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Sommario n. 1
Febbraio-Marzo 2008
Musica a Bologna
I programmi di Musica Insieme
Intervista
Il calendario
Il MAMbo
di Sassoli de Bianchi
di Fabrizio Festa
I Concerti:
Febbraio/Marzo 2008
Mikhail Kopelman, l’anima
russa del quartetto
di Alessandro Di Marco
27
16
18
Intervista
Il violino di Daniel Hope
di Alessandra Masini
Argomenti
Intervallo
MICO 3 e la molteplicità
dell’attuale
di Fulvia de Colle
Chi era costui?
39
20
Per leggere
Profili
Da Czerny al Novecento
Stockhausen:
il genio e lo zen
di Carlo Vitali
36
di Chiara Sirk
40
24
Da ascoltare
L’Alban Berg:
bellezza fatta musica
Luoghi della musica
La chiesa di Santa Lucia
di Maria Pace Marzocchi
In copertina: Alban Berg Quartett
2
25
di Alberto Spano
41
Nel mentre ci accingiamo a scrivere queste righe, la vicenda del
Manzoni non ha ancora trovato una soluzione. Indipendentemente,
però, da quale sarà l’esito del bando di assegnazione, il semplice
fatto che ci sia stata una sola
risposta la dice lunga sulla
speciale natura dell’intera
vicenda. Non è questo il luogo
per una ricostruzione storica.
Certo è che fin dagli inizi,
avendo il Comune di Bologna
deciso di non interessarsi di
quell’Auditorium, che pure
aveva ritenuto un bene
indispensabile per la vita di
questa città al punto da
decidere di realizzarlo a proprie
spese, non è cominciata nel
migliore dei modi. Che
significato ha che una
municipalità, in una città come
la nostra, che pretende di essere
un polo culturale di riferimento
per il paese e per l’Europa, si
doti di una struttura come il
Manzoni, e poi seriamente pensi
che possa essere gestita da
privati senza il suo concorso (e
non solo finanziario)? La
domanda non ha avuto e non
ha ancora una risposta. Anche
perché la cessione al Teatro Comunale (in teoria, esso pure un
“privato”) è avvenuta, per così dire, obtorto collo, e probabilmente
la voglia di abbandonare già ora la sala al suo destino è forte. Se
sommiamo la questione Manzoni a quella Duse, altra sala a
rischio, ecco che il sistema dello spettacolo dal vivo a Bologna
mostra un profondo vulnus proprio in una delle sue componenti
essenziali: quella del corretto uso degli spazi, un uso che dovrebbe
essere razionale, funzionale, ottimizzato in relazione non solo ai
costi, ma anche, e soprattutto, agli scopi. Si torna così al vero
nodo: al di là dei fin troppo ricorrenti inviti ai privati (operatori e
sponsor), non sono ancora chiare le linee della politica culturale,
sulle quali peraltro dovrebbero allinearsi anche quegli operatori
privati a cui il Comune si rivolge. Da qui discendono quei problemi,
che tuttora stentano a trovare soluzione, fra i quali ovviamente
quello dell’uso e della funzione degli spazi è davvero in prima fila.
In attesa di...
di Fabrizio Festa
3
Dalle stanze del MAMbo, il nuovo Museo d’Arte Moderna dalla spiccata vocazione innovatrice
e sperimentale, il presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi invita Bologna a guardare oltre
La sindrome dell’arrocco
di Fabrizio Festa
Le vicende legate alla Galleria d’Arte Moderna (GAM)
prima, e ora al Museo d’Arte Moderna (MAMbo), sono,
come i lettori più informati sapranno, complesse e diversamente articolate. Certo è che da quando il 5 maggio
dello scorso anno il nuovo spazio museale bolognese ha
aperto i battenti, la speranza di un ulteriore arricchimento della vita artistica e culturale nella nostra città ha assunto una maggiore concretezza. Intorno al MAMbo (acronimo dal gustoso sapore musicale) si sono, infatti, focalizzate diverse attese. Quelle degli artisti da un lato.
Bologna, sebbene sempre senza farlo sapere, ospita tra i
maggiori artisti figurativi e performer d’Italia. Ognuno per
sé, in verità, secondo una modalità che è ancora ottocentesca, e che proprio in forza di uno spazio con le potenzialità del nuovo Museo potrebbe finalmente essere
abbandonata. Poi, resta aperta la questione del coordinamento tra le diverse istituzioni artistiche e culturali, della
quale si torna a parlare con preoccupante regolarità.
