Sommario n. 1 Febbraio-Marzo 2008 Musica a Bologna I programmi di Musica Insieme Intervista Il calendario Il MAMbo di Sassoli de Bianchi di Fabrizio Festa I Concerti: Febbraio/Marzo 2008 Mikhail Kopelman, l’anima russa del quartetto di Alessandro Di Marco 27 16 18 Intervista Il violino di Daniel Hope di Alessandra Masini Argomenti Intervallo MICO 3 e la molteplicità dell’attuale di Fulvia de Colle Chi era costui? 39 20 Per leggere Profili Da Czerny al Novecento Stockhausen: il genio e lo zen di Carlo Vitali 36 di Chiara Sirk 40 24 Da ascoltare L’Alban Berg: bellezza fatta musica Luoghi della musica La chiesa di Santa Lucia di Maria Pace Marzocchi In copertina: Alban Berg Quartett 2 25 di Alberto Spano 41 Nel mentre ci accingiamo a scrivere queste righe, la vicenda del Manzoni non ha ancora trovato una soluzione. Indipendentemente, però, da quale sarà l’esito del bando di assegnazione, il semplice fatto che ci sia stata una sola risposta la dice lunga sulla speciale natura dell’intera vicenda. Non è questo il luogo per una ricostruzione storica. Certo è che fin dagli inizi, avendo il Comune di Bologna deciso di non interessarsi di quell’Auditorium, che pure aveva ritenuto un bene indispensabile per la vita di questa città al punto da decidere di realizzarlo a proprie spese, non è cominciata nel migliore dei modi. Che significato ha che una municipalità, in una città come la nostra, che pretende di essere un polo culturale di riferimento per il paese e per l’Europa, si doti di una struttura come il Manzoni, e poi seriamente pensi che possa essere gestita da privati senza il suo concorso (e non solo finanziario)? La domanda non ha avuto e non ha ancora una risposta. Anche perché la cessione al Teatro Comunale (in teoria, esso pure un “privato”) è avvenuta, per così dire, obtorto collo, e probabilmente la voglia di abbandonare già ora la sala al suo destino è forte. Se sommiamo la questione Manzoni a quella Duse, altra sala a rischio, ecco che il sistema dello spettacolo dal vivo a Bologna mostra un profondo vulnus proprio in una delle sue componenti essenziali: quella del corretto uso degli spazi, un uso che dovrebbe essere razionale, funzionale, ottimizzato in relazione non solo ai costi, ma anche, e soprattutto, agli scopi. Si torna così al vero nodo: al di là dei fin troppo ricorrenti inviti ai privati (operatori e sponsor), non sono ancora chiare le linee della politica culturale, sulle quali peraltro dovrebbero allinearsi anche quegli operatori privati a cui il Comune si rivolge. Da qui discendono quei problemi, che tuttora stentano a trovare soluzione, fra i quali ovviamente quello dell’uso e della funzione degli spazi è davvero in prima fila. In attesa di... di Fabrizio Festa 3 Dalle stanze del MAMbo, il nuovo Museo d’Arte Moderna dalla spiccata vocazione innovatrice e sperimentale, il presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi invita Bologna a guardare oltre La sindrome dell’arrocco di Fabrizio Festa Le vicende legate alla Galleria d’Arte Moderna (GAM) prima, e ora al Museo d’Arte Moderna (MAMbo), sono, come i lettori più informati sapranno, complesse e diversamente articolate. Certo è che da quando il 5 maggio dello scorso anno il nuovo spazio museale bolognese ha aperto i battenti, la speranza di un ulteriore arricchimento della vita artistica e culturale nella nostra città ha assunto una maggiore concretezza. Intorno al MAMbo (acronimo dal gustoso sapore musicale) si sono, infatti, focalizzate diverse attese. Quelle degli artisti da un lato. Bologna, sebbene sempre senza farlo sapere, ospita tra i maggiori artisti figurativi e performer d’Italia. Ognuno per sé, in verità, secondo una modalità che è ancora ottocentesca, e che proprio in forza di uno spazio con le potenzialità del nuovo Museo potrebbe finalmente essere abbandonata. Poi, resta aperta la questione del coordinamento tra le diverse istituzioni artistiche e culturali, della quale si torna a parlare con preoccupante regolarità. Preoccupante perché tale regolarità per il momento corrisponde ad un mero esercizio verbale, sebbene il ritorno di Mauro Felicori alla direzione dell’Assessorato alla cultura è un fatto di segno assolutamente positivo. Gli è che, comunque, la politica bolognese si è per il momento avvitata intorno a questioni lontane da quelle culturali, ed anche, diciamolo pure, da quelle che riguardano la vita dei cittadini. Eppure, proprio l’inaugurazione del MAMbo avrebbe dovuto spingere l’amministrazione in direzione totalmente opposta: l’apertura di un simile spazio museale è un’occasione da non perdere, anche per chi, pur essendo un operatore attivo nell’ambito della cultura, dell’arte e dello spettacolo, non si occupa direttamente di arte figurativa. Tra gli obiettivi del Museo c’è, del resto, ed è stato più volte ribadito, quello di essere il luogo territoriale (immaginiamo, nell’ordine: bolognese, provinciale, regionale, nazionale, internazionale) ove ospitare nuove relazioni, partendo dall’assunto che MAMbo prende parte attivamente alla rete mondiale, che mette in relazione tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, lavorano nel mondo dell’arte contemporanea. Peraltro, quasi a voler sottolineare uno degli elementi che da sempre hanno caratterizzato la cultura bolognese, MAMbo nasce sì come museo (e quindi come collezione permanente della produzione artistica moderna e contemporanea soprattutto italiana), ma anche come spazio aperto alla sperimentazione. Ovviamente, alla sperimentazione in particolare dei giovani, di coloro che vogliamo credere guardino avanti (sebbene l’età anagrafica non fornisca di simili certezze). Insomma, passato, presente e futuro dovrebbero trovare nel Museo di Via Don Minzoni 16 Lorenzo Sassoli de Bianchi un luogo privilegiato d’incontro. Privilegiato, peraltro, da più punti di vista. Quello della fruizione della collezione e delle mostre da un lato, e quello della sperimentazione anche tra diverse forme d’arte dall’altro. Poi, ma non in secondo piano, c’è la formazione e la didattica, il MAMbo avendo già attivato una serie d’iniziative in tal senso. Naturalmente è troppo presto per trarre un bilancio, sebbene proprio in questo primo scorcio dell’anno si vada profilando con maggiore nettezza nell’amministrazione bolognese l’intenzione di avviare un significativo sforzo a favore di un maggiore sfruttamento delle risorse artistiche e culturali della città. Vedremo nei prossimi mesi, in attesa che si sciolgano i molti nodi, anche nazionali, che ancora rendono difficile articolare una rete di relazioni tra istituzioni ed operatori, nel mentre le attività didattiche e di formazione sono tuttora la cenerentola del dibattito politico e culturale nel nostro paese. Di tutto questo abbiamo parlato con Lorenzo Sassoli de Bianchi, che di MAMbo è il presidente. Nelle sue risposte alle nostre domande il lettore potrà trovare la conferma di quanto andavamo dicendo. In più, Lorenzo Sassoli de Bianchi sottolinea la percezione di un timore oggi molto diffuso tra gli operatori culturali: quello che la città – una volta aperta e pronta ad accogliere con attenzione, anche critica, le diverse spinte innovative – si stia oggi invece chiudendo. Una chiusura che, al di là della contingenza economica, dovrebbe essere contrastata con forza proprio per poter garantire a Bologna una presenza futura nel contesto almeno europeo. Insomma, non è il momento di tirare i remi in barca, e di chiudersi dentro le mura, sebbene la sindrome dell’arrocco – e non solo qui sotto le due torri – sembri diffondersi rapidamente, e non solo tra la gente. Troppi sono coloro che son tentati di cavalcarla, pensando al tornaconto immediato, afflitti da quella miopia progettuale che è, purtroppo, uno dei mali endemici del nostro amato paese. Nella sua posizione di presidente del MAMbo, lei è un osservatore privilegiato delle vicende culturali bolognesi. È d’obbligo, quindi, chiederle: qual è il suo giudizio sullo stato attuale della vita culturale nella nostra città? Lo stato attuale della vita culturale della nostra città è a mio parere buono. Non a caso in tutti i sondaggi locali e nazionali la cultura esce come elemento che caratterizza in termini positivi la vita di Bologna. Si può sempre fare meglio, ma, tenuto conto anche delle risorse limitate disponibili negli ultimi anni per vari motivi, mi pare che in questo campo possiamo essere soddisfatti, come cittadini, di quanto si realizza. Bononia docet: è solo un mito, una leggenda metropolitana, o è una realtà di cui non sappiamo cogliere a fondo tutte le opportunità? Qual è, a suo avviso, il posizionamento culturale di Bologna rispetto alle altre grandi città italiane? Il ruolo di Bologna come riferimento culturale nazionale è una realtà indiscussa che ha come suo motore l’università in primis, seguita dalle numerose e qualificate istituzioni culturali, come Musica Insieme e Bologna Festival, i teatri, i musei, i centri culturali, il Mulino, il Centro San Domenico, Nomisma, e i tanti altri che potremmo qui citare. Proprio per la presenza massiccia di giovani in fase di formazione, Bologna dovrebbe rappresentare il luogo della sperimentazione e dell’innovazione. Questo aspetto pare negli ultimi anni essere annebbiato da una sempre maggiore e diffusa tendenza alla conservazione. La città si sta arroccando e chiudendo in se stessa, quasi avesse paura ad aprirsi al nuovo. È un peccato perché la nostra è una città con grandi potenzialità che non stanno, da tempo, trovando la strada per esprimersi compiutamente. In questo contesto, come s’inserisce il MAMbo, tanto a livello cittadino, quanto in un più vasto ambito italiano ed europeo? Il MAMbo si è proprio data, in ambito nazionale, la missione di innovatore. Il posizionamento del nuovo Museo è appunto quello di rappresentare nel panorama italiano un polo innovativo, dedicato alla sperimentazione artistica e alla didattica, traendo linfa dalle energie e curiosità del tessuto giovanile e universitario e, più in generale, rappresentando un punto di riferimento sulla ricerca più avanzata per tutti coloro che sono interessati alla sperimentazione artistica. Dal MAMbo passeranno, speriamo, i Warhol e i Kiefer di domani. L’apparato didattico è anche molto forte, come deve essere in un museo pubblico, per permettere di seminare curiosità e interesse nei giovanissimi verso l’arte visiva. Foto Iguana Press Da più parti, e direi in questi anni con un’allarmante regolarità, è stato invocato un coordinamento cittadino (e regionale) delle diverse istituzioni culturali (dai musei ai teatri) e di tutte le numerose iniziative (dalle mostre ai concerti), che rendono la vita artistica di Bologna tra le più intense in Italia (e non solo). Tale coordinamento, ovviamente, sarebbe dovuto essere organizzato dalla municipalità, attraverso gli assessorati competenti. Anche lei è di questo avviso? Sarebbe davvero così importante poter contare su di un simile coordinamento, anche solo ai fini dell’ottimizzazione delle risorse umane e finanziarie? È proprio dell’amministrazione cittadina il compito di coordinare, dove e quando possibile, le attività culturali che insistono sul proprio territorio. Questo principio cozza spesso con difficoltà oggettive che si presentano tutte le volte che si tenta di creare una rete, e che potrebbero essere superate attraverso la condivisione e la buona volontà di chi ha le responsabilità delle diverse istituzioni culturali. Si tende purtroppo, però, all’individualismo che sfocia nella scarsa disponibilità al confronto con l’amministrazione e con le altre istituzioni. È ovviamente auspicabile che queste resistenze si possano superare, perché si darebbe una maggiore organicità, pur nel rispetto delle differenze e delle singole individualità, alla proposta culturale cittadina. Una veduta dell’interno del MAMbo 17 Mikhail Kopelman, una vita dedicata al quartetto, racconta di sé e della sua straordinaria esperienza artistica, dal Borodin al gruppo che porta il suo nome L’anima russa del quartetto di Alessandro Di Marco Mikhail Kopelman appartiene ad una generazione d’interpreti per i quali la coincidenza tra musica e vita è quasi assoluta, vorremmo dire totalizzante. Classe 1947, Kopelman nasce ad Uzhgorod, in quell’Unione Sovietica che aveva fatto della musica uno degli assi portanti della sua politica culturale. Non è questo il luogo per affrontare un argomento tanto complesso, quanto quello del rapporto fra ideologia, propaganda e politica culturale in URSS, ma un dato ci pare incontrovertibile: dal punto di vista della formazione le scelte sovietiche si sono rivelate vincenti. Tant’è che le loro scuole hanno prodotto generazioni di grandi interpreti e di altrettanto grandi compositori con regolarità e costanza davvero impressionanti. Kopelman è uno di questi. Tra i suoi maestri, quelli che incontra al Conservatorio di Mosca, spicca il nome di Yuri Yankelevich, nella cui classe si sono formati, oltre allo stesso Kopelman: Leonid Kogan, Tatiana Grindenko, Vladimir Spivakov, Lev Markiz, solo per citarne alcuni. Di Yankelevich segue le orme, facendo una carriera simile. Eccolo prima nelle file dell’Orchestra del Bolšoj, poi spalla della Filarmonica di Mosca, ed infine docente, un ruolo che, dopo aver tenuto per anni una cattedra proprio al Conservatorio di Mosca, ora svolge negli Stati Uniti presso lo Eastman College, dopo aver insegnato anche alla Yale School of Music. Nel 1976 la svolta che segna la carriera di Kopelman: fonda il Quartetto Borodin. Con il Borodin girerà il mondo per una ventina d’anni, raccogliendo meritatissimi successi. Il Borodin, infatti, è tra i quartetti che sono riusciti a stabilire un canone interpretativo del repertorio, divenendo un riferimento per l’intero mondo della musica. Per quanto riguarda la produzione russa, e più genericamente per l’area dell’Europa Orientale, ad esempio, le interpretazioni del Borodin, tutte reperibili su cd, sono non solo tra le più felici, ma anche una vera e propria pietra di paragone per chiunque voglia avvicinarsi a quella letteratura. Nel 1996, esaurita quell’e- Kopelman Quartet 18 sperienza, Kopelman diviene primo violino di un altro celeberrimo quartetto: il Tokyo. Insomma, una vita dedicata al quartetto d’archi, e spesa tutta da un lato nel continuo approfondimento del repertorio (con significative puntate nella musica contemporanea), dall’altro nel trasmettere ai suoi moltissimi allievi i frutti di una così lunga e rilevante esperienza. Un’esperienza che si concretizza – come emerge chiaramente da quest’intervista – sia nella prassi, anche in quella più immediata e quotidiana come la scelta dei programmi, sia in una sorta di straordinario bagaglio di emozioni, ricordi, sensazioni, che spontaneamente vanno a costituire una parte rilevante del “suono” del suo nuovo ensemble: il quartetto che porta proprio il suo nome. L’intervista non poteva che cominciare da questo sentire, ed un po’ alla volta emerge appunto il carattere unico ed irripetibile di questa sua vita per la musica. Il quartetto d’archi è universalmente considerato la formazione principe della musica da camera. Da interprete esperto, come vive questo ruolo fondamentale? Čajkovskij diceva che la musica da camera è costituita dalle rivelazioni più intime di un compositore. Come musicisti, cerchiamo proprio di cogliere l’essenza di