare, o meglio ancora, le finalità con esso
perseguite» 45.
Ora, finalmente, con la riformulazione del secondo periodo e la soppressione del terzo periodo del
comma 3 dell’art. 275 c.p.p., si arresta il “colpevole silenzio” del legislatore 46.
Preso atto del “disboscamento” operato dal Giudice delle leggi sul comma in questione, innanzi tutto, si restringe l’orbita applicativa della presunzione iuris et de iure di adeguatezza della custodia in carcere: abbandonato il generico e troppo ampio riferimento all’elenco delle fattispecie incriminatrici contenuto – al ben diverso fine di individuare, com’è noto, le attribuzioni del pubblico ministero distrettuale – nei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 c.p.p., si fa espresso riferimento al delitto ex art. 416-bis c.p. e
alle sole ipotesi di cui agli artt. 270 e 270-bis c.p., concernenti, rispettivamente, le associazioni sovversive
e quelle aventi finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico 47. Il
legislatore, mutuando le considerazioni svolte dalla Consulta, ha evidentemente ritenuto trattarsi di fattispecie che presuppongono la permanente adesione ad un sodalizio criminoso fortemente radicato nel
territorio, gerarchicamente organizzato e caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, che
esprime una forza di intimidazione, da cui conseguono condizioni affatto speciali di assoggettamento e
di omertà, che fanno ritenere, secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, le esigenze
cautelari fronteggiabili esclusivamente con la custodia in carcere 48.
La ratio della previsione eccezionale è giustificata, dunque, dalla necessità di recidere, date le caratteristiche del reato, i collegamenti con gli ambienti in cui esso è stato commesso e che ne hanno rappresentato il substrato; necessità che rende ragionevole la disparità di trattamento che obiettivamente ne
deriva; disparità che, per i reati di cui agli artt. 270 e 270-bis c.p., trova un’ulteriore giustificazione nella
matrice ideologica che li caratterizza e che rende ardua la previsione che mezzi diversi di contenimento
possano arginare la spinta criminale del soggetto 49.
Il richiamo ai commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 c.p.p. è, poi, “recuperato” nell’ultima parte del novellato comma 3: per queste eterogenee fattispecie 50 ed altre, specificatamente indicate 51, tutte prive delle
particolari connotazioni del “vincolo associativo”, il legislatore ritaglia un’area di applicazione della
doppia presunzione iuris tantum, nei termini delineati dalla Consulta: è disposta la custodia cautelare in
carcere «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che,
44
L’espressione è di G. Giostra, Carcere cautelare “obbligatorio”: la campana della Corte costituzionale, le “stecche” della Cassazione,
la sordità del legislatore, in Giur. cost., 2012, p. 4903.
45
Così ancora G. Giostra, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4903.
46
Sulla sordità del legislatore a fronte del pressante monito della Consulta, v., ancora, G. Giostra, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4903 ss.
47
Sul punto v. V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 13, che precisano come si tratta di una “scelta di campo”
estremamente significativa, dal momento che, per un verso, il comma 3-bis dell’art. 51 c.p.p. fa riferimento – oltre che al delitto
di cui all’art. 416-bis c.p. – a numerose altre ipotesi di reato, anche associative, il cui regime cautelare non era stato colpito da
declaratorie di illegittimità costituzionale – come l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di t.l.e. (art. 291quater d.p.r. n. 43 del 1973), o al traffico illecito di rifiuti (art. 260 t.u. amb.) – fattispecie, evidentemente, ritenute prive delle particolari connotazioni del vincolo associativo evidenziate dalla Consulta a proposito dell’associazione di stampo mafioso, indispensabili per ritenere ragionevole la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere. Per altro verso, l’abbandono del richiamo al comma 3-quater dell’art. 51 ha comportato il venir meno della presunzione assoluta anche per ciò che riguarda i delitti con finalità di terrorismo (ad eccezione, come detto, dell’ipotesi associativa).
48
Prima della novella n. 47, in dottrina (V. Manes, Lo "sciame di precedenti", cit., p. 466) si era ritenuto che, oltre all’associazione ex art. 270-bis, c.p., anche i delitti di arruolamento e addestramento con finalità terroristica (artt. 270-quater e 270–
quinquies c.p.p.) avrebbero potuto superare lo scrutinio di costituzionalità correlato alla presunzione assoluta di adeguatezza,
dal momento che «alla rete terroristica (e quindi non solo alla ‘associazione’) è in genere sotteso (non solo un gruppo strutturato
ed organizzato, bensì pure) una connessione anche trasnazionale fatta di legami umbratili e omertosi, che si avvale di canali di
comunicazione difficili da scoprire e penetrare».
49
Così P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 12.
50
Ad eccezione, ovviamente, di quelle associative richiamate nel nuovo secondo periodo del comma 3.
51
Quelle relative ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bis, comma 1, 600-ter, escluso il comma 4, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.
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in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» 52.
Resta da chiedersi se il legislatore, ancora una volta, non abbia deluso le aspettative dei molti.
Forse, con più coraggio, muovendosi all’interno di un sistema cautelare ispirato ai principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, avrebbe dovuto gettare definitivamente alle ortiche il regime
presuntivo assoluto e allargare le maglie di quello che si fonda sulla doppia presunzione relativa 53. Perché rispetto a qualunque tipologia di reato contestato – giova precisarlo – il regime custodiale obbligatorio fa perno su una massima di esperienza pronta a sfaldarsi nell’impatto con gli accadimenti reali 54.
Un «automatismo legale», collegato alla tipologia del reato contestato, «che impone di entrare in carcere a chi non dovrebbe entrarci e vieta di uscirne a chi potrebbe uscirne» 55 è la spia di un sistema che
si fida così poco dei suoi giudici 56 da negar loro anche quel limitato spazio di discrezionalità valutativa
che deriverebbe, invece, dalla più ragionevole previsione di una presunzione relativa 57.
GLI ARTT. 276, COMMA 1-TER E 284, COMMA
AUMENTANO I DUBBI INTERPRETATIVI
5-BIS, C.P.P.: SI AFFIEVOLISCONO ALTRI AUTOMATISMI MA
Non cadono ma si affievoliscono gli automatismi contenuti negli artt. 276, comma 1-ter e 284, comma 5bis, c.p.p.: il primo – in tema di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare personale,
sanciva l’obbligo per il giudice di sostituire gli arresti domiciliari con la custodia in carcere in caso di violazione delle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura, in una
prospettiva derogatoria rispetto al potere discrezionale fissato come regola generale nel comma 1 58.
Il secondo sanciva una sorta di presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari connessa al
pericolo di fuga nei confronti di colui che fosse stato condannato per il reato di evasione (art. 385 c.p.)
«nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede».
Ora, con la legge n. 47 59, pur restando in piedi, rispettivamente, il dovere (di sostituire gli arresti
domiciliari con la custodia in carcere) e il divieto (di concedere gli arresti domiciliari), è introdotta una
valvola di sicurezza. Nel primo caso, l’applicazione della misura inframuraria non è più automaticamente collegata all’avvenuta trasgressione, ma necessita di un previo apprezzamento in ordine all’effet-
52
In conclusione, per ciò che specificamente riguarda i “reati di mafia”, il predetto regime cautelare risulta oggi applicabile
non solo alle ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, ai reati commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività del sodalizio di stampo mafioso (reati inseriti nell’elenco di cui al comma 3-bis dell’art. 51 c.p.p.), ma anche all’ulteriore delitto di scambio elettorale politico mafioso di cui all’art. 416-ter c.p., che è
stato inserito, dall’art. 2 l. 23 febbraio 2015, n. 19, nel predetto elenco di cui al comma 3-bis: a tale delitto, la presunzione assoluta
di adeguatezza della sola custodia in carcere è risultata, quindi, applicabile solo nel breve periodo intercorso tra i due interventi
legislativi del 2015. In termini critici sulle ricadute cautelari di tale inserimento, si era espresso, prima della legge n. 47, G. Leo,
Cade la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere anche per il concorso esterno nell’associazione mafiosa, in Dir. pen.
cont.,, 30 marzo 2015, par. 6.
53
Sul punto, cfr. R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., p. 2416. Per un analogo auspicio, v. L. Scomparin, Censurati gli
automatismi custodiali anche per le fattispecie associative in materia di narcotraffico: una tappa intermedia verso un riequilibrio costituzionale dei regimi presuntivi, in Giur. cost., 2011, p. 3739.
54
Così R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., p. 2416, a proposito dei reati “di mafia”, che aggiunge: «Ogni presunzione iuris et de iure, soprattutto in materia cautelare, in tanto è tollerabile in quanto possa contare su una “legge di copertura” di
tipo non probabilistico». Come osserva P. Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in
carcere, in Dir. pen. proc. 2010, p. 956, la categoria delle presunzioni assolute, costruite su «massime di esperienza non falsificabili», «appare estremamente delicata dal punto di vista della teoria della conoscenza, giacché è difficile in generale escludere a
priori qualsivoglia possibilità di smentita. Alla debolezza del fondamento conoscitivo sopperisce, probabilmente, la necessità» –
aggiungeremmo, eminentemente pratica – «di soddisfare l’urgenza “cautelare” che connota le ipotesi criminose» contemplate
dall’art. 275, comma 3 c.p.p.
55
Cfr. G. Giostra, Carcere cautelare “obbligatorio”, cit., p. 4907.
56
Per questa considerazione, v. G. Leo, Gli statuti differenziali per il delinquente pericoloso: un quadro della giurisprudenza, in Dir.
pen. cont., 15 settembre 2011, p. 2.
57
Così sempre R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit., p. 2416; v., anche, R. Mastrototaro, Custodia cautelare in carcere e
presunzioni legali, in Foro it., 2015, V, c. 105.
58
Secondo il quale, in caso di «trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione».
59
Gli artt. 5 e 6.
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tivo disvalore della condotta medesima: «salvo che il fatto sia di lieve entità»; nel secondo caso, gli arresti domiciliari non possono essere concessi «salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi,
che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura».
Ancora una volta il legislatore dimostra di non avere “un cuor di leone”: si sarebbe potuto limitare
ad abrogare le due disposizioni in questione, per restituire, al giudice procedente, la piena discrezionalità di valutare caso per caso la gravità della violazione in rapporto alle esigenze cautelari 60; e, invece,
non solo introduce altre deroghe ai principi generali, ma, mostrandosi assolutamente insensibile ad
ogni “problema” di “tecnica legislativa”, apre il varco a nuovi dubbi interpretativi.
Quanto al nuovo comma 1-ter dell’art. 276 c.p.p. – che, va evidenziato, come nella versione precedente, “persiste” nell’errore di sanzionare unicamente l’allontanamento «dalla propria abitazione o da
altro luogo di privata dimora», “dimenticando” di menzionare gli altri luoghi parimenti indicati
nell’art. 284 c.p.p. 61 –, non sfugge come esso continui a derogare al principio generale fissato nel comma
1, che attribuisce al giudice il potere di valutare l’opportunità della sostituzione della misura cautelare
alla luce non solo dell’«entità», ma anche «dei motivi e delle circostanze» della violazione 62: l’inequivoco tenore letterale dell’incipit della nuova previsione 63 indurrebbe, allora, a sostenere che il giudice –
chiamato a valutare la “consistenza” della trasgressione alle prescrizioni inerenti gli arresti domiciliari,
al fine di decidere se sostituire o meno la misura de qua con la custodia in carcere – non dovrebbe tener
conto «dei motivi e delle circostanze» della violazione, bensì, unicamente, dell’«entità del fatto».
Sarà compito dell’interprete individuare le situazioni cui attribuire la connotazione richiesta dal legislatore per la deroga, potendosi ipotizzare che il «fatto di lieve entità» presupponga comunque un allontanamento effettivo, ma, nel contempo, contenuto in termini spaziali o temporali ristretti, che non abbia
determinato la concretizzazione dei rischi che avevano fondato il giudizio sulle esigenze cautelari 64.
Quanto al novellato comma 5-bis dell’art. 284 c.p.p., precisato che l’inciso «salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, (…) che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura» costituisce l’ennesimo esempio di una superfetazione normativa 65, non è chiaro se la locuzione
«fatto di lieve entità» vada riferita al reato per cui si procede o all’evasione che ha fondato la condanna
precedente.
La prima ipotesi ricostruttiva non convince affatto: perché una presunzione di adeguatezza dei soli
arresti domiciliari, in alternativa alla custodia in carcere, per un fatto ritenuto, in concreto, lieve fa sorgere qualche perplessità di ordine sistematico, soprattutto in relazione al principio generale di proporzionalità di cui all’art. 275, comma 2, c.p.p. 66
La seconda soluzione, d’altro canto, è foriera di non poche difficoltà di ordine pratico, perché impone
al giudice – chiamato a rivisitare, «assumendo nelle forme più rapide le relative notizie», come recita
l’immutata ultima parte del comma 5-bis, episodi ormai definiti con sentenza irrevocabile – un onere valutativo particolarmente complesso: giacché la norma si applica a richieste cautelari che ovviamente non si
fondano sull’episodio di evasione 67, ben difficilmente il giudice troverà ai propri atti la sentenza per il
60
Va notato che, nel corso dell’iter che ha condotto all’approvazione della legge in commento, il comma 1-ter dell’art. 276
c.p.p. era stato abrogato proprio al dichiarato fine di restituire «al giudice il potere di valutare caso per caso la gravità della violazione in rapporto alle esigenze cautelari»: cfr. Proposta della Sottocommissione Canzio, 14 luglio 2013, in Dir. pen. cont., 27 ottobre
2014, p. 10.
61
Il riferimento è al luogo pubblico di cura o di assistenza e alla casa famiglia protetta.
62
Vale la pena evidenziare come il legislatore, con questa modifica, si è posto sulla scia – tuttavia andando oltre –
dell’interpretazione della Corte Costituzionale che, pur dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma in argomento nella parte relativa alla sostituzione obbligatoria ed automatica degli arresti domiciliari con
la custodia cautelare in carcere «senza alcuna possibilità di valutare l’entità, i motivi e le circostanze della trasgressione» – aveva
aperto un varco ad un apprezzamento, da parte del giudice dell’aggravamento, della «effettiva lesività» della condotta: C. Cost.,
ord. 6 marzo 2002, n. 40, in www.cortecostituzionale.it.
63
«In deroga a quanto previsto nel comma 1 (…)».
64
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 16.
65
Perché non si fa altro che ribadire quella verifica che si impone al giudice secondo gli ordinari parametri di adeguatezza di
cui all’art. 275, comma 1, c.p.p. e che lo indurranno a disporre gli arresti domiciliari soltanto se essi risultino idonei a fronteggiare le esigenze cautelari manifestatesi nella fattispecie concreta.
66
Sul punto, v. anche V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 16.
67
Che risulterà dal certificato del casellario.
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reato suddetto o altro atto che possa consentirgli di apprezzare – sulla base di «specifici elementi» – la
consistenza del fatto ex art. 385 c.p. e di valutare l’eventuale deroga al divieto fissato nel comma 5-bis 68.
GLI ARTT. 289, 299 E 308 C.P.P.: PIÙ SPAZIO PER LE MISURE INTERDITTIVE
Nell’ottica di dilatare gli spazi operativi delle misure interdittive, la l. n. 47 interviene chirurgicamente
anche sugli artt. 289, comma 2, 299, comma 4 69 e 308 c.p.p. 70
Quanto al primo – concernente la previsione eccezionale dell’interrogatorio preventivo che il giudice, nel corso delle indagini preliminari, qualora proceda per un delitto contro la pubblica amministrazione, «prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio», è tenuto ad espletare 71 –, il legislatore, a ben vedere, non aggiunge nulla di
nuovo. Precisando, infatti, che, qualora la misura interdittiva in questione venga disposta non già in accoglimento della conforme richiesta del pubblico ministero, ma in luogo di una misura coercitiva richiesta dall’inquirente, l’interrogatorio si svolgerà secondo la regola generale fissata nell’art. 294, comma 1-bis, c.p.p. – ossia non oltre dieci giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione –, oltre a “ribadire” il principio, già affermato nel nuovo art. 275, comma 3, primo periodo, c.p.p. 72,
della possibile osmosi tra misure coercitive ed interdittive, pone “normativamente” fine alla prassi
fuorviante di una giurisprudenza che, bypassato il dato letterale – «prima di decidere sulla richiesta del
pubblico ministero di sospensione […]» –, riteneva obbligatorio l’interrogatorio preventivo anche
nell’ipotesi in cui il giudice, disattendendo la richiesta dell’inquirente di applicazione di una misura
coercitiva, disponesse la sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio o servizio. E, in tal modo, il giudice, attuando una discovery non preventivata dalla pubblica accusa – che non aveva domandato la misura interdittiva in parola –, finiva per neutralizzare quell’“effetto sorpresa” – comune all’applicazione
di ogni altra misura cautelare personale – anche nell’ipotesi in cui fosse stato egli stesso a ritenere idonea la sospensione ex art. 289 c.p.p., in luogo della misura coercitiva richiesta dall’inquirente.
Più incisive le modifiche apportate nell’art. 308 c.p.p.: innalzato a dodici mesi il termine di durata
massima delle misure interdittive per ogni tipologia di reato, viene eliminato – con la totale abrogazione del comma 2-bis – il “doppio binario” inserito nel 2012 dalla c.d. l. Severino 73 e, sancita la perdita di
«efficacia quando è decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza», viene introdotto il principio
di flessibilità della durata (comma 2).
I menzionati ritocchi, effettivamente, accrescono le potenzialità delle misure interdittive, favorendone una più ampia appetibilità, da parte del giudice, anche (se non soprattutto) in luogo di quelle deten68
Nello stesso senso, P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 17, che aggiunge: «È pur vero che la norma lo legittima ad acquisire
nel modo più rapido le relative notizie; deve osservarsi, tuttavia, che, se tale onere può essere sostenibile in caso di richieste cautelari la cui decisione non sia soggetta a termini perentori, esso potrebbe non esserlo, al contrario, quando la richiesta acceda a
convalide di arresti o fermi o a decisioni ex art. 27 c.p.p., allorché vi potranno essere delle difficoltà effettive per il giudice – sulle
cui conseguenze ci si dovrà interrogare – a reperire il materiale necessario entro il termine per provvedere».
69
Di cui si è già parlato nel par. 3, a proposito dell’art. 275, comma 3, primo periodo, c.p.p.
70
Rispettivamente, se ne occupano gli artt. 7, 9 e 10 della novella in esame.
71
La norma – come precisato dalla Consulta – «amplia la sfera delle garanzie – con particolare riguardo al diritto di difesa –
dei soggetti in favore dei quali opera e la sua ‘ratio’ sembra essere rinvenibile nell’esigenza, la cui attuazione rientra nelle scelte
discrezionali del legislatore, di verificare anticipatamente che la sospensione dall’ufficio o dal servizio non rechi, senza effettiva
necessità, pregiudizio alla continuità della pubblica funzione o del servizio pubblico»: C. cost., ord. 22 giugno 2000, n. 229, in
Giust. pen., 2000, I, p. 319.
72
V., retro, par. 3.