Preoccupante perché tale regolarità per il momento corrisponde ad un mero esercizio verbale, sebbene il ritorno di Mauro Felicori alla direzione dell’Assessorato alla
cultura è un fatto di segno assolutamente positivo. Gli è
che, comunque, la politica bolognese si è per il momento avvitata intorno a questioni lontane da quelle culturali, ed anche, diciamolo pure, da quelle che riguardano la
vita dei cittadini. Eppure, proprio l’inaugurazione del
MAMbo avrebbe dovuto spingere l’amministrazione in
direzione totalmente opposta: l’apertura di un simile spazio museale è un’occasione da non perdere, anche per
chi, pur essendo un operatore attivo nell’ambito della
cultura, dell’arte e dello spettacolo, non si occupa direttamente di arte figurativa. Tra gli obiettivi del Museo c’è,
del resto, ed è stato più volte ribadito, quello di essere il
luogo territoriale (immaginiamo, nell’ordine: bolognese,
provinciale, regionale, nazionale, internazionale) ove
ospitare nuove relazioni, partendo dall’assunto che
MAMbo prende parte attivamente alla rete mondiale, che
mette in relazione tutti coloro che, per una ragione o per
l’altra, lavorano nel mondo dell’arte contemporanea.
Peraltro, quasi a voler sottolineare uno degli elementi che
da sempre hanno caratterizzato la cultura bolognese,
MAMbo nasce sì come museo (e quindi come collezione
permanente della produzione artistica moderna e contemporanea soprattutto italiana), ma anche come spazio
aperto alla sperimentazione. Ovviamente, alla sperimentazione in particolare dei giovani, di coloro che vogliamo
credere guardino avanti (sebbene l’età anagrafica non
fornisca di simili certezze). Insomma, passato, presente e
futuro dovrebbero trovare nel Museo di Via Don Minzoni
16
Lorenzo Sassoli de Bianchi
un luogo privilegiato d’incontro. Privilegiato, peraltro, da
più punti di vista. Quello della fruizione della collezione
e delle mostre da un lato, e quello della sperimentazione
anche tra diverse forme d’arte dall’altro. Poi, ma non in
secondo piano, c’è la formazione e la didattica, il MAMbo
avendo già attivato una serie d’iniziative in tal senso.
Naturalmente è troppo presto per trarre un bilancio, sebbene proprio in questo primo scorcio dell’anno si vada
profilando con maggiore nettezza nell’amministrazione
bolognese l’intenzione di avviare un significativo sforzo a
favore di un maggiore sfruttamento delle risorse artistiche
e culturali della città. Vedremo nei prossimi mesi, in attesa che si sciolgano i molti nodi, anche nazionali, che
ancora rendono difficile articolare una rete di relazioni tra
istituzioni ed operatori, nel mentre le attività didattiche e
di formazione sono tuttora la cenerentola del dibattito
politico e culturale nel nostro paese. Di tutto questo
abbiamo parlato con Lorenzo Sassoli de Bianchi, che di
MAMbo è il presidente. Nelle sue risposte alle nostre
domande il lettore potrà trovare la conferma di quanto
andavamo dicendo. In più, Lorenzo Sassoli de Bianchi
sottolinea la percezione di un timore oggi molto diffuso
tra gli operatori culturali: quello che la città – una volta
aperta e pronta ad accogliere con attenzione, anche critica, le diverse spinte innovative – si stia oggi invece chiudendo. Una chiusura che, al di là della contingenza economica, dovrebbe essere contrastata con forza proprio
per poter garantire a Bologna una presenza futura nel
contesto almeno europeo. Insomma, non è il momento
di tirare i remi in barca, e di chiudersi dentro le mura,
sebbene la sindrome dell’arrocco – e non solo qui sotto
le due torri – sembri diffondersi rapidamente, e non solo
tra la gente. Troppi sono coloro che son tentati di cavalcarla, pensando al tornaconto immediato, afflitti da quella miopia progettuale che è, purtroppo, uno dei mali
endemici del nostro amato paese.
Nella sua posizione di presidente del MAMbo, lei è
un osservatore privilegiato delle vicende culturali
bolognesi. È d’obbligo, quindi, chiederle: qual è il
suo giudizio sullo stato attuale della vita culturale
nella nostra città?
Lo stato attuale della vita culturale della nostra città è a
mio parere buono. Non a caso in tutti i sondaggi locali e
nazionali la cultura esce come elemento che caratterizza
in termini positivi la vita di Bologna. Si può sempre fare
meglio, ma, tenuto conto anche delle risorse limitate disponibili negli ultimi anni per vari motivi, mi pare che in
questo campo possiamo essere soddisfatti, come cittadini, di quanto si realizza.
Bononia docet: è solo un mito, una leggenda metropolitana, o è una realtà di cui non sappiamo cogliere a fondo tutte le opportunità? Qual è, a suo avviso,
il posizionamento culturale di Bologna rispetto alle
altre grandi città italiane?
Il ruolo di Bologna come riferimento culturale nazionale
è una realtà indiscussa che ha come suo motore l’università in primis, seguita dalle numerose e qualificate istituzioni culturali, come Musica Insieme e Bologna Festival, i teatri, i musei, i centri culturali, il Mulino, il Centro
San Domenico, Nomisma, e i tanti altri che potremmo qui
citare. Proprio per la presenza massiccia di giovani in fase
di formazione, Bologna dovrebbe rappresentare il luogo
della sperimentazione e dell’innovazione. Questo aspetto
pare negli ultimi anni essere annebbiato da una sempre
maggiore e diffusa tendenza alla conservazione. La città
si sta arroccando e chiudendo in se stessa, quasi avesse
paura ad aprirsi al nuovo. È un peccato perché la nostra
è una città con grandi potenzialità che non stanno, da
tempo, trovando la strada per esprimersi compiutamente.