ogni brano e di accostarci agli autori catturando le loro più intime emozioni ed il dramma che questi traspongono in musica. Scegliere il repertorio è uno dei momenti più importanti della vita di un quartetto. Seguite un vostro criterio ‘scientifico’, o vi affidate anche al vostro intuito? Cerchiamo di scegliere la musica più bella, quella che sentiamo più vicina e con cui avvertiamo una vera affinità. Naturalmente, la nostra attenzione va spesso al repertorio russo, perché ne riusciamo a cogliere con immediatezza lo spirito, potendone così ritrasmettere al pubblico la vera essenza. Certo, la scelta del proprio repertorio può essere molto difficile, soprattutto se pensiamo alla quantità di opere che sono state composte per il quartetto d’archi. Tra le vostre priorità c’è la diffusione del verbo dei grandi compositori russi dell’Ottocento e del Novecento. Prima col Borodin, oggi con il Kopelman, tanto lei quanto i suoi collaboratori vi siete sempre distinti per aver dato ampio spazio a quella letteratura, spesso peraltro riscoprendo grandi capolavori – primi fra tutti proprio i Quartetti di Borodin. Quali sono a suo avviso le differenze più evidenti tra la produzione russa e sovietica da un lato e quella occidentale dall’altro? Sicuramente, le caratteristiche che rendono unici i quartetti per archi della scuola russa sono il lirismo e la drammaticità. Entrambi questi aspetti emergono chiaramente nella musica di Čajkovskij, per esempio, come pure in Šostakovič. I compositori sovietici illustrano spesso i momenti più drammatici della loro vita, e tuttavia rappresentano eventi ed emozioni di valore universale. Nei Russi, ad ogni modo, l’accento cade soprattutto sull’intensità drammatica e sulla melodia. Qual è, secondo lei, il rapporto fra autori contemporanei e quartetto d’archi? Ritiene che vi siano opere nuove e interessanti dedicate a quella formazione, visto che proprio in Unione Sovietica e nella Russia di oggi molti sono gli autori che vi si sono dedicati? Penso che i compositori contemporanei siano ancora interessati a scrivere musica per il quartetto d’archi. Per esempio, dopo Schnittke e Gubaidulina, oggi sono i lavori di Silvestrov e Pärt che presentano caratteristiche di originalità molto interessanti. Nella storia, l’Italia e la Russia hanno dato i natali a moltissimi grandi musicisti, e tra questi due paesi è sempre esistito un fitto rapporto di scambio in ambito artistico e culturale. Quali sono a suo avviso le caratteristiche che rendono unici i nostri artisti? Storicamente i migliori artisti russi, sia musicisti che pittori, hanno studiato e lavorato in Italia. Moltissimi nostri compositori, poi, sono venuti in Italia, persino prima di Glinka, un autore ben noto per il suo stile assai influenzato dalla scuola italiana. Probabilmente, ciò che accomuna gli autori russi a quelli italiani è la loro forte tradizione lirica. L’Italia è la patria dell’opera e quest’aspetto ha influito molto su tutta la sua musica. Sebbene la produzione musicale della scuola russa non si sia mai focalizzata troppo su un aspetto particolare, la canzone ed il KOPELMAN QUARTET Mikhail Kopelman violino Boris Kuschnir violino Igor Sulyga viola Mikhail Milman violoncello Il Kopelman è uno dei maggiori quartetti d’archi della grande tradizione russa. Latore di un’eredità fatta di tecnica eccellente, profondo lirismo ed integrità musicale, appare regolarmente presso centri musicali d’importanza internazionale ed in festival come quelli di Edimburgo, Valladolid, Zurigo e al Ravinia Festival di Chicago. I componenti del gruppo provengono tutti dal celeberrimo Conservatorio di Mosca, dove si sono formati negli anni ’70, decisamente un’età dell’oro per gli allievi, che ebbero la possibilità di attingere a Maestri quali David Oistrakh, Boris Belenky, Yuri Yankelevich, Dmitri Šostakovič, Mstislav Rostropovič, Natalia Gutman. Mikhail Kopelman, l’attuale primo violino della formazione, ha ricoperto per oltre vent’anni il ruolo di primo violino nell’ambito dell’altrettanto celebre Quartetto Borodin, conseguendo nel corso della propria carriera due fra i riconoscimenti più ambiti, ovvero il Royal Philharmonic Society Award e la Medaglia d’Onore del Concertgebouw. Boris Kuschnir, il secondo violino, è a sua volta uno dei più stimati didatti russi. Non a caso, annovera tra i propri allievi artisti del livello di Julian Rachlin e Nikolaj Znaider. Igor Sulyga, viola, ha suonato per oltre vent’anni con Vladimir Spivakov ed i celebri Virtuosi di Mosca. Infine Mikhail Milman, violoncello, ha suonato per vent’anni come prima parte dei Virtuosi di Mosca ed ha regolarmente collaborato con il Quartetto Borodin, in ambito concertistico e in ambito discografico. lirismo sono importantissimi per i compositori sovietici. E, forse, questo comune lirismo, così unico e così simile tra Russia e Italia, è proprio quello che ci unisce. Quali sono i progetti futuri del Kopelman Quartet? Per quanto riguarda il repertorio, abbiamo in progetto di presentare al pubblico alcuni autori, come Mjaskovskij, Weinberg e Taneev, musicisti eccezionali, ma meno noti al pubblico. Al momento stiamo lavorando sul Quintetto con pianoforte di Weinberg, che registreremo l’estate prossima insieme al Decimo Quartetto per archi di Šostakovič. L’autore dedicò questo lavoro proprio a Weinberg, quindi pensiamo che l’accostamento funzioni particolarmente bene. Lo inseriremo inoltre nella collana Šostakovič Plus, che curiamo per l’etichetta Nimbus. In queste incisioni mettiamo appunto a confronto le opere di Šostakovič con i lavori dei suoi contemporanei. Abbiamo già registrato il Quartetto n. 13 di Mjaskovskij, che sarà presto pubblicato insieme al Primo e all’Ottavo Quartetto di Šostakovič. Nel primo disco di questa serie, abbiamo poi affiancato Šostakovič a Prokof’ev. I nostri progetti futuri prevedono inoltre dei concerti con Elisabeth Leonskaja, con la quale abbiamo già eseguito il Quintetto di Šostakovič e il Trio di Čajkovskij. Poi, appariremo al Festival di Primavera di Praga e al Konzerthaus di Berlino, e naturalmente suoneremo in magnifiche sale, come quelle italiane! 19 Al via la terza edizione di MICO, itinerario nella contemporaneità in sei tappe, fra Teatro Comunale, Aula Absidale e Auditorium Manzoni La molteplicità dell’attuale di Fulvia de Colle 20 Stagione 2008 26 DIVERTIMENTO ENSEMBLE GENNAIO 2008 sabato ore 20,30 Teatro Comunale Musiche di: Riley, Shankar, Takemitsu, Crumb, Harrison In collaborazione con Teatro Comunale di Bologna - L'altro Comunale 7 TRIO WANDERER FEBBRAIO 2008 giovedì ore 21 Aula Absidale di Santa Lucia Musiche di: Escaich, Copland, Schnittke, Mantovani 28 MARKUS PLACCI FEBBRAIO 2008 giovedì ore 21 Aula Absidale di Santa Lucia violino MICHELANGELO CARBONARA pianoforte Musiche di: Stravinskij, Cervello’, Rautavaara, Poulenc, Adams 8 URI CAINE MARZO 2008 sabato ore 20,30 Teatro Comunale pianoforte Solitaire In collaborazione con Teatro Comunale di Bologna - L'altro Comunale 27 QUARTETTO HAGER MARZO 2008 giovedì ore 21 Aula Absidale di Santa Lucia PATRIZIA POLIA soprano PAOLO BESSEGATO voce recitante INRI – Passione secondo Anonimo Testo di Giuseppe Di Leva e dai Vangeli Musica di Carlo Galante 14 I VIOLONCELLISTI APRILE 2008 lunedì ore 21 Teatro Manzoni DELLA SCALA GIOVANNI SOLLIMA violoncello Musiche di: Sollima, Hendrix BIGLIETTERIA CONCERTI AL TEATRO COMUNALE (Largo Respighi, 1) presso la biglietteria del Teatro Comunale dal giorno 15 del mese precedente il concerto. Orari: dal martedì al venerdì ore 15-19 – sabato ore 10-12,30 e 15-19. Concerto del 26 gennaio, Divertimento Ensemble: posto unico € 10. Concerto dell’8 marzo, Uri Caine: platee e palchi € 20, balconata € 8. CONCERTI AULA ABSIDALE DI S. LUCIA (Via de’ Chiari 25/a) un’ora prima dell’inizio del concerto. Prezzo dei biglietti € 7. CONCERTI AL TEATRO MANZONI (Via de’ Monari 1/2) presso la biglietteria del Teatro, il giorno del concerto dalle 15,30 alle 20,45. Prezzi dei biglietti da € 10 a € 38. Disponibilità di ingressi gratuiti per gli studenti dell’Università di Bologna, da ritirare previa presentazione del tesserino universitario. musica insieme contemporanea Giunta alla sua terza edizione, Musica Insieme COntemporanea, patrocinata dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Università di Bologna, e sostenuta dal contributo delle Grafiche Zanini, riconferma un ruolo da sempre perseguito con costanza e impegno da Musica Insieme: quello di farsi efficiente strumento di amplificazione e promozione del nuovo, ospitando in tutte le sue stagioni – dai Concerti di Musica Insieme al Teatro Manzoni a Musica Insieme in Ateneo all’Aula Absidale di Santa Lucia – nuovi autori e nuovi interpreti, e spesso affiancando al repertorio consolidato quelle esperienze della contemporaneità che a nostro avviso andrebbero a tutto diritto inserite nel novero dei classici, o nei casi più recenti accolte con attenzione e curiosità sempre massime. Basterà ricordare il progetto “Opus 18” che nel 2000 ci ha visto affidare al Brodsky Quartet – a sua volta attivo divulgatore della nuova musica – l’esecuzione integrale dei sei Quartetti op. 18 di Beethoven accanto ad altrettanti quartetti di compositori contemporanei, ad essi ispirati ed appositamente commissionati. O il “Progetto Nono”, che nel 2006 ha visto Maurizio Pollini protagonista della ripresa di A Floresta, fondamentale pagina composta nel 1966 dal musicista veneziano, con la direzione di Beat Furrer e la partecipazione di interpreti esperti di contemporaneità come lo Schlagquartett Köln o il clarinettista Alain Damiens. Quella di Bologna rappresentava l’unica data italiana di una tournée che dall’Austria sarebbe approdata in Giappone. Il successo delle edizioni 2006 e 2007 di MICO ci conforta in questo sforzo sempre rivolto verso l’apertura, la crescita, la divulgazione di un bene come la musica, che, tutt’altro che polveroso lascito museale, continua a pulsare e a dare nuovi frutti, spesso – e soprattutto in questo paese – ignorati proprio da quelle istituzioni che dovrebbero favorire e tutelare la crescita culturale. Tanto più significativo perciò è per noi l’impegno virtuoso della Regione Emilia-Romagna in questo senso, e la sua scelta di affidarci l’organizzazione di una rassegna come MICO costituisce una sfida e uno stimolo lusinghiero. Obiettivo dichiarato di questi nostri concerti, come dimostra anche il rapporto con l’Università degli Studi di Bologna, è fin dall’inizio la ricerca di un dialogo sempre più diretto con un pubblico sempre più numeroso e consapevole del ruolo fondamentale che la musica riveste nella vita e nella cultura di ciascun individuo. Va in questa direzione l’offerta di ingressi gratuiti ai concerti di MICO per gli studenti universitari, destinatari privilegiati delle nostre esplorazioni musicali, e ciò in virtù del valore formativo che attribuiamo all’arte dei suoni, non solo Divertimento Ensemble (26 gennaio) timento ha raccolto in questi anni oltre 500 nuove partiture di 142 autori diversi, e più della metà sono musiche nate appositamente per l’Ensemble. Un’opera di promozione quasi senza precedenti, cui si aggiunge negli ultimi anni un’attenzione altrettanto decisiva verso una specifica figura professionale, per la quale a tutt’oggi la formazione istituzionale appare piuttosto lacunosa: quella del direttore d’orchestra specializzato nel repertorio novecentesco, cui il Divertimento dedica un corso annuale. L’organico scelto dall’Ensemble per la sua apparizione bolognese è la chiave di volta per comprenderne il programma: un quartetto crossover fra Occidente e Oriente, come quello formato da chitarra e flauto, percussioni e tabla indiane, ci riporta ad uno specifico spaccato della storia musicale recente, quello che – con le significative anticipazioni di John Cage fin dagli anni Cinquanta – ha visto numerosi compositori americani abbracciare le filosofie e le pratiche zen ed estremorientali, tradizione musicale indiana in primis. Il processo, venuto prepotentemente alla ribalta negli anni Sessanta e Settanta e a suo modo responsabile dello sviluppo di una world music tuttora assai prosperosa e prolifica, non si è però svolto a senso unico: se da una parte Terry Riley si fa seguace dal 1970 al ’96 del maestro indiano Pandit Pran Nath, approfondendo la teoria e la pratica dei raga (precise forme melodiche sulle quali i musicisti possono improvvisare) e Lou Harrison si applica nella composizione per le orchestre di gamelan giavanesi, l’indiano Ravi Shankar e il giapponese Toru Takemitsu volgono viceversa lo sguardo all’Occidente, l’uno facendosi ambasciatore di successo della propria cultura musicale nel mondo, l’altro abbracciando nelle sue composizioni l’idioma di tradizione europea (poiché, affermava Takemitsu, “le melodie giapponesi sono come il Fuji, belle ma eternamente immobili”); salvo non solo lasciar emergere le proprie come necessario patrimonio culturale da coltivare e proteggere, ma anche come forma mentis e presenza costante nel vissuto di ciascuno di noi. Da quest’anno infine si realizza una nuova collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna: due dei nostri concerti (quelli del Divertimento Ensemble, sabato 26 gennaio, e di Uri Caine, il prossimo 8 marzo) avranno luogo nella Sala del Bibiena, inseriti nel programma dell’Altro Comunale, il cartellone esplicitamente dedicato dalla Fondazione bolognese ad una ricca serie di esperienze ‘altre’ dalle stagioni istituzionali della Lirica e della Sinfonica. Anche per questa terza ricognizione nel mosaico della contemporaneità abbiamo seguito alcune fondamentali linee guida: innanzitutto la scelta, stante l’identità forte che da oltre vent’anni caratterizza le stagioni di Musica Insieme, di repertori da camera – una distinzione di genere, quella fra lirica, sinfonica e cameristica, che pur nella Babele di linguaggi contemporanei sembra aver sempre mantenuto una sua sostanziale validità – e l’affiancarsi agli interpreti ‘storici’ di forze nuove fra le più promettenti, con una particolare attenzione per gli artisti di casa nostra. Al di là di queste fondamentali premesse, non ci siamo imposti alcun limite nella provenienza geografica, cronologica e culturale delle musiche in rassegna, permettendoci la libertà di spaziare attraverso i linguaggi e le voci della contemporaneità, e affiancando ai necessari capisaldi del Novecento – da Copland a Poulenc, a Stravinskij – le prime esecuzioni di autori come Bruno Mantovani e Jordi Cervello’. Citiamo subito fra gli ‘spiriti guida’ di questa edizione il Divertimento Ensemble, ospite del concerto d’apertura, sabato 26 gennaio (Teatro Comunale, ore 20.30): formatosi nel 1977 sotto la direzione di Sandro Gorli per volontà delle prime parti delle maggiori orchestre milanesi, il Diver- Trio Wanderer (7 febbraio) 21 22 insegna fra l’Unione Sovietica e l’Europa occidentale, con un’attività equamente divisa fra ‘musica d’uso’ (oltre 60 colonne sonore per il cinema) e scrittura ‘colta’, elaborando una Polystilistik, un eclettismo stilistico dichiarato che mira a sintetizzare linguaggi eterogenei, fra tecniche tradizionali e d’avanguardia. Un “caleidoscopio stilistico”, per citare l’autore, che dovrebbe riflettere la multiformità del reale attraverso il suo variegato panorama acustico, la sua “atmosfera alla Ives”. Copland e Schnittke si fanno