73
Il comma 2 dell’art. 308 c.p.p. prevedeva, come regola generale, che le misure interdittive perdessero efficacia dopo il decorso di due mesi dall’inizio della loro esecuzione, salvo che fossero state applicate per esigenze probatorie: in tal caso, era possibile rinnovarle anche oltre i due mesi, ma non oltre il termine indicato dal comma 1 dello stesso art. 308 c.p.p. per le misure
coercitive diverse dalla custodia cautelare (termine pari al doppio di quelli previsti dall’art. 303 c.p.p.). La l. 6 novembre 2012, n.
190, innestando nella disposizione in parola il comma 2-bis, aveva introdotto un regime particolare per le misure interdittive
disposte in relazione ad alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (quelli di cui agli artt. 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317,
318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, e 320 c.p.): esse «perdono efficacia decorsi sei mesi dall’inizio della loro esecuzione. In
ogni caso, qualora esse siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la rinnovazione anche oltre sei mesi
dall’inizio dell’esecuzione, fermo restando che comunque la loro efficacia viene meno se dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al triplo dei termini previsti dall’articolo 303 c.p.p. ».
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
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tive eventualmente richieste dal pubblico ministero 74. Se, infatti, prima della novella in esame, la brevità e la rigidità del termine ordinario di due mesi – salvo l’allungamento a sei mesi nei casi previsti dal
comma 2-bis – rendeva scarsamente fruibile la misura sotto il profilo cautelare – risultando, di fatto, poco più che meramente simbolico il divieto che ne scaturiva dall’applicazione –, ora, il giudice può contare sullo strumento interdittivo quale valida alternativa a quello coercitivo per fronteggiare i pericula
che vengano in evidenza.
Ma, anche sotto questo profilo, il nomoteta contemporaneo non si smentisce affatto. Con un secondo
inciso, sempre nel comma 2, subordina la possibilità di rinnovare la misura interdittiva disposta per
“esigenze probatorie” ai «limiti temporali previsti al primo periodo del secondo comma». A parte il
ragguardevole guasto di “estetica” normativa 75, l’innesto si rivela un “buco nell’acqua”: sganciati i
termini per il rinnovo della misura de qua dall’art. 303 c.p.p. e ricondotti all’interno dell’ordinario limite
massimo annuale, il legislatore apporta una sensibile riduzione dell’arco temporale in cui è possibile
disporre la rinnovazione della misura 76.
L’ART. 292 C.P.P.: PRESCRITTO PER TABULAS L’OBBLIGO DELL’«AUTONOMA VALUTAZIONE»
La l. n. 47, sulla scia della l. 8 agosto 1995, n. 332, continua ad affastellare, con disarmante corrività, obblighi specifici di motivazione dell’ordinanza cautelare. Evidentemente, come quindici anni fa, i novellatori hanno creduto che il tasso garantistico di una determinata disciplina sia in proporzione diretta
con la reiterazione ossessiva delle prescrizioni. Un’impostazione poco avveduta che conduce sovente
ad un appesantimento normativo inutile 77.
Oggetto del “puntellamento”, ancora una volta, le lett. c) e c-bis) del comma 2 dell’art. 292 c.p.p. 78,
ove il legislatore inserisce, accanto all’«esposizione», l’ulteriore requisito della «autonoma valutazione»
degli elementi ivi indicati, ossia delle specifiche esigenze cautelari, dei gravi indizi di colpevolezza, dei
motivi per cui sono stati considerati irrilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della custodia cautelare in carcere, delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze
cautelari non possono essere soddisfatte con altre misure.
Premesso che si tratta della riaffermazione di una regola desumibile dal precedente assetto normativo – includendo, l’«esposizione», oltre agli elementi fattuali, anche i percorsi valutativi seguiti dal giudice e posti a fondamento del titolo cautelare –, la ratio dell’inedito innesto è individuabile non nell’esigenza di colmare deficienze intrinseche al sistema cautelare prefigurato dal codice di rito bensì in
quella di supplire, ancora una volta, «ad una constatata rinuncia alla sua interpretazione» 79, innalzando, ex professo, il livello delle garanzie de libertate. Si allude alle ricorrenti questioni sorte in tema di motivazione “apparente” dell’ordinanza cautelare, “appiattita”, cioè, su quella del pubblico ministero richiedente.
Il tema rimanda alle rilevanti novità introdotte dalla novella in esame nei meandri del procedimento
ex art. 309 c.p.p. 80, in particolare a quella – tra le più significative – attinente ai poteri decisori attribuiti
al tribunale del riesame nelle ipotesi di carenza motivazionale (comma 9).
Prima di soffermarci su questo profilo, giova precisare, in tale sede, come la necessità di un’“autonomia” del giudice della cautela sia ancorata al profilo “valutativo” ma non si spinge a quello “espositivo”. Come dire che il giudice potrà riportare la ricostruzione della sequenza delle investigazioni in
conformità alla richiesta dell’inquirente: in tal modo, si eviterà, specie nei procedimenti con materiale
74
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 17.
75
Sarebbe stata più “elegante” una locuzione di siffatto tenore: «per un massimo di dodici mesi».
76
Che, nell’ottica del “doppio binario”, veniva quantificato, come già detto (v. retro, nota 73), nel doppio o nel triplo dei termini stabiliti dall’art. 303 c.p.p.
77
Così, con la consueta lucidità, si esprimeva G. Giostra, Sul vizio di motivazione, cit., p. 2428, a proposito delle modifiche apportate dalla l. n. 332 del 1995 sull’art. 292 c.p.p.
78
Modificate dall’art. 8 della legge in commento.
79
Così G. Illuminati, Commento all’art. 9 l. 8 agosto 1995, n. 322, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti
della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 66, sempre a proposito delle modifiche introdotte dalla l. n. 332 del
1995 nell’art. 292 c.p.p.
80
Se ne occupa l’art. 11 della legge in commento.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
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indiziario copioso, un’inutile rielaborazione di dati di fatto di carattere storico, che allungherebbe solo i
tempi della risposta cautelare 81.
L’ART. 309 C.P.P.: 1) IL TRIBUNALE DEL RIESAME NON PUÒ INTEGRARE L’ORDINANZA PRIVA DI MOTIVAZIONE E DI «AUTONOMA VALUTAZIONE»
Per meglio chiarire la portata innovativa del periodo conclusivo trapiantato nel comma 9 dell’art. 309
c.p.p. 82, pare opportuno fare un passo indietro.
Com’è noto, tra le questioni più spinose che hanno accompagnato l’evoluzione giurisprudenziale in
subiecta materia un posto di rilievo occupa l’individuazione del perimetro semantico del secondo periodo del citato comma 9, che riconosce espressamente al tribunale il potere 83 di confermare l’ordinanza
impugnata «per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso» 84.
In particolare, si è discusso se la disposizione potesse trovare applicazione nel caso di ordinanza restrittiva della libertà personale priva di motivazione; se, cioè, il tribunale del riesame fosse legittimato a
sostituirsi integralmente al giudice di prima istanza, motivando in via suppletiva o dovesse, invece, limitarsi a dichiarare la nullità del provvedimento coercitivo, ai sensi degli artt. 125 c.p.p. e 292, comma
2, c.p.p.
Secondo una prima impostazione, l’effetto pienamente devolutivo collegato alla richiesta ex art. 309
c.p.p. implicava la possibilità, per il tribunale del riesame, di sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative del provvedimento dispositivo della misura cautelare, pur quando esse fossero tali da dar luogo alle nullità, rilevabili anche d’ufficio, previste dall’art. 292, comma 2, lett. c) e c-bis),
c.p.p., sicché l’ordinanza applicativa e la decisione del tribunale della libertà avrebbero dato vita ad una
fattispecie complessa (a formazione progressiva) composta dai due atti, l’uno suscettibile di essere integrato dall’altro 85.
Su un fronte opposto si schierava la più recente giurisprudenza dell’avviso che il potere-dovere attribuito al giudice del riesame di confermare l’ordinanza coercitiva impugnata «per ragioni diverse da
quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso» non fosse esercitabile nel caso di motivazione radicalmente assente o “meramente apparente”, dovendo, in tali ipotesi, essere rilevata la nullità
del provvedimento impugnato per violazione di legge 86.
Ora, con la novella in esame, il legislatore dissolve per tabulas questa diatriba ermeneutica: sanando
il difetto di coordinamento tra la rilevabilità d’ufficio della nullità, per carenza di uno dei requisiti di
cui alle lett. c) e c-bis), sancita dall’art. 292, comma 2, c.p.p., e il principio generale contenuto nell’art.
309, comma 9, secondo periodo, c.p.p., codifica due deroghe alla possibilità, per il tribunale de libertate,
di confermare il provvedimento impugnato «anche per ragioni diverse da quelle indicate nella sua motivazione».
In particolare, il potere integrativo è precluso – e, dunque, il tribunale deve annullare – «se la motivazione manca» ovvero non contenga «l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze
cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa».
Viene, così, avallato, nel codice, l’indirizzo giurisprudenziale 87 che impone al giudice del riesame di
annullare il provvedimento cautelare non solo nelle ipotesi di motivazione mancante in senso grafico
ma anche in quelle in cui la motivazione sia graficamente presente ma sostanzialmente “apparente”: si81
Per questo rilievo, cfr. P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 20.
82
Secondo cui «Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa».
83
Oltre ad «annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi
da quelli enunciati».
84
In arg., v., per tutti, R. Adorno, Il riesame delle misure cautelari reali, 2004, Milano, p. 418 ss.
85
Tra le ultime, v. Cass., sez. II, 26 luglio 2012, n. 30696, in CED Cass., n. 253326; Cass., sez. II, 30 novembre 2011, n. 7967, in
CED Cass., n. 252222; Cass., sez. III, 2 febbraio 2011, n. 15416, in CED Cass., n. 250306; Cass., sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 8590, in
CED Cass., n. 233499.
86
Cfr. Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 12032, in CED Cass., n. 259462; Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, in CED Cass., n.
259554.
87
Riportato nella nota precedente.
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118
tuazione, quest’ultima, riscontrabile nel caso in cui il giudice, nel recepire integralmente, con un “copia
e incolla”, la richiesta del pubblico ministero o nel rinviare a questa, si sia limitato ad aggiungere,
nell’apparato argomentativo della sua ordinanza, mere clausole di stile, frasi apodittiche, espressioni
generiche di condivisione dietro le quali non può leggersi alcun “autonomo” procedimento valutativo 88.
Premesso che l’elaborazione giurisprudenziale sulla motivazione “apparente” – e la casistica che se
ne può trarre – rappresenterà un fondamentale punto di partenza per l’interprete – che dovrà domandarsi fin dove possa spingersi la censura del tribunale del riesame sull’esistenza dell’«autonoma valutazione» 89 –, va evidenziato che la ridefinizione dei compiti di tale organo messa a punto dalla l. n. 47 si
rivela di sicuro molto più efficace di quella inutile “moltiplicazione” dei requisiti dell’ordinanza cautelare di cui sopra si è detto 90.
L’attribuzione, al tribunale, del solo potere di annullare – e non più di integrare – l’ordinanza cautelare nel caso in cui ravvisi un “appiattimento acritico” del giudice sulla “parte pubblica”, quanto al percorso valutativo – e, quindi, di fatto, un’assenza di motivazione –, per un verso, consente di porre fine a
un risultato che giustamente veniva definito “paradossale”: con l’impugnazione, il soggetto ristretto in
base ad un titolo inadeguatamente motivato, non solo non otteneva la dichiarazione di nullità ex art.
292, comma 2, c.p.p., pur trattandosi di invalidità espressamente prevista dalla legge come rilevabile
d’ufficio, ma «finiva per fare un ‘favore’ al giudice emittente, in soccorso del quale interviene, proprio
grazie al riesame, il tribunale, che consolida così l’azione cautelare» 91. Per altro verso, restituisce coerenza al sistema: perché il preesistente implicito riconoscimento di una sorta di “delega” al giudice del
controllo rispetto ad obblighi che non possono non essere adempiuti dal giudice che dispone la misura
restrittiva contrasta con l’estrema attenzione con cui il legislatore ha inteso disciplinare tale tematica
nell’art. 292 c.p.p., ove lo “sforzo” di analisi supera persino quello dedicato alla motivazione della sentenza dibattimentale 92.
Resta, tuttavia, all’interprete il compito di individuare i vizi dell’ordinanza cautelare che possono
essere “sanati” dal tribunale della libertà attraverso l’esercizio di quel potere/dovere di integrazione
che “sopravvive” nella norma: non è stata, infatti, accolta l’opzione – proposta dalla Commissione Canzio – di espungere dalla disposizione in parola la previsione che il tribunale può confermare il provvedimento «per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione».
Interpretando tassativamente la portata della deroga, l’intervento surrogatorio dovrebbe riconoscersi nell’ipotesi – anch’essa prevista dalla richiamata lett. c-bis) – in cui il vizio di «autonoma valutazione»
riguardi l’inadeguatezza di misure meno afflittive della custodia in carcere, ovvero qualora la motivazione difetti non già nell’«autonoma valutazione», bensì nell’«esposizione» di taluno degli elementi indicati nell’art. 292 c.p.p. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il giudice si sia soffermato adeguatamente
sulla valenza indiziante di determinati elementi a carico, dopo averli peraltro esposti in modo approssimativo o lacunoso 93. Alla medesima conclusione dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in cui l’«autonoma
valutazione» sia fondata su un percorso logico-giuridico incompleto ovvero basato su una lettura inesatta o erronea degli atti di indagine, e il tribunale del riesame ritenga di condividere la scelta cautelare,
pur a valle di una diversa e completa articolazione del ragionamento indiziario o di quello sulle esigenze cautelari 94. “Sopravvive”, poi, la possibilità di adottare una motivazione per relationem – fino ad oggi
pacificamente ammessa 95 – purché – com’è ovvio e come del resto già costantemente affermato in giuri88
Senza, cioè, dare contezza alcuna delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato, o
comunque lo abbia considerato coerente rispetto alle sue decisioni: cfr., tra le ultime, Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 12032, cit.;
Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, cit.; Cass., sez. II, 8 ottobre 2008 n. 39383, in CED Cass., n. 241868.
89
Così P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 26.
90
Cfr. par. precedente.
91
M. Ceresa-Gastaldo, Riformare il riesame dei provvedimenti di coercizione cautelare, in Riv. dir. proc., 2011, p. 1180.
92
Così E. Marzaduri, Linee di riforma delle impugnazioni de libertate. Relazione svolta in occasione del Convegno annuale
dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, in Dir. pen. cont., 3 ottobre 2014, p. 11.
93
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 23.
94
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 26. Sul punto va ricordato che la Corte ha tradizionalmente ritenuto, per esempio, la
possibilità di confermare una misura cautelare per esigenze cautelari diverse da quella individuate dall’inquirente e dal primo
giudice: v., ex plurimis, Cass., sez. VI, 12 marzo 2014, n. 26458, in CED Cass., n. 259976.
95
Sia con riferimento alla richiesta del pubblico ministero, sia anche – in presenza di determinati requisiti – con riguardo ad
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119
sprudenza – il giudice manifesti nell’ordinanza la propria «autonoma valutazione» 96.
Va, infine, precisato che, per evidenti ragioni di carattere sistematico, si dovrebbe riconoscere l’applicabilità delle nuove disposizioni in tema di «autonoma valutazione» anche quando la misura cautelare venga
disposta, non dal giudice procedente, ma dal tribunale, in accoglimento dell’appello proposto ex art. 310
c.p.p. dal pubblico ministero avverso la decisione di rigetto 97, anche nell’ipotesi – frequente nella pratica giudiziaria – in cui il primo giudice, avendo ritenuti sussistenti i gravi indizi di colpevolezza – e magari esternato
adeguatamente, sul punto, la sua «autonoma valutazione» –, abbia rilevato il difetto di esigenze cautelari 98.
2) IL DETENUTO HA IL DIRITTO DI PRESENZIARE ALL’UDIENZA
La legge n. 47 apporta ulteriori rilevanti modifiche in seno all’art. 309 c.p.p.
In primo luogo, riformulato il comma 6 e il comma 8-bis, rafforza le garanzie di partecipazione
dell’imputato al procedimento, con l’espresso riconoscimento del diritto di «chiedere di comparire personalmente».
È evidente come, con la previsione in parola, si sia fatta definitivamente giustizia di quell’orientamento giurisprudenziale che, valorizzando il rinvio dell’art. 309, comma 8, c.p.p. all’art. 127 c.p.p. 99,
aveva negato al detenuto fuori distretto il diritto ad essere sentito in udienza, riconoscendogli unicamente quello ad essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza 100.
altri provvedimenti giudiziali relativi agli stessi fatti: v., rispettivamente, Cass., sez. I, 28 marzo 2012, n. 14830, in CED Cass., n.
252274; Cass., sez. VI, 29 febbraio 2000, n. 1072, in CED Cass., n. 216317.
96
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 23.
Sul punto, v. Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in CED Cass. n. 216664, secondo cui la motivazione per relationem è da
considerare legittima qualora fornisca, tra l’altro, «la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale
delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione»; cfr. le analoghe puntualizzazioni poste da Cass., sez. un., 26 novembre 2003, n. 919, in CED Cass., n. 226488.
97
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 24.
98
V., in proposito, Cass., sez. I, 19 aprile 2006, n. 27792, in CED Cass. n. 234422, secondo cui «il tribunale della libertà, se accoglie l’appello del pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione di misure cautelari
personali, motivato dalla carenza di esigenze cautelari ma con il riconoscimento della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, deve prendere in esame tutti gli elementi di cui all’art. 292 c.p.p., e pertanto deve dare adeguata motivazione non solo in relazione alle esigenze cautelari ma anche in ordine alla già dichiarata sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, della quale il
soggetto sottoposto ad indagini non aveva alcun interesse a dolersi per essere stata rigettata la richiesta di misura cautelare».
99
Nel procedimento camerale disegnato dall’art. 127 c.p.p., l’interessato ha diritto ad essere sentito se compare, mentre, qualora sia detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione e ne fa richiesta, ha diritto di essere sentito prima
dell’udienza camerale dal magistrato di sorveglianza del luogo (comma 3).