In questo contesto, come s’inserisce il MAMbo, tanto
a livello cittadino, quanto in un più vasto ambito italiano ed europeo?
Il MAMbo si è proprio data, in ambito nazionale, la missione di innovatore. Il posizionamento del nuovo Museo
è appunto quello di rappresentare nel panorama italiano
un polo innovativo, dedicato alla sperimentazione artistica e alla didattica, traendo linfa dalle energie e curiosità
del tessuto giovanile e universitario e, più in generale,
rappresentando un punto di riferimento sulla ricerca più
avanzata per tutti coloro che sono interessati alla sperimentazione artistica. Dal MAMbo passeranno, speriamo,
i Warhol e i Kiefer di domani. L’apparato didattico è anche molto forte, come deve essere in un museo pubblico, per permettere di seminare curiosità e interesse nei
giovanissimi verso l’arte visiva.
Foto Iguana Press
Da più parti, e direi in questi anni con un’allarmante regolarità, è stato invocato un coordinamento cittadino (e regionale) delle diverse istituzioni culturali (dai musei ai teatri) e di tutte le numerose iniziative (dalle mostre ai concerti), che rendono la vita
artistica di Bologna tra le più intense in Italia (e non
solo). Tale coordinamento, ovviamente, sarebbe
dovuto essere organizzato dalla municipalità, attraverso gli assessorati competenti. Anche lei è di questo avviso? Sarebbe davvero così importante poter contare su di un simile coordinamento, anche solo ai fini dell’ottimizzazione delle risorse umane e finanziarie?
È proprio dell’amministrazione cittadina il
compito di coordinare, dove e quando possibile, le attività culturali che insistono sul
proprio territorio. Questo principio cozza
spesso con difficoltà oggettive che si presentano tutte le volte che si tenta di creare
una rete, e che potrebbero essere superate
attraverso la condivisione e la buona volontà di chi ha le responsabilità delle diverse
istituzioni culturali. Si tende purtroppo, però, all’individualismo che sfocia nella scarsa
disponibilità al confronto con l’amministrazione e con le altre istituzioni. È ovviamente auspicabile che queste resistenze si possano superare, perché si darebbe una maggiore organicità, pur nel rispetto delle differenze e delle singole individualità, alla proposta culturale cittadina.
Una veduta dell’interno del MAMbo
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Mikhail Kopelman, una vita dedicata al quartetto, racconta di sé e della sua straordinaria
esperienza artistica, dal Borodin al gruppo che porta il suo nome
L’anima russa del quartetto
di Alessandro Di Marco
Mikhail Kopelman appartiene ad una generazione d’interpreti per i quali la coincidenza tra musica e vita è quasi
assoluta, vorremmo dire totalizzante. Classe 1947,
Kopelman nasce ad Uzhgorod, in quell’Unione Sovietica
che aveva fatto della musica uno degli assi portanti della
sua politica culturale. Non è questo il luogo per affrontare un argomento tanto complesso, quanto quello del rapporto fra ideologia, propaganda e politica culturale in
URSS, ma un dato ci pare incontrovertibile: dal punto di
vista della formazione le scelte sovietiche si sono rivelate vincenti. Tant’è che le loro scuole hanno prodotto
generazioni di grandi interpreti e di altrettanto grandi
compositori con regolarità e costanza davvero impressionanti. Kopelman è uno di questi. Tra i suoi maestri, quelli che incontra al Conservatorio di Mosca, spicca il nome
di Yuri Yankelevich, nella cui classe si sono formati, oltre
allo stesso Kopelman: Leonid Kogan, Tatiana Grindenko,
Vladimir Spivakov, Lev Markiz, solo per citarne alcuni. Di
Yankelevich segue le orme, facendo una carriera simile.
Eccolo prima nelle file dell’Orchestra del Bolšoj, poi spalla della Filarmonica di Mosca, ed infine docente, un ruolo
che, dopo aver tenuto per anni una cattedra proprio al
Conservatorio di Mosca, ora svolge negli Stati Uniti presso lo Eastman College, dopo aver insegnato anche alla
Yale School of Music. Nel 1976 la svolta che segna la carriera di Kopelman: fonda il Quartetto Borodin. Con il
Borodin girerà il mondo
per una ventina d’anni,
raccogliendo meritatissimi successi. Il Borodin,
infatti, è tra i quartetti che
sono riusciti a stabilire un
canone interpretativo del
repertorio, divenendo un
riferimento per l’intero
mondo della musica.
Per quanto riguarda la
produzione russa, e più
genericamente per l’area
dell’Europa Orientale, ad
esempio, le interpretazioni del Borodin, tutte reperibili su cd, sono non solo
tra le più felici, ma anche
una vera e propria pietra
di paragone per chiunque
voglia avvicinarsi a quella
letteratura.