compositori per il pubblico, quindi, e mutatis mutandis condividono le medesime intenzioni coi più giovani autori in programma, come Bruno Mantovani, francese, classe 1974, formatosi all’IRCAM bouleziano e fautore a sua volta della necessità di rompere il pur inevitabile isolamento dell’autore (“comporre è per natura un’attività solitaria”), trasformando gli “incontri effimeri” dei concerti, frustranti poiché il momento della condivisione è sempre troppo breve, in legami duraturi con chi ascolta, cercando insomma un dialogo, una conoscenza reciproca. Dopo i Moments musicaux di Mantovani, in prima esecuzione italiana, conclude la ricognizione del Wanderer il poco più che quarantenne Thierry Escaich con le sue Lettres Mêlées: fantasie sui nomi di Bach, Brahms e Bartók da parte di un autore e organista noto per le sue straordinarie improvvisazioni alla tastiera, tanto da evocare l’immagine di un moderno erede di Bach – autore storicamente legato ad un’immagine di alacrità e produttività ben visibile e condivisibile con il suo pubblico. Torniamo in Italia, e proprio sotto le due Torri, perché bolognese è il protagonista del concerto di giovedì 28 febbraio (in Aula Absidale alle 21): Markus Placci, pluripremiato violinista (dal “Vittorio Veneto” al “Brahms”), si esibirà insieme al pianista salernitano Michelangelo Carbonara, interprete nel 2006 – nella doppia veste di solista e direttore – dell’integrale dei Concerti mozartiani con la “Verdi” di Milano e di recente apparso al Carnegie Hall di New York. Un duo under 30, che mostra tutta la sua freschezza e curiosità d’esplorazione con un programma di ‘chicche’. Reso un doveroso omaggio alla prospettiva storica, con la neoclassica Suite Italienne che Stravinskij trasse dal suo Pulcinella e la nostalgica Sonata Uri Caine (8 marzo) Foto Jan Caine radici nella scelta spesso ‘etnica’ degli strumenti, ma dando anche luogo ad uno stile affatto nuovo, nato da una combinazione del tutto originale fra l’ascendenza nipponica e la personalissima pronuncia e sintassi di una lingua per lui essenzialmente esotica come quella occidentale. E una doppia anima, germanica e russa, la mostra anche la musica di Alfred Schnittke, caposaldo insieme ad Aaron Copland del concerto del Trio Wanderer (gioveMarkus Placci (28 febbraio) dì 7 febbraio alle 21, in Aula Absidale di Santa Lucia): la formazione francese è a sua volta una colonna portante nel panorama contemporaneo, da oltre trent’anni fedele al nome che si è prescelta, quello di un trio “errante” in lungo e in largo per le lande più battute come per quelle meno note della mappa musicale. Trionfali le sue apparizioni al Festival di Salisburgo, divenute un appuntamento fisso dal 2002 a oggi, il Trio ha licenziato nel 2007 un’incisione integrale dell’opera di Brahms che ha fatto incetta di medaglie, dal Diapason d’Or al Premio del MIDEM per il miglior cd classico. Per il suo contributo a MICO 2008, il Wanderer indica quattro vie, quattro possibilità diverse per provenienza storica e geografica, dal Copland degli anni Trenta allo Schnittke degli Ottanta, alle ultime generazioni francesi rappresentate da Thierry Escaich e Bruno Mantovani, ma accomunate tutte da un’acuta sensibilità per il problema della comunicazione in musica. Nel 1968, Copland confessava: “Durante gli anni Trenta cominciai a sentire una crescente insoddisfazione nella relazione fra il pubblico degli amatori e i musicisti attivi. Il vecchio pubblico “settoriale” dei concerti di musica moderna era scomparso e quello convenzionale dei concerti continuava ad essere abitudinario, ma apatico e indifferente a tutto meno che ai classici affermati. Mi sembrò allora che noi compositori corressimo il pericolo di lavorare in un vuoto. […] Mi convinsi, allora, che sarebbe stato degno di sforzo vedere se non ero in grado di dire quel che avevo da dire nei termini i più semplici possibili”. Ed i suoi sforzi successivi saranno infatti volti a scongiurare il pericolo di uno iato troppo grande fra compositore e ascoltatore, entrando nel novero di quegli autori che ricercano apertamente un rapporto con il pubblico, non desiderando appartenere ad un’élite agguerrita quanto isolata; una preoccupazione condivisa con Alfred Schnittke, attivo agli antipodi geopolitici di Copland, ma attentissimo – con tutto il sospetto che quell’attenzione gli attirerà da parte degli apparati sovietici – a quanto accade al di là della cortina di ferro. Dal ’73 Schnittke produce e Foto Lorenzo Ceva Valla per violino e pianoforte di Francis Poulenc, Placci e Carbonara affrontano infatti brani tecnicamente assai impegnativi, quanto accattivanti anche per l’ascoltatore più sospettoso: sia il catalano Jordi Cervello’ (1935), il quale dedica a Placci tre Pensieri che ascolteremo in prima esecuzione assoluta, sia il finlandese Einojuhani Rautavaara (1928) parlano un linguaggio – spesso etichettato come ‘neo-romantico’ dagli addetti ai lavori – attento al dialogo con l’ascoltatore, nella prospettiva di ‘intrattenere’ piuttosto che lambiccare l’orecchio, e lo fanno comunque ricorrendo ad un’abilità e maestria di scrittura memori di esperienze assai vaste, dal serialismo all’elettronica. Campione di quest’equilibrismo fra ironia, entertainment e tecnica è senza dubbio John Adams: e il duo si congederà proprio con i suoi brillanti Road Movies del 1995. Di nuovo al Teatro Comunale, l’8 marzo (inizio alle 20.30) sarà l’occasione per ascoltare il concerto in Solitaire di una vera star del pianismo contemporaneo, un artista che ha fatto dell’infrazione dei confini di genere la propria cifra stilistica: Uri Caine, nato a Philadelphia 52 anni fa e già allievo di Rochberg e Crumb, nella sua voracissima carriera si è cibato di jazz come di sinfonismo protonovecentesco (Mahler), dell’Otello verdiano come di Bach o dei Beatles, tutto citando e rielaborando con una giocosità che lo impone quale capofila dei molti pianautori oggi sulla cresta dell’onda, e talvolta con spessore e intensità notevolmente superiori ai fenomeni del momento. Contemplare oggi il mistero della Passione, con sguardo incuriosito, appassionato ma intimamente laico, è la sfida lanciata per il concerto pasquale (giovedì 27 marzo in Santa Lucia, ore 21) da Giuseppe Di Leva e Carlo Galante, che per farlo s’immedesimano con un immaginario segretario di Pilato, un ‘intellettuale’ romano che già presagisce come quanto sta avvenendo – vicenda in fondo non così singolare per l’epoca – sarà foriero di profondissime conseguenze. I testi della Passione secondo Anonimo s’ispirano naturalmente ai Vangeli, ma con l’inconfondibile firma di un autore, come Di Leva, che scrive pensando al teatro e alla musica – ha collaborato con Carmelo Bene e firmato i libretti di opere di Henze, Fer- Paolo Bessegato (27 marzo) Giovanni Sollima con I Violoncellisti della Scala (14 aprile) rero, Tutino – e che con Galante, a sua volta allievo di Castiglioni a Milano e fecondo compositore per il teatro e la danza, costituisce ormai un binomio consolidato. La voce narrante affidata all’attore Paolo Bessegato, la colonna sonora del racconto agli archi del Quartetto Hager, il soprano Patrizia Polia intercala al parlato le sue intonazioni di salmi e arie, sorta di “via crucis musicale” lungo le varie stazioni della Passione. E tutta italiana è anche la conclusione di MICO, lunedì 14 aprile al Teatro Manzoni (ore 21), con un violoncellista e autore di fama ormai planetaria come Giovanni Sollima – basti ricordare che il suo Violoncelles, vibrez! è il brano più eseguito al mondo di un autore italiano vivente. Nel progetto che lo unisce ai Violoncellisti della Scala, il timbro unico di Sollima si moltiplica, si riflette e si amplifica nelle trasposizioni dal Sette e Ottocento di Biber e Piatti come nelle sue personalissime esplorazioni dello strumento, nate da un genuino – e molto mediterraneo – interesse per la natura e la fisicità del suono. Se nei suoi brani Sollima cerca “parentele con vocalità e tecniche strumentali arcaiche e comunque non occidentali, intervenendo sia sul timbro che sulla stessa accordatura dello strumento”, nelle trascrizioni delle più memorabili songs di Jimi Hendrix il violoncello si sostituisce alla chitarra in funambolici virtuosismi, cui l’archetto di Sollima offre anche sostegno ritmico e armonico: una one-man-rock band che ben rappresenta lo spirito dell’artista palermitano, già solista fra i più quotati del repertorio ‘classico’, ed ora intenso cantastorie in bilico tra folk e poesia. 23 Ricordiamo Karlheinz Stockhausen, scomparso lo scorso 5 dicembre, compositore prolifico, già ospite di Musica Insieme nell’89 con il suo Gesang der Jünglinge Lo Zen e l’arte di tacere di Carlo Vitali “Tutti i momenti di una forma sono determinati dalla morte, che è allo stesso tempo una reincarnazione della forma. Ogni gesto di una costruzione musicale, ogni suo momento è impregnato di morte. […] La morte dell’uomo rappresenta solo uno dei suoi stati, e la musica è la forma astratta dei processi che richiamano la vita degli organismi.” Sono parole di Karlheinz Stockhausen in Texte zur Musik (1989), scritte a commento di Katinkas Gesang o il Requiem di Lucifero, la seconda scena di Samstag. Attraverso un rituale di accompagnamento del morente, ispirato al Bardo Thodol del buddhismo tibetano, il canto del flauto percorre in ventiquattro tappe il cammino che conduce alla liberazione dell’anima. Per Stockhausen, Lucifero non è solo il demonio della teologia giudaicocristiana, ma – etimologicamente – il portatore di luce; così come Saturno, signore del sabato e pianeta della vecchiezza, è anche il padre della verità. Da mercoledì 5 dicembre 2007 Stockhausen dimora nella luce della verità. La sua morte è avvenuta a 79 anni nella casa che abitava a Kürten-Kettenberg, a una trentina di chilometri dalla natia Colonia; solo due giorni dopo, a funerale avvenuto, è stata resa nota dalla fondazione che porta il suo nome. Nel luglio del 1953 i Ferienkurse di Darmstadt lo avevano incoronato successore di Webern entro un triumvirato di cui facevano parte Luigi Nono e Pierre Boulez. La terza scuola seriale è sopravvissuta, e di molto, anche al 24 concetto dell’avanguardia musicale come trasformatrice del mondo, ma Stockhausen rimarrà nella storia del Novecento per la sua creatività proteiforme, capace di passare dalla concentrazione spasmodica di Klavierstück N. 3 (1953), un epigramma di mezzo minuto, allo smoderato ciclo “operistico” di Licht (1977-2002), di fronte al quale la Tetralogia wagneriana rischia di passare da modello di concisione. È stato un pioniere delle applicazioni elettroniche, contribuendo alla fondazione dei mitici studi di fonologia a Parigi e Colonia, ma il suo sconvolgente Gesang der Jünglinge (1955), tredici minuti per nastro magnetico diffuso da altoparlanti in ogni angolo della sala, è pareggiato per intensità emotiva solo da Stimmung (1968), un madrigale congelato per un’ora e un quarto nella quasi immobilità di un sestetto di voci umane a cappella. Ha lasciato lavori organizzati fin nel dettaglio di una notazione fra le più ossessivamente controllate, ed altri che affidano all’interprete la libera scelta di tutti i parametri: altezza, ritmo, timbro e durata. Nella partitura di Aus den sieben Tagen (1963) troviamo l’indicazione: “suonate un suono; suonatelo finché non sentite che deve cessare”. Il gioco di antitesi e citazioni potrebbe continuare a lungo, evidenziando un anelito alla totalità che abbracciava in modo onnivoro le culture e gli archetipi umani: oriente e occidente, ragione e intuizione, tecnologia e teologia, musica dei pianeti e inni delle nazioni (Hymnen, 1967). E sul piano delle scelte private la stessa abbondanza nel dare la vita (sei figli nati da tre o quattro donne diverse, una schiera di nipoti, un clan biblico dove quasi tutti fanno musica sotto l’occhio bonario del patriarca); ma anche il rinchiudersi in una torre d’avorio donde ultimamente le registrazioni, autoprodotte in regime di monopolio, filtravano sempre più rare e a prezzi quasi inaccessibili. Piuttosto che per la sua abilità manageriale nel monumentalizzare ancora in vita il proprio Ego – o per le sue incaute dichiarazioni sul massacro delle Twin Towers, i cui postulati metafisici dovevano fatalmente sfuggire ad un’opinione pubblica esacerbata – preferiamo ricordarlo per un messaggio inserito in Es, tredicesimo brano delle 15 Meditazioni, dove la ricerca della liberazione interiore si esprime con la grazia lieve del maestro Zen: Non pensare NIENTE Aspetta fino a che tutto sia calmo in te Quando avrai raggiunto ciò Comincia a suonare Appena cominci a pensare, fermati E cerca di ritrovare Lo stato del NON-PENSARE Poi, continua a suonare. Da tempio dei Gesuiti ad Aula Magna e Auditorium, storia di una chiesa recentemente rinata a luogo della musica, dall’acustica ottimale e la scenografica vetrata-fondale La chiesa di Santa Lucia di Maria Pace Marzocchi I Gesuiti si insediarono a Bologna nel 1546, presso l’antica chiesa parrocchiale di Santa Lucia donata all’ordine da papa Pio IV, ma solo nel 1623 fu avviata la costruzione della nuova chiesa, che divenne il fulcro dell’imponente insula di edifici collegiali e biblioteche, ubicata nel cuore della città (tra le vie Castiglione, Cartolerie e de’ Chiari), come era consuetudine per gli insediamenti dell’ordine, caratterizzato dalla vocazione all’insegnamento e alla formazione dei ceti dirigenti. Nel corso di circa un secolo furono edificati la chiesa barocca di Santa Lucia (1623-1659) su progetto dell’architetto romano Gerolamo Rainaldi, gli edifici conventuali, il Collegio di Santa Lucia (poi Liceo Ginnasio “L. Galvani”), la Congregazione delle Scuole, il Collegio dei Nobili e il Collegio dei Cittadini o di San Luigi, successivamente ampliati all’inizio del Settecento. La chiesa fu edificata sul modello della romana Chiesa del Gesù progettata dal Vignola: analoghi il vano architettonico di ampie dimensioni e la grande luminosità, ma nell’edificio bolognese la luce è ancor più amplificata dall’uso dell’intonaco bianco, e l’invaso spaziale risulta mosso da alcuni elementi architettonici di matrice scenografica emiliana, come le colonne libere, i pilastri ed i coretti. Quando la chiesa fu inaugurata nel 1659 mancava ancora l’abside, allora sostituita da un fondale di legno dipinto. Tra interruzioni e riprese i lavori si protrassero fino al 1735, quando l’architetto Francesco Angelini, seguendo i disegni del Rainaldi, costruì la parte dell’abside fino al cornicione, non riuscendo tuttavia a completare il progetto originario di aula a croce latina con transetti e cupola. Nel decennio seguente vennero avviati i lavori dell’annessa libraria, inaugurata nel 1752 con pubblica apertura: con l’ausilio di stuccatori, frescanti e plasticatori, l’architetto Giuseppe Antonio Ambrosi vi realizzò un capolavoro del barocchetto bolognese. Quanto alla chiesa, dopo la soppressione dell’ordine nel 1773 si rinunciò definitivamente al completamento della facciata. L’anno seguente subentrarono i Barnabiti, che si impegnarono nell’edificazione di una nuova abside (1840-43), ma con le successive soppressioni del 1866 per la chiesa e per alcuni degli imponenti edifici annessi, divenuti di proprietà comunale, si aprì una storia di usi incongrui e di degrado. Tra fine Ottocento e Novecento la chiesa e la zona