100
Al principio affermato dalla Corte costituzionale secondo cui l’art. 309 c.p.p. non vieterebbe la comparizione personale
dell’imputato «se questi ne ha fatto richiesta o se il giudice lo ritenga ex officio opportuno» (C. Cost., sent. 31 gennaio 1991 n. 45,
in Cass. pen., 1991, II, p. 417) non aveva fatto immediatamente eco una netta virata interpretativa della giurisprudenza di legittimità, che continuava ad oscillare per lungo tempo tra le contrapposte tesi del “diritto soggettivo perfetto” o del mero “interesse” dell’imputato, detenuto in luogo esterno alla circoscrizione del tribunale, ad essere sentito – su sua richiesta – nell’udienza
camerale fissata per il riesame (dopo l’intervento della Consulta, il “diritto” in questione è stato riconosciuto da Cass., sez. V, 16
marzo 1994, n. 1559, in Cass. pen., 1994, p. 3053; contra, Cass., sez. V, 2 luglio 1993, n. 1749, in CED Cass. n. 195406). Si sono resi
necessari due interventi delle Sezioni unite, entrambi allineati al dictum della sentenza n. 45 del 1991 della Consulta, per sopire i
contrasti interpretativi originati dalla scarsa forza persuasiva che la stessa aveva esercitato sulle sezioni semplici della Suprema
corte. Con un primo intervento (Cass., sez. un., 22 novembre 1995, n. 40, in Cass. pen., 1995, p. 2125), occasionato dalla necessità
di definire il tipo di nullità conseguente alla omessa traduzione all’udienza camerale ex art. 309 c.p.p. dell’indagato che abbia
chiesto di essere sentito, le Sezioni unite avevano chiarito che «la questione si pone negli stessi termini sia l’indagato detenuto
nell’ambito o fuori della circoscrizione del Tribunale, dopo la sentenza n. 45/1991 della Corte costituzionale che ha interpretato
l’art. 127 nel senso che in tale seconda ipotesi il giudice del riesame è tenuto ad assicurare la presenza dell’interessato dinanzi a
sé qualora questi ne faccia specifica richiesta». Se non che, anche dopo tale decisione, le sezioni semplici della Cassazione avevano continuato a dividersi sulla configurabilità di un diritto incondizionato dell’imputato detenuto fuori della circoscrizione
del tribunale del riesame a essere tradotto, previa richiesta, dinanzi al collegio giudicante per essere ascoltato (in senso favorevole, v. Cass., sez. II, 8 gennaio 1997, n. 11, in Cass. pen., 1998, p. 1706; contra, Cass., sez. V, 11 febbraio 1997, n. 603, in CED Cass.
n. 207175, secondo cui il diritto alla traduzione sarebbe condizionato alla circostanza che vengano in rilievo «questioni di fatto
concernenti la condotta dell’indagato nelle quali egli voglia interloquire per contestare le risultanze probatorie o indicare circostanze a lui favorevoli», ferma restando la facoltà del giudice «di disattendere istanze di audizione formulate genericamente o
defatigatorie»). Nel 1988, le Sezioni unite (Cass., sez. un., 25 marzo 1998, n. 9, in Cass. pen., 1998, p. 2874), intervenendo nuovamente sulla questione, avevano ribadito il principio già espresso tre anni prima, in base al quale «l’indagato, detenuto in luogo
esterno al circondario ove ha sede il Tribunale competente a decidere, ha diritto alla traduzione per essere sentito davanti al
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Nella considerazione del legislatore del 1988, ragioni di ordine pratico 101, collegate anche alla rapidità che contrassegna il procedimento di riesame, avevano preso il sopravvento sull’esigenza di assicurare all’interessato la possibilità di “farsi sentire” dal proprio giudice naturale 102.
Spietate le critiche sollevate, nei confronti di una simile scelta legislativa, dalla dottrina, che, confortata dalla Corte costituzionale 103 e dalle Sezioni unite 104, riteneva necessario garantire la presenza
dell’imputato, in un giudizio, quale quello di specie, in cui si controverte anche “sul merito” della misura adottata e non soltanto su questioni “di diritto” 105: perché la “delega rogatoria”, sottraendo l’imputato al contatto diretto con il giudice che dovrà emettere la decisione, riduce l’efficacia persuasiva
delle argomentazioni difensive e, per questa via, comprime il diritto di autodifesa 106.
Recuperato, ora, il predetto valore costituzionale e affermato, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente
di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto,
non trova più applicazione né il comma 3 della norma generale sul procedimento in camera di consiglio, secondo cui, allorché «l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice
e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo», né il comma 4, stando al quale «l’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato
o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo
diverso da quello in cui ha sede il giudice». Resta ferma, invece, alla luce dell’immutato comma 8, la possibilità, per il ricorrente detenuto fuori distretto, di intervenire nel procedimento camerale chiedendo di essere
sentito, prima dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione.
Va evidenziato come l’esercizio del diritto in questione non sia, tuttavia, incondizionato: il detenuto
o internato è chiamato a sciogliere già all’atto della presentazione dell’impugnazione la riserva in ordine alla propria partecipazione all’udienza camerale, come suggerisce tanto la congiunzione “e” che lega
la nuova previsione innestata nel comma 6 al preesistente periodo concernente la possibilità di enunciare, con la richiesta di riesame, i motivi 107, quanto il rigore della lettera del novellato comma 8-bis 108. MiMagistrato di sorveglianza o a quello del riesame, a condizione che vi sia stata un’esplicita richiesta in questo senso», puntualizzando, peraltro, che «l’indicazione di tale diritto nell’avviso di udienza non è prevista da alcuna disposizione, né la sua omissione può integrare una nullità». Il secondo intervento delle Sezioni unite aveva prodotto l’effetto di orientare la giurisprudenza
di legittimità verso il riconoscimento del diritto dell’imputato detenuto in luogo esterno alla circoscrizione del tribunale del riesame, che ne avesse fatto richiesta, a partecipare all’udienza camerale, per essere sentito dal collegio giudicante (in tal senso,
Cass., sez. V, 11 maggio 2004, n. 24376, in CED Cass. n. 229653 e Cass., sez. I, 16 aprile 2004, n. 21015, in CED Cass., n. 228909
(senza che perda efficacia la misura): anche per consentire a chi abbia personalmente proposto l’istanza di riesame di dedurre
motivi nuovi a norma dell’art. 309, comma 6, c.p.p. Ma la questione restava ancora aperta: in altre occasioni, il Supremo collegio
aveva ritenuto che l’audizione, da parte del magistrato di sorveglianza, della persona sottoposta ad indagini che si trovasse detenuta fuori del circondario del tribunale competente dovesse ritenersi sostitutiva dell’intervento in udienza: tra le ultime, Cass.,
sez. IV, 29 maggio 2013, n. 26993, in CED Cass., n. 255461; Cass. sez. IV, 12 luglio 2007, n. 39834, in CED Cass., n. 237886; Cass.,
sez. II, 27 giugno 2006, n. 29602, in CED Cass., n. 235313.
101
Inerenti ai costi e alle difficoltà connesse ad un trasporto in stato di detenzione.
102
Sul punto, R. Adorno, Il riesame, cit., p. 207.
103
C. Cost., sent. 31 gennaio 1991 n. 45, cit.
104
Cass., sez. un., 22 novembre 1995, n. 40, cit.; Cass., sez. un., 22 novembre 1995, n. 40, cit.
105
Tra i tanti cfr. R. Adorno, Il riesame, cit., p. 210 ss.; M. Ceresa Gastaldo, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano
1993, p. 141 ss., che evidenziava, tra l’altro, come il diritto di presenziare all’udienza permette all’imputato di esercitare la «facoltà di
enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame», secondo la previsione del comma 6 – facoltà non surrogabile dalla possibilità
di rendere dichiarazioni al magistrato di sorveglianza – e che «il diritto di contestare di persona le circostanze di fatto sulle quali si baserà la pronuncia di riesame (circostanze che potrebbero addirittura emergere durante l’esposizione del p.m.) rappresenta [...] una diretta espressione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost.». V., anche V. Grevi, Incidenti di esecuzione e autodifesa del detenuto, in
Giur. cost., 1970, I, p. 49, che precisava come la presenza dell’imputato fosse necessaria per consentire al tribunale di chiarire ed approfondire questioni rimaste oscure o spunti difensivi sottovalutati dall’imputato medesimo.
106
Come efficacemente sottolineava ancora una volta V. Grevi, Incidenti di esecuzione, cit., p. 49, le ragioni esposte
dall’interessato, «filtrate attraverso la mediazione del verbale redatto dal cancelliere del giudice delegato all’audizione» finiscono «per perdere gran parte della forza di persuasione che avrebbero potuto esercitare sul giudice competente a decidere»; analogamente, A. Confalonieri, I controlli sulle misure cautelari, Torino 1998, p. 955.
107
Il comma 6, finora dedicato esclusivamente alle modalità di presentazione (contestuale all’impugnazione o successiva)
dei motivi di gravame, nel nuovo primo periodo stabilisce che: «Con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i
motivi e l’imputato può chiedere di comparire personalmente».
108
Al comma 8-bis, finora dedicato alla legittimazione del pubblico ministero richiedente la misura a partecipare all’udienza
camerale, è stato aggiunto il seguente ulteriore periodo: «L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di
comparire personalmente».
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litano verso questa soluzione anche ragioni di ordine logistico e organizzativo: qualora la relativa istanza potesse essere formulata fino alla data dell’udienza, gli adempimenti necessari per la traduzione potrebbero non essere garantiti in tempi compatibili con quelli di trattazione e, in agguato, sarebbe il rischio di strumentalizzazione della domanda, che verrebbe “utilizzata” per impedire la celebrazione
dell’udienza entro i prescritti termini 109.
3) L’IMPUGNANTE HA IL DIRITTO DI CHIEDERE IL DIFFERIMENTO DELL’UDIENZA
Un’inedita prerogativa riconosciuta all’indagato/imputato impugnante dal nuovo comma 9-bis è quella
di chiedere «personalmente» un differimento dell’udienza per «giustificati motivi» – che, verosimilmente, saranno connessi alla necessità di consentire alla difesa di “prepararsi meglio” –, da un minimo
di cinque ad un massimo di dieci giorni, con pari slittamento dei termini per adottare la decisione e per
depositare la motivazione.
Sebbene la nuova previsione risponda a esigenze difensive – manifestandosi, non di rado, specie nei
procedimenti complessi, per il numero di parti e/o di imputazioni, la necessità di una approfondita
analisi del materiale trasmesso, difficilmente da soddisfare entro le rigide scansioni temporali previste
dall’art. 309 c.p.p. –, il legislatore, inequivocabilmente, collega la richiesta di differimento – da presentare entro due giorni dalla notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza – a una manifestazione di volontà direttamente riconducibile all’imputato, probabilmente per evidenti ragioni correlate alla delicatezza
di un tema quale la privazione della libertà personale 110.
Si può ragionevolmente prevedere che l’orbita applicativa della nuova disposizione sarà piuttosto dilatata: difficilmente il tribunale rigetterà una richiesta di differimento fondata sulla complessità della vicenda processuale, essendo ovviamente non estranee, anche al collegio giudicante, le esigenze di approfondimento e analisi del materiale trasmesso 111.
4) IL PROVVEDIMENTO CAUTELARE CHE PERDE EFFICACIA – ANCHE NELL’IPOTESI IN CUI NON SIANO RISPETTATI I TERMINI DI DEPOSITO – DI REGOLA, NON PUÒ ESSERE RINNOVATO
Stravolto completamente nei suoi gangli nevralgici il comma 10 dell’art. 309 c.p.p.
Nella versione originaria sanciva, come è noto, la perdita di efficacia dell’ordinanza applicativa della
misura coercitiva in soli due casi: quando gli atti posti a sostegno della domanda, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini, non fossero stati trasmessi entro il
termine di cinque giorni dalla richiesta, ai sensi del comma 5 e quando la decisione di riesame non fosse
intervenuta entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, ai sensi del comma 9.
Sotto quest’ultimo profilo, secondo la consolidata giurisprudenza, il termine doveva ritenersi rispettato
se, entro il decimo giorno dalla ricezione degli atti, il tribunale avesse deliberato sulla richiesta di riesame ed avesse provveduto al deposito del dispositivo; non risultava, invece, necessario il deposito –
nei dieci giorni suddetti – anche della motivazione dell’ordinanza 112.
Pacifica, altresì, era la possibilità di reiterare – senza condizione alcuna – il provvedimento cautelare
divenuto inefficace 113.
109
P. Borrelli, Una prima lettura, cit. p. 24.
110
Sul punto, cfr. V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 28.
111
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 28. Va evidenziato che, nel corso dei lavori parlamentari, il Senato
aveva inserito un nuovo periodo nel comma in questione, stabilendo che il tribunale, con provvedimento motivato, può altresì
differire l’udienza, d’ufficio, sempre da cinque a dieci giorni, in ragione della complessità del caso e del materiale probatorio.
Tale previsione era stata, poi, soppressa dalla Camera. Secondo P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 28, la scelta legislativa di
non attribuire ai giudici del riesame il potere di differire “di ufficio”, l’udienza va valutata negativamente perché l’iniziativa,
funzionale a garantire una maggiore accuratezza della decisione, spesso resa enormemente difficoltosa dai tempi ristretti cui è
sottoposto il tribunale, avrebbe riverberato indirettamente i propri effetti positivi anche sulle ragioni difensive.
112
Cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 9 aprile 2014, n. 23211, in CED Cass. n. 259652; Cass., sez. un., 17 aprile 1996, n. 7, in CED
Cass., n.. 205256.
113
Tra le più recenti, Cass., sez. V, 15 luglio 2010, n. 35931, in CED Cass. n. 248417. Il dato è stato incidentalmente ribadito
anche nella recente sentenza delle Sezioni unite (Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 28270, in CED Cass., n. 260016) che ha definiti-
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Il nuovo comma 10, intensificando notevolmente la già delicata attività del tribunale del riesame, innanzi tutto, impone al medesimo l’osservanza di un termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, salvo che essa «sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle
imputazioni»: in tali casi, analogamente a quanto avviene per il giudizio di merito ex artt. 544 c.p.p.,
l’organo giudicante potrà disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il
quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.
In secondo luogo, sanziona la violazione del predetto termine – al pari di quella relativa alla trasmissione degli atti e alla decisione –, con la perdita di efficacia dell’ordinanza applicativa della misura cautelare.
In terzo luogo – ed è, senz’altro, questa la novità di maggior impatto pratico –, prevede un nuovo
meccanismo che funge da monito/stimolo rispetto all’osservanza dei termini, vecchi e nuovi 114: alla
conseguente perdita di efficacia della misura cautelare non potrà seguire la reviviscenza del vincolo
sulla base di un nuovo provvedimento, se non sulla scorta di «eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate».
Così, ora, per legge, l’inosservanza di uno dei tre termini imposti al tribunale del riesame si traduce
in una “effettiva” preclusione all’esercizio del potere cautelare. Da oggi, il principio di legalità enunciato nell’art. 272 c.p.p., sinora maldestramente inteso nel senso che «sia consentito tutto ciò che non è
esplicitamente vietato», va interpretato in senso opposto: «sia vietato ciò che non sia esplicitamente
consentito» 115.
L’irrigidimento del sistema che ne deriva consente il recupero dello “scopo garantistico” perseguito
dal legislatore con la previsione dell’effetto caducatorio collegato all’inosservanza dei predetti termini,
completamente frustrato, in passato, dal giudice che, attivando l’espediente della reiterazione del provvedimento restrittivo – reso possibile dall’assenza di un bis in idem cautelare 116 –, rendeva la previsione
relativa alla perdita di efficacia, di fatto, inutiliter data.
Pur tuttavia, non si può omettere di evidenziare, in senso critico, come la sanzione 117 – rectius, il divieto di rinnovare la misura (salve le eccezionali esigenze) – che si attiverà a prescindere dalla ragione
per cui non è stato possibile rispettare i termini in questione – dunque, anche quando l’inconveniente
non è addebitabile ad alcuno, ma derivi da disfunzioni di segreteria o di cancelleria 118 –, rischia di trasformarsi in una sorta di improprio “salvacondotto” per l’instante: la sua posizione, nel procedimento,
di regola, sembrerebbe non più aggredibile, rebus sic stantibus, con limitazioni della libertà personale 119
– sebbene il pubblico ministero richiedente ed il giudice emittente il titolo cautelare abbiano concordemente ritenuto la sussistenza dei presupposti di legge –, risultando, il ripristino della misura coercitiva,
vamente sancito la non necessarietà dell’interrogatorio dopo la riemissione dell’ordinanza cautelare – qualora fondata sui medesimi elementi di quella caducata – a seguito di dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p.
114
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 29.
115
Va ricordato che le Sezioni unite (Cass., sez. un., 1˚ luglio 1992, n. 11, in Foro it., 1993, II, c. 290), dirimendo il contrasto interpretativo sorto sul punto, e condivisa la soluzione che ammetteva la reiterabilità del titulum custodiae, avevano evidenziato come la
disciplina in materia cautelare risultava impostata, «pur nella eccezionalità delle disposizioni in cui si articola la materia trattata, su
criteri di funzionale latitudine che di per sé non ammettono al di là dei limiti espressamente fissati dalla legge impliciti divieti o sottintese restrizioni che comprimano il potere – dovere del giudice di provvedere al riguardo, sicché non può condividersi l’assunto
fatto proprio dai ricorrenti per cui il principio enunciato dall’art. 272 c.p.p. andrebbe inteso non nel senso che “sia consentito tutto
ciò che non è esplicitamente vietato”, ma in quello “che sia vietato ciò che non sia esplicitamente consentito”».
116
Ricollegandosi, la caducazione del provvedimento impugnato, a ragioni puramente formali.
117
Non pare possano esserci dubbi sul fatto che il legislatore abbia evidentemente inteso proprio sanzionare il difettoso funzionamento della “macchina giudiziaria” manifestatosi nella violazione di uno dei tre termini fissati dall’art. 309 c.p.p. È del resto estremamente significativo, al riguardo, il fatto che, nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione della
legge in commento, era stato previsto in Senato – con un’ipotesi di modifica dell’art. 2 d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 – un nuovo
illecito disciplinare riguardante i magistrati proprio per le ipotesi di violazione dei termini relativi al procedimento di riesame,
anche in sede di rinvio: illecito per il quale era stata stabilita una sanzione non inferiore alla censura. Tale disposizione è stata,
peraltro, soppressa in sede di seconda lettura alla Camera dei Deputati.
118
Come nel caso in cui sia dovuto ad un «banale disguido nella formazione del fascicolo da trasmettere ai sensi del comma
5, ovvero ad un difetto di notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, tale da impedire (per il brevissimo arco temporale a disposizione per eventuali rinnovi) la celebrazione rituale dell’udienza stessa, con il rispetto cioè dei tre giorni “liberi”
di cui al comma 8 dell’art. 309 c.p.p.»: così, V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 31.
119
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 31.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
123
condizionato alla sussistenza di «eccezionali esigenze cautelari».
Le perplessità aumentano laddove si faccia un confronto con altre ipotesi di perdita di efficacia della
misura cautelare, sempre espressione del malfunzionamento del sistema giudiziario, di rilievo certamente non inferiore al mancato rispetto dei termini ex art. 309 c.p.p. – si pensi all’omesso interrogatorio
ex art. 302 c.p.p. o alla decorrenza dei termini ex art. 307 c.p.p. –, ove il ripristino della custodia cautelare è subordinato alle “ordinarie” condizioni di applicabilità e non alla sussistenza di «eccezionali esigenze cautelari» 120.
Sarà affidato all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale il compito di riempire di significato
quest’ultima locuzione – che già compare nell’art. 275, commi 4 e 4 ter, c.p.p. (e nell’art. 89 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309) 121 –, come anche quello di precisare la consistenza degli oneri di “specifica” motivazione in ordine alla sussistenza di siffatte esigenze.
Resta ferma, ovviamente, la possibilità per il pubblico ministero di richiedere l’emissione di un nuovo titolo cautelare sulla base di ulteriori elementi, sopravvenuti o comunque non sottoposti all’attenzione del giudice nella prima occasione, alla luce dei principi, ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di giudicato cautelare 122.