Nel 1996, esaurita quell’e- Kopelman Quartet
18
sperienza, Kopelman diviene primo violino di un altro
celeberrimo quartetto: il Tokyo. Insomma, una vita dedicata al quartetto d’archi, e spesa tutta da un lato nel continuo approfondimento del repertorio (con significative
puntate nella musica contemporanea), dall’altro nel trasmettere ai suoi moltissimi allievi i frutti di una così lunga
e rilevante esperienza.
Un’esperienza che si concretizza – come emerge chiaramente da quest’intervista – sia nella prassi, anche in quella più immediata e quotidiana come la scelta dei programmi, sia in una sorta di straordinario bagaglio di emozioni, ricordi, sensazioni, che spontaneamente vanno a
costituire una parte rilevante del “suono” del suo nuovo
ensemble: il quartetto che porta proprio il suo nome.
L’intervista non poteva che cominciare da questo sentire,
ed un po’ alla volta emerge appunto il carattere unico ed
irripetibile di questa sua vita per la musica.
Il quartetto d’archi è universalmente considerato la
formazione principe della musica da camera. Da
interprete esperto, come vive questo ruolo fondamentale?
Čajkovskij diceva che la musica da camera è costituita
dalle rivelazioni più intime di un compositore. Come
musicisti, cerchiamo proprio di cogliere l’essenza di ogni
brano e di accostarci agli autori catturando le loro più
intime emozioni ed il dramma che questi traspongono in
musica.
Scegliere il repertorio è uno dei momenti più
importanti della vita di un quartetto. Seguite un
vostro criterio ‘scientifico’, o vi affidate anche al
vostro intuito?
Cerchiamo di scegliere la musica più bella, quella che sentiamo più vicina e con cui avvertiamo una vera affinità.
Naturalmente, la nostra attenzione va spesso al repertorio
russo, perché ne riusciamo a cogliere con immediatezza
lo spirito, potendone così ritrasmettere al pubblico la vera
essenza. Certo, la scelta del proprio repertorio può essere
molto difficile, soprattutto se pensiamo alla quantità di
opere che sono state composte per il quartetto d’archi.
Tra le vostre priorità c’è la diffusione del verbo dei
grandi compositori russi dell’Ottocento e del
Novecento. Prima col Borodin, oggi con il
Kopelman, tanto lei quanto i suoi collaboratori vi
siete sempre distinti per aver dato ampio spazio a
quella letteratura, spesso peraltro riscoprendo
grandi capolavori – primi fra tutti proprio i
Quartetti di Borodin. Quali sono a suo avviso le differenze più evidenti tra la produzione russa e sovietica da un lato e quella occidentale dall’altro?
Sicuramente, le caratteristiche che rendono unici i quartetti per archi della scuola russa sono il lirismo e la drammaticità. Entrambi questi aspetti emergono chiaramente
nella musica di Čajkovskij, per esempio, come pure in
Šostakovič. I compositori sovietici illustrano spesso i
momenti più drammatici della loro vita, e tuttavia rappresentano eventi ed emozioni di valore universale. Nei
Russi, ad ogni modo, l’accento cade soprattutto sull’intensità drammatica e sulla melodia.
Qual è, secondo lei, il rapporto fra autori contemporanei e quartetto d’archi? Ritiene che vi siano
opere nuove e interessanti dedicate a quella formazione, visto che proprio in Unione Sovietica e nella
Russia di oggi molti sono gli autori che vi si sono
dedicati?
Penso che i compositori contemporanei siano ancora
interessati a scrivere musica per il quartetto d’archi. Per
esempio, dopo Schnittke e Gubaidulina, oggi sono i lavori di Silvestrov e Pärt che presentano caratteristiche di originalità molto interessanti.
Nella storia, l’Italia e la Russia hanno dato i natali a
moltissimi grandi musicisti, e tra questi due paesi è
sempre esistito un fitto rapporto di scambio in
ambito artistico e culturale. Quali sono a suo avviso
le caratteristiche che rendono unici i nostri artisti?