absidale divennero deposito, palestra, laboratorioofficina dell’Istituto Aldini Valeriani. Poi ci fu la chiusura ed il successivo abbandono. Dopo lunghi restauri l’ex chiesa di Santa Lucia avrebbe ripreso vita nel 1988, quando fu inaugurata come aula magna in occasione delle celebrazioni del IX Centenario dell’Università di Bologna. Ma è anche auditorium e sala da concerti, capace di più di 900 posti, grazie all’allestimento dell’apparato ligneo di palchi-tribune. Un analogo adeguamento è stato successivamente attuato per l’aula absidale di Santa Lucia, ricavata dalla “conchiglia” della sei-settecentesca abside incompiuta, che la copertura reticolare in acciaio e l’apparato ligneo (una sorta di cavea analoga a quella dell’abside principale) hanno trasformato in un piccolo anfiteatro capace di circa 300 posti, rievocante la tipologia degli antichi odeon di origine italica, divulgati nelle città romane, riproposti nel Rinascimento (Teatro Olimpico di Vicenza). Fa da scena l’ampia vetrata a tutt’altezza che raccorda i grandi piloni incompiuti della chiesa barocca, scenografico fondale-quinta trasparente per la cavea lignea, e ad un tempo cannocchiale visivo sulla parete esterna in cotto sagramato dell’abside ottocentesca e sulle anse dei transetti incompiuti. L’aula absidale è ora un recuperato ‘luogo per la musica’, dove si tengono i concerti del Collegium Musicum Almae Matris dell’Università di Bologna e la stagione di Musica Insieme in Ateneo, quest’anno alla sua undicesima edizione. E l’acustica di Santa Lucia è davvero ottimale, come è stato verificato in occasione del convegno sul design acustico (Bologna, Palazzo d’Accursio, ottobre 2006) promosso da Perspectiv (Associazione Europea dei Teatri Storici) ed incentrato sulla verifica dell’acustica di luoghi storici trasformati in nuovi auditori. L’Aula Absidale di Santa Lucia 25 LUNEDÌ 4 FEBBRAIO 2008 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21 Rafal Blechacz pianoforte Wolfgang Amadeus Mozart Claude Debussy Karol Szymanowski Fryderyk Chopin Sonata in re maggiore KV 311 Estampes Variazioni in si bemolle minore op. 3 Vingt-quatre Préludes op. 28 PAG. 28 32 Il concerto fa parte degli abbonamenti: • “I Concerti di Musica Insieme” • “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna LUNEDÌ 11 FEBBRAIO 2008 Alban Berg Quartett Franz Joseph Haydn Alban Berg Franz Schubert PAG. 30 32 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21 da Le ultime sette parole di Cristo sulla Croce Hob. III: 50-56: Introduzione: Maestoso e Adagio Lyrische Suite Quartetto in sol maggiore D 887 Il concerto fa parte degli abbonamenti: • “I Concerti di Musica Insieme” • “Musica per le Scuole” LUNEDÌ 10 MARZO 2008 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21 Daniel Hope violino Sebastian Knauer pianoforte Igor’ Stravinskij Edvard Grieg Felix Mendelssohn-Bartholdy PAG. 33 32 Johannes Brahms Suite Italienne Sonata n. 3 in do minore op. 45 Selezione di Lieder (arrangiamento per violino e pianoforte) Sonata n. 3 in re minore op. 108 Il concerto fa parte degli abbonamenti: • “I Concerti di Musica Insieme” • “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna LUNEDÌ 31 MARZO 2008 Kopelman Quartet Aleksandr Borodin Dmitrij Šostakovič Pëtr Il’ič Čajkovskij PAG. 37 32 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21 Quartetto n. 2 in re maggiore Ottavo Quartetto in do minore op. 110 Secondo Quartetto in fa maggiore op. 22 Il concerto fa parte degli abbonamenti: • “I Concerti di Musica Insieme” • “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme: Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - Tel. 051 271932 - Fax 051 231423 E-mail: [email protected] - Sito web: www.musicainsiemebologna.it Sperimentazioni sonore di Sara Bacchini meno mannheimer della coeva KV 309, forse proprio perché Mozart era solito dapprima assorbire il LUNEDÌ 4 FEBBRAIO 2008 Teatro Manzoni ore 21 gusto musicale di una determinata località, ritenendone poi solo quegli aspetti che più lo inteRAFAL BLECHACZ pianoforte ressavano. L’Allegro con spirito d’apertura mostra ancora alcuni caratteri tipici del periodo salisburWolfgang Amadeus Mozart Sonata in re maggiore KV 311 ghese: si presenta come una sinfonia italiana, in Claude Debussy Estampes Karol Szymanowski Variazioni in si bemolle minore op. 3 cui l’incisività del primo tema si contrappone alla Fryderyk Chopin Vingt-quatre Préludes op. 28 liricità del secondo, basato su una breve appoggiatura insistita. Nell’esposizione è di particolare interesse il passaggio di materiale melodico tra le due mani, che spazia nei vari registri della tastiera l grande viaggio a Mannheim e Parigi del 1777-78 segna (mettendo così in risalto l’eguaglianza dei pianoforti Stein); un’importante svolta nell’evoluzione pianistica di Mozart, seguono poi una breve Coda, sulla quale si fonda principaldovuta essenzialmente a due fattori: l’acquisita consape- mente la sezione dello sviluppo, e la ripresa, nella quale i due volezza della propria arte strumentale, e la scoperta dei piano- temi vengono presentati in ordine inverso. L’Andante con forti di Johann Andreas Stein, i più moderni e completi dell’e- espressione segue invece lo stile sentimentale cui si accennava poca. A lasciarlo ammirato, oltre alla ‘ginocchiera’ con la fun- prima: il tema si ripresenta ogni volta variato in senso ornazione del moderno pedale di risonanza, è soprattutto la loro mentale, riappare anche negli episodi secondari, viene esposto uguaglianza di suono, dovuta ad un preciso ritrovato tecnico – dalla mano sinistra e accompagnato da un lungo trillo della lo scappamento – che consentiva all’esecutore un controllo del destra. Chiude la Sonata un Rondeau in 6/8 che s’impone subitasto, e quindi della sonorità, molto più preciso rispetto alle to per il brioso ritmo di caccia: brillante, perfettamente costruitastiere dell’epoca. Mannheim, città assai nota per la sua orche- to nell’alternanza di passaggi umoristici e momenti riflessivi, è stra, era anche conosciuta per la creazione di uno stile sinfoni- caratterizzato da un episodio in tonalità minore e da una virco ‘sentimentale’, basato sulle sfumature e sulla dinamica: tuosistica cadenza centrale. caratteristiche, queste, con le quali Mozart entrò in contatto Recuperi di forme appartenenti alla tradizione passata ma riletdurante il soggiorno nella cittadina tedesca e che si riflettono te in chiave moderna attraverso l’esplorazione delle qualità timanche nelle composizioni del periodo. La Sonata in re mag- brico-tecniche degli strumenti avvengono anche nell’Ottogiore KV 311, composta nel 1777, ha comunque uno stile cento: è il caso del preludio, genere musicale di forma libera e Lunedì 4 febbraio La Locandina 28 I RAFAL BLECHACZ Nato in Polonia nel 1985, si accosta al pianoforte all’età cinque anni. Nel 2005 vince all’unanimità il Primo Premio al Concorso “Chopin” di Varsavia, aggiudicandosi inoltre il Premio della Radio Polacca per la “miglior esecuzione di mazurche”, il Premio della Società Polacca Chopin per la “miglior esecuzione di polacche” e quello della Filarmonica di Varsavia per “la migliore esecuzione concertistica”. Vince inoltre il concorso istituito da Krystian Zimerman per “la miglior esecuzione di sonate”. Andrzej Jasinski, segretario della giuria, riferisce come sin dal primo turno del concorso si fosse reso conto che il candidato alla vittoria era Rafał Blechacz, l’unico ad aver mostrato il giusto approccio alla musica di Chopin. Nel luglio 2006, Blechacz sostituisce Lang Lang a Verbier nella Sala Médran. Dopo la sua esibizione, un critico inglese paragona la naturalezza dell’artista a quella del grande Zimerman, affermando che Chopin “gli calza come un guanto. Il suo controllo, il nobile fraseggio, la capacità di smorzare una melodia senza affettazione – scrive il giornalista – tutto ciò gli dà una particolare connotazione”. Obiettivo dichiarato di Blechacz è quello di trasmettere gioia e freschezza al pubblico. “Nelle mie interpretazioni – spiega l’artista – cerco di non essere influenzato da altri pianisti, perché ciò potrebbe alterare l’equilibrio interno che si presume raggiunto dopo una lunga preparazione. Un’altra cosa che mi preme è ampliare il mio repertorio, e ciò richiede tempo. Preferisco presentare un nuovo brano al pubblico solo quando sento di averlo adeguatamente maturato”. Rafal Blechacz carattere improvvisativo che originariamente introduceva una Debussy aveva scoperto all’Esposizione Universale di Parigi del fuga o una suite di danze per liuto, cembalo o orchestra. In 1889. Adagiata sui tasti neri, Pagodes sceglie la luminosa tonaesso Chopin pare tuttavia conservare l’idea di un pezzo di strut- lità di si maggiore, dominata da un tema pentafonico ostinato, tura indefinita, indipendente, priva di uno schema formale al quale le ornamentazioni ritmiche e melodiche conferiscono fisso, che però non introduce più nulla. Terminati durante un maggiore autenticità locale. A seguire, La soirée dans Grenade, soggiorno invernale a Majorca con George Sand, i Préludes op. profonda, sensuale ed ossessiva habanera in fa diesis maggio28 sono pieni di allusioni, ricordi, evocazioni, che indagano re, che trae la sua prodigiosa forza di suggestione dalla prel’intimità più profonda del composisenza di un pedale ostinato di do dietore. Organizzati secondo l’ordine sis nella parte grave della tastiera. Debutta a Bologna delle scale, per il quale ad ogni tonaEvocazione malinconica ed altera di lità maggiore segue la relativa minouna notte andalusa, cronologicamenun pianista-rivelazione, re, questi ventiquattro pannelli nelte è il primo dei pezzi spagnolegpremio “Chopin” 2005 l’insieme hanno un senso formale gianti di Debussy, ed è ancora più compiuto: Chopin riesce in questa prodigioso se pensiamo che egli non difficile impresa alternando velocità, densità ritmiche e caratte- ebbe mai occasione di andare in Spagna. A rinfrescare l’atmori espressivi in modo che ciascun pezzo abbia il suo comple- sfera dopo l’afosa notte andalusa, il vento parigino sferzante di mento nel vicino e che il massimo dell’estensione e della den- Jardins sous la pluie: toccata virtuosistica in mi minore, perfetsità venga raggiunto nella parte centrale. I Préludes (omaggio ta stilizzazione del picchiettio della pioggia, e poi della schiarial Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach) apparvero con- ta e del cinguettio di mille uccelli infreddoliti e bagnati. Lo stestemporaneamente nel 1839 sia a Parigi che a Lipsia e la loro so Debussy, annunciando il completamento dell’opera, precipubblicazione provocò molto scalpore nell’ambiente musicale sava: “Quando non si hanno i mezzi per pagarsi i viaggi, non dell’epoca, perché il maestro polacco sfidava le convenzioni c’è altra possibilità che supplire con l’immaginazione”. del periodo sia per la forma che per la breve durata dei brani. Influenzato prima da Chopin, poi da Skrjabin, considerati modelli supremi dell’attività artistica, Karol Szymanovski divenDA ASCOLTARE ne ben presto un abile manipolatore delle più sottili e raffinaUn applauso incontenibile sovrasta la conclusione orchestrale del Rondò te armonie tardoromantiche, raggiungendo la perfezione nello del primo Concerto in mi minore di Chopin: è il 24 ottobre del 2005 e il vensviluppo dei temi. Fin dalle sue prime opere emergono il forte tenne Rafał Blechacz sta vincendo la XV edizione del Concorso “Chopin” interesse per la musica polacca nella sua essenza più pura, e la di Varsavia, il più importante al mondo, quello che ha lanciato Pollini, volontà di comporre secondo principii e ideali della propria Argerich e Zimerman, quello che può cambiare la vita ad un pianista. Tutta cultura natìa: nel 1906 fonderà, insieme ad altri colleghi, la l’elettricità di quella serata e l’intera cronaca del luminoso traguardo del “Giovane Polonia in Musica”, che aveva come intento princigiovane polacco verso il massimo alloro si possono rivivere nel box di tre pale quello di diffondere ed accrescere il repertorio e la tradicd dell’etichetta polacca Dux, non distribuita in Italia ma acquistabile via zione musicale polacca. Figlio di un proprietario terriero, nel Internet. C’è proprio tutto quello che Blechacz suonò per vincere, anzi 1902 cominciò a prendere lezioni private di armonia e comstravincere: Studio op. 10 n. 10, 6 Preludi op. 28, il Notturno op. 62 n. 1, 2 posizione da Noskowski, il più noto maestro di Varsavia, sotto Valzer op. 64, Barcarola op. 60, Polacca op. 53, 3 Mazurche, Sonata op. la cui guida furono composte le Variazioni in si bemolle mino58, Concerto op. 11 (con la Filarmonica di Varsavia diretta da Antoni Wit) re op. 3 e anche la Prima Sonata op. 8 per pianoforte. I free il bis: il Chiaro di luna di Debussy. Fino ad una ventina di anni fa era la quenti viaggi in Italia, a Lipsia, Berlino e Vienna tra il 1906 e il Deutsche Grammophon a distribuire internazionalmente una selezione 1914 ne influenzarono poi molto da vicino il successivo camdelle prove del vincitore dello “Chopin”. Ora bisogna accontentarsi degli biamento stilistico, linguisticamente affine all’impressionismo di spartani (ma esaustivi) compact disc della Dux, venduti in tempo reale Ravel e di Debussy. durante il concorso, poi reperibili in Polonia o per corrispondenza. Dal Introducendo nella musica occidentale una nuova concezione 2000 la Deutsche Grammophon produce un disco in studio e poi mette del materiale sonoro e rifacendosi anche alle tradizioni oriensotto contratto il vincitore per qualche anno. Così è successo anche a tali, Claude Debussy è forse il primo autore occidentale a comBlechacz, il cui cd d’esordio esce dopo ben due anni dalla vittoria. È un porre con suoni anziché con note. Al pianoforte egli è solo, l’atvero peccato, però, perché si perde molto l’effetto-concorso, quel desito creativo e l’esecuzione materiale si confondono più intimaderio del pubblico di scoprire quasi in diretta un nuovo grande pianista. mente che altrove: totale libertà ritmica e fraseologica, duttilità, La gagliardia, la potenza emotiva di un pianista di classe superiore quale leggerezza e indipendenza dello strumento, gli hanno permesBlechacz – nel momento dell’agone davanti a un pubblico stipato, per di so di comporre secondo una logica atonale, pur adoperando più in una musica incendiaria come quella di Chopin – sono il sale della materiale assolutamente tonale, liberando la frase musicale vita di discofili e pianofili. Il nuovo cd di Rafał Blechacz è un prodotto di dalla tirannia della stanghetta di misura e introducendo una gran classe, registrato ad Amburgo nel luglio 2007: il giovane vi suona i varietà infinita di strutture ritmiche. Punto di volta della sua Preludi op. 28, il Preludio op. 45, quello postumo e i due Notturni op. 62. evoluzione in campo pianistico è il 1903 con Estampes: opere Ma l’ascolto prolungato non delude le aspettative, perché nel fresco piadella prima maturità, apogeo delle ricerche sul colore e sulla nismo di questo ventitreenne abbondano virtuosismo, poesia sonora, ricchezza sonora dello strumento, questi quadri inaugurano musicalità, pulizia di suono, onestà intellettuale. Le stesse qualità che una maniera che dopo Images raggiungerà il culmine e si conriscontrammo nel suo cd d’esordio (Accord) registrato nell’aprile 2005 e cluderà con i due libri dei