L’ART. 310 COD. PROC. PEN.: PER L’APPELLO I TERMINI RESTANO ORDINATORI
Di minore consistenza è la modifica apportata dalla l. n. 47 all’art. 310 c.p.p. 123, in materia di appello
cautelare: al previgente termine – ordinatorio – per la decisione – di venti giorni dalla ricezione degli
atti –, si aggiunge un termine per il deposito dell’ordinanza: come per il riesame, è di trenta giorni –
salva la possibilità di disporre un termine più lungo, comunque non eccedente i quarantacinque giorni,
in caso di complessità della motivazione per il «numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni» –,
ma, diversamente dal riesame, è di carattere ordinatorio. La novella non riproduce, infatti, all’interno
dell’art. 310 c.p.p., le disposizioni concernenti la perdita di efficacia della misura cautelare, né inserisce
alcun richiamo al comma 10 dell’art. 309 c.p.p.; continuano, dunque, a trovare applicazione – secondo
quanto previsto dall’immutato comma 2, primo periodo – le sole disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3, 4 e
7 dell’art. 309 c.p.p.
Come spiegava la Commissione per la riforma del processo penale, si è ritenuto «di escludere in
questo caso la caducazione della misura perché ne risulterebbe una disciplina troppo complessa, che si
potrebbe prestare a strumentalizzazioni da parte degli imputati mediante la moltiplicazione delle richieste di revoca» 124.
L’ART. 311 C.P.P.: IL GIUDIZIO DI RINVIO VIENE RIMODULATO COME IL “NUOVO” RIESAME
La novella in commento 125 altera, altresì, la sagoma dell’art. 311 c.p.p.: aggiunto il comma 5-bis, stabilisce, anche per il procedimento conseguente a una decisione di annullamento con rinvio emanata dalla
Corte di cassazione, il principio della perentorietà dei termini: il giudice deve decidere entro dieci gior120
Secondo l’art. 302 c.p.p., «dopo la liberazione, la misura può essere nuovamente disposta dal giudice, su richiesta del
pubblico ministero, previo interrogatorio, allorché, valutati i risultati di questo, sussistono le condizioni indicate negli articoli
273, 274 e 275» c.p.p.
L’art. 307, comma 2, c.p.p. stabilisce che: «La custodia cautelare, ove risulti necessaria a norma dell’articolo 275, è tuttavia
ripristinata: a) se l’imputato ha dolosamente trasgredito alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a norma del
comma 1, sempre che, in relazione alla natura di tale trasgressione, ricorra taluna delle esigenze cautelari previste dall’articolo
274; b) contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo o di secondo grado, quando ricorre l’esigenza
cautelare prevista dall’articolo 274 comma 1 lettera b)».
121
La natura “eccezionale” delle esigenze ha finora svolto la ben diversa, fondamentale, funzione di individuare un plausibile equilibrio tra la necessità di applicare la misura cautelare più severa e quella di tenere in adeguato conto le particolari condizioni personali di “soggetti deboli”. Sul punto, V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 32.
122
Cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 26 novembre 2008, n.1180, in CED Cass., n. 242779.
123
Se ne occupa l’art. 12 della legge in esame.
124
Proposta della Sottocommissione Canzio, 14 luglio 2013, cit.
125
L’art. 13, in particolare.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
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124
ni dalla ricezione degli atti da parte del Supremo collegio; la motivazione va depositata in cancelleria
entro trenta giorni dalla decisione; la violazione delle scansioni temporali comporta la perdita di efficacia della misura, con possibilità di reiterazione del provvedimento cautelare solo in presenza di «eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate».
Rispetto alla prima impugnazione, non è prevista la possibilità di provvedere al deposito dei motivi
in quarantacinque giorni. Sotto questo profilo, la ragione della differente disciplina potrebbe risiedere
nella circostanza che il tribunale è già in possesso del patrimonio di conoscenze necessario per la decisione ed ha già emesso un provvedimento, che dovrà essere rivisto sulla scorta delle specifiche censure
mosse dalla Corte 126. Riflette, dunque, probabilmente, una valutazione di “non particolare complessità”
di un nuovo giudizio scaturito dall’annullamento con rinvio disposto dal Supremo collegio 127.
Il principio trova applicazione solo nell’ipotesi in cui l’annullamento con rinvio segua al ricorso proposto dall’imputato avverso l’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi
dell’art. 309, comma 9, c.p.p. e non quando la decisione abbia riguardato un’ordinanza applicativa di
misura cautelare emessa dal tribunale in accoglimento di un appello del pubblico ministero, la cui esecuzione – secondo la regola generale posta dall’immutato comma 3 dell’art. 310 c.p.p. – resta sospesa
fino a che la decisione non sia divenuta definitiva.
Se è vero che la nuova previsione porterà un rilevante aggravio per il tribunale della libertà, è pur
vero, però, che essa risponde ad esigenze di omogeneità rispetto alla disciplina ex art. 309 c.p.p., medesime essendo la ratio e l’aspettativa di celerità della decisione: essa consentirà di definire con la massima
rapidità la posizione di chi, pur essendosi visto riconoscere la fondatezza delle proprie ragioni dinanzi
alla Suprema corte (che ha annullato con rinvio) si trovi, tuttavia, ancora sottoposto alla restrizione della libertà personale: anche perché è plausibile ritenere, posto il notevole carico di lavoro, che la decisione di legittimità intervenga ben oltre il termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti di cui al comma
5 dell’art. 311 c.p.p.
LE RICADUTE DELLA NOVELLA SUL SISTEMA DELLE IMPUGNAZIONI “REALI”
Anche il riesame avverso i provvedimenti di sequestro, preventivo, conservativo e probatorio ex art.
324 c.p.p. è stato “maneggiato” 128, sebbene la rubrica della legge in commento non ne faccia minimo
cenno (l’ennesima “svista” del legislatore!), limitandosi a menzionare le sole «Modifiche al codice di
procedura penale in materia di misure cautelari personali» 129.
È inserito, nel comma 7, tra le disposizioni dell’art. 309 c.p.p. richiamate – e, quindi, applicabili al
procedimento di riesame reale – accanto ai commi 9 e 10, il nuovo comma 9-bis. Così, come nel riesame
avverso le misure coercitive, l’imputato può avanzare, personalmente, la richiesta di differimento della
data dell’udienza.
L’innesto, apparentemente lineare, crea, tuttavia, qualche problema interpretativo.
A parte le perplessità sotto il profilo della legittimazione attiva 130, non è chiaro se risultino, oggi,
estendibili, al riesame reale anche le inedite disposizioni, di eccezionale rilievo, trapiantate nei commi 9
e 10, attinenti – come già evidenziato – all’annullamento dell’ordinanza cautelare priva di motivazione
o di «autonoma valutazione» (comma 9), al termine perentorio per il deposito dell’ordinanza e
all’impossibilità di rinnovare la misura divenuta inefficace per scadenza dei termini, salva l’esistenza di
eccezionali esigenze cautelari (comma 10).
Non soccorre, ai fini risolutivi della questione posta, il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni
126
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., p. 32.
127
V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 34.
128
Se ne occupa il comma 6 dell’art. 11 della legge in esame.
129
Accanto alle «Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità».
130
Non sfugge come nel riesame reale, diversamente da quanto accade per il riesame avverso le misure coercitive, non vi sia
una perfetta corrispondenza tra il titolare del diritto di chiedere il differimento dell’udienza – solo l’imputato, secondo la previsione del nuovo comma 9-bis dell’art. 309 c.p.p. – e il legittimato a proporre l’istanza di riesame, che può essere anche un soggetto estraneo al procedimento, come «la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione» (per il sequestro preventivo ex art. 322 c.p.p. e quello probatorio ex art. 257 c.p.p.) o «chiunque vi abbia interesse»
(per il sequestro conservativo ex art. 318 c.p.p.).
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
125
unite 131 nella pronuncia con cui hanno definitivamente risolto in senso negativo l’annosa questione
sull’applicabilità, al riesame reale, del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti e della relativa sanzione della perdita di efficacia della misura impugnata in caso di trasmissione tardiva, di cui ai
commi 5 e 10 dell’art. 309 c.p.p., così come interpolati dalla l. n. 332 del 1995 132, ragionando, tra l’altro,
sulla natura del rinvio operato dall’art. 324, comma 7, c.p.p. ai predetti commi.
In particolare, il Supremo consesso, precisato che, in mancanza di formule chiarificatrici, il rinvio
operato da una norma ad un’altra norma è “dinamico” (formale) solo qualora si riferisca a un istituto o
a una normativa complessivamente considerati, mentre, è “recettizio” (id est statico) tutte le volte in cui
recepisca per intero la disposizione normativa, senza riprodurne il testo 133, e puntualizzato come solo il
rinvio dinamico, mutuando il principio incorporato nella formula normativa, ne segue, inevitabilmente,
l’eventuale evoluzione – di talché, mutato il contenuto della norma di riferimento, muta inevitabilmente il significato della norma che la richiama –, ha qualificato “recettizio” il rinvio in questione: «esso cioè
è fatto alla mera veste letterale dei predetti commi. Il legislatore, in altre parole, invece di riprodurre,
nel comma 7 dell’art. 324, le formule verbali dei commi 9 e 10 dell’art. 309 (così come si presentavano
prima della riforma del 1995), le richiama perché si abbiano per trascritte. Tale modalità di “incorporazione” per relationem comporta, inevitabilmente, la cristallizzazione della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che la richiama, ne entra a far parte integrante e non
segue le eventuali “sorti evolutive” della norma richiamata».
A parte il fatto che non convince affatto una lettura “diacronica” delle norme (rinvio statico-recettizio) – perché solo quella “sincronica” (rinvio dinamico-formale) garantisce coerenza e uniformità al
sistema codicistico, consentendo di evitare che trovino contemporaneamente applicazione due diverse
versioni dello stesso articolo –, un elemento di sicuro rilievo, che depone a favore della possibilità di valutare oggi in termini diversi la natura e la portata del rinvio, è costituito dal fatto che, mentre la legge
del 1995 si era occupata esclusivamente della materia delle misure cautelari personali e delle relative
impugnazioni, senza alcun corrispondente “ritocco” nel settore che qui interessa, la legge in commento
interviene anche sulle misure cautelari reali. Non sembra, allora, irragionevole ritenere che il legislatore
del 2015, stabilendo l’applicabilità anche in tale ambito delle «disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e
10» c.p.p., intendesse estendere al riesame reale, oltre al nuovo comma 9-bis, anche la versione attuale
dei commi 9 e 10 134.
Quanto all’appello reale, com’è noto, il comma 2 dell’art. 322-bis c.p.p. dispone che «si applicano, in
quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 310» c.p.p.
Ebbene, nessun problema di compatibilità sembra porre l’applicazione del nuovo termine – non perentorio – di trenta giorni (allungabile fino a quarantacinque) introdotto dalla legge n. 47 per il deposito
della decisione in cancelleria sull’appello ex art. 310 c.p.p. D’altronde, la conclusione non muterebbe anche se si recepisse la distinzione giurisprudenziale rinvio recettizio/rinvio dinamico: quello in questione – afferente, non già a una disposizione determinata, bensì ad un istituto, nella specie, a quel particolare mezzo di impugnazione che è l’appello cautelare – assume chiaramente la fisionomia di un rinvio
“dinamico”, in quanto tale, in grado di consentire alla norma richiamante di incorporarne le evoluzioni
incidenti sulla norma richiamata.
Diversamente, è da escludere, in caso di annullamento con rinvio di un’ordinanza del tribunale del
riesame confermativa di un provvedimento di sequestro, l’estensione del principio di perentorietà dei
termini, fissato, per la corrispondente situazione cautelare personale, nel nuovo comma 5-bis dell’art.
311 c.p.p.: il comma 3 dell’art. 325 c.p.p., rimasto immutato, continua a richiamare, per il giudizio di legittimità concernente le impugnazioni reali, i soli commi 3 e 4 dell’art. 311 c.p.p.
131
Cass., sez. un., 28 marzo 2013, n. 26268, in Giust. pen., 2013, III, p. 385.
132
La l. n. 332 del 1995 ha modificato i commi 5 e 10 dell’art. 309 c.p.p., “allungando” il termine di trasmissione/ricezione
degli atti sostanzialmente da uno a cinque giorni e collegando alla inosservanza del predetto termine (e a quello per la decisione) la sanzione processuale della perdita di efficacia del provvedimento impugnato, senza peraltro intervenire anche sull’art.
324 c.p.p.
133
La distinzione tra i due tipi di rinvio è ben presente nella giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le tante, Cass., sez. IV, 13
luglio 2007, n. 37884, in CED Cass., n. 237461; Cass., sez. un., 30 maggio 2006, n. 2456, in CED Cass., n. 233976) e anche in quella
del giudice delle leggi (v., ex plurimis, C. cost., 13 luglio 2007, n. 281, in Cass. pen., 2008, p. 1358).
134
Nello stesso senso, V. Pazienza-G. Fidelbo, Le nuove disposizioni, cit., p. 37.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LA RIFORMA DELLE MISURE CAUTELARI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | LA VEXATA QUAESTIO RELATIVA ALLA PRONUNCIA DI PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
127
ALESSANDRO DIDDI
Docente a contratto di Procedura penale – Università di Cosenza
La vexata quaestio relativa alla pronuncia di prescrizione
dopo l’annullamento parziale della sentenza:
le Sezioni Unite fanno buona guardia
The United Chambers of the Court of Cassation
confirms the inhibition to declare the extinction of the crime
when a new trial – set after a “partial annulment”– occurs
A partire dagli anni ’90, le sezioni unite hanno invertito la linea giurisprudenziale che consentiva di rilevare le cause
sopravvenute di estinzione del reato allorquando la corte di cassazione avesse annullato la decisione impugnata
limitatamente alla sola determinazione della pena. Nonostante la soluzione venga costantemente ribadita anche da
recenti arresti, essa non è sempre applicata con coerenza e molte questioni restano irrisolte.
When the contested decision is annulled before the Court of Cassation with sole regard to the determination of
punishment, the judge responsible for the new determination can’t declare the extinction of the crime. Although
this solution is definitely in line with the case law of the Court of Cassation since 1990, it would be worthwhile to
consider the numerous sensitive issues yet unsolved.
LO STATO DELLE COSE
La recente sentenza delle sezioni unite sul noto caso c.d. Thyssenkrupp, nell’annullare con rinvio per la
determinazione della pena in seguito alla ritenuta non configurabilità dell’aggravante di cui all’art.
437 cpv c.p. e nell’affermare, conseguentemente, la definitività delle statuizioni afferenti la penale responsabilità degli imputati per il reato di disastro colposo (art. 437, comma 1, c.p.), di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e di omessa apposizione delle cautele (art. 449 c.p.), ha categoricamente affermato
che, per l’effetto, «dalla data della presente sentenza, il decorso del tempo è irrilevante ai fini della
prescrizione» 1.
La corte, che ha profuso sforzi davvero encomiabili per fare il punto su una serie di problematiche
quali il nesso di causalità, il dolo eventuale, la responsabilità dei componenti degli organi collegiali –
tanto per citare alcune delle più rilevati problematiche affrontate – non ha, tuttavia, ritenuto di spendere nemmeno una parola per giustificare la citata conclusione.
La ragione di tale scelta risiede, verosimilmente, nella solidità dell’orientamento giurisprudenziale
formatosi, tale da non meritare di essere riconsiderato, se non attraverso un mero obiter dictum che, nella specie, funge da monito per il giudice del giudizio rescissorio a non discostarsi dall’osservanza
dell’uniforme interpretazione della legge faticosamente raggiunta sul punto.
La questione, infatti, era stata a lungo dibattuta nel vigore del codice 1930 e fu necessario l’intervento di ben sette decisioni delle sezioni unite 2 prima che riuscisse ad imporsi un ‘diritto viven1
Così, Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in www.penalecontemporaneo.it, http://www.giurisprudenzapenale.com/2014/09/18/
sentenza-thyssenkrupp-depositate-le-motivazioni-delle-sezioni-unite/ (p. 197 della motivazione).
2
In tal senso, con un obier dictum, Cass., sez. un., 18 febbraio 1988, R., in Cass. pen., 1988, p. 1346; successivamente, ex professo,
ANALISI E PROSPETTIVE | LA VEXATA QUAESTIO RELATIVA ALLA PRONUNCIA DI PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
128
te’ 3 in merito alla portata della formazione progressiva del giudicato sulla parte della sentenza concernente l’affermazione della responsabilità ed al conseguente effetto preclusivo per il giudice di rinvio investito della sola determinazione della pena di dichiarare le cause sopravvenute di estinzione del reato.
Sull’osservanza di questo approdo interpretativo, dunque, la corte oggi sembra esercitare un controllo nomofilattico particolarmente incisivo che, nel caso specifico, è andato addiruttura oltre a quanto
prescrive l’art. 627 c.p.p. 4, in ordine al contenuto che deve assumere il principio di diritto cui si deve
attenere il giudice del rescissorio e che testimonia l’attenzione che, sul punto, viene esercitata per scongiurare nuove derive giurisprudenziali.
Recentemente, peraltro, la corte di cassazione, oltre a ribadire il proprio indirizzo, ha pure dichiarato
manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art. 624 c.p.p. per
violazione degli art. 27, comma 2 e 111 Cost., là dove non è consentito rilevare la maturazione del termine
di prescrizione decorso nel giudizio di rinvio disposto soltanto per la rideterminazione della pena 5.
Tuttavia, l’indirizzo che gelosamente la corte intende conservare, per gli intuibili riflessi pratici ad
esso connessi, oltre a presentare alcuni inconvenienti, come ancora recentemente evidenziato dalla dottrina 6, non è del tutto convincente; anzi, a distanza di anni, nonostante le numerose decisioni succedutesi, sembra davvero che il susseguirsi di «massime uniformi» offra semplicemente il «pretesto per decisioni pedisseque, in cui si limita a richiamare il precedente senza dedicare la dovuta attenzione alle
peculiarità del caso concreto» 7.
L’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
La problematica concernente il possibile effetto preclusivo per il giudice di rinvio, investito della sola
determinazione della pena, di dichiarare le cause sopravvenute di estinzione del reato è stata sempre
ricondotta alla c.d. formazione progressiva del giudicato.
Come noto, l’art. 624, comma 1, c.p.p., analogamente all’art. 545, comma 1, c.p.p. 1930, statuisce che
«se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa
giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata».
Nonostante l’apparente linearità della disposizione, essa non è un esempio di ineccepibile tecnica
redazionale in quanto non solo lascia aperta la questione se con la locuzione «parti della sentenza» si
debba avere riguardo ai punti ovvero ai capi della stessa 8, ma, applicata alla problematica de qua, sembra condurre a risultati distonici rispetto al sistema.