Storicamente i migliori artisti russi, sia musicisti che pittori, hanno studiato e lavorato in Italia. Moltissimi nostri
compositori, poi, sono venuti in Italia, persino prima di
Glinka, un autore ben noto per il suo stile assai influenzato dalla scuola italiana. Probabilmente, ciò che accomuna gli autori russi a quelli italiani è la loro forte tradizione lirica. L’Italia è la patria dell’opera e quest’aspetto
ha influito molto su tutta la sua musica. Sebbene la produzione musicale della scuola russa non si sia mai focalizzata troppo su un aspetto particolare, la canzone ed il
KOPELMAN QUARTET
Mikhail Kopelman violino
Boris Kuschnir
violino
Igor Sulyga
viola
Mikhail Milman
violoncello
Il Kopelman è uno dei maggiori quartetti d’archi della
grande tradizione russa. Latore di un’eredità fatta di tecnica eccellente, profondo lirismo ed integrità musicale,
appare regolarmente presso centri musicali d’importanza
internazionale ed in festival come quelli di Edimburgo,
Valladolid, Zurigo e al Ravinia Festival di Chicago. I componenti del gruppo provengono tutti dal celeberrimo
Conservatorio di Mosca, dove si sono formati negli anni ’70,
decisamente un’età dell’oro per gli allievi, che ebbero la possibilità di attingere a Maestri quali David Oistrakh, Boris
Belenky, Yuri Yankelevich, Dmitri Šostakovič, Mstislav
Rostropovič, Natalia Gutman. Mikhail Kopelman, l’attuale
primo violino della formazione, ha ricoperto per oltre vent’anni il ruolo di primo violino nell’ambito dell’altrettanto
celebre Quartetto Borodin, conseguendo nel corso della propria carriera due fra i riconoscimenti più ambiti, ovvero il
Royal Philharmonic Society Award e la Medaglia d’Onore
del Concertgebouw. Boris Kuschnir, il secondo violino, è a
sua volta uno dei più stimati didatti russi. Non a caso,
annovera tra i propri allievi artisti del livello di Julian
Rachlin e Nikolaj Znaider. Igor Sulyga, viola, ha suonato
per oltre vent’anni con Vladimir Spivakov ed i celebri
Virtuosi di Mosca. Infine Mikhail Milman, violoncello, ha
suonato per vent’anni come prima parte dei Virtuosi di
Mosca ed ha regolarmente collaborato con il Quartetto
Borodin, in ambito concertistico e in ambito discografico.
lirismo sono importantissimi per i compositori sovietici.
E, forse, questo comune lirismo, così unico e così simile
tra Russia e Italia, è proprio quello che ci unisce.
Quali sono i progetti futuri del Kopelman Quartet?
Per quanto riguarda il repertorio, abbiamo in progetto di
presentare al pubblico alcuni autori, come Mjaskovskij,
Weinberg e Taneev, musicisti eccezionali, ma meno noti
al pubblico. Al momento stiamo lavorando sul Quintetto
con pianoforte di Weinberg, che registreremo l’estate
prossima insieme al Decimo Quartetto per archi di Šostakovič. L’autore dedicò questo lavoro proprio a Weinberg,
quindi pensiamo che l’accostamento funzioni particolarmente bene. Lo inseriremo inoltre nella collana Šostakovič Plus, che curiamo per l’etichetta Nimbus. In queste
incisioni mettiamo appunto a confronto le opere di Šostakovič con i lavori dei suoi contemporanei. Abbiamo già
registrato il Quartetto n. 13 di Mjaskovskij, che sarà presto
pubblicato insieme al Primo e all’Ottavo Quartetto di Šostakovič. Nel primo disco di questa serie, abbiamo poi affiancato Šostakovič a Prokof’ev. I nostri progetti futuri prevedono inoltre dei concerti con Elisabeth Leonskaja, con
la quale abbiamo già eseguito il Quintetto di Šostakovič e
il Trio di Čajkovskij. Poi, appariremo al Festival di Primavera di Praga e al Konzerthaus di Berlino, e naturalmente
suoneremo in magnifiche sale, come quelle italiane!
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Al via la terza edizione di MICO, itinerario nella contemporaneità in sei tappe, fra Teatro
Comunale, Aula Absidale e Auditorium Manzoni
La molteplicità dell’attuale
di Fulvia de Colle
20
Stagione 2008
26 DIVERTIMENTO ENSEMBLE
GENNAIO 2008 sabato ore 20,30
Teatro Comunale
Musiche di: Riley, Shankar, Takemitsu, Crumb, Harrison
In collaborazione con Teatro Comunale di Bologna - L'altro Comunale
7 TRIO WANDERER
FEBBRAIO 2008 giovedì ore 21
Aula Absidale di Santa Lucia
Musiche di: Escaich, Copland, Schnittke, Mantovani
28 MARKUS PLACCI
FEBBRAIO 2008 giovedì ore 21
Aula Absidale di Santa Lucia
violino
MICHELANGELO CARBONARA
pianoforte
Musiche di: Stravinskij, Cervello’, Rautavaara, Poulenc, Adams
8 URI CAINE
MARZO 2008 sabato ore 20,30
Teatro Comunale
pianoforte
Solitaire
In collaborazione con Teatro Comunale di Bologna - L'altro Comunale
27 QUARTETTO HAGER
MARZO 2008 giovedì ore 21
Aula Absidale di Santa Lucia
PATRIZIA POLIA soprano
PAOLO BESSEGATO voce recitante
INRI – Passione secondo Anonimo
Testo di Giuseppe Di Leva e dai Vangeli
Musica di Carlo Galante
14 I VIOLONCELLISTI
APRILE 2008 lunedì ore 21
Teatro Manzoni
DELLA SCALA
GIOVANNI SOLLIMA
violoncello
Musiche di: Sollima, Hendrix
BIGLIETTERIA
CONCERTI AL TEATRO COMUNALE (Largo Respighi, 1)
presso la biglietteria del Teatro Comunale dal giorno 15 del mese
precedente il concerto.