Préludes. Pagodes, il primo quadro finanziato dal Ministero della Cultura (questo succede in Polonia!), in cui il del trittico, evoca le risonanze cristalline del gong, delle camNostro eseguiva da par suo la Sonata op. 22 di Schumann, i tre Studi da pane, dei cimbali e delle altre percussioni balinesi, che concerto di Liszt, la Suite Bergamasque di Debussy, le Variazioni op. 3 di Szymanowski e la Polacca “Eroica” di Chopin. (as) Aurora e crepuscolo A Lunedì 11 febbraio di Stefano Dondi 30 nche in Spagna le opere di Haydn La Locandina godevano di grande considerazione, LUNEDÌ 11 FEBBRAIO 2008 Teatro Manzoni ore 21 se nel 1785 un canonico del duomo di Cadice gli commissionava una serie di pezzi ALBAN BERG QUARTETT destinati a commentare le sette parole del Salvatore sulla croce durante la liturgia del Joseph Haydn da Le ultime sette parole di Cristo Venerdì Santo. Tale fama era il risultato della sulla Croce Hob. III: 50-56: Introduzione: Maestoso e Adagio diffusione ormai europea delle sue opere strumentali, teatrali e soprattutto sacre. Ciò che il Alban Berg Lyrische Suite religioso spagnolo chiedeva era qualcosa di Franz Schubert Quartetto in sol maggiore D 887 assolutamente nuovo e particolare. Ce ne ha lasciata testimonianza lo stesso Haydn: “Nella cattedrale di Cadice si era allora soliti celebrare la Quaresima con un oratorio, alla cui maggiore efficacia sacra oscurità. A mezzogiorno tutte le porte venivano chiudovevano contribuire non poco le seguenti disposizioni. Le se; la musica cominciava. Dopo il Preludio il vescovo saliva pareti, le finestre e le colonne della chiesa erano rivestite di sul pulpito, pronunciava una delle sette parole e faceva una teli neri e solo una lampada accesa nel mezzo illuminava la riflessione su di essa. Poi scendeva dal pulpito e cadeva in ginocchio davanti all’altare. La pausa era riempita dalla musica. Allo stesso modo per due, tre volte ecc., e ogni volta l’orchestra interveniva ALBAN BERG QUARTETT alla fine del discorso. Il compito di comporre in Günter Pichler violino sequenza sette Adagi della durata di dieci Gerhard Schulz violino minuti ciascuno, senza annoiare l’ascoltatore, Isabel Charisius viola non era dei più facili”. L’opera fu dunque iniValentin Erben violoncello zialmente concepita per orchestra, ma subì due Negli ultimi trent’anni è stato ospite regolare delle capitali musicali e rielaborazioni: una per quartetto d’archi, realizdei maggiori festival di tutto il mondo. Oggi l’Alban Berg Quartett zata parallelamente ai Quartetti dell’op. 50, anima inoltre una propria serie di concerti nella prestigiosissima un’altra, in forma di oratorio, portata a termine Konzerthaus di Vienna (dove ha debuttato nel 1971 e di cui è attualpresumibilmente attorno agli ultimi anni del mente membro onorario), al Royal Festival Hall di Londra (dove sono Settecento. Da una lettera al suo editore londiArtisti Associati), all’Opera di Zurigo, al Teatro degli Champs-Elysées di nese sappiamo che Haydn riteneva questa sua Parigi, alla Philharmonie di Colonia e alla Alte Oper di Francoforte. composizione inseparabile dal contesto liturgiAssai più importante delle critiche superlative della stampa e dell’entuco: “Queste Sonate sono elaborate in maniera siasmo del pubblico è per il Quartetto la realizzazione del messaggio conforme alle parole. Così Cristo Nostro interpretativo delle opere eseguite e l’arricchimento costante del repertoSignore ha parlato sulla croce… Ogni sonata rio che spazia dal periodo classico all’avanguardia; il nome “Alban come ogni testo è espresso dalla musica struBerg” simbolizza quest’impegno. Il Quartetto si dedica attivamente mentale unicamente in modo che desti anche anche alla formazione di giovani musicisti: tutti i suoi membri insegnano all’Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna e, dal 1993, anche presso la Musikhochschule di Colonia, succedendo al Il leggendario Quartetto Quartetto Amadeus. Il suo impegno per la crescita culturale ed artistica delle nuove generazioni è pari alla devozione che il Quartetto ha nei saluta Bologna nella sua confronti sia dell’attività concertistica che della musica nel senso più ultima tournée ampio del termine. Sin dal debutto, l’attività discografica occupa un posto speciale nel lavoro del Quartetto, il quale ottiene oltre una trentinell’anima dei più sprovveduti la più profonda na di importanti premi internazionali (Grand Prix du Disque, impressione…”. Haydn afferma in questo Deutsche Schallplattenpreis, Premio Edison, Japan Grand Prix, Gramomodo, con il consueto senso della misura, la phone Magazine Award). Molte delle sue incisioni – fra cui l’integrale religiosità serena ma non intaccata dal dubbio dei Quartetti di Beethoven, Brahms, Berg, Webern, Bartók, il ciclo comdi un tipico esponente dell’assolutismo illumipleto degli ultimi Quartetti di Mozart, nonché le numerose registrazionato. La forzosa sobrietà cui sospinge la formuni dal vivo – sono considerate pietre miliari sia dal pubblico che dalla la per quartetto d’archi determina un’intensità e critica. Nel 2005 il Quartetto subisce una grave perdita con la morte del una concentrazione espressiva assolutamente violista Thomas Kakuska. Al suo posto suona oggi Isabel Charisius, sua uniche all’interno dell’intera produzione, non allieva nei corsi di perfezionamento. solo cameristica, di Haydn. Senza il gigantismo e gli orpelli di coro, solisti e orchestra, la musica del com- fanciulla”, avrebbe detto Schumann), sotto le parvenze positore austriaco si impone chiara, netta e regolare con la apparentemente più innocue della titubanza malinconica, forza della necessità fin dall’introduzione, ieratica e ‘proces- mina alle fondamenta quel perfetto equilibrio tra forma ed sionale’, non una nota di troppo, non una di meno, mai una espressione. Il paradosso di Schubert (ovvero il suo modo pausa superflua, nessun immotivato cambiamento di dina- particolare di essere romantico) sta proprio in quel suo ostimica: quanto di più prossimo si nato attaccamento alle forme trapossa immaginare all’idea di classidizionali, in quel suo non osare Nelle Sette parole cità secondo Winkelmann: “nobile intaccarle esternamente, corrosemplicità e quieta grandezza”. dendole però dal di dentro. Se Haydn raggiunge Una lezione di civiltà ed equilibrio ogni sistema in crisi ritrova un un’intensità che permette a questa musica di cirequilibrio organizzando la propria costanza di oltrepassare la dimenstruttura attorno a un nuovo elee una concentrazione sione strettamente liturgica per aspimento aggregante, in Schubert espressiva assolutamente rare a quella universalità che solo la questo elemento è il Lied. La forza della ragione può dare. dimensione melodica dilaga nella uniche all’interno della La generazione romantica, allontasua opera ad ogni livello, intacsua intera produzione nandosi da questo sicuro porto per cando la luminosa linearità della lanciarsi alla ricerca piena di insidie forma-sonata ma indirizzando, di nuovi approdi, ha dovuto inevitabilmente manomettere il anche mediante una nuova concezione armonico-timbrica, perfetto meccanismo in cui si oggettivizzava il discorso le potenzialità dell’espressione musicale verso mete del tutto musicale. Non che lo spirito classico sia mai del tutto tra- inesplorate (troppo poco si ricorda ad esempio quanto gli montato, soprattutto in quella città di Vienna in cui si era deva l’arte di Anton Webern). Il lirismo, presente nei toni sia dapprima meravigliosamente sviluppato. Eccolo infatti per- pur leggiadri fin dalle composizioni giovanili, diviene in vadere ancora l’opera di Beethoven, Weber, Schubert, quelle più mature il sintomo di una lacerazione profonda, di Mendelssohn, per arrivare fino a Brahms. Ma il demone un dissidio, certo mirabilmente trasfigurato, tra il proprio oscuro della melanconia, il virus dell’inquietudine labirinti- essere e la distratta sordità del mondo. Le movenze più ca, ha progressivamente messo in discussione quell’ordine, accorate dell’ultimo Schubert sono dunque la manifestaziodando vita a una nuova creatura: sicuramente più bizzarra, ne di una crisi della ragione che in musica si traduce in uno contraddittoria e, talora, contorta, ma forse più accattivante slittamento dal piano di una struttura tematica, rigorosae familiare. Se in Beethoven l’assalto alla fortezza del classi- mente articolata, a quello della giustapposizione di spunti cismo viennese assume i connotati del titanismo individua- melodici autosufficienti ed autonomi, inseriti in un contesto listico, Schubert (“paragonato a Beethoven… un carattere di di precarietà prodotto dal continuo alternarsi di maggiore e Alban Berg Quartett 31 Lunedì 11 febbraio 32 minore. Il Quartetto in sol maggiore, l’equilibrio classico, a causa del preval’ultimo dei venti quartetti del compolere di una potenza oscura e maligna, sitore austriaco, è un compendio di in una ridda conclusiva di inappagate tutte queste caratteristiche. Vi si palesa aspirazioni. tra l’altro con forza una ricerca di effetCon Alban Berg (1885-1935) e la sua ti che ci riporta allo stile sinfonico, più Lyrische Suite (1926) ci troviamo proche a quello cameristico. Scriveva iettati in una fase ulteriore ma conseSchubert nel 1824 all’amico Kupelwieguente del processo di introiezione ser: “Non ho scritto molti nuovi Lieder, della rappresentazione musicale. ma mi sono dedicato ad alcune opere Frutto esemplare e tra i più perfetti strumentali; ho infatti composto 2 della temperie espressionista, questa quartetti per archi e un ottetto e voglio composizione associa in effetti allo scrivere un altro quartetto: in questo scavo capillare nei meandri dell’inconmodo voglio prepararmi la strada per scio il rigore geometrico della tecnica una grande sinfonia”. L’ultimo dei tre dodecafonica. Nella suite l’abbandono quartetti cui si allude è quello in sol della tradizionale struttura del quartetmaggiore che fu portato a termine due to per archi consente al compositore anni dopo ed eseguito integralmente viennese una maggiore libertà ed solo dopo la morte dell’autore. È sicuanche una assai variegata escursione ramente una delle composizioni più emotiva; basta leggere i titoli dei sei sconvolgenti ed innovative di Schumovimenti: Allegro gioviale, Andante bert. Fin dalle prime battute l’ascoltaamoroso, Allegro misterioso, Trio estatore ha la percezione di un clima da tico, Adagio appassionato, Presto delitragedia imminente, dove energie conrando, Largo desolato. D’altra parte un trastanti cozzano e si intrecciano l’una soggettivismo così rimarcato avrebbe con l’altra senza requie e senza redenpotuto tralignare nel confuso velleitarizione. Lo stesso contrappunto si svismo di tante composizioni novecenteluppa drammaticamente in funzione sche, se non avesse avuto dalla sua l’earmonica e melodica e non rappresennergia aggregante della serie di dodici ta un rifugio di geometriche certezze. note (“senza altri rapporti che tra di Le idee musicali si succedono come in loro”), nonché la sottile imbastitura di un lento procedere all’interno di una temi e allusioni musicali che legano natura ostile, ammaliata e ammaliante, l’un l’altro in successione ciascuno dei in un crescendo di progressivo, ansimovimenti. Il fascino intrinseco di mante sgomento. La dialettica beethoquesto lavoro di Berg risulta poi veniana, in virtù della quale l’artista Alban Berg accentuato dal suo programma nascoaffronta a testa alta le avversità, cede il sto che solo in anni relativamente passo qui alla rassegnata consapevolezza dell’inevitabile recenti (1976) è stato svelato. Già Adorno aveva intuito che sconfitta. Nel secondo movimento la dimensione contem- si trattava di “un’opera segreta” e George Perle, grande stuplativa, associata ad un canto struggente, definisce, nei toni dioso del compositore austriaco, accennava a un “dramma enfatici di un recitativo, una condizione di estatica, agghiac- psicologico completamente soggettivo”, sotteso alla compociata impotenza. Col riaffacciarsi sizione. La riscoperta di una partidebole di un tema di marcia la tura annotata dallo stesso Berg, tensione accumulata svapora in appositamente per la sorella di Fra le composizioni una ascetica, quasi celestiale conFranz Werfel, Hanna, ha permesso più sconvolgenti sacrazione elegiaca. Lo Scherzo di mettere in luce i riferimenti simpropone una sorta di danza spetbolico-numerici a una vicenda ed innovative di Schubert, trale di sapore prebruckneriano, sentimentale che per ovvi motivi l’ultimo Quartetto intervallata dalle movenze di un l’autore volle lasciare enigmatici. Lied il cui potere straniante semUna sorta di linguaggio cifrato la è davvero la bra anticipare addirittura Mahler. cui chiave fu consegnata solo alla conflagrazione definitiva Questa tensione rimane inalterata diretta interessata. dell’equilibrio classico nell’Allegro conclusivo. Certo, è un cabalismo erotico che Ancora una volta il Lied non riesce poco aggiunge al valore artistico, a divenire elemento chiarificatore, eccelso, della Lyrische Suite, ma anzi contribuisce per contrasto ad acuire il senso di malefi- che contribuisce a comprendere meglio quel rapporto tra zio indotto dallo spigoloso articolarsi delle parti, dove le manierismo labirintico dell’elaborazione tecnica e aspirazioprogressioni armoniche inattese producono un senso di ne a una sempre più inafferrabile verità dell’esistenza che precarietà, di vertigine tale da sembrare spingere verso un massimamente contraddistingue il miracolo dell’arte noveinevitabile abisso. È davvero la conflagrazione definitiva del- centesca. di Maria Chiara Mazzi La Locandina LUNEDÌ 10 MARZO 2008 Teatro Manzoni ore 21 DANIEL HOPE SEBASTIAN KNAUER Igor’ Stravinskij Edvard Grieg Felix Mendelssohn-Bartholdy violino pianoforte Suite Italienne Sonata n. 3 in do minore op. 45 Selezione di Lieder: Suleika – Auf Flügeln des Gesanges – Hexenlied (arrangiamento per violino e pianoforte di Daniel Hope e Sebastian Knauer) Johannes Brahms Sonata n. 3 in re minore op. 108 Q uando un autore si accinge ad utilizzare un orga- tratta nel 1933 dalle musiche di Pulcinella) quando la tranico dalla storia plurisecolare, come il violino e sposizione è operata dallo stesso autore, anche se in collapianoforte, certamente qualche problema se lo borazione col violinista Duskin, oppure (come nel caso dei pone. Innanzitutto perché la storia della letteratura Lieder di Mendelssohn) quando l’adattamento proviene dallo musicale per questo organico è talmente ricca di capolavori stesso interprete del concerto. Dobbiamo invece pensare che che il confronto avviene inevitabile. Un confronto, innanzi- le trascrizioni, gli adattamenti, le trasposizioni da un organitutto, sull’impiego e sull’equilibrio tra i due strumenti, poiché co all’altro hanno avuto, e ancora hanno, una funzione tutta la prima fase dell’avventura del duo, sino a fine importantissima nella diffusione della musica perché hanno Settecento, si è giocata con l’accompagnamento del clavi- consentito la fruizione di repertori specifici al di fuori dei loro cembalo (e non del pianoforte) mentre la situazione si è poi contesti, allargandone la conoscenza e la diffusione. Diverso assestata da Beethoven in poi. Ma non finisce qui: c’è anche è, invece, l’approccio che i compositori hanno nei confronti un confronto sulle forme, perché da quando il classicismo delle forme