Un dato che, infatti, si impone immediatamente all’attenzione dell’interprete è che l’art. 129 c.p.p. afferma l’obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità – tra le quali sono
Cass., sez. un., 23 novembre 1990, A., in Giust. pen., 1991, III, c. 110; Cass., sez.un., 11 maggio 1993, L., in Cass. pen., 1993, p. 2499
con nota di G. Spangher, Bis in idem delle Sezioni unite sui limiti di applicabilità dell’art. 152 c.p.p. sul giudizio di rinvio con annullamento parziale; Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, C., in Cass. pen., 1994, p. 2028 con nota di G. Romeo, La continuazione ancora senza
incertezze; Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, V., in Cass. pen., 1997, p. 691; Cass., sez.un., 26 marzo 1997, A., in Cass.pen., 1997, p. 2684;
Cass., sez.un., 19 gennaio 2000, T., in Cass.pen., 2000, p. 2974. Per una ricostruzione della vexata questio, E. Aprile, Le impugnazioni, Milano, 2004, p. 232; S. Beltrami, Il giudizio di rinvio, in G. Spangher (a cura di), Impugnazioni, V (Trattato di procedura penale
diretto da G.Spangher), Torino, 2009, p. 846 ss.; F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, 2009, p.120-126;
M. Vessichelli, Osservazioni a Cass., sez.un. 23 novembre 1990, A., in Cass.pen., 1991, II, p. 734.
3
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale l’espressione «diritto vivente» costituisce il sistema giurisprudenziale
formatosi nel difetto di espresse disposizioni. Sul punto, C. Cost., sent. 11 dicembre 1974, n. 276, cui si deve una prima applicazione del concetto di diritto vivente.
4
La indicazione contenuta nella sentenza di rinvio, con riferimento all’inapplicabilità della prescrizione in sede di rinvio,
non può considerarsi «principio di diritto al quale il giudice di rinvio ha l’obbligo di uniformarsi». Quest’ultimo, infatti, costituisce la lex specialis che ai sensi dell’art. 173, comma 2, norme att. c.p.p. deve essere specificamente indicata nella decisione ma
che, come osservato in dottrina, non consiste in una qualsivoglia eunciazione di principi giuridici contenuti nella sentenza di
annullamento, come gli obter dicta, e neppure è costituito da affermazioni esplicative della ratio decidendi. Sul punto, G. Iadecola,
Cassazione della sentenza penale e giudizio di rinvio, in Giur. di Merito, 2003, p. 2593.
5
Cass., sez.II, 17 ottobre 2013, n. 44949, cit.; Cass., sez.VI, 16 ottobre 2013, n. 45900, in Arch. n. proc. pen., 2014, 1, p. 42; in precedenza, analoga questione, era stata dichiarata manifestamente infondata, da Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, C., cit.
6
Sul punto, cfr. E. Savio, Il giudizio di rinvio dopo l’annullamento in cassazione, Padova, 2014, p. 88 e ss e p. 159.
7
Così, M. Busetto, Annullamento parziale e declaratoria della prescrizione nel giudizio di rinvio, in Cass. pen., 1997, p. 2480.
8
Sul punto, F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio nel processo penale, Padova, 2002, p. 38.
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espressamente annoverate anche quelle derivanti da ipotesi di estinzione del reato – in ogni stato e grado del “processo” ed è incontestabile che il giudizio di rinvio, per quanto inscindibilmente legato e
condizionato dalla sentenza della corte di cassazione che lo ha disposto, «rappresenta una fase ulteriore
ed eventuale del processo» 9.
Del resto, secondo la stessa giurisprudenza, qualora venga rimessa dalla corte di cassazione al giudice di rinvio la sola determinazione della pena, dunque nel caso di «formazione del giudicato progressivo», (poiché questo riguarderebbe esclusivamente l’accertamento del reato e la responsabilità dell’imputato), la «detenzione dell’imputato deve essere cosiderata come custodia cautelare, e non come esecuzione di pena definitiva» 10. Conclusione perfettamente coerente con il meccanismo di computo dei
termini di custodia cautelare che, oltre a considerare il giudizio di rinvio, ai sensi dell’art. 303, comma 1,
lett. d), c.p.p., una fase durante la quale decorrono i termini di custodia preventiva, fa dipendere il
computo dei termini di custodia, dopo le fasi successive alla conclusione delle indagini preliminari e,
dunque, anche quelle del giudice di rinvio, dalla pena concretamente irrogata 11.
Non può, poi, passare inosservato come l’art. 624, comma 1, c.p.p., assunto alla lettera, colleghi il fenomeno del progressivo accrescimento di stabilità delle parti che compongono la decisione in conseguenza di annullamenti parziali all’«autorità di cosa giudicata», vale a dire a quel fenomeno che, nel titolo I del libro X del codice, viene disciplinato in relazione all’efficacia prodotta da determinate decisioni, di assoluzione o di condanna, emesse nel giudizio penale, nei giudici civili o amministrativi di danno, nei giudizi disciplinari o in altri giudizi civili o amministrativi.
Del resto, a dimostrazione delle incertezze applicative cui il principio di formazione progressiva del
giudicato ha dato luogo, è significativo ricordare che già nel vigore del codice 1930, come accennato, si
erano formati due contrapposti orientamenti interpretativi che, pur movendo dall’art. 545 c.p.p. 1930 –
contenente una disposizione identica a quella oggi prevista dall’art. 624 c.p.p. – giungevano a soluzioni
inconciliabili. Soprattutto, è utile ricordare che l’indirizzo restrittivo, secondo cui la sentenza di legittimità che definisce il giudizio in ordine ad alcune autonome statuizioni era in grado di generare il passaggio in giudicato della decisione anche quando essa non avesse esaurito il giudizio in relazione al
reato, benché radicato fino agli anni ‘60, era rimasto successivamente minoritario 12, per quanto non
mancassero consensi in letteratura 13.
Questo secondo indirizzo, peraltro, non si impose nemmeno dopo i primi interventi della corte di
cassazione nella sua più autorevole composizione.
Chiamate a risolvere il contrasto, già nel 1990, dopo un obiter dictum contenuto in una decisione del
1988 riguardante altra questione 14, infatti, le sezioni unite accolsero la soluzione restrittiva statuendo
che «nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto un reato quando la causa estintiva sia
sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale pronunciata dalla cassazione nel caso in cui questa sentenza abbia ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell’esistenza
del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato» 15.
Nondimeno, non solo «la pronuncia del 1990 non [era] (…) valsa a fugare ogni dubbio interpretativo
sulla questione» ma poiché anche il codice 1988 non aveva «introdotto elementi idonei, sotto il profilo
9
E. Savio, Il giudizio di rinvio, cit., p. 30.
10
Cass., sez.VI, 19 dicembre 2013, n. 2324, in CED Cass. n. 258251 in una fattispecie relativa a rigetto del ricorso proposto dal
procuratore generale avverso un’ordinanza di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari disposta nel giudizio di rinvio; Cass., sez. I, 5 maggio 2004, n. 22293, Riv. cancellerie, 2004, 564.
11
Secondo Cass., sez.IV, 19 febbraio 2013, n. 10674, in CED Cass. n. 254940 e Cass., sez. IV, 14 febbraio 2008, n. 17037 quando
si sia formato giudicato sull’affermazione di responsabilità dell’imputato, l’annullamento con rinvio limitatamente alla determinazione della pena comporta che i termini di custodia cautelare cui deve farsi riferimento sono, ai sensi dell’art. 303, comma
1, lett. c) c.p.p., quelli stabiliti per la durata massima delle misure cautelari del comma 4 dello stesso articolo.
12
Così, M. Vessichelli, Osservazioni, cit., p. 735 cui si rinvia per i richiami alla giurisprudenza.
13
In dottrina, nel senso che l’art. 543 comma 1, c.p.p. 1930, ammettesse un giudicato sulle questioni opponibile
all’operatività dell’art. 152, comma 1, c.p.p., G. Conso, Questioni nuove di procedura penale, Milano, 1959, p. 165; G. Lozzi, Favor
rei e processo penale, Milano, 1968, p. 82-83; contra, invece, G.P. Augenti, Natura e limiti del giudizio di rinvio, Padova, 1934, p. 73; G.
Bellavista-G. Tranchina, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1987, p. 687; E. Fassone, La declaratoria immediate delle cause di
non punibilità, Milano, p. 116 e 125.
14
Cass., sez. un., 18 febbraio 1988, R., cit.
15
Così, Cass., sez. un., 23 novembre 1990, A., cit. e in Foro it., 1991, II, c. 376 con nota di E. D’Angelo.
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testuale, ad avallare l’una o l’altra tesi, in quanto l’art. 624, comma 1, c.p.p. del 1988 riproduce sostanzialmente la formula del vecchio art. 545, comma 1, c.p.p. 1930» 16, le incertezze interpretative continuarono ad alimentarsi anche negli anni successivi all’entrata in vigore del nuovo codice.
Dopo la statuizione delle sezioni unite, infatti, alcune decisioni delle sezioni semplici avevano continuato a manifestare adesione al precedente e maggioritario orientamento favorevole all’applicazione
delle cause estintive anche in caso di annullamento della sentenza in relazione ai soli punti relativi al
trattamento sanzionatorio 17. Nello stesso senso, peraltro, si era collocata anche la dottrina 18.
Sono occorsi altri cinque interventi delle sezioni unite 19 perché s’imponesse – come linea consolidata
– l’indirizzo contrario al potere di dichiarare l’estinzione del reato in sede di rinvio dopo l’annullamento della sentenza avente ad esclusivo oggetto il trattamento sanzionatorio 20.
L’AUTOREVOLE E RECENTE PRASSI
L’iter argomentativo recentemente proposto dalle Sezioni Unite, come accennato, ruota interamente attorno alla portata del principio del c.d. giudicato parziale di cui all’art. 624, comma 1, c.p.p. (che, si è visto, riproduce il contenuto dell’art. 545, comma 1, c.p.p. 1930), in forza del quale, quando l’annullamento non è stato pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, le parti della stessa che non hanno
connessione essenziale con la parte annullata acquistano «autorità di cosa giudicata».
Orbene, secondo l’orientamento giurisprudenziale che si è imposto, la sentenza della corte di legittimità
che definisce il giudizio in ordine ad alcune autonome statuizioni determinerebbe, in sostanza, il passaggio
in giudicato della relativa decisione anche quando essa non esaurisca il giudizio in relazione al reato.
Intervenendo sulla controversa questione della configurabilità del giudicato parziale, le sezioni unite
della corte di cassazione hanno ritenuto che con l’espressione «parti della sentenza», contenuta nell’art.
624 c.p.p. (così come accadeva nell’art. 545 c.p.p. 1930), il «legislatore ha inteso fare riferimento a qualsiasi situazione avente un’autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un determinato capo di imputazione, ma anche a quelle che,
nell’ambito di una stessa contestazione, individuano più aspetti non più suscettibili di riesame; anche in
relazione a questi ultimi la decisione adottata – così prosegue la suprema corte – benché non ancora
16
G. Di Chiara, nota a Cass., sez. un., 11 maggio 1993, L., in Foro it., 1993, II, c. 612.
17
Cass., sez. I, 11 marzo 1992, L., in Cass. pen., 1993, p. 2562; Cass., sez. I, 12 febbraio 1993, F., in Arch. n. proc. pen., 1993, p.
769; Cass., sez. I, 30 maggio 1994, A., in Cass. pen., 1996, p. 568; Cass., sez. I, 28 settembre 1994, P., in Cass. pen., 1996, p. 127 con
nota di E. Jannelli, La definizione costituzionale del giudicato penale: conseguenze sulla ammissibilità del c.d. giudicato parziale ovvero
progressivo; Cass., sez. IV, 23 gennaio 1997, M., in CED Cass. n. 207126; Cass., sez. II, 29 ottobre 1999, in Giust. pen., 1999, III, c.
595.
18
Cfr. M.Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2479; G. Ciani, sub art. 624, in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, VI, Torino, 1991, p. 305 ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1991, p. 949-950; A. Galati, Le impugnazioni, in AA.VV., Manuale di diritto processuale penale, II, Milano, 2004, p. 544-545.
19
Cass., sez. un., 11 maggio 1993, L., cit.; Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, C., cit.; Cass., sez. un., 9 ottobre 1996, V., cit.; Cass.,
sez. un., 26 marzo 1997, A., cit.; Cass., sez. un., 19 gennaio 2000, T., cit.
20
Hanno seguito l’orientamento delle sezioni unite: Cass., sez. II, 17 ottobre 2013, n. 44949, Dir. e giustizia, 2013, 11, p. 8 con
nota di F. Capitani, La prescrizione del reato non può maturare durante il giudizio di rinvio; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 45900, in
Arch. n. proc. pen., 2014, 1, p. 42; Cass., sez.III, 3 aprile 2013, n. 19690, in CED Cass. n. 256377; Cass., sez. VI, 8 marzo 2013, n.
28412, in Cass. pen., 2014, p. 952 che, in seguito all’entrata in vigore della l. 6 novembre 2012, 190, in seguito a riqualificazione
della originaria contestazione di concussione in quella di indebita induzione, nell’annullare parzialmente la sentenza di condanna, con rinvio al giudice di merito, ha affermato che l’annullamento escludeva il decorso ulteriore del termine di prescrizione; Cass., sez. III, 13 ottobre 2010, n. 15101, in Cass. pen., 2011, p. 2297; Cass., sez. II, 9 febbraio 2010, n. 8039, in Cass. pen., 2011, p.
2298; Cass., sez. IV 27 novembre 2010, n. 24732, in CED Cass. n. 248117; Cass., sez. IV 20 novembre 2008, n. 2843 in Riv. pen.,
2009, p. 1449; Cass., sez. II, 14 marzo 2007, in CED Cass. n. 236462; Cass., sez. I, 30 marzo 2006, in Guida dir., 2006, n. 22, p. 62;
Cass., sez. IV 4 luglio 2005, n. 38856, Guida dir., 2006, 19, p. 96; Cass., sez. IV, 16 aprile 2004, p.m. in c. A., in CED Cass. n. 228593;
Cass., sez.II, 25 gennaio 2002, P., in Guida dir., 2002, 25, 7, p. 3; Cass., sez. III, 20 novembre 2002, De M., in CED Cass. n. 223272;
Cass., sez. IV, 5 febbraio 1999, n. 8310 in Arch. n. proc. pen., 1999, p. 523 che ha ritenuto applicabile il principio della c.d. formazione progressiva del giudicato, oltre che nel caso di annullamento parziale della sentenza, anche nel caso di mancata impugnazione di un capo o punto della sentenza; Cass., sez.III, 6 dicembre 1996, B., in Cass.pen., 1997, p. 3167; Cass., sez. VI, 2 aprile 1998,
T., in Giust.pen., 1999, III, c. 236 Cass., sez. I, 5 ottobre 1995, B., in Cass.pen., 1997, p. 2479.
L’orientamento della corte di cassazione sembra seguito anche da Corte cost., ord. 30 ottobre 1996, n. 367, in Giur.cost., 1996,
p. 3201.
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eseguibile, acquista autorità di cosa giudicata quale che sia l’ampiezza del suo contenuto» 21.
Ne discenderebbe, secondo la corte di cassazione, che «nel caso di annullamento che abbia ad oggetto statuizioni diverse dall’accertamento del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato la pronuncia
di condanna diviene irrevocabile con conseguente preclusione per il giudice di rinvio di dichiarare prescritto il reato, non solo quando la causa estintiva sia sopravvenuta ma anche quando, eventualmente,
tale causa fosse preesistente e non sia stata valutata dalla corte di cassazione» 22.
Va precisato, a tale ultimo riguardo, che gli effetti del giudicato progressivo sul successivo potere di
rilevare l’eventuale prescrizione formatasi prima dell’annullamento parziale, oggi, alla luce dell’art 625
bis c.p.p., sembrerebbe dover essere in parte rivisto 23.
Sebbene tale previsione non incida sui poteri del giudice del rinvio, il quale, ovviamente, non può
dichiarare l’estinzione del reato eventualmente prodottasi prima dell’annullamento parziale, l’errore di
fatto – vale a dire quello percettivo causato da una svista o da un equivoco e non da valutazioni di carattere giuridico o di apprezzamento di fatto – in cui fosse eventualmente incorsa la corte di cassazione
in sede di giudizio rescindente potrebbe essere ancora rilevato attraverso il rimedio del ricorso straordinario 24.
Tornando al ragionamento posto a fondamento della decisione, si sottolinea inoltre che, sebbene sia
vero che l’art. 624 c.p.p. – analogamente alla previsione contenuta nell’art. 545 c.p.p. 1930 – esclude dal
fenomeno del giudicato parziale quelle parti che non hanno una connessione essenziale con la parte
non soggetta ad annullamento, cionondimeno, allorquando la parte non annullata concerna statuizioni
diverse dall’accertamento del reato e della affermazione della responsabilità, in merito a queste ultime
non sussisterebbe più alcuna attività giurisdizionale di accertamento e sarebbe completamente esaurito
il potere decisorio del giudice.
IL DIBATTITO IN LETTERATURA
Il ragionamento in base al quale la corte di cassazione esclude che l’annnullamento della sentenza concernente statuizioni diverse dall’accertamento del fatto e della affermazione della responsabilità impedisca di rilevare le cause estintive del reato, a ben vedere, fa perno su una premessa che, sebbene condivisa da una parte della dottrina 25, solo apparentemente è priva di aspetti problematici e di inconvenienti 26.
21
Cass., sez. un., 11 maggio 1993, L., cit.
22
Cass., sez. un., 11 maggio 1993, L., cit.
23
Secondo F. Falato, Immediata declaratoria e processo penale, Padova, 2010, p.358, la causa di non punibilità potrebbe essere
dichiarata anche nel giudizio di rinvio qualora il suo riconoscimento al giudice di rinvio fosse stato precluso dall’essere subordinata alla risoluzione di una di una questione di fatto implicante la rivalutazione dell’accertamento delle risultanze probatorie
oppure perché essa dipendeva da una nuova valutazione del fatto di reato o, infine, perché pur presupponendo la soluzione di
questioni di diritto, implicava comunque indagini non espletabili dalla corte. Viceversa, il giudice di rinvio non potrebbe prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p. se la corte, pur in grado di risolvere la questio iuris o la quaestio facti presupposto
della declaratoria di non punibilità, non l’abbia pronunciata perché in questo caso il giudice del merito sarebbe vincolato alla
regola di giudizio di cui all’art. 627, comma 3 c.p.p.
24
Cfr. sul punto Cass., sez.un. 14 luglio 2011, n. 37505, in Proc. pen. giust., 2012, 2, p.56 con nota di A. Famiglietti, L’errore
ostativo sui tempi della prescrizione è emendabile con ricorso straordinario, e, da ultimo, Cass. Sez. IV, 12 dicembre 2014, n. 3319, in
CED Cass. n. 262028. In dottrina, P. Gaeta, Rimedio possibile se sulla causa estintiva c’è stata solo una “svista” priva di valutazione, in
Guida dir., 2011, 45, p. 66.
25
Si sono schierati a favore della soluzione affermata dalla giurisprudenza delle sezioni unite, S. Beltrami, Il giudizio di rinvio,
cit., p. 845 e ss; D. Chinnici, Brevi note in tema di «giudicato progressivo», in Arch. n. proc. pen., 2000, p. 235; G. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004; p. 28; G. Iadecola, Cassazione della sentenza penale, cit., p. 2601-2602; G. Spangher, Bis in
idem, cit., p. 2505; L. Iafisco, Ennesimo intervento della Corte di cassazione in tema di formazione progressiva del giudicato penale: acquisbili ex art. 238 bis c.p.p. anche le sentenze parzialmente irrevocabili, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 550; B. Lavarini, L’esecutività
della sentenza penale, Torino, 2004, p. 58; R. Li Vecchi, Annullamento paziale con rinvio ed inapplicabilità della estinzione del reato a statuizioni non impugnate, in Riv. pen., 1994, 241; P.P. Paulesu, Sui limiti di applicabilità dell’art. 152 c.p.p. 1930 nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento parziale, in Giur.it., 1994, II, p. 470; R. Vanni, Giudicato progressivo e limiti all’applicabilità dell’art. 129 nel
giudizio di rinvio, in Giur.it., 1998, III, p. 701.