Orari: dal martedì al venerdì ore 15-19 – sabato ore 10-12,30 e 15-19.
Concerto del 26 gennaio, Divertimento Ensemble: posto unico € 10.
Concerto dell’8 marzo, Uri Caine: platee e palchi € 20, balconata € 8.
CONCERTI AULA ABSIDALE DI S. LUCIA (Via de’ Chiari 25/a)
un’ora prima dell’inizio del concerto. Prezzo dei biglietti € 7.
CONCERTI AL TEATRO MANZONI (Via de’ Monari 1/2)
presso la biglietteria del Teatro, il giorno del concerto dalle 15,30 alle
20,45. Prezzi dei biglietti da € 10 a € 38.
Disponibilità di ingressi gratuiti per gli studenti dell’Università di
Bologna, da ritirare previa presentazione del tesserino universitario.
musica insieme contemporanea
Giunta alla sua terza edizione, Musica Insieme COntemporanea, patrocinata dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Università di Bologna, e sostenuta dal contributo delle Grafiche Zanini, riconferma un ruolo da
sempre perseguito con costanza e impegno da Musica
Insieme: quello di farsi efficiente strumento di amplificazione e promozione del nuovo, ospitando in tutte le sue
stagioni – dai Concerti di Musica Insieme al Teatro
Manzoni a Musica Insieme in Ateneo all’Aula Absidale di
Santa Lucia – nuovi autori e nuovi interpreti, e spesso
affiancando al repertorio consolidato quelle esperienze
della contemporaneità che a nostro avviso andrebbero a
tutto diritto inserite nel novero dei classici, o nei casi più
recenti accolte con attenzione e curiosità sempre massime. Basterà ricordare il progetto “Opus 18” che nel 2000
ci ha visto affidare al Brodsky Quartet – a sua volta attivo divulgatore della nuova musica – l’esecuzione integrale dei sei Quartetti op. 18 di Beethoven accanto ad
altrettanti quartetti di compositori contemporanei, ad essi
ispirati ed appositamente commissionati. O il “Progetto
Nono”, che nel 2006 ha visto Maurizio Pollini protagonista della ripresa di A Floresta, fondamentale pagina composta nel 1966 dal musicista veneziano, con la direzione
di Beat Furrer e la partecipazione di interpreti esperti di
contemporaneità come lo Schlagquartett Köln o il clarinettista Alain Damiens. Quella di Bologna rappresentava
l’unica data italiana di una tournée che dall’Austria sarebbe approdata in Giappone.
Il successo delle edizioni 2006 e 2007 di MICO ci conforta
in questo sforzo sempre rivolto verso l’apertura, la crescita, la divulgazione di un bene come la musica, che, tutt’altro che polveroso lascito museale, continua a pulsare
e a dare nuovi frutti, spesso – e soprattutto in questo
paese – ignorati proprio da quelle istituzioni che dovrebbero favorire e tutelare la crescita culturale. Tanto più
significativo perciò è per noi l’impegno virtuoso della
Regione Emilia-Romagna in questo senso, e la sua
scelta di affidarci l’organizzazione di una rassegna come
MICO costituisce una sfida e uno stimolo lusinghiero.
Obiettivo dichiarato di questi nostri concerti, come dimostra anche il rapporto con l’Università degli Studi di
Bologna, è fin dall’inizio la ricerca di un dialogo sempre
più diretto con un pubblico sempre più numeroso e consapevole del ruolo fondamentale che la musica riveste
nella vita e nella cultura di ciascun individuo. Va in questa direzione l’offerta di ingressi gratuiti ai concerti di
MICO per gli studenti universitari, destinatari privilegiati
delle nostre esplorazioni musicali, e ciò in virtù del valore formativo che attribuiamo all’arte dei suoni, non solo
Divertimento Ensemble (26 gennaio)
timento ha raccolto in questi anni oltre 500 nuove
partiture di 142 autori diversi, e più della metà
sono musiche nate appositamente per l’Ensemble. Un’opera di promozione quasi senza precedenti, cui si aggiunge negli ultimi anni un’attenzione altrettanto decisiva verso una specifica figura professionale, per la quale a tutt’oggi la formazione istituzionale appare piuttosto lacunosa:
quella del direttore d’orchestra specializzato nel
repertorio novecentesco, cui il Divertimento dedica un corso annuale. L’organico scelto dall’Ensemble per la sua apparizione bolognese è la
chiave di volta per comprenderne il programma:
un quartetto crossover fra Occidente e Oriente,
come quello formato da chitarra e flauto, percussioni e tabla indiane, ci riporta ad uno specifico
spaccato della storia musicale recente, quello che
– con le significative anticipazioni di John Cage
fin dagli anni Cinquanta – ha visto numerosi compositori americani abbracciare le filosofie e le pratiche zen ed estremorientali, tradizione musicale
indiana in primis. Il processo, venuto prepotentemente alla ribalta negli anni Sessanta e Settanta e a suo
modo responsabile dello sviluppo di una world music
tuttora assai prosperosa e prolifica, non si è però svolto
a senso unico: se da una parte Terry Riley si fa seguace
dal 1970 al ’96 del maestro indiano Pandit Pran Nath,
approfondendo la teoria e la pratica dei raga (precise
forme melodiche sulle quali i musicisti possono improvvisare) e Lou Harrison si applica nella composizione per
le orchestre di gamelan giavanesi, l’indiano Ravi Shankar
e il giapponese Toru Takemitsu volgono viceversa lo
sguardo all’Occidente, l’uno facendosi ambasciatore di
successo della propria cultura musicale nel mondo, l’altro abbracciando nelle sue composizioni l’idioma di tradizione europea (poiché, affermava Takemitsu, “le melodie giapponesi sono come il Fuji, belle ma eternamente
immobili”); salvo non solo lasciar emergere le proprie
come necessario patrimonio culturale da coltivare e proteggere, ma anche come forma mentis e presenza
costante nel vissuto di ciascuno di noi.