ereditate dalla tradizione, soprattutto quando si viennese ha fatto della sonata la struttura più impegnata e tratta di autori collocati quasi ai margini, temporali o geograprivilegiata, quasi tutto il resto è stato collocato tra le ‘forme fici, della tradizione stessa. minori’, secondo l’idea che, per aspera ad astra, solo le cose Brahms iniziò l’attività di compositore scrivendo sonate per complesse e difficili sono ‘di valore’. Infine, non manca il pianoforte, dimostrando all’inizio di voler rimanere ancorato confronto sul ‘consumo’ di questo prodotto artistico, perché ad una forma classicamente tradizionale in un momento in nel corso dei secoli la musica da camera diventa musica da cui, soprattutto in ambito cameconcerto, con tutto ciò che questo fatto porta con sé dal ristico e sinfonico, prioritaria era punto di vista della struttura tecnica e dell’impatto da parte l’idea del cambiamento. Se tutdell’ascoltatore. Così sta a lui stabilire le gerarchie in questo tavia si analizzano soprattutto le programma, dove le forme ‘serie’ della sonata si alternano a sue opere cameristiche, noterepagine di fascino straordinario ideate per altri organici e mo come il legame con la ‘sto‘adattate’ al violino per ricordare che, invece, “c’est bien ria’ sia solo apparente, e sotto di agréable d’être important, mais c’est aussi bien important d’ê- esso si agitino le acque molto tre agréable”. Secondo la logica di questo cappello ci si per- mosse di una continua ricerca donerà se il nostro discorso si presenterà un po’ ‘disordina- di un linguaggio che corrisponto’ rispetto all’ordine simmetrico proposto dal programma, da al suo pensiero musicale. Non a caso le grandi forme sinche ci propone, per ogni tempo del concerto, un hors-d’œufoniche vengono progressivavre e un brano più seriamente strutturato. Cominciamo proprio dai due brani che aprono rispettiva- mente abbandonate a favore mente la prima e la seconda parte, cercando di ascoltarli per della musica da camera, dove quello che sono senza paragonarli alle sicuramente ‘più Brahms riesce a compiere un’oimpegnative’ sonate di cui sono premessa. Troppo spesso, infatti, consideTrascrizioni e adattamenti riamo le trascrizioni meno importanti o meno significative per l’espressione delda un organico all’altro hanno l’estetica di un autore, soprattutto quelle da sempre una funzione di brani più complessi. E ciò (come nel caso della Suite Italienne di Stravinskij, importantissima per la diffusione della musica Sebastian Knauer Lunedì 10 marzo Una storia infinita Lunedì 10 marzo DA ASCOLTARE 34 È già cospicua la discografia del violinista inglese Daniel Hope, inaugurata a vent’anni nel 1995 con l’incisione per la Nimbus Records dei Concerti di Toru Takemitsu, Kurt Weill e Alfred Schnittke con la English Symphony Orchestra diretta da William Boughton. Grazie a quest’incisione e alle successive per la stessa etichetta britannica, il violinista si fece conoscere al grande pubblico per il suo apostolato nella musica del Novecento e contemporanea: nel 2000 seguirono le Sonate di Šostakovič, Schnittke, Pärt e Penderecki, poi le Sonate di Walton, Elgar e Finzi, in duo col pianista Simon Mulligan. Del 2003 è il bel disco Forbidden Music con opere per violino, viola e violoncello di compositori perseguitati quali Klein, Krása e Schulhoff, in trio con Philip Dukes alla viola e Paul Watkins al violoncello. Archiviata una partecipazione di gran rango in un disco collettivo della EMI registrato allo Heinbach Chamber Music Festival (musiche di Hindemith e Prokof’ev), Hope fu ingaggiato nel 2004 dalla Warner per la registrazione della nuova revisione critica del Concerto di Alban Berg accoppiato al difficile Concerto di Benjamin Britten, con la BBC Symphony Orchestra diretta da Paul Watkins. A questo disco, unanimemente lodato dalla critica internazionale, fece seguito la prima incisione mondiale di Apotheosis (in memoriam Joseph Joachim) di John Foulds con la City of Birmingham Symphony Orchestra diretta dall’eccellente Sakari Oramo. Al bellissimo album Warner East meets West con musiche di Ravel, Falla, Schnittke, Bartók, Shankar (con Gaurav Mazumdar e Sebastian Knauer), è seguita l’incisione della Sonata in sol maggiore per violino e pianoforte KV 379 e del fantomatico e incompiuto Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e orchestra di Mozart (la cui numerazione è ancora più astrusa: K. App. 56/K 315f) nel completamento del musicologo inglese Philip Wilby, accanto al pianista tedesco Sebastian Knauer e alla Camerata Salzburg diretta con raro acume da Sir Roger Norrington. Quindi la provocatoria incisione “semibarocca” dei Concerti per violino di Bach con la Chamber Orchestra of Europe. Due eventi discografici importanti che a Hope portano fortuna internazionale, al punto da fargli conquistare nel gennaio 2007, a 32 anni, un contratto in esclusiva con la Deutsche Grammophon. Primo frutto di questo matrimonio il tutto Mendelssohn da poco nei negozi: Concerto in mi minore op. 64 con la Chamber Orchestra of Europe diretta da Thomas Hengelbrock, Ottetto op. 20 nella versione del 1832, tre Romanze senza parole per violino e piano (ancora Knauer alla tastiera). Hope è letteralmente innamorato della musica da camera, al punto da essere diventato violinista del celebre Trio Beaux Arts, accanto all’inossidabile pianista israeliano Menahem Pressler e al violoncellista Antonio Meneses: in tale veste in occasione del 50° anniversario del Trio Beaux Arts ha inciso il Trio n. 1 di Mendelssohn, il Dumky di Dvořák e i due Trii di Šostakovič (Warner). (as) perazione dapprima di assimilazione e poi di critico approfondimento di una tradizione che non viene abolita o dimenticata, ma arricchita delle istanze innovative del secondo romanticismo. In particolare poi, Brahms affronta seriamente il percorso della musica per violino e pianoforte solamente nell’ultimo periodo della sua attività, se escludiamo il giovanile Scherzo della Sonata F.A.E. (acrostico per il motto Frei aber einsam, “libero ma solo”) scritta in collaborazione con Schumann e Dietrich. Il problema che egli aveva trovato di più ardua soluzione era infatti stato quello della fusione di uno strumento melodico e perlopiù monodico come il violino con la parte di un pianoforte per il quale egli aveva scoperto densità e spessori sonori mai uditi in precedenza. Ma la grande predilezione per la musica da camera, accanto ad una nuova scrittura pianistica più rarefatta e soppesata, insieme con l’onda del successo ottenuto dal Concerto per violino, lo indusse a riprendere questa tradizione storica. Brahms recupera un modello di sonata vicina a quella beethoveniana, ancorata alla suddivisione in tempi, e le sue tre sonate per violino e pianoforte racchiudono, pur con aspetti e caratteristiche differenti, quella che è la summa del suo pensiero estetico, le sue inquietudini, il suo amore per il folklore e la sua rivoluzione musicale. Iniziata e portata avanti contemporaneamente alla Sonata op. 100 e pubblicata a Berlino nel 1889, la Sonata op. 108 è da quella assai differente. Se infatti nella seconda, piena di intimità affettuosa, il coinvolgimento personale e soprattutto emotivo del compositore era un dato di fatto dichiarato, questa terza Sonata in re minore è interamente dominata dall’idea della costruzione astratta e non intimistica. Tuttavia, anche dietro a questa maschera, sia il primo che l’ultimo tempo (caratterizzati da una ricchezza tematica grandiosa), pur essendo in ogni parte all’interno guidati da un principio stilistico e costruttivo straordinari, sono assai difficili da inquadrare in uno schema precostituito sotto il profilo formale. Non a caso poi questa volta la sonata presenta una dedica al grande pianista e direttore d’orchestra Hans von Bülow: la parte del pianoforte assume infatti un’importanza e uno spessore che raramente erano stati presenti anche nei grandi pezzi cameristici della maturità. E ciò al punto che la parte pianistica diventa quasi predominante e conduttrice del discorso musicale, quella in cui Brahms adotta le soluzioni più avveniristiche e sorprendenti. La terza Sonata di Brahms è la summa del suo pensiero estetico, le sue inquietudini, il suo amore per il folklore e la sua rivoluzione musicale Conseguenza immediata ed inevitabile di ciò è un’altra caratteristica peculiare di questa sonata: il materiale tematico non è sempre subordinato alla costruzione del duo, ma vive spesso autonomamente in una sola delle due parti. Esempio di questo intreccio, che raggiunge anche spessori polifonici, è il densissimo primo tempo, cui segue un Adagio dall’accorata sensibilità, contemplativo più che lirico, e uno Scherzo leggerissimo staccato e arpeggiato. Il quarto tempo è reso dram- maticamente angoscioso dal movimento ternario aggressivo e incalzante, nel quale si aprono a tratti momenti di calma accordali o lirici, oppure momenti di ulteriore tensione creati dagli sfasamenti ritmici e dai diversi andamenti contrastanti ma contemporanei dei due strumenti. Tempo e sonata si concludono insomma su un finale quale raramente era stato dato di riscontrare in composizioni per questo organico cameristico, tanto che a buon diritto questa sonata può essere collocata tra le più alte espressioni di questo genere musicale. Grieg non introduce i modi popolari nelle forme della tradizione, ma elabora sul dato folklorico un linguaggio del tutto autonomo E in Germania (al Conservatorio di Lipsia, abbeverato cioè alla fonte della cultura musicale tedesca) si forma Grieg, per questo all’inizio fortemente influenzato dallo stile musicale tedesco, particolarmente nell’adozione di modelli schumanniani e mendelssohniani. La svolta stilistica decisiva nel suo percorso artistico avvenne però al ritorno in Norvegia, grazie al quale egli, in collegamento stretto con la cultura romantica del suo Paese, fondatore della Società Musicale che aggregava anche grandi letterati (come Bjørnstjerne Bjørnson e Henrik Ibsen), poté aprire lo sguardo sull’immenso patrimonio popolare del suo paese anche se, al contrario di quanto stava accadendo ad altri compositori nazionalistici, egli non introdusse direttamente i modi popolari nelle forme della tradizione ma elaborò sul dato folklorico un linguaggio del tutto autonomo. “Ai miei sguardi attoniti si rivelò un mondo di bellezza che le gioie di Lipsia mi avevano nascosto. Avevo finalmente scoperto me stesso. Padroneggiavo con la più grande facilità tutte le difficoltà che a Lipsia mi erano parse insormontabili. Con una immaginazione sbrigliata mi misi a comporre opere una dietro l’altra. Non fui affatto sconcertato dai rimproveri, che all’inizio si fecero alla mia musica, di essere strana e artificiale: sapevo ormai quello che volevo, e mi diressi risolutamente verso il luogo che avevo deciso di raggiungere” scrive lo stesso compositore che, spesso in giro per l’Europa, a metà degli anni Ottanta resta stabilmente nel suo Paese e lì ottiene i maggiori successi (e anche un contratto con la Peters, una delle case editrici più importanti al mondo). Questo passaggio dall’internazionalità allo spirito nazionale, così come afferma il compositore, può essere tracciato anche attraverso le tre sonate per violino e pianoforte su cui il musicista scrive: “Esse caratterizzano diversi periodi della mia evoluzione: la prima è ingenua e prolissa di idee; la seconda nazionalista; la terza volta ad assai più vasti orizzonti”. E in quella concezione ‘germanocentrica’ nella quale anche i musicisti più nazionalisticamente convinti finivano poi per ricadere, la Sonata n. 3 è quella che sicuramente presenta maggiore adesione alla costruzione, alla forma tradizionale, alla complessità dell’intreccio formale senza comunque dimenticarsi (in particolare nelle parti cantabili) della nostalgia popolare. Composta tra 1886 e 1887, eseguita per la prima volta al Gewandhaus di Lipsia con l’autore al pia- DANIEL HOPE Studia alla Highgate School di Londra e con Zakhar Bron, diplomandosi poi alla Royal Academy of Music di Londra. A soli 10 anni si esibisce per la televisione inglese con il contrabbassista Gary Karr e, l’anno successivo, esegue i Duetti di Bartók alla televisione tedesca, invitato dal violinista Yehudi Menuhin. Da quel momento, inizia per Hope una lunga collaborazione con il musicista statunitense, con più di 60 concerti in duo: nell’ultimo di essi, tenutosi nel 1999 alla Tonhalle di Düsseldorf, Hope esegue il Concerto per violino di Schnittke. Dal 2002 collabora con il Trio Beaux Arts in tournées in Europa e Nord America e, nel corso del 2005, festeggia con la formazione il 50° anniversario della nascita. Ad oggi, l’artista si è esibito con alcuni fra i più celebri direttori d’orchestra – tra i quali Kurt Masur, Mstislav Rostropovič, Jeffrey Tate ed Eliahu Inbal – e con le migliori orchestre, dalla Royal Philharmonic alla Sinfonica della Radio di Berlino, dalla Israel Philharmonic alla RSO di Mosca. Nel 2004 vince il Classical Brit Award, il Deutsche Schallplattenpreis e l’ECHO Klassik Preis per la sua registrazione dei Concerti di Berg e Britten. Famoso per le sue “incursioni nella musica contemporanea” (New York Times, 2004), Hope si dedica a progetti eclettici, collaborando con attori, registi e musicisti – da Klaus Maria Brandauer a Mia Farrow, a Uri Caine – in opere che spaziano dal jazz alla musica contemporanea. Molti di questi progetti sono stati eseguiti per la prima volta al Savannah Music Festival in Georgia, di cui Daniel Hope è co-direttore artistico. L’ultimo progetto East meets West, pubblicato dalla Warner e destinatario di una nomination al Grammy, presenta opere per violino ispirate al musicista indiano Ravi Shankar. Attivo anche nella cameristica, Hope è solista e direttore di diversi ensemble strumentali, come la Chamber Orchestra of Europe e la Camerata Salzburg. Dal gennaio 2007 incide in esclusiva per la Deutsche Grammophon. SEBASTIAN KNAUER Comincia a studiare pianoforte giovanissimo e si perfeziona poi con Gernot Kahl, Karl-Heinz Kämmerling, Philippe Entremont, András Schiff, Christoph Eschenbach e Alexis Weissenberg. Vincitore di numerosi concorsi, debutta a soli 13 anni alla Musikhalle di Amburgo con il Concerto per pianoforte in re maggiore di Haydn e nell’ambito dei Concerti Europei per la RAI a Venezia. Si esibisce in Europa, Stati Uniti, Sud America e Asia come ospite regolare delle più importanti sale concertistiche, tra le quali Gewandhaus di Lipsia, Philharmonie di Berlino, Concertgebouw di Amsterdam, Konzerthaus e Musikvereinssaal di Vienna, e in festival internazionali, dal Bonn Beethovenfest al Bremen Musikfest, dal John Adams Festival of the BBC Symphony di Londra al Festival delle Arti di Shanghai. L’elenco dei direttori d’orchestra con cui collabora conta nomi prestigiosi come Gerd Albrecht, Vladimir Fedossejev, Neeme Järvi, Sir Roger Norrington, Philippe Entremont e Ingo Metzmacher. Si esibisce con famose compagini, tra cui l’Orchestra Filarmonica e Sinfonica di Amburgo, la Kölner Kammerorchester, le Orchestre da Camera di Vienna e Olanda, la Camerata Salzburg, l’Orchestra Sinfonica di Lucerna, l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, la Sinfonia Varsavia, la New York City Opera e la Filarmonica di Shanghai. Oltre al suo sodalizio artistico in duo con Daniel Hope, Knauer ha lavorato con musicisti del calibro di Hermann Prey, Olaf Bär, Alban Gerhardt, Quartetto Aron di Vienna, Quartetto Philharmonia di Berlino, con le compagnie di ballo di John Neumeier e di Amburgo e con l’attore Klaus Maria Brandauer. Nel 2001 fonda il Festival Les Jeux Floraux de Marseille, di cui è direttore artistico. 35 noforte, essa vive di un fortissimo sentimento tragico che tutta la permea e la infonde. Il primo movimento è strutturato su una forma rigidamente classica, anche nel contrasto creato da un primo tema tragico e drammatico (su cui poi si giocherà tutto lo sviluppo) e una seconda idea, melodica e delicata. Giocato sulla dolcezza malinconica è il movimento successivo, in tre sezioni delle quali quella centrale ricorda le movenze di una canzone popolare norvegese. Il più originale nel trattamento formale è però l’ultimo tempo, che alterna senza svilupparli due temi principali di grande carica ritmica e straordinaria suggestione armonica, in cui l’autore ribadisce il senso di grandiosità e di forza di questa sua parte di ispirazione. IL VIOLINO DI HOPE, TRA CLASSICA E CONTEMPORANEA di Alessandra Masini Un violinista cresciuto con il suo strumento e che ancora giovanissimo intraprende una strabiliante carriera. Oggi Daniel Hope è un artista maturo che medita la musica tra passato e presente. Atteso per il suo debutto bolognese nella stagione di Musica Insieme, Hope racconta la sua collaborazione con il grande violinista Yehudi Menuhin e con il Trio Beaux Arts, e naturalmente il sodalizio artistico con Sebastian Knauer, che lo accompagnerà al pianoforte in questa avventura italiana. Maestro, può raccontare ai nostri lettori del suo incontro con Jehudi Menuhin e del vostro sodalizio artistico, nonché del grande rapporto di amicizia che vi univa? Ho conosciuto Yehudi Menuhin quando ero ancora in fasce, avevo solo sei mesi. Curiosità del destino, mia madre si era proposta per un impiego come sua assistente, e pur non essendo una musicista aveva ottenuto il posto. Così, ho avuto la fortuna di crescere in casa di Menuhin a Londra. Era un privilegio straordinario per me poter vivere a stretto contatto con un musicista così unico nel suo genere, ma anche incontrare i grandi artisti che frequentavano quella casa, come Mstislav Rostropovič, Stephane Grappelli e Ravi Shankar. La cosa più bella di Menuhin, a mio parere, era la sua mente vorace, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e direzioni da seguire. Sarei felice se almeno in minima parte mi avesse trasmesso qualcosa! L’Italia e Bologna. Che impressione ha di questi posti, dato che, proprio con il prossimo concerto, avrà modo di incontrare per la prima volta il pubblico bolognese? Adoro l’Italia per molte ragioni. Devo confessare inoltre che ho un debole in particolare per la cucina italiana, è sempre stata la mia preferita! E, naturalmente, la vastità e la ricchezza della cultura e della vostra storia mi hanno sempre affascinato sin da quando ero bambino. Ho visitato Bologna diverse volte, ma, ora che mi si prospetta l’opportunità di esibirmi in questa città, sono molto emozionato. Quali sono stati i suoi più recenti excursus nella musica contemporanea? Di recente ho collaborato con György Kurtág e Mark Antony 36 Daniel Hope Turnage, due compositori eccezionali ma straordinariamente diversi tra di loro. Hanno composto opere per il Beaux Arts Trio, nel quale da alcuni anni suono il violino. Quanto alle collaborazioni con Mia Farrow, Brandauer e Uri Caine, ha qualche ricordo particolare delle scoperte che ha realizzato lavorando in campi artistici così diversi fra loro? Mi piace la combinazione tra musica e parola. Lavorare con un grande attore come Brandauer mi ha fatto scoprire come musicista molte cose riguardo alla presentazione e al dosaggio dei tempi nell’enunciazione di una frase. I musicisti possono imparare davvero molto dagli attori, soprattutto come meglio pronunciare le loro ‘frasi’… Parliamo ora del duo con Sebastian Knauer: come vi siete conosciuti e come si è sviluppata la vostra collaborazione? Come definirebbe Knauer, sia come artista che come partner alla tastiera? Sebastian Knauer ed io collaboriamo ormai da quindici anni. Ci siamo incontrati la prima volta ad Amburgo, la sua città natale, ed immediatamente siamo diventati grandi amici. Sono inoltre il padrino di suo figlio. È il partner ideale per un duo, nel vero senso del termine. Knauer è un artista consumato, ha una tecnica insuperabile, ma, come per ogni altro artista, è la musica stessa che è alla base della sua ricerca. Quali sono i suoi progetti futuri nel campo della musica d’oggi? Sono molto interessato alla musica contemporanea, soprattutto quando è il violino ad esserne coinvolto. La cosa che personalmente mi piace in modo particolare della contemporanea è la melodia. Sembrerebbe strano a dirsi, ma ho la sensazione che stiamo ritornando proprio verso quest’aspetto musicale, dopo molti anni in cui la contemporanea tendeva invece ad inoltrarsi sempre più nel mondo dell’astratto. A mio avviso i compositori che segneranno il ventunesimo secolo saranno proprio coloro che reintegreranno la melodia in modo originale e nuovo. Sono molto ottimista riguardo a questo tipo di musica. Quartetti al buio di Alessandro Taverna e ci pregava di non cominciare a suonare senza di lui. Aveva bisogno delle prove, non tanto per LUNEDÌ 31 MARZO 2008 Teatro Manzoni ore 21 verificare la sua nuova opera, né tanto meno per cambiare alcuni dettagli. Ne aveva bisogno perKOPELMAN QUARTET ché gli esecutori comprendessero la sua idea di suono per quella musica”. Aleksandr Borodin Secondo Quartetto in re maggiore Ma ancora non è arrivato il momento di costruiDmitrij Šostakovič Ottavo Quartetto in do minore op. 110 re l’ultimo quartetto come un’inaudita sequenza Pëtr Il’ič Čajkovskij Secondo Quartetto in fa maggiore op. 22 di Adagi che per ben sei volte invitano a prepararsi e distendersi nella tomba. Eppure questa triplice ricorrenza di tre Larghi nell’architettura rmai prossimo alla fine, Dmitrij Šostakovič cerca un scandita in cinque movimenti dell’Ottavo Quartetto di Dmitrij conforto nel dialogo con gli spiriti grandi d’epoche Šostakovič è un rito funebre spossato. La musica, nel senso lontane e diverse. L’artista russo scolpisce in musica letterale del termine, muore fra le mani dell’autore, si esaurii sonetti di Michelangelo, fruga nel grande canzoniere della sce, sfiorando il silenzio. Questa estrema soglia espressiva è lirica europea del XX secolo – dove trova qualche poesia di il graduale affievolirsi delle forze, la stanchezza mortale che Federico García Lorca, di Guillaume Apollinaire e di Rainer fa svanire perfino la presenza di chi ascolta. È un canto Maria Rilke in cui va e viene la Morte – e lascia a un sopra- sospeso al nulla. Nel silenzio si logora anche quella firma no e ad un basso il compito di spartirsi gli undici movimenti stampata nelle note, all’avvio delle prime battute del primo di una sinfonia che è come una ‘serenata al secolo breve’, movimento, firma vergata nell’aria e, prima ancora sul pentadedicata ai soldati e ai poeti morti, una sinfonia che può con- gramma, dal violoncello. Re, mi bemolle, do e si bequadro tare su un’orchestra dove sono sopravvissuti gli archi e le per- segnano le iniziali del compositore, secondo quella proceducussioni. La sinfonia ha preso forma di una serenata, perché ra tramandata nei secoli e di cui si erano avvalsi anche Bach non si può immaginare altro momento per essere eseguita e Beethoven, ma stavolta rinnovata con un effetto perturbanche la notte. È la notte in cui si aggira l’uomo del Novecento: te. Sulla soglia di questi piani sonori attenuati e inclinati sul “La morte attende tutti noi e io non vedo niente di buono alla baratro del nulla, che senso può ancora avere preoccuparsi fine delle nostre vite.” La frase Šostakovič l’avrebbe potuta di conservare il proprio nome? mutuare da un pensatore come Cioran, il pessimista che ad La morte nel Quartetto in do minore si annida nell’Allegro che Est riconobbe un orizzonte familiare, una terra attratta dalle si srotola come una frenetica danza, un isterico moto perpecatastrofi: “Con i suoi dieci secoli di terrori, di tenebre e di tuo avviato e ribattuto dal primo violino. Spettrale agitazione promesse, la Russia era più atta di chiunque ad accordarsi che accomuna qualsiasi danse macabre, spaventosa corsa all’aspetto notturno del momento storico che attraversiamo. verso il vuoto dove si sfidano il pericolo del silenzio e la L’apocalisse gli si adatta meravigliosamente, ne ha l’abitudine legge di gravità. Un appiglio per non cadere potrebbe offrire il gusto e vi si esercita oggi più che mai”. È per questa ragio- lo quel tema ebraico di cui il musicista si era servito nel Trio ne che Šostakovič ha vissuto la sua esistenza con un eroico in mi minore, ma tutto scorre troppo veloce per accorgersedandismo che gli ha suggerito di sfidare e sfiorare mortali ne. Più chiare le citazioni di altre opere disseminate negli altri pericoli? Nella Russia di Stalin arte e morte erano accomuna- movimenti. Il primo tempo accoglie una cellula dalla Prima te. Fallace reputare che si potesse sfuggire alle conseguenze Sinfonia, nel secondo Largo trova spazio una scheggia stradi quest’equazione. Perfino un quartetto d’archi sarebbe stato ziante della Lady Macbeth del distretto di Minsk. Sono tutti esposto ad un tale pericolo. Eppure nei suoi quindici quartetti Šostakovič cerca il linguaggio originario della propria ispirazione. Fra essi si ritrovano le pagine più intime e sconvolgenti della sua opera. Se nei suoi ultimi quartetti Beethoven aveva spinto la ricerca musicale in una direzione che preludiava al silenzio, sottoponendo il suono ad un esercizio di vertiginosa rivoluzione espressiva che tocca l’ascesi e l’estasi, Šostakovič si accinge a compiere il cammino in direzione opposta. A lui ciò che importa di più è riappropriarsi del suono, ridargli un corpo dopo che Beethoven lo aveva condotto alle soglie di una gloriosa smaterializzazione. E la prova sta nella voce di uno dei quattro solisti del Quartetto Beethoven, i quali tennero a battesimo la maggioranza delle opere cameristiche di Šostakovič: “Prima ci suonava dalla partitura il suo nuovo lavoro al pianoforte, poi ci dava le parti La Locandina Kopelman Quartet Lunedì 31 marzo O episodi da interpretare come lancinanti intermittenze del cuore. L’opera prende forma nell’estate del 1960, per essere affidata agli archi del Quartetto Beethoven, in vista della prima esecuzione, che avverrà il 2 ottobre dello stesso anno a Leningrado. Come vaticinato dal filosofo Ernst Bloch, il buio è dentro di noi, la notte si è prolungata fino a tutto il Novecento. E il mistero contagiante sottrae la sensazione di quiete perfino nell’evocazione di un Notturno. Così è anche per il Notturno collocato quale terzo movimento del Quartetto in re maggiore di Aleksandr Borodin. Paiono lontani gli esordi cameristici del musicista russo che, giovanissimo, impiegò i temi del Robert le Diable di Meyerbeer per tramare il suo primo Trio per archi. Sono trascorsi molti anni e se il Primo Quartetto assorbe ancora qualche idea da un’opera lirica – ma stavolta propria, Il principe Igor – il secondo Quartetto per archi trova un centro di gravitazione che va ben oltre i cromatismi dell’Allegro moderato su cui la pagina si apre. Sono cromatismi impregnati di un esotismo esibito senza filtri, come la percezione del proprio orizzonte d’origine. Del resto non era la posizione del musicista, con le sue ascendenze tartare a suggerirlo? Ad Est dell’Est, dunque. Subito dopo, gli ascoltatori della prima esecuzione, avvenuta a Pietroburgo nel 1882, si sorpresero che Borodin avesse collocato il riflesso esitante di un valzer nella trama dello Scherzo. Ma il centro sta altrove, nell’Andante in la maggiore. “L’abbandono cedevole DA ASCOLTARE Tutti i grandi quartetti hanno in repertorio il Quartetto n. 2 in re maggiore di Borodin, divenuto popolare per lo struggente Andante del terzo movimento, più noto come Notturno. L’incisione forse più diffusa e lodata è quella realizzata nel lontano 1961 per la Decca inglese dal Borodin Quartet, nella sua prima formazione, cioè Rostislav Dubinsky e Jaroslav Alexandrov al violino, Dmitri Shebalin alla viola e Valentin Berlinsky al violoncello. Ad essa si può forse preferire la nuova incisione con tecnica digitale dello stesso Borodin Quartet realizzata negli anni ’90 per la Warner, ancor più stupefacente nel suono e nella carica musicale, o addirittura l’ultima incisione realizzata due anni or sono dall’etichetta Onix per festeggiare i 60 anni della formazione. Oppure le versioni più ‘occidentali’ di quest’opera così intrisa di romanticismo russo: come quella solo apparentemente fredda del Quartetto Italiano (Philips) o quella altrettanto moderna del Quartetto Emerson realizzata nell’aprile 1984 (DGG). Ricordiamo inoltre la pregiata incisione del Quartetto Accardo (Salvatore Accardo e Margaret Batjer violino, Toby Hofmann viola e Peter Wiley violoncello), realizzata una ventina d’anni fa per la genovese Dynamic nell’ambito delle celebri “Settimane musicali internazionali di Napoli”. Esecuzione che possiede un suo fascino discreto e che consigliamo di ascoltare con molta attenzione, soprattutto il celebre Notturno, dove i quattro sfoderano sonorità ricercate e una cantabilità italiana tutta speciale, che in questo pezzo fa il suo bell’effetto. Ancora il Quartetto Borodin è interprete forse insuperato dell’ottavo Quartetto in do minore op. 110 di Šostakovič (Emi), del quale anche i quartetti inglesi Fitzwilliam (Decca) e Brodsky (ASV) hanno realizzato incisioni piuttosto interessanti nelle rispettive integrali. Entrambe le versioni sono praticamente azzerate tuttavia da quella nuovissima e scintillante dello Hagen Quartett (DGG, 2005), in cui vibrano una temperatura musicale e una tensione emotiva a tratti sconvolgenti. Inutile dire che anche nei quartetti di Čajkovskij – come in generale in tutto il repertorio russo – forse il Borodin Quartet non conosce rivali (BMG e Warner). Alternative possono essere l’inglese Gabrieli String Quartet (Decca), esecuzione decorosa e molto diffusa, alla quale preferiamo però la meno conosciuta incisione del formidabile Keller Quartet (Warner). (as) Nel secondo Quartetto, Čajkovskij prende possesso della forma sottraendola all’ombra occidentale, trasferendola in un clima russo all’inventiva del momento trova, nel Notturno, il proprio empireo – ha annotato con acume Mario Bortolotto – e anche dove il compositore si rende conto di quel che fa, nel canone fra violoncello e violino, poi fra i due violini, il rilassamento ad occhi semichiusi domina senza inciampi…”. Gli archi si preoccupano di segnare all’ascolto i centri concentrici di una passione che non si spegne con le ultime battute del terzo movimento. Oltre il recinto del Notturno e prima che la tensione si sciolga in un moto perpetuo, la notte evocata da Borodin si stende sulle battute del Finale. È stato Modest Čajkovskij a raffigurare la vita del fratello Pëtr Il’ič in un movimento a spirale: “Ad ogni svolta in una data direzione, attraversava sempre zone di cattivo umore”. Il fato čajkovskijano può mostrarsi sotto molte apparenze e tutte nascondono uno stesso volto. Insondabile. Sarà sorprendente ravvisarlo nell’indole dell’eroe della pigrizia immortalato da Ivan Gončarov, nel romanzo scritto nel 1859, quando le inclinazioni di Čajkovskij, ancora per poco, ondeggiavano. “Dal volto l’indolenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste”. Alla fine di una monumentale monografia in quattro volumi dedicata a Čajkovskij, David Brown è proprio lì che si arresta: nella camera di Ilja Il’ič Oblomov, l’uomo che trascorre le sue giornate disteso su un letto, incapace di vincere la propria inerzia. “L’inerzia è intrinseca alla creatività russa”. Come i romanzi di Dostoevskij crescono sull’accumulazione di scene sostanzialmente statiche, così la musica di Čajkovskij può procedere accumulando “le vecchie cose” – valzer o melodie altrui – e ripetendole fino allo stremo delle forze. Ai tempi dei tre quartetti, scritti negli anni delle prime affermazioni, fra Pietroburgo e Mosca, “le vecchie cose” ci sono già. Il giovane musicista le ha trovate frugando nella memoria collettiva della sua terra. Sono sedimenti del folklore ucraino, memorie di canti popolari. “È quanto ho scritto di meglio. Nulla di quanto abbia composto mi è mai sgorgato con tanta facilità e agio. L’ho completato per così dire in una sola seduta”. E con facilità il quartetto fu accolto a Mosca in occasione della prima esecuzione nel marzo 1874. Era già chiaro nel primo Quartetto, composto un paio di anni prima, ma ancor più lo è chiaro nel secondo: Čajkovskij prende possesso della forma sottraendola all’ombra occidentale, trasferendola in un clima russo. Sedimenta certo anche Mozart, ma conducendo la lezione classica alle estreme conseguenze, colte proprio nel Quartetto delle Dissonanze. Sedimenta perfino l’incertezza tonale del Tristan. La conversazione galante, con il compositore russo, prende pieghe imprevedibili, audaci come nella stretta finale dell’Allegro con moto. Dopo il grande slancio patetico dell’Andante, ecco la sensazione di essere sempre sul punto di non aver più risorse per andare avanti. Trovata la strada per una serie di variazioni, siamo comunque ben oltre i febbrili esercizi condotti da Schubert. Con Čajkovskij la variazione è diventata un’ossessione molesta, un tarlo sonoro che attacca il tema non tanto per trasfigurarlo, ma per spossarlo e, inflessibilmente, farne polvere. Un intermezzo... musicale In questo numero Carlo Vitali propone una caccia alla soluzione in cinque indizi, mentre il bersaglio ci porta a suon di musica dall’opera mozartiana alla più sana delle attività… quella del riso, coadiuvata come da tradizione anche dalle lepide vignette di Aurelia. Buon divertimento! Tutte le soluzioni a pagina 56 di questo numero. LE VIGNETTE di Aurelia Oggi mi sento un po’ alterata Sei troppo sensibile! Smettete di spingere! NOTE ENIGMATICHE di Carlo Vitali VERO O FALSO? La colonna sonora del film Arancia meccanica di Stanley Kubrick usa in molte sequenze centrali un valzer di Richard Strauss. IL BERSAGLIO NOTE ENIGMATICHE di Carlo Vitali QUIZZONE IN CINQUE INDIZI Si tratta d’indovinare il nome di un compositore classico molto fortunato ai suoi tempi, poi quasi completamente dimenticato. 1. È sepolto a San Pietroburgo, ma era nato molto lontano: più o meno 3.780 chilometri a sud-ovest della metropoli russa. 2. Studiò a Bologna con un maestro che era quasi suo omonimo. Anzi gli omonimi erano due, e per distinguerli i contemporanei facevano ricorso alla loro nazionalità. 3. Compose più di trenta opere e una ventina di balletti per i maggiori teatri dell’epoca: il San Carlo di Napoli, il Burgtheater di Vienna, l’Ermitage di San Pietroburgo, il King’s Theatre di Londra. Inoltre varia musica sacra, sinfonie e divertimenti per orchestra, ottetti per strumenti a fiato e un concerto per violino. 4. Il suo brano più conosciuto è l’aria “Oh, quanto un sì bel giubilo”, eseguita ancor oggi centinaia di volte l’anno in tutti i teatri del mondo. Peccato che sia una semplice citazione all’interno di un’opera di altro autore. 5. Alla fine del 2007 è uscita una sua biografia televisiva, una coproduzione russo-spagnola intitolata Una cosa rara. Partendo dalla parola indicata dalla freccia, raggiungete quella contenuta nel centro del bersaglio, eliminando successivamente tutte le parole incluse in esso, secondo le seguenti regole: 1. La parola può essere un sinonimo o un contrario della parola che la precede. 2. Può essere un anagramma della parola precedente. 3. La si può ottenere aggiungendo, togliendo oppure modificando una lettera della parola precedente. 4. Può essere collegata alla precedente in un proverbio, oppure nel titolo o nella trama di un lavoro teatrale, musicale o artistico in genere. 5. Può collegarsi alla precedente in una metafora o similitudine, o ancora per associazione d’idee. 6. Può formare insieme alla precedente il nome di un personaggio celebre o di un luogo conosciuto, reale o immaginario. 39 Fra Czerny e il Novecento di Chiara Sirk La nostra ideale libreria, questo mese mette in vetrina tre titoli. Sono, in ordine alfabetico d’autore, Confusamente il Novecento di Giampiero Cane, Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte di Carl Czerny e Voci e tamburi lontani. La musica ispirata agli Indiani d’America di Dario Müller. Affrontano argomenti distanti, pur essendo tutti ‘d’argomento musicale’. In realtà il percorso di lettura rivela una sua coerenza. Partendo dalle regole ottocentesche di Czerny si arriva alla ‘confusione’ del secolo scorso, passando per una terra di mezzo in cui l’incontro fra le certezze dei musicisti americani e la musica dei Nativi produce un curioso repertorio che tenta di unire mondi musicali lontani. Ecco, possiamo immaginare un viaggio in cui vediamo lentamente sgretolarsi un mondo in cui tutto è chiaro e normato. Così, infatti, era senza ombra di dubbio per Czerny, compositore negletto, sempre in auge per i suoi volumi di tecnica, obbligatori per l’apprendista pianista, autore di pagine ingrate, a detta dei più, povere d’ispirazione e zeppe di sfide e trabocchetti. Le curatrici, Maria Chiara Mazzi e Margherita Pierantoni, nel volumetto pubblicato da Pardes mostrano in 119 pagine in piccolo formato che ogni difficoltà, ogni passaggio ha un senso. La formula è 40 quella assai apprezzata nella letteratura di due secoli fa: uno scambio, immaginario s’intende, di lettere tra insegnante e allievo. La giovane Cecilia rimane nell’ombra, mentre il musicista le spiega perché affrontare certe asperità. Si scopre così, dal capitolo “Sul tocco e sul modo di suonare il pianoforte” fino a quello conclusivo “Sull’esecuzione delle improvvisazioni”, che lo studio dello strumento è una scalata continua verso la vetta in cui non esiste più l’incertezza o l’errore, resta solo il perfetto fluire della musica. Il volume Voci e tamburi lontani. La musica ispirata agli Indiani d’America di Dario Müller, pubblicato dall’editore Zecchini, ci porta verso orizzonti decisamente più originali. Se l’autore da tempo coltiva l’interesse per la musica scaturita dal contatto fra Europei trapiantati nel nuovo continente e tribù autoctone, il grande pubblico ignora tutto di queste vicende. È risaputo l’impatto che ebbe la musica d’importazione africana sulle vicende compositive degli Stati Uniti, ma il fatto che questo esito fu del tutto imprevisto e addirittura inviso agli intellettuali che s’interrogavano sulle radici della musica della nuova nazione, è meno noto. Lo spiega bene nell’introduzione Marcello Sorce Keller. Come andò a finire lo sappiamo, quello che invece ignoriamo è che per qualche decennio diversi compositori cercarono di creare una musica ‘autenticamente’ americana entrando in contatto con le melodie degli Amerindi. Che tutto questo sia scomparso, e che i nomi ricordati in questo volume siano di perfetti sconosciuti ai più (da Edward MacDowell ad Arthur Farwell, da Carlos Troyer a Lily Strickland), indica che il tentativo non sortì gli esiti sperati. Il volume ricorda i protagonisti della vicenda e fornisce una buona interpretazione dei motivi di questo fallimento. Chiudono il libro, cui è allegato un cd, una postfazione di Carlo Vitali e una ricca bibliografia. Confusamente il Novecento di Giampiero Cane, edito da Clueb, in copertina la riproduzione di un collage polimaterico dell’autore, è una raccolta di scritti nati in diverse occasioni. Non si tratta di una collezione di articoli, saggi e riflessioni ormai stantii e finalmente rilegati (i volumi di questo genere costano poco lavoro all’autore e sono di scarsa o nulla soddisfazione per il lettore). Questo è un libro povero di citazioni e pieno di spunti, dove l’apparato critico una volta tanto è sostituito dall’esercizio critico, da un’implacabile riflessione su un secolo ricco di complessità. Che Giampiero Cane abbia voluto cimentarsi con il Novecento è indicativo di una certa, tenace volontà di ragionamento anche sugli argomenti meno semplici. Per leggere il volume occorre essere attrezzati con quella cultura che una volta si reputava bagaglio minimo di un interessato all’arte. Non è un volume dedicato agli specialisti, anzi, la capacità di tessere relazioni fra vari repertori, di spaziare tra epoche lontane, di mescolare musica colta e leggera e diverse arti risulta piacevolmente estranea a certi rigori travestiti da attendibilità scientifica in cui capita d’imbattersi, ma richiede tempo e dedizione. Vale la pena riuscire a trovare entrambi. Bellezza in musica di Alberto Spano L’avventura discografica del Quartetto Alban Berg comincia a Vienna nel marzo 1974, tre anni dopo la sua fondazione, per l’etichetta Telefunken (poi Warner) e fin dalle musiche scelte è chiaro il ‘manifesto’ interpretativo del giovane quartetto: Quartetto op. 76 n. 3 (l’Imperatore) di Haydn, Quartetto op. 3 e Suite Lirica di Alban Berg. Il che significa voler dire a voce alta la propria origine viennese orgogliosamente sostenuta nella caratteristica eleganza e, nel contempo, riaffermare questa gloriosa tradizione proiettandola in avanti nel tempo fino ad abbracciare l’esiguo ma essenziale repertorio della Seconda Scuola di Vienna. L’incisione del 1974, in cui i quattro dimostrano di aver mirabilmente ereditato e fuso assieme il rigore e l’intelligenza del Quartetto Italiano e la bellezza del suono e il lirismo del Quartetto Amadeus, la ritroviamo in uno splendido cofanetto che la Warner ha prodotto raccogliendo la totalità delle registrazioni dell’Alban Berg Quartett fra il ’74 e il ’78: un pezzo di storia dell’interpretazione del nostro secolo, un vademecum indispensabile per la conoscenza del repertorio quartettistico, se si esclude l’opera di Beethoven, autore affrontato in disco solo più avanti. Vi troviamo gli ultimi dieci Quartetti di Mozart (i sei dedicati ad Haydn, il KV 499 Hoffmeister e i tre Prussiani). Vi troviamo i Quartetti D 804 e 173 di Schubert, i due di Brahms, l’op. 106 di Dvořák, i Cinque Movimenti op. 5, le Sei Bagatelle op. 9 e il Quartetto op. 28 di Webern, infine il Quartetto di Erich Urbanner, composto nel 1972. Memorabile la lettura brahmsiana, impostata sulla valorizzazione estrema dell’intrinseca complessità formale e sul suo scioglimento in bellezza sonora e in struggimento lirico. E memorabili Berg e Webern, certo diversi da quelli ‘quasi avanguardisti’ del Quartetto Italiano, ma ugualmente intensi e coerenti. Passato alla Emi, l’Alban Berg realizza nel trentennio successivo una discografia della quale citiamo i Quartetti di Debussy e Ravel, il primo di Smetana e l’Americano di Dvořák, i due Quartetti di Janáček e quattro Quartetti di Schubert (D 804, D 810, D 887, D 87). Fondamentali e universalmente ammirate le incisioni dei Quartetti di Bartók e la silloge di autori contemporanei pubblicata nel 1994 comprendente il Quartetto op. 45 di Gottfried von Einem, il Quartetto n. 2 “in memoriam Christi Zimmerl” di Haubenstock-Ramati, il Concertino, il Doppio Canone e i Tre pezzi di Igor’ Stravinskij. Nel 1996 esce il cofanetto 1971-96, 25th Anniversary Edition, Music of the 20th century, comprendente tutte le registrazioni dell’Alban Berg di musiche del Novecento: Berg, Bartók, Rihm, Schnittke, Stravinskij, Haubenstock-Ramati, Einem e Janáček. Inutile sottolineare l’importanza (anche culturale) di questo box, al quale si aggiunge poi la bellissima incisione dal vivo del Quartetto di Luciano Berio accoppiato ai Quartetti 81 e 82 di Haydn. Ma è alle due integrali beethoveniane che i discofili pensano subito quando si parla di Quartetto Alban Berg: la prima registrata in studio fra il ’78 e l’83, la seconda interamente dal vivo nel 1989 nella Mozartsaal di Vienna. Le interpretazioni non differiscono sostanzialmente, se non per le diverse prese del suono e per ininfluenti problemi di intonazione nei live viennesi all’inizio e al termine delle singole esecuzioni. In entrambe è portato al più alto livello quel lavoro di scandaglio e di approfondimento del testo che ha reso unico il Beethoven del Quartetto Alban Berg: a cominciare dal supremo equilibrio nello stacco dei tempi e nella chiarezza polifonica fra gli strumenti e il loro inimitabile colore. Capitolo collaborazioni fissate in disco: Elisabeth Leonskaja per il Quintetto op. 34 di Brahms e La Trota di Schubert (Georg Hörtnagel al contrabbasso), Philippe Entremont per il Quintetto di Schumann, Alfred Brendel per il Quartetto n. 2 e il Concerto KV 414 di Mozart, Rudolf Buchbinder per il Quintetto di Dvořák, Sabine Meyer per quello con clarinetto di Brahms, Heinrich Schiff per il Quintetto per archi di Schubert, membri dell’Amadeus per il secondo Sestetto di Brahms, Heinz Medjimorec, Alfred Mitterhofer, Ernst Ottensamer, Alois Posch e Wolfgang Schulz per il fortunato album del 1994 con i valzer degli Strauss e di Lanner trascritti da Berg, Schönberg e Webern. Infine il bandoneonista Per Arne Glorvigen per l’album popolare Tango sensations con musiche di Astor Piazzolla, Juan Carlos Cobián, Eduardo Arolas, Julio de Caro e Kurt Schwertsik, inciso dal vivo nel 2003. 41 Editore Fondazione Musica Insieme Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - Tel. 051/271932 Direttore responsabile: Fabrizio Festa In redazione: Bruno Borsari, Fulvia de Colle, Marco Fier, Alessandra Masini, Roberto Massacesi Hanno collaborato: Sara Bacchini, Alessandro Di Marco, Stefano Dondi, Maria Pace Marzocchi, Maria Chiara Mazzi, Chiara Sirk, Alberto Spano, Alessandro Taverna, Carlo Vitali Grafica e impaginazione: S.O.S. Graphics - Castel San Pietro Terme (Bologna) Stampa: Grafiche Zanini - Anzola Emilia (Bologna) Registrazione al Tribunale di Bologna n° 6975 del 31-01-2000 MUSICA INSIEME RINGRAZIA: ASCOM BOLOGNA, BANCA CR FIRENZE, BANCA DI BOLOGNA, BANCA ETRURIA, BANCA POPOLARE DELL’EMILIA ROMAGNA, BARTOLINI CORRIERE ESPRESSO, CAMST RISTORAZIONE, CARISBO, CARPIGIANI, CASSA DI RISPARMIO DI CENTO, COOP ADRIATICA, COOPERATIVA EDIFICATRICE ANSALONI, CSR CONGRESSI, FATRO, FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA, FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA, GRAFICHE ZANINI, GRUPPO GRANAROLO, GUABER, GUERMANDI.IT, IeS GROUP, MAX INFORMATION, M. 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Il tema conduttore di Arancia meccanica è la Nona Sinfonia di Beethoven, ultimo movimento. IL BERSAGLIO CLEMENZA – TITO – MITO – MINO – REITANO – RESTANO RESTAGNO – ENZO – RE – MINORE – ENORMI – GIGANTI CADUTA – CAUTA – CASTA – DIVA – NORMA – NORA ORNA – TORNA – RIEDI – IRIDE – RIDE