26
In posizione critica rispetto alla soluzione cui è approdata la corte, D. Arrigo, Il giudicato “parziale” e le cause estintive del reato, in Giur.it., 1999, p. 609; A. Bargi, Il ricorso per cassazione, in A. Gaito (a cura di) Le impugnazioni penali, vol.II, Torino, 1998, p.
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A prima vista, sembra logico affermare che, siccome la prescrizione opera come causa estintiva del
«reato», una volta divenute immodificabili le statuizioni della sentenza con riferimento alla sua sussistenza ed alla sua attribuibilità all’imputato, il tempo necessario per la sua estinzione non potrebbe più
decorrere. Ancora, sembrerebbe altrettanto coerente concludere che, siccome, in base all’art. 624 c.p.p.,
la irrevocabilità non costituisce un attributo della sentenza nella sua completezza, ma una qualità che
potrebbe caratterizzare anche solo talune sue parti, la definitività dell’accertamento sul fatto-reato e sulla responsabilità dell’imputato non potrebbe più portare all’estinzione di ciò che, oramai, sarebbe irrevocabilmente accertato. L’ostacolo a compiere ulteriori accertamenti sulla esistenza dell’illecito varrebbe a sterilizzerebbe il tempo che dovesse scorrere, prima che la sentenza nella sua interezza fosse cresciuta di giudicato.
Come si ricava dalle sintetiche osservazioni svolte per ricostruire la posizione assunta dalla giurisprudenza, l’argomento attraverso il quale l’intero ragionamento della corte si sostiene è costituito dalla
considerazione che la definizione di «parte della sentenza» che figura nell’art. 624 c.p.p. sarebbe riferibile ad ogni statuizione contenuta nella sentenza che abbia una propria autonomia concettuale.
La premessa, tuttavia, è particolarmente delicata perché non sfugge come, già sul piano letterale,
l’art. 624 c.p.p., come notato in dottrina, lascia aperta la questione se, con la locuzione «parti della sentenza», si debba avere riguardo ai punti ovvero ai capi della stessa 27.
È ovvio, infatti, che, laddove si ritenga che «parte» della sentenza debba coincidere con «capo», il
giudicato parziale non solo non si potrebbe formare rispetto a regiudicande monosoggettive e monoggettive, ma una qualunque decisione che dovesse riguardare il trattamento sanzionatorio – costituendo
esso sicuramente “un punto” della sentenza – non determinerebbe alcuna preclusione.
Si è notato che «“annullamento parziale” è formula equivoca», come confermato da due rilievi: il
primo è che il giudice del rinvio «emette una nuova sentenza, prosciogliendo o condannando» e che
«nei casi previsti dall’art. 129, comma 1, tocca temi estranei al commessogli». Inoltre, si aggiunge ancora, poiché «non esiste “giudicato sul “punto” e tanto meno sulla “questione”», non solo il giudicato potrebbe nascere sulla intera res iudicanda, ma «l’annullamento cosiddetto parziale l’ha disseccata, estirpando i nuclei malriusciti: un nuovo giudice li ricompone; poi combina i nuovi ai preesistenti, esenti da
difetti, indi decide sul resto» 28. Salvo, dunque, il caso di decisioni “pluricefale”, vale a dire quelle che
contengono decisioni su più reati tra loro del tutto indipendenti, qualora la sentenza sia caratterizzata
da un errore che «inquini uno o alcuni punti (titolo, elemento psichico, circostanza, pena)», esso comporta l’annullamento dell’«intero atto decisorio (formalmente inscindibile)», ancorché l’investito del
processo ridefinisca solo alcuni punti, mutuando, sui rimanenti, la conclusione della sentenza annullata
ed i «giudicati nascono sull’intera res iudicanda» 29.
Per la verità, per quanti sforzi siano stati profusi in dottrina per cercare di chiarire tale equivoca
espressione, dal testo della disposizione in esame non si riescono ad individuare appigli davvero sicuri
per ritenere valida l’una o l’altra opzione interpretativa e la dottrina, che si è cimentata nell’opera demolitoria delle decisioni della corte, ha dovuto intraprendere altri percorsi.
In forza di una visione sistematica si è, anzitutto, osservato come la tesi seguita dalla giurisprudenza
distorcerebbe il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. In particolare, si è osservato che, contrariamente alle norme convenzionali pattizie che ricollegano la presunzione di innocenza nel corso del procedimento “al di qua” del momento in cui la colpevolezza sia stata legalmente
stabilita, l’art. 27, comma 2, Cost, in una visione più garantistica, fonda il venir meno della presunzione
di cui si tratta sul passaggio in giudicato della sentenza nella sua interezza 30.
647; F.R. Dinacci, Gli ambiti decisori del giudizio di rinvio, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, cit., p. 721; Id., Il giudizio di
rinvio nel processo penale, Padova, 2002, p. 41; Falato, Immediata declaratoria, cit., p. 357 e ss; T. Grimaldi, Causa estintiva sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale, in Riv. pen. economia, 1991, p. 231; E. Jannielli, La definizione costituzionale del giudicato, cit.;
Id, La cosa giudicata, in G. Aimonetto (a cura di), Le impugnazioni, Torino, 2005, p. 604; A. Marandola, Declaratoria immediata di
cause di non punibilità (obbligo di), in Enc. giur., X, Roma, 2002, p. 9; M. Pierdonati, Formazione “progressiva” del giudicato penale e
preclusioni nel giudizio di rinvio, in L. Marafioti -R. Del Coco Il principio di preclusione nel processo penale, Torino, 2012, p. 96.
27
Sul punto, F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio, cit., p.38.
28
F. Cordero, Procedura penale, VI ed., Milano, 2001, p. 1136 e, nello stesso senso, anche A. Galati, Le impugnazioni, cit., p. 546.
29
F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 1136.
30
Così di E. Jannelli, La definizione costituzionale del giudicato penale, cit., D. Arrigo, Il giudicato «parziale» e le cause estintive del
reato, in Giur. it., 1999, p. 609.
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Si è anche soggiunto che, siccome le cause di estinzione del reato non si pongono come un quid pluris
al di fuori del reato, costituendo, esse, invece, «coefficienti necessari per il configurarsi della pena alla
stregua di tutti gli altri», esse, tra cui le condizioni di estinzione della punibilità, «dev[ono] intendersi
come appartenenti al fatto giuridico, senza possibilità di esserne distaccat[i]» 31.
La posizione assunta dalla recente giurisprudenza è stata criticata anche movendo dalla distinzione
tra annullamento parziale in senso stretto, cioè quello che ha riguardo ad un singolo capo di una decisione plurima, e annullamento parziale in senso improprio, che ha, invece, riguardo ai singoli punti o
alle singole questioni interne ad un medesimo capo 32. Osservato sotto tale prospettiva, l’art. 624 c.p.p.
dovrebbe riguardare solo la prima ipotesi.
Tale disposizione, infatti, attraverso un’intepretazione sistematica, consente di evidenziare che essa
«non si limita a recepire l’ovvio principio della autonomia fra le diverse res iudicandae, ma pone anche
una regola che non discenderebbe affatto dai canoni generali: l’autorità di cosa giudicata sulla singola
imputazione è esclusa quando essa risulti in rapporto di “connessione essenziale” con i capi superstiti» 33. Soprattutto – si osserva ancora – come a conforto di tale assunto si porrebbe l’art. 628, comma 2,
c.p.p. in forza del quale si ricava il divieto di impugnativa della sentenza emessa dal giudice del rinvio
dei punti già decisi. Da tale previsione, infatti, si deduce che sarebbe arbitrario ricondurre il fenomeno
all’istituto della res iudicata anziché alla categoria della preclusione processuale in quanto se «“i punti
già decisi” cui allude l’art. 628 fossero davvero coperti dal giudicato – come pretende ora la prevalente
giurisprudenza – non vi sarebbe alcun bisogno di precisare che la sentenza del giudice di rinvio non
può, relativamente ad essi, formare oggetto di impugnativa: la regola discenderebbe dai principi» 34.
CRITICA ALLA SOLUZIONE RESTRITTIVA
È possibile individuare anche altri percorsi che consentono di destituire di fondamento la conclusione
giurisprudenziale oramai stabilizzata.
Un primo dato che occorre prendere in considerazione è quello, su cui ci si è già soffermati, contenuto nell’art. 129 c.p.p. che consente la rilevazione delle cause di estinzione del reato in ogni stato e grado
del processo.
Nonostante, a tale riguardo, la corte di legittimità abbia osservato che il giudicato parziale impedirebbe l’applicazione dell’art. 129 c.p.p (152 c.p.p. 1930) 35 perché non esisterebbe più un «processo» in
punto di esistenza del reato-affermazione di responsabilità dell’imputato, processo che non potrebbe
essere più configurato una volta che la Corte di cassazione abbia annullato solo su altri punti 36, è agevole osservare come per giungere a tale conclusione occorra amputare un pezzo della disposizione, aggiungendovi arbitrariamente una limitazione, vale a dire che essa si potrebbe applicare solo nel caso in
cui il processo sia pendente con riferimento alla resposabilità dell’imputato.
Tale compressione della portata applicativa della disposizione, tuttavia, non sembra operazione così
facilmente praticabile, non essendo essa ricavabile né dal suo spirito né dalla sua lettera.
Non solo, infatti, «ritenere che la prescrizioni non opera nel corso di una fase del procedimento già
suscita comprensibili perplessità» 37, ma la previsione in esame afferma chiaramente che l’obbligo di
immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, tra le quali expressis verbis anche quelle
31
F. Falato, Immediata declaratoria, cit. p. 364.
32
M. Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2484; M. Gialuz, Il ricorso straordinario per cassazione, Milano, 2005, p. 186 e ss.; A.
Giovene, Giudicato, in Dig. pen., V, Torino, 1991, p. 440.
33
M. Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2483-2484.
34
M. Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2484.
35
La decisione delle sezioni unite che si sta ripercorrendo, pur ragionamento anche alla luce delle disposizioni del nuovo
codice di procedura penale, doveva applicare il codice abrogato. L’art. 152 c.p.p. 1930, che conteneva una previsione analoga a
quella contenuta nell’art. 129 c.p.p. vigente, statuiva l’obbligatorietà della declaratoria immediata delle cause di non punibilità
in ogni stato e grado del procedimento.
36
Cass., sez. un., 11 maggio 1993, L., cit.
37
M. Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2481.
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derivanti da ipotesi di estinzione del reato, scatta in ogni stato e grado del “processo” senza alcuna limitazione 38.
La disposizione, poi, si salda perfettamente con quanto prevede l’art. 627, comma 2, c.p.p., in forza
del quale il giudice del rinvio decide con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata. È vero che tale disposizione aggiunge anche che sono fatti salvi i limiti derivanti dalla legge e
che, appunto, proprio il giudicato progressivo potrebbe rappresentare la fonte di tali limitazione, ma
non si vede come essi possano incidere sulla portata del principio generale in forza del quale, fino
quando il processo è pendente, il giudice ha il potere di rilevare ex officio le cause estintive del reato.
Semmai, l’intervenuto “giudicato” (rectius: preclusione) potrebbe incidere sull’operatività del comma 2 dell’art. 129 c.p.p. là dove esso statuisce che quando ricorre una causa di estinzione del reato il
giudice possa pronunciare sentenza con la prescritta formula, qualora dagli atti risulti evidente che
l’imputato possa essere prosciolto con dispositivi più favorevoli. È incontestabile, infatti, che l’effetto
preclusivo del c.d. giudicato parziale possa determinare solo l’impossibilità di un riesame di quelle
questioni le quali, essendo comprese nelle parti della sentenza che, ormai, sono state decise dalla corte
di legittimità, non possono più essere poste in discussione, al pari di quanto accadrebbe qualora
l’imputato impugnasse solo i punti di una sentenza concernenti il trattamento sanzionatorio. Situazione, quest’ultima, che, anche secondo la giurisprudenza, sebbene determini un’intangibilità dei punti e
delle questioni non dedotte, non può essere ricondotta al fenomeno della formazione progressiva del
giudicato, bensì a quello della preclusione che, appunto, non impedisce l’operatività delle cause di
estinzione del reato 39.
Tali considerazioni, peraltro, sono perfettamente coerenti con la logica delle impugnazioni che, nel
respingere il sistema del gravame totalmente devolutivo, non consentono, nelle fasi di impugnazione
appunto, di rimettere in discussione quelle “parti” della decisione (nonché quelle che si trovino con essa in stretta connessione essenziale logico-giuridica 40), rispetto alle quali si è esaurito il potere decisorio
del giudice della cognizione.
Posta tale precisazione, però, l’esame dell’art. 129 c.p.p. porta a ritenere che la pendenza del processo non possa determinare un’inibizione alla operatività delle cause di estinzione del reato, sia preesistenti che sopravvenute 41.
V’è però anche un ulteriore percorso che occorre intraprendere per ricostruire più correttamente la
portata dell’art. 624 c.p.p. e sul quale non sembra che, ad oggi, sia stata posta la dovuta attenzione.
Ad un esame della disposizione in argomento, infatti, non può sfuggire come il legislatore abbia definito gli effetti del c.d. annullamento parziale come «autorità di cosa giudicata» ed è su tale aspetto che
occorre soffermarsi perché è indubbio che la forza del giudicato non può costituire un effetto arbitrariamente determinato dall’interprete a seconda delle necessità, costituendo esso, piuttosto, un concetto
che deve essere definito sulla base del quadro normativo di riferimento.
È noto che alla irrevocabilità della sentenza o del decreto penale di condanna si ricolleghino i concetti di «giudicato formale» e di «giudicato sostanziale» ai quali, a loro volta, si riconnettono due ordini di
effetti preclusivi, l’uno di carattere negativo e, l’altro, di carattere positivo 42. Ai sensi dell’art. 649 c.p.p.,
infatti, solo l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non
può essere nuovamente sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto; in forza degli artt. 651,
651-bis, 652, 653 e 654 c.p.p., invece, solo le sentenze cresciute di giudicato (con esclusione, dunque dei
decreti penali di condanna), a determinate condizioni, esplicano efficacia nei procedimenti civili ed
amministrativi ed in quelli disciplinari.
38
R. Del Coco, La preclusione, in A. Marandola (a cura di), Le invalidità processuali, Torino, 2015, p. 392 secondo la quale l’art.
129 c.p.p. non può in alcun modo impedire l’esercizio dei poteri officiosi pro reo.
39
Così recentemente, in giurisprudenza, Cass., sez.VI, 16 ottobre 2013, n. 45900, cit. In dottrina, sull’argomento, R. Del R.
Coco, La preclusione, cit. p. 392-393. Sul concetto di preclusione, recentemente, R. Orlandi, Principio di preclusione e processo penale,
in Proc. pen. giust., 2011, 5, p. 1. Sulla dibattuta questione dell’applicabilità della prescrizione, in via estensiva, al coimputato non
appellante anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza pronunziata nei confronti di quest’ultimo, cfr. Cass. sez. III, 24
gennaio 2013, n. 10223, in Proc. pen. giust., 2013, 5, p. 71, con nota di F.R. Mittica, Operatività della prescrizione “postuma” nei confronti dell’imputato non appellante.
40
Cass., sez. V, 27 ottobre 1999, K., in CED Cass. n. 214719.
41
In questi termini, F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio, cit. 43; Id, Gli ambiti decisori del giudizio di rinvio, cit., p. 722.
42
Recentemente, R. Del Coco, La preclusione, cit., p. 389 alla quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti dottrinari.
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La coerenza del sistema delineato nel titolo I del libro X del codice, dunque, porta ad assumere che
l’irrevocabilità richiesta della sentenza penale, per poter esplicare gli effetti nei giudizi civili ed amministrativi, sia solo quella prevista dall’art. 648, che, come noto, definisce irrevocabili «le sentenze», e non, dunque,
parti di esse, pronunciate in giudizio «contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione».
Ora, collegando tra loro gli artt. 624 e 648 c.p.p., pare evidente come il primo contenga una deroga al
secondo, nel senso che consente di attribuire una potenziale efficacia extrapenale a quelle decisioni che,
pur non essendo ancora divenute irrevocabili secondo la definizione di carattere generale, perché nei
loro confronti è ancora pendente un giudizio di impugnazione diverso dalla revisione, cionondimeno,
in talune loro «parti», non possono più essere poste in discussione essendosi esaurito, rispetto a queste
ultime, il potere decisorio del giudice della cognizione.
Quando dunque l’art. 624 c.p.p. afferma che l’annullamento parziale produce l’«autorità di cosa giudicata» delle parti della sentenza che non sono oggetto di annullamento, sia pur con una locuzione parzialmente differente rispetto a quella contenuta negli artt. 651 e ss c.p.p. (che utilizzano la espressione
«efficacia di giudicato»), intende richiamare proprio i vincoli che possono derivare da determinate statuizioni attorno alle quali, per effetto delle successive preclusioni cognitive derivanti dalle devoluzioni operate attraverso l’atto di impugnazione e delle relative decisioni su di esse, non sono suscettibili di ulteriori modificazioni. E la ragione per la quale l’art. 624 c.p.p. utilizza il termine «parti» per definire le
frazioni della sentenza che possono esplicare efficacia di giudicato dipende dall’estensione di questo
effetto, che è variabile e può essere colto solo attraverso il collegamento tra il primo comma dell’art. 624
e le varie disposizioni che, di volta in volta, disciplinano l’efficacia extrapenale del giudicato di assoluzione o di condanna nei giudizi civili, amministrativi o disciplinari.
Nell’ambito di questi ultimi, infatti, in base agli artt. 651, 651-bis, 652, 653 e 654 c.p.p., le sentenze penali, di condanna o di assoluzione, non esplicano un’autorità per così dire omnibus identica in tutte le sedi
extrapenali in cui esse vengono prodotte; secondo i casi, si tratta di un’efficacia che, talvolta, si riferisce
all’accertamento della sussistenza o della non sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed
all’affermazione che l’imputato lo ha o non lo ha commesso ovvero che il fatto sia stato compiuto
nell’adempimento di un dovere o di una facoltà legittima, come nell’ipotesi in cui la sentenza penale sia
utilizzata nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei
confronti dell’imputato e del responsabile civile; altre volte, più genericamente, si riferisce ai “fatti materiali accertati» come nell’ipotesi in cui la sentenza irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento sia
utilizzata in un giudizio nel quale si controverta intorno a un diritto o ad un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale.
Insomma, l’estensione degli effetti prodotti dagli accertamenti e dalle valutazioni compiute da una
sentenza irrevocabile pronunciata in sede penale non solo non è sempre la stessa, ma le «parti» di essa
che assumono rilevanza extra moenia variano a seconda del tipo di giudizio in cui essa viene prodotta.
Soprattutto, non sembra possibile ricondurre nell’ambito degli effetti di giudicato – come invece si trova talvolta affermato in giuriprudenza – quegli aspetti diversi da quelli considerati come, ad esempio,
quelle concernente la rideterminazione della pena ovvero l’individuazione della pena base per il reato
più grave 43.
Sotto tale angolo visuale, dunque, sembra emergere un primo risultato, e cioè che l’art. 624 c.p.p.
consente di anticipare quegli effetti tipici della sentenza penale che, di regola, sono connessi alla sua irrevocabilità determinando l’immediata estromissione delle questioni civili da quel processo penale che
prosegue in relazione a punti della decisione annullata che non sono più di alcun interesse per il danneggiato che abbia ivi esercitato l’azione per la restituzione ed il risarcimento dei danni a mente degli
art. 72 e ss c.p.p. Il che, in pratica, vuol dire che la parte lesa avrà la possibilità di attivare il giudizio civile, ancorché la sentenza in sede penale non sia ancora divenuta irrevocabile, per ottenere il risarcimento del danno nei confronti dell’imputato (o del responsabile civile), qualora, ad esempio, egli (e colui che debba rispondere a noma delle leggi civili del fatto da questi commesso) sia solo stato condannato genericamente ai sensi dell’art. 539 c.p.p. Ancora, l’anticipata produzione degli effetti del giudicato comporta, altresì, che, qualora l’azione civile sia stata proposta in sede civile nei confronti
dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, cesseranno gli effetti sospensivi sul processo civile di cui all’art. 75, comma 3, c.p.p. esplicati
dalla pendenza del processo penale.
43
Cass., sez. II 8 luglio 2014, n. 37869, in Dir e giustizia, 2014, 9, p. 16.
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In ciascuna di tali ipotesi, infatti, la preclusione ad una riforma nel merito delle parti che concernono
gli interessi extrapenali giustifica il fatto che non si debba attendere la irrevocabilità dell’intero provvedimento perché questo debba esplicare quegli effetti vincolanti negli altri giudizi. Ed è bene precisare, a
tale riguardo, che in tali casi l’eventuale estinzione del reato che dovesse sopravvenire nelle fasi successive al giudizio di rinvio non inciderebbe più sulla efficacia extrapenale delle parti della sentenza sulle
quali il giudice della cognizione ha esaurito il potere di valutazione e non pregiudicherebbe, pertanto,
gli interessi del danneggiato 44, tenuto conto che, come accennato, la preclusione all’esame nel merito
impedisce l’applicabilità dell’art. 129, comma 2, c.p.p.
Un’altra ipotesi nella quale, pure, l’art. 624 c.p.p. trova applicazione è quella prevista dall’art. 238 bis
c.p.p. che consente l’acquisizione al fascicolo del dibattimento, ai fini della prova dei fatti in esse accertati, di sentenze che siano divenute irrevocabili.
Premesso che, in tale ipotesi, a differenza di quelle contemplate dagli art. 651 ss. c.p.p., non è appropriato parlare di un’autorità di giudicato esplicata dalla sentenza pronunciata nel giudizio a quo, cionondimeno è evidente come, per le stesse ragioni già enucleate, la preclusione che si fosse formata in
relazione ai «fatti» da essa accertati rende utilizzabile la sentenza nella «parte» non oggetto di annullamento 45.
Va ribadito, però, che, al di fuori di tali evenienze, l’art. 624 c.p.p. non produce alcun giudicato e le
eventuali limitazioni che si possono deteminare in sede di giudizio di rinvio per effetto di annullamenti
parziali vanno ricostruite nell’ambito della teoria della preclusioni processuali 46 che impediscono il riesame di quelle parti della sentenza non colpite dall’annullamento né ad esse inscindibilmente connesse 47, in conformità con quanto si verifica qualora, nel corso dell’ordinario giudizio di cognizione, essendo stata proposta impugnazione su punti diversi da quelli attinenti alla sussistenza del reato ed alla
penale responsabilità dell’imputato, sopravvenga, nelle more del giudizio di impugnazione, la scadenza del termine prescrizionale 48.
Del resto, qualora l’annullamento abbia riguardato il solo trattamento sanzionatorio, le determinazioni in punto di pena cui dovesse pervenire il giudice del rinvio potrebbero non risultare ininfluenti
44
Cfr. Cass. civ., 21 giugno 2010, n. 14921, in CED Cass n. 613677 che, a proposito del reato dichiarato estinto per prescrizione dopo che in primo o in secondo grado sia stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei
danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, ha statuito che siccome il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel
dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi
della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 c.p.p.), tale decisione, se la condanna alle restituzioni o al risarcimento
ne resta confermata, comporta necessariamente, come suo indispensabile presupposto, l’affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato. Essa pertanto, dà luogo a un giudicato civile, come tale vincolante in ogni
altro giudizio tra le stesse parti, nel quale si verta sulle conseguenze, anche diverse dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità, ormai definitivamente stabilita, non può più venire in questione. Sul punto, si v. anche Cass., sez.
un. civ., 26 gennaio 2011, n. 1768, in Proc. pen. giust., 2011, 3, p. 104 con nota di R. Puglisi, Giudicato penale ed azione civile in caso di
proscioglimento per estinzione del reato, secondo il quale la disposizione di cui all’art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651,
653 e 654 del codice di rito penale) costituisce un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e
civile, in quanto tale soggetta ad un’interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. La sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale, benché, per giungere a tale
conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto. In quest’ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi
di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione.
45
Così, Cass., sez. I, 2 dicembre 1999, n. 1710, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 538 con nota adesiva di L. Iafisco, Ennesimo intervento della Corte di cassazione, cit., il quale riconnette l’utilizzabilità come prova documentale della sentenza in considerazione
del principio della formazione progressiva del giudicato penale.
46
Così, A. Bargi, Il ricorso per cassazione, cit., 649; F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio, cit. 41; Id., Gli ambiti decisori del giudizio di
rinvio, cit., p. 721.
47
Così la giurisprudenza formatasi prima dell’orientamento poi fatto proprio dalla giurisprudenza delle sezioni unite (cfr., tra
le tante, Cass., sez. III, 27 gennaio 1987, F., in Cass. pen., 1988, p. 1668; Cass., sez.I, 4 febbraio 1988, Z., in Cass. pen., 1989, p. 1032;
Cass., sez. VI, 16 luglio 1990, T., in CED Cass. n. 186458). In dottrina, oggi, F. Dinacci, Il giudizio di rinvio, cit., p. 41 ed Id., Gli ambiti
decisori del giudizio di rinvio, cit., p. 721; nel vigore del codice 1930, G. Petrella, Le impugnazioni nel processo penale, II, Milano, 1965, p.
554 e ss.
48
Non condivisibile, pertanto, quanto affermato da Trib. Milano, sez. XII, 28 giugno 2011, in Foro amb., 2012, 2, p. 178 secondo il quale, nel caso di ricorso per cassazione avverso una sentenza di secondo grado proposta dal solo procuratore generae, la
pronuncia di condanna per i capi non impugnati diventa irrevocabile in virtù del principio del c.d. giudicato progressivo.
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sulla quantificazione del termine necessario per la prescrizione.
Sebbene in seguito alla riforma apportata alla disciplina della prescrizione del reato ad opera della
legge 5 dicembre 2010, n. 251, la problematica assuma una portata sicuramente meno significativa rispetto a quanto avvenisse in passato, ove il bilanciamento delle circostanze poteva giocare un peso non
indifferente rispetto all’operatività della causa di estinzione del reato, è indubbio come, ancora oggi, ad
esempio, il riconoscimento o meno della recidiva ovvero di un’aggravante ad effetto speciale non sia
ininfluente ai fini della prescrizione del reato 49.
E, a ben vedere, nel panorama giurisprudenziale non mancano decisioni nelle quali la stessa corte di
cassazione sembra chiaramente abdicare alla propria impostazione 50.
Così, nel caso di annullamento con rinvio disposto esclusivamente ai fini della determinazione della
pena, non sempre viene esclusa la rilevanza dello ius superveniens che incida sull’affermazione della responsabilità 51. La corte di cassazione, ad esempio, anziché rinviare alla fase esecutiva ai sensi dell’art.
673 c.p.p. la questione, ammette che la sopravvenuta abolitio criminis possa essere riconosciuta dal giudice del rinvio anche quando l’annullamento non abbia attinto i punti della decisione riguardanti i presupposti della condanna 52.
Analogamente, anche nel caso di remissione di querela intevenuta nel giudizio di rinvio celebrato a
seguito di annullamento concernente solo il punto della determinazione della pena, la corte ha ritenuto
operante la causa di estinzione del reato 53; tale decisione, ai fini della verifica della tenuta complessiva
del ragionamento della corte, è particolarmente significativa se si considera che l’art. 152, comma 3, c.p.
ammette che la remissione possa utilmente intervenire solo «prima della condanna» 54.
Alla stessa soluzione si è giunti nel caso di morte dell’imputato sopravvenuta in pendenza del giudizio di rinvio 55.
Nessun ostacolo all’esperibilità del rimedio di cui all’art. 625-bis c.p.p., invece, può costituire la circostanza per la quale la sentenza della corte di cassazione non sia divenuta interamente irrevocabile 56,
poiché, a ben vedere, non solo il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto può essere propo-
49
Così, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2010, Cass., sez. I, 10 giugno 2000, n. 7548, in Cass.pen., 2001, p.
1277 che, in sede di rinvio determinato da annullamento sul mancato riconoscimento di una circostanza, a seguito del riconoscimento delle generiche, essendosi abbassata la soglia della pena edittale al di sotto dei cinque anni, aveva dichiarato l’estinzione
del reato per prescrizione.
In base all’art. 157, comma 2, c.p. per determinare il tempo necessario a prescrivere si deve tener conto delle aggravanti per
le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria o quelle ad effetto speciale. Ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., poi, che richiama i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p., diventa rilevante anche la circostanza di cui all’art. 7 d.l.
13 maggio 1991, n. 152 conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203.
50
Sul tema, L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, 2008, p. 312.
51
Così, recentemente, Cass., sez. VI, 5 novembre 2010, n. 9028, in CED Cass. n. 249680 che, in un caso di annullamento con
rinvio disposto esclusivamente ai fini della determinazione della pena, ha ritenuto che il giudice del rinvio legittimamente avesse pronunciato sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto per applicare gli effetti di una sentenza della Corte di giustizia europea (nella specie Corte di Giustizia della Comunità europee, 8 novembre 2007, in causa Schwlbert in tema di vendita di
supporti privi di contrassegno SIAE) che aveva dichiarato l’incompatibilità con il diritto comunitario della norma nazionale dalla quale dipende l’applicazione della norma incriminatrice.
52
Analogamente, Cass., sez. VI, 19 ottobre 2010, n. 41683, in CED Cass. n. 248720.
53
Cass., sez. I, 7 ottobre 2008, n. 42994, Cass. pen., 2009, p. 4296.
54
Un’ulteriore considerazione merita, poi, la problematica concernente la rilevanza della prova nuova idonea a travolgere
l’affermazione di responsabilità dell’imputato ed emersa solo nel giudizio di rinvio disposto per le determinazioni inerenti la
pena. Sebbene la questione non sembri essere stata affrontata ex professo, Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, C., cit. nel respingere la
questione di costituzionalità sollevata in relazione alla disparità di trattamento che si potrebbe verificare nel trattamento di situazioni sostanzialmente identiche, ha implicitamente confermato che non sarebbe ammissibile una richiesta di revisione prima
della irrevocabilità dell’intero provvedimento. Tale soluzione, oltre a confermare ulteriormente la incoerenza cui dà luogo
l’indirizzo seguito dalla corte, non sarebbe neppure del tutto privo di inconvenienti sul piano della compatibilità con il principio
di eguaglianza. Sul punto, M. Busetto, Annullamento parziale, cit., p. 2486 ed ivi note 23 e 24.
55
Cass., sez. III, 26 novembre 2003, n. 974, in CED Cass. n. 227678.
56
Così Cass., sez. VI, 8 giugno 2010, n. 25977 in Cass.pen., 2011, p. 3493 e Cass., sez. V, 21 novembre 2007, n. 217, Cass. pen.,
2009, p. 642 che hanno ritenuto ammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto il condannato con sentenza pronunciata
dalla corte di cassazione che aveva disposto annullamento con rinvio limitatamente alla necessità di rideterminare il trattamento sanzionatorio; contra, Cass., sez. I, 15 giugno 2007, n. 24569, Cass.pen., 2009, p. 641. In seguito a tale contrasto, Cass., sez. un.,
17 luglio 2012, B., in Cass. pen., 2013, p. 2600 con nota di A. Capone, Annullamento parziale con rinvio e ricorso straordinario.
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sto dal «condannato», ma l’errore che lo giustifica potrebbe aver inciso proprio su quelle parti della sentenza che esplicano l’autorità di giudicato.
Criticabile, però, la conclusione in forza della quale non potrebbe trovare applicazione la legge più favorevole entrata in vigore dopo la sentenza della corte di cassazione che dispone l’annullamento con rinvio ai
soli fini della determinazione della pena, ma prima delle definizione di questa ulteriore fase del giudizio,
poiché i limiti della pronunzia rescindente determinerebbero l’irrevocabiltià della decisione impugnata 57.
SEGUE: GIUDICATO PARZIALE ED IRREVOCABILITÀ DELLA SENTENZA
Dall’esatto inquadramento dell’art. 624 c.p.p. non possono non derivare perplessità in merito alla prassi
secondo cui la sentenza di condanna per la parte divenuta irrevocabile potrebbe essere addirittura posta in esecuzione in caso di rinvio parziale disposto dalla corte di cassazione per tutte le ipotesi in cui,
pur essendo stata annullata parzialmente la sentenza di condanna con rinvio al giudice di merito, la
pena minima cui il condannato deve essere sottoposto risulti determinata 58.
È vero anche che, secondo talune decisioni, in applicazione del giudicato progressivo, si è ritenuto
che, qualora la parte della sentenza non annullata contenga già l’indicazione della pena da eseguire, la
condanna potrebbe essere messa in esecuzione 59.
Tuttavia, l’art. 650 c.p.p. è, sul punto, di una chiarezza esemplare nell’affermare che le sentenze ed i
decreti penali di condanna hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili 60 e, sebbene tale
disposizione faccia salve le limitazioni previste dalla legge, è indubbio come tra queste non possa essere
ricompresa la previsione di cui all’art. 624 c.p.p. la quale, come osservato, opera solo un’anticipazione
della forza di giudicato delle sentenze ma non della esecutorietà 61.
Va sottolineato che la linearità della conclusione alla quale si perviene dal coordinamento degli artt.
624 e 648 c.p.p., anche per le sue ricadute sulla esecutorietà della sentenza, potrebbe essere apparentemente ritenuta inficiata dal rilievo che il comma 2 della prima disposizione consente alla corte di cassazione di dichiarare nel dispositivo, quanto occorre, «quali parti della sentenza diventano irrevocabili».
Sul piano letterale, la previsione in esame potrebbe far pensare che il fenomeno del c.d. giudicato progressivo produca anche irrevocabilità parziali e che, dunque, essa non solo caratterizzerebbe la sentenza
nella sua interezza ma anche sue singole componenti. E a tale riguardo, sempre a sostegno della obiezione
alla tesi qui sostenuta, potrebbe anche assumere rilievo un dato di carattere storico emergente dal confronto tra l’art. 624 e l’art. 545 c.p.p. 1930, non potendo sfuggire che, mentre il secondo attribuiva alla corte
di cassazione il potere di dichiarare le parti della sentenza rimaste in vigore, oggi il primo attribuisce alla
corte di cassazione il potere di dichiarare le parti della sentenza che diventano irrevocabili 62.
57
Sul punto, in relazione all’esclusione dell’applicabilità della l. 6 novembre 2012, n. 190 nel giudizio di rinvio disposto ai soli fini della determinazione della pena, Cass.sez.un., 27 marzo 2014, n. 16208, in Cass. pen., 2014, p. 2833, con nota di L. Ludovici,
Le sezioni unite sui rapporti tra divieto della reformatio in peius e reato continuato.
58
Così, in relazione ad annullamento con rinvio disposto in relazione a reati tra loro unificati dal vincolo della continuazione, Cass. sez. I, 19 giugno 2013, n. 32477, in Cass. pen., 2014, p. 2174 con nota di L. Cercola; Cass., sez. I, 21 febbraio 2013, n.
15949, in CED Cass. n. 256255; Cass., sez. I, 21 settembre 2012, n. 41941, in CED Cass. n. 253622, in relazione ad una fattispecie
nella quale l’annullamento concerneva la sussistenza di una circostanza aggravante; conf. Cass., sez. I, 5 giugno 2912, n. 23592, in
CED Cass. n. 253337; Cass., sez. V, 2 luglio 2007, n. 2541, in Cass. pen., 2006, p. 1507; Cass., sez. I, 20 marzo 2000, n. 2071, Arch. n.
proc. pen., 2002, p. 412. Tale orientamento va fatto risalire a Cass., sez.un., 9 ottobre 1996, V., cit.
59
Sul punto, Corte cost., 30 ottobre 1996, n. 367, cit. che pur facendo riferimento al giudicato parziale che si forma ai sensi
dell’art. 624 c.p.p., in motivazione sembrano accostare i caratteri della esecutorietà alla definitività: «non si è in presenza di una
condanna allorché è stata accertata soltanto la responsabilità dell’imputato, ma non è ancora stata applicata la pena relativa».
60
Ritengono che il concetto di esecutività sia collegato inscindibilmente a quello di irrevocabilità, B. Lavarini, L’esecutività
della sentenza penale, cit., p. 37; A. Giovene, Giudicato, cit., p. 425.
61
Secondo la dottrina, due sono i casi riconducibili alla clausola di salvezza prevista dall’art. 650 c.p.p.: le sentenze di non
luogo a procedere o di proscioglimento, la cui pronuncia comporta l’immediata liberazione dell’imputato in viculis (art. 300
c.p.p.) e la restituzione delle cose sequestrate all’avente diritto (art. 253 c.p.p.); le sentenze di condanna alla restituzione ed al
risarcimento del danno le quali, se pronunciate in grado di appello, sono provvisoriamente esecutive ex lege (art. 605 c.p.p.)
mentre se pronunciate in primo grado possono essere dichiarate tali a richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati
motivi (art. 540 c.p.p.). Così, G. Dean, L’esecuzione penale, in AA.VV., Procedura penale, III ed., Torino, 2014, p. 939-940.
62
Mette in evidenza tale argomento, G. Spangher, Bis in idem, cit., p. 2506. Secondo A. Bargi, Il ricorso per cassazione, cit., p.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA VEXATA QUAESTIO RELATIVA ALLA PRONUNCIA DI PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
139
Stante, tuttavia, il disposto di cui all’art. 648 c.p.p. – che definisce la irrevocabilità come un predicato
della sentenza – non solo sembra logico ritenere che l’art. 624 c.p.p. impieghi il termine «irrevocabilità»
in riferimento a parti di essa in un’accezione del tutto differente rispetto a quella postulata dalla norma
di carattere generale, ma è evidente come l’art. 624 c.p.p., non incidendo sulle condizioni da cui dipende la irrevocabilità della sentenza, consente semplicemente di definire un’anticipazione di quegli eventuali effetti che, di regola, sono un portato della irrevocabilità e che sono di volta in volta definiti a seconda del procedimento extrapenale nel quale la sentenza penale deve esplicare i suoi effetti.
IL FATTORE TEMPO E GLI EFFETTI ESTINTIVI DEL REATO E DELLA PENA
A conclusione del ragionamento svolto, va anche osservato che l’analisi delle decisioni della corte di
cassazione, che hanno affermato il principio in forza del quale l’annullamento della sentenza con riferimento ai punti che concernono solo il trattamento sanzionatorio non consentirebbe più di rilevare
l’estinzione del reato, fa emergere come il problema in esame sia stato sempre affrontato sul piano processuale senza, cioè, alcuna considerazione della sua prospettiva sostanziale.
Indubbiamente, è condivisibile il ragionamento proprio di quella giurisprudenza che ritiene che, siccome la prescrizione riguarda il reato, una volta divenuta irrevocabile la sentenza il tempo necessario a
determinarne l’estinzione non decorre più; peccato che tale conclusione non viene poi correttamente
applicata.
Occorre considerare, infatti, come gli effetti del fattore tempo che si riverberano sul reato e sulla pena debbano essere ricostruiti avendo riguardo al quadro normativo di riferimento.
Il codice penale, infatti, tiene distinti due differenti istituti, l’estinzione del reato, da una parte, e
l’estinzione della pena, dall’altro, tra i quali non sembra sussistere discontinuità.
Apparentemente, l’art. 157 c.p., nel disegnare i segmenti temporali necessari per determinare l’effetto estintivo del reato e nello specificare chiaramente il dies a quo (variamente stabilito a seconda delle
forme di manifestazione dello stesso (art. 158 c.p.) di ciascuno di essi), non indica quale sia il termine
finale o, meglio, quale sia il fatto giuridico che deve sopravvenire prima che sia integralmente decorso
il tempo stabilito, per le differenti classi di reati, per la prescrizione.
Tuttavia, proprio dalla connessione tra i due istituti, quello della prescrizione del reato e quello della
pena, è agevolmente individuabile quale sia tale fatto.
In base all’art. 172 c.p., infatti, le pene si estinguono con il decorso di un tempo (a seconda dell’entità
della pena, pari al doppio di quella inflitta e, comunque, mai inferiore a 10 anni) che inizia a trascorrere
dal giorno in cui «la condanna è divenuta irrevocabile» ovvero dal giorno in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena.
Il combinato disposto degli articoli esaminati, dunque, lascia intendere chiaramente che l’elemento che fa
mutare l’effetto giuridico prodotto dall’inesorabile decorso del tempo è costituito dalla condanna irrevocabile.
Sebbene, sul piano della tecnica normativa, anche la locuzione contenuta nel codice penale non sia ineccepibile, perché la irrevocabilità è un attributo della sentenza mentre “condanna” è solo un contenuto possibile di essa, è agevole comprendere il significato della espressione contenuta nell’art. 172 c.p. In sostanza, il
tempo necessario alla prescrizione della pena comincia a decorrere dal momento in cui la “condanna” può
essere eseguita e, dunque, allorquando è possibile l’emissione dell’ordine di carcerazione.
Sul piano strettamente letterale, non si può prescindere da quanto dispone l’art. 648 c.p.p. alla stregua del
quale, come accennato, «sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa
impugnazione diversa dalla revisione»; per cui, proseguendo nella riflessione, è ben chiaro che collegando
tale disposizioni all’art. 177 c.p. si ricava che ciò cui si riferisce la irrevocabilità è la «sentenza».
Dunque, combinando quanto dispone il codice penale con la disciplina processuale della sentenza
irrevocabile, può concludersi che solo la definitività su tutte le questioni di cui si compone la sentenza
neutralizza gli effetti relativi al decorso del tempo.
Soprattutto, dalla sistematica del codice penale, si deduce che non vi sono tempi morti e soluzioni di
650-651, però, esse non sarebbe irresistibile. La disposizione di cui all’art. 624, comma 2, c.p.p. non sarebbe affatto superflua potendo risultare necessaria per individuare le «parti» che non hanno connessioni essenziale con la parte annullata perché in casi
particolari potrà rendersi indispensabile esaminare se le varie disposizione di una sentenza o di una sua parte, o le singole parti
di una sentenza siano inscindibili tra loro per motivi di connessione essenziale.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA VEXATA QUAESTIO RELATIVA ALLA PRONUNCIA DI PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
140
continuo tra il momento in cui cessa il decorso del tempo utile ai fini della estinzione del reato e quello
necessario per la prescrizione della pena 63.
CONCLUSIONI
La soluzione che le sezioni unite hanno fornito alla controversa problematica della rilevabilità della
prescrizione nel giudizio di rinvio disposto in seguito ad annullamento della sentenza limitatamente
alla pena è, dunque, tutt’altro che convincente e, soprattutto, non priva di inconvenienti, come testimoniato da talune applicazioni prive di coerenza.
L’esame di queste ultime, infatti, ha dimostrato come la stessa corte, sovente, a seconda delle contingenze, abbia disapplicato il proprio insegnamento riconoscendo che alcune cause di estinzione del reato
sopravvenute all’annullamento possano essere applicate nel giudizio di rinvio, in totale controtendenza
con l’asserita formazione del giudicato progressivo.
L’idea che si ricava dalla ricostruzione del percorso giurisprudenziale consolidato è che la corte,
piuttosto che alla purezza del sistema ed alla coerenza del ragionamento, abbia avuto di mira esigenze
pratiche, e segnatamente l’individuazione di un meccanismo tale da scongiurare la prescrizione dei reati, ricorrente doglianza contenuta nelle relazioni inaugurali degli anni giudiziari susseguitesi negli ultimi tempi 64.
Qualche anno fa analoghe esigenze avevano ispirato la soluzione raggiunta con riferimento alla rilevabilità della prescrizione nel caso di inammissibilità del ricorso per cassazione dichiarato dalla corte
per manifesta infondatezza dei motivi. Anche in relazione a tale problematica dalle enormi conseguenze pratiche è occorso un lungo lavorio delle sezioni unite prima che si affermasse il principio, oggi indiscusso, in forza del quale l’inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare la prescrizione 65.
In entrambe le vicende, quel che balza evidente è l’intento della corte di escogitare soluzioni creative
per arginare un fenomeno in costante crescita. Ed in attesa che i venti delle riforme, più volte e da più
parti sollecitati, pongano rimedio alla prolematica dei tempi del processo e della prescrizione del reato 66, la corte supplisce con rimedi non sempre lineari e tecnicamente ineccepibili svolgendovi anche
una buona guardia per evitare che derive incontrollate possano rimettere in discussione le posizioni faticosamente raggiunte.
63
Sul punto, occorre evidenziare che Cass., sez.un., 26 marzo 1997, A., cit., aveva preso in considerazione tale argomento ritenendo possibile uno iato temporale tra il decorso del tempo rilevanti ai fini della estinzione del reato e quello finalizzato alla
estinzione della pena sulla base del rilievo che la «irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando, come
nel caso in esame, si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell’imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena è quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo […]. Il fatto che, esclusa la prescrizione
del reato per il giudicato progressivo formatosi, non cominci ancora a decorrere la prescrizione della pena fino all’esaurimento
del giudizio di rinvio con l’inflizione della sanzione, dipende dall’inattualità di una condanna irrevocabile per l’impossibilità di
dare esecuzione ad una pena non ancora determinata».
Il ragionamento, però, sembra muovere da una inversione dei termini del problema, perché si ricostruisce il sistema delineato dal codice penale alla luce di ciò che stabilirebbero le norme processuali mentre dovrebbe essere chiaro, stante la natura degli
istituti di cui si tratta notoriamente appartenenti al diritto sostanziale, che dal punto di vista metodologico il ragionamento dovrebbe procedere in maniera opposta.
64
Si v. ad esempio la relazione tenuta a Roma il 23 gennaio 2015 sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del primo presidente dott. Santacroce, in http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/inaugurazioni_anno_giudiziario.
65
Sul tema, Cass., sez. un., 27 giugno 2001, C., in Cass. pen., 2002, p. 81; Cass., sez. un., 22 novembre 2000, D.L., in Foro it.,
2001, II, c.341; Cass., sez. un., 30 giugno 1999, P., in Cass. pen., 2000, p.25. In dottrina, sull’argomento, Selezione dei ricorsi penali e
verifica d’inammissibilità, Torino, 2004, p. 144.
66
È attualmente pendente presso il Senato la trattazione del d.l. n. 1844 recante “Modifiche al codice penale in materia di
prescrizione del reato” (già approvato dalla Camera dei Deputati in data 25 marzo 2015) che, con l’art. 3, aggiunge il comma 2
all’art. 159 c.p. con la previsione che il corso della prescrizione rimane sospeso, tra l’altro, dal deposito della sentenza di secondo
grado, anche se pronunuciata in sede di rinvio, per un tempo comunque non superiore a un anno, oltre i termini previsti
dall’art. 544, commi 2 e 3, c.p.p.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA VEXATA QUAESTIO RELATIVA ALLA PRONUNCIA DI PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
141
Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Giada Bocellari
Decisioni in contrasto
34
Orietta Bruno
De jure condendo
16
Luigi Cuomo
Reti “client-server” ed accesso abusivo a sistema informatico: le Sezioni Unite individuano i criteri
per stabilire la competenza territoriale / “Client server networks” and unauthorized access to computer systems: the Great Chamber specifies the rules to establish territorial competence
82
Alessandro Diddi
La vexata quaestio relativa alla pronuncia di prescrizione dopo l’annullamento parziale della sentenza: le Sezioni Unite fanno buona guardia / The united Chambers of the Court of Cassation confirms
the inhibition to declare the extinction of the crime when a new trial – set after a “partial annulment” – occurs
123
Filippo Giunchedi
La Cassazione e la tela di Penelope. I giudici “guardiani” dell’equo processo / Supreme Court
and Penelope’s canvas. Judges are the fair trial “guardians”
43
Rosa Gaia Grassia
Sezioni Unite
29
Luca Lupària
Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e vedute nazionali / Fight against economic crimes and role of criminal process: comparative views and
national perspectives
1
Wanda Nocerino
Corte costituzionale
24
Lorena Puccetti
Non punibilità per particolare tenuità del fatto: natura sostanziale e applicazione retroattiva ai
procedimenti in corso / The new Institution of the particular tenuity of the fact: substantial nature
and retrospettive application to ongoing proceedings
68
Stefano Ruggeri
Procedimento per decreto penale e opposizione preventiva del querelante. Linee-guida per un
modello partecipativo di giustizia penale monitoria / Penal order and preventative opposition of
the complainant. Guide-lines for a participatory model of penal order proceedings
58
Francesca Ruggeri
Ordine di protezione europeo e legislazione italiana di attuazione: un’analisi e qualche perplessità / The European protection order and the Italian law complying with the Directive
2011/99/EU: an analysis and some questions
99
Marcello Stellin
Corti europee / European Courts
19
INDICI
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
Elga Turco
La riforma delle misure cautelari / The reform of the precautionary measures
Pietro Zoerle
Novità sovranazionali / Supranational news
142
106
10
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., sent. 27 febbraio 2015, n. 23
C. cost., sent 5 giugno 2015, n. 97
C. cost., sent 15 giugno 2015, n. 109
C. cost., sent 9 luglio 2015, n. 139
51
25
24
26
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 26 marzo 2015, n. 17325
sentenza 10 giugno 2015, n. 24630
sentenza 17 luglio 2015, n. 31022
sentenza 21 luglio 2015, n. 31617
78
29
30
31
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 11648
Sezione III, sentenza 15 aprile 2015, n. 15449
37
66
Corte europea dei diritti dell’uomo
Corte e.d.u., 28 maggio 2015, Y c. Slovenia
Corte e.d.u., 18 giugno 2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina
Corte e.d.u., 23 giugno 2015, Butnaru e Bejan-Piser c. Romania
19
22
20
Atti sovranazionali
Legge 6 maggio 2015, n. 63 autorizzante la ratifica di due Accordi bilaterali conclusi con il
Montenegro il 15 luglio 2013 volti, rispettivamente, all’applicazione della «Convenzione
europea di estradizione (Parigi, 1957) e la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in
materia penale (Strasburgo, 1959)»
Legge 16 giugno 2015, n. 79 «Ratifica del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra
Repubblica Italiana e la Repubblica del Kazakistan (Astana, 2013)»
10
13
De jure condendo
Disegno di legge S. 1687 «Modifiche alle norme di attuazione del codice di procedura penale, al codice
penale, al codice civile e ad altri testi normativi per un contrasto più efficace del fenomeno corruttivo delle accumulazioni illeciti di ricchezza da parte della criminalità organizzata anche mafiosa. Disposizioni
per la prevenzione del riciclaggio nei contratti pubblici e nell’erogazione dei finanziamenti pubblici»
Disegno di legge C. 3093 «Modifiche all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e
all’articolo 380 del codice di procedura penale, concernenti il delitto di travisamento in occasione di
manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico»
Disegno di legge C. 3009 «Modifiche al codice di procedura penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice, di cui al decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271, in materia di revisione del processo a seguito di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo»
16
17
17
Decisioni in contrasto
Sezione I, 8 giugno 2015, n. 24399
INDICI
34
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
143
– territoriale
 Accesso abusivo a sistema informatico e competenza territoriale (Cass., sez. un., 26 marzo
2015, n. 17325), con nota di Luigi Cuomo
75
MATERIE / TOPICS
Competenza
Confisca
 L’effetto domino della sentenza Lorenzetti: “porte aperte” per la confisca in executivis / C.
cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109)
 Confisca e causa estintiva del reato: la misura sopravvive alla prescrizione solo se diretta e
preceduta da sentenza di condanna (Cass., sez. un., 21 luglio 2015, n. 31617)
31
Contestazioni (tardive)
 Contestazioni tardive: dalla violazione del diritto di difesa al pericolo di una “discriminazione alla rovescia” (C. cost., 9 luglio 2015, n. 139)
26
Corte di cassazione
 Violazione dei diritti dell’equo processo e loro applicabilità d’ufficio nel giudizio di cassazione (Cass., sez. III, 20 marzo 2015, n. 11648), con nota di Filippo Giunchedi
34
Decreto penale di condanna
 Il querelante non può più opporsi al decreto penale di condanna (C. cost., sent. 27 febbraio
2015, n. 23), con nota di Stefano Ruggeri
48
Definizioni alternative del procedimento
 Particolare tenuità del fatto e procedimenti pendenti (Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449),
con nota di Lorena Puccetti
66
Difesa e difensori
 Divieto di tortura-Libertà morale-Assistenza difensiva (Corte e.d.u., 18 giugno 2015, Ushakov
e Ushakova c. Ucraina)
 Contestazioni tardive: dalla violazione del diritto di difesa al pericolo di una “discriminazione alla rovescia” (C. cost., 9 luglio 2015, n. 139)
24
22
26
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Divieto di tortura-Libertà morale-Assistenza difensiva (Corte e.d.u., 18 giugno 2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina)
22
Estradizione e (assistenza giudiziaria)
 Due accordi tra Italia e Montenegro per facilitare l’applicazione della Convenzione europea
di estradizione (Parigi, 1957) e di assistenza giudiziaria (Disegno di legge S. 1687 «Modifiche
alle norme di attuazione del codice di procedura penale, al codice penale, al codice civile e ad altri testi normativi per un contrasto più efficace del fenomeno corruttivo delle accumulazioni illeciti di ricchezza da parte della criminalità organizzata anche mafiosa. Disposizioni per la prevenzione del riciclaggio nei contratti pubblici e nell’erogazione dei finanziamenti pubblici»)
10
Esecuzione
– Tribunale di sorveglianza
 L’illegittimità costituzionale del processo “segreto” dinanzi al Tribunale di sorveglianza (C.
cost., sent. 5 giugno 2015, n. 97)
 Abolitio criminis e revoca della sentenza: i poteri del giudice dell’esecuzione in caso di erro-
INDICI
25
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
144
re del giudice di cognizione nell’interpretazione della norma penale (Cass., sez. I, 8 giugno
2015, n. 24399)
34
Invalidità
– nullità
 Nullità a regime assoluto in caso di omesso avviso dell’udienza camerale al difensore di fiducia (Cass., sez. un., 10 giugno 2015, n. 24630)
Misure cautelari (in genere)
 La riforma delle misure cautelari/The reform of the precautionary measures, di Elga Turco
29
106
Misure cautelari reali
– sequestro preventivo
 Siti e pagine web di giornali online: ammissibilità e limiti della sequestrabilità (Cass., sez. un.,
17 luglio 2015, n. 31022)
30
Ne bis in idem
 Ne bis in idem (Corte e.d.u. 23 giugno 2015, Butnaru e Bejan-Piser c. Romania)
20
Ordine di protezione europeo (e legislazione italiana)
 Ordine di protezione europeo e legislazione italiana di attuazione: un’analisi e qualche
perplessità / The European protection order and the Italian law complying whit the Directives
2011/99/EU: an analysis and some questions, di Francesca Ruggieri
99
Ordinamento penitenziario
 Il trattato fra Italia e Kazachistan sul trasferimento delle persone condannate (Legge 16 giugno 2015, n. 79 «Ratifica del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra Repubblica Italiana e la Repubblica del Kazakistan»)
13
Persona offesa
 Tutela della vittima vulnerabile – Cross examination (Corte e.d.u., 28 maggio 2015, Y. C. Slovenia)
19
Processo penale
 Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e
vedute nazionali / Fight against economic crimes and role of criminal process: comparative views
and national perspectives
 La vexata quaestio relativa alla pronuncia di prescrizione dopo l’annullamento parziale della
sentenza: le Sezioni Unite fanno buona guardia / The united Chamber of the Court of Cassation
confirms the inhibition to declare the extinction of crime when a new trial – set after a “partial annulment – occurs
127
Revisione
 Revisione del processo a seguito di sentenze della CEDU (Disegno di legge C. 3009 «Modifiche al codice di procedura penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in materia di revisione del processo a
seguito di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo»)
17
Sentenza
 La vexata quaestio relativa alla pronuncia di prescrizione dopo l’annullamento parziale della
sentenza: le Sezioni Unite fanno buona guardia / The united Chamber of the Court of Cassation
INDICI
1
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
145
confirms the inhibition to declare the extinction of crime when a new trial – set after a “partial annulment – occurs
127
Sicurezza pubblica
 Contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti (Disegno di legge S. 1687 «Modifiche alle norme di attuazione del codice di procedura penale, al codice penale, al codice civile e ad altri testi normativi per un contrasto più efficace del fenomeno corruttivo delle accumulazioni illeciti
di ricchezza da parte della criminalità organizzata anche mafiosa. Disposizioni per la prevenzione del
riciclaggio nei contratti pubblici e nell’erogazione dei finanziamenti pubblici»)
 Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e
vedute nazionali / Fight against economic crimes and role of criminal process: comparative views
and national perspectives, di Luca Lupària
 Travisamento in caso di manifestazioni e cortei (Disegno di legge C. 3093 «Modifiche
all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e all’articolo 380 del codice di procedura penale,
concernenti il delitto di travisamento in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico»)
17
Testimonianza
 Tutela della vittima vulnerabile – Cross examination (Corte e.d.u., 28 maggio 2015, Y. C. Slovenia)
19
INDICI
16
1