Da quest’anno infine si realizza una nuova collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna: due dei nostri
concerti (quelli del Divertimento Ensemble, sabato 26
gennaio, e di Uri Caine, il prossimo 8 marzo) avranno
luogo nella Sala del Bibiena, inseriti nel programma
dell’Altro Comunale, il cartellone esplicitamente dedicato dalla Fondazione bolognese ad una ricca serie di esperienze ‘altre’ dalle stagioni istituzionali della Lirica e della
Sinfonica.
Anche per questa terza ricognizione nel mosaico della
contemporaneità abbiamo seguito alcune fondamentali
linee guida: innanzitutto la scelta, stante l’identità forte
che da oltre vent’anni caratterizza le stagioni di Musica
Insieme, di repertori da camera – una distinzione
di genere, quella fra lirica, sinfonica e cameristica, che pur nella Babele di linguaggi contemporanei sembra aver sempre mantenuto una sua
sostanziale validità – e l’affiancarsi agli interpreti
‘storici’ di forze nuove fra le più promettenti, con
una particolare attenzione per gli artisti di casa
nostra. Al di là di queste fondamentali premesse,
non ci siamo imposti alcun limite nella provenienza geografica, cronologica e culturale delle
musiche in rassegna, permettendoci la libertà di
spaziare attraverso i linguaggi e le voci della contemporaneità, e affiancando ai necessari capisaldi
del Novecento – da Copland a Poulenc, a
Stravinskij – le prime esecuzioni di autori come
Bruno Mantovani e Jordi Cervello’.
Citiamo subito fra gli ‘spiriti guida’ di questa edizione il Divertimento Ensemble, ospite del
concerto d’apertura, sabato 26 gennaio (Teatro
Comunale, ore 20.30): formatosi nel 1977 sotto la
direzione di Sandro Gorli per volontà delle prime
parti delle maggiori orchestre milanesi, il Diver- Trio Wanderer (7 febbraio)
21
22
insegna fra l’Unione Sovietica e l’Europa occidentale, con
un’attività equamente divisa fra ‘musica d’uso’ (oltre 60
colonne sonore per il cinema) e scrittura ‘colta’, elaborando una Polystilistik, un eclettismo stilistico dichiarato
che mira a sintetizzare linguaggi eterogenei, fra tecniche
tradizionali e d’avanguardia. Un “caleidoscopio stilistico”,
per citare l’autore, che dovrebbe riflettere la multiformità
del reale attraverso il suo variegato panorama acustico, la
sua “atmosfera alla Ives”. Copland e Schnittke si fanno
compositori per il pubblico, quindi, e mutatis mutandis
condividono le medesime intenzioni coi più giovani
autori in programma, come Bruno Mantovani, francese,
classe 1974, formatosi all’IRCAM bouleziano e fautore a
sua volta della necessità di rompere il pur inevitabile isolamento dell’autore (“comporre è per natura un’attività
solitaria”), trasformando gli “incontri effimeri” dei concerti, frustranti poiché il momento della condivisione è sempre troppo breve, in legami duraturi con chi ascolta, cercando insomma un dialogo, una conoscenza reciproca.
Dopo i Moments musicaux di Mantovani, in prima esecuzione italiana, conclude la ricognizione del Wanderer il
poco più che quarantenne Thierry Escaich con le sue
Lettres Mêlées: fantasie sui nomi di Bach, Brahms e Bartók
da parte di un autore e organista noto per le sue straordinarie improvvisazioni alla tastiera, tanto da evocare
l’immagine di un moderno erede di Bach – autore storicamente legato ad un’immagine di alacrità e produttività
ben visibile e condivisibile con il suo pubblico.
Torniamo in Italia, e proprio sotto le due Torri, perché
bolognese è il protagonista del concerto di giovedì 28
febbraio (in Aula Absidale alle 21): Markus Placci, pluripremiato violinista (dal “Vittorio Veneto” al “Brahms”),
si esibirà insieme al pianista salernitano Michelangelo
Carbonara, interprete nel 2006 – nella doppia veste di
solista e direttore – dell’integrale dei Concerti mozartiani
con la “Verdi” di Milano e di recente apparso al Carnegie
Hall di New York. Un duo under 30, che mostra tutta la
sua freschezza e curiosità d’esplorazione con un programma di ‘chicche’. Reso un doveroso omaggio alla prospettiva storica, con la neoclassica Suite Italienne che
Stravinskij trasse dal suo Pulcinella e la nostalgica Sonata
Uri Caine (8 marzo)
Foto Jan Caine
radici nella scelta spesso
‘etnica’ degli strumenti,
ma dando anche luogo
ad uno stile affatto nuovo, nato da una combinazione del tutto originale fra l’ascendenza nipponica e la personalissima pronuncia e sintassi
di una lingua per lui
essenzialmente esotica
come quella occidentale.
E una doppia anima,
germanica e russa, la
mostra anche la musica
di Alfred Schnittke, caposaldo insieme ad Aaron
Copland del concerto del
Trio Wanderer (gioveMarkus Placci (28 febbraio)
dì 7 febbraio alle 21, in
Aula Absidale di Santa Lucia): la formazione francese è a
sua volta una colonna portante nel panorama contemporaneo, da oltre trent’anni fedele al nome che si è prescelta, quello di un trio “errante” in lungo e in largo per
le lande più battute come per quelle meno note della
mappa musicale. Trionfali le sue apparizioni al Festival di
Salisburgo, divenute un appuntamento fisso dal 2002 a
oggi, il Trio ha licenziato nel 2007 un’incisione integrale
dell’opera di Brahms che ha fatto incetta di medaglie, dal
Diapason d’Or al Premio del MIDEM per il miglior cd
classico. Per il suo contributo a MICO 2008, il Wanderer
indica quattro vie, quattro possibilità diverse per provenienza storica e geografica, dal Copland degli anni Trenta
allo Schnittke degli Ottanta, alle ultime generazioni francesi rappresentate da Thierry Escaich e Bruno Mantovani,
ma accomunate tutte da un’acuta sensibilità per il problema della comunicazione in musica. Nel 1968,
Copland confessava: “Durante gli anni Trenta cominciai a
sentire una crescente insoddisfazione nella relazione fra
il pubblico degli amatori e i musicisti attivi. Il vecchio
pubblico “settoriale” dei concerti di musica moderna era
scomparso e quello convenzionale dei concerti
continuava ad essere abitudinario, ma apatico e
indifferente a tutto meno che ai classici affermati.
Mi sembrò allora che noi compositori corressimo il
pericolo di lavorare in un vuoto. […] Mi convinsi,
allora, che sarebbe stato degno di sforzo vedere se
non ero in grado di dire quel che avevo da dire nei
termini i più semplici possibili”. Ed i suoi sforzi
successivi saranno infatti volti a scongiurare il pericolo di uno iato troppo grande fra compositore e
ascoltatore, entrando nel novero di quegli autori
che ricercano apertamente un rapporto con il pubblico, non desiderando appartenere ad un’élite
agguerrita quanto isolata; una preoccupazione
condivisa con Alfred Schnittke, attivo agli antipodi
geopolitici di Copland, ma attentissimo – con tutto
il sospetto che quell’attenzione gli attirerà da parte
degli apparati sovietici – a quanto accade al di là
della cortina di ferro. Dal ’73 Schnittke produce e
Foto Lorenzo Ceva Valla
per violino e pianoforte di Francis Poulenc, Placci e
Carbonara affrontano infatti brani tecnicamente assai
impegnativi, quanto accattivanti anche per l’ascoltatore
più sospettoso: sia il catalano Jordi Cervello’ (1935), il
quale dedica a Placci tre Pensieri che ascolteremo in
prima esecuzione assoluta, sia il finlandese Einojuhani
Rautavaara (1928) parlano un linguaggio – spesso etichettato come ‘neo-romantico’ dagli addetti ai lavori –
attento al dialogo con l’ascoltatore, nella prospettiva di
‘intrattenere’ piuttosto che lambiccare l’orecchio, e lo
fanno comunque ricorrendo ad un’abilità e maestria di
scrittura memori di esperienze assai vaste, dal serialismo
all’elettronica. Campione di quest’equilibrismo fra ironia,
entertainment e tecnica è senza dubbio John Adams: e il
duo si congederà proprio con i suoi brillanti Road Movies
del 1995.
Di nuovo al Teatro Comunale, l’8 marzo (inizio alle 20.30)
sarà l’occasione per ascoltare il concerto in Solitaire di
una vera star del pianismo contemporaneo, un artista che
ha fatto dell’infrazione dei confini di genere la propria cifra
stilistica: Uri Caine, nato a Philadelphia 52 anni fa e già
allievo di Rochberg e Crumb, nella sua voracissima carriera si è cibato di jazz come di sinfonismo protonovecentesco (Mahler), dell’Otello verdiano come di Bach o dei
Beatles, tutto citando e rielaborando con una giocosità che
lo impone quale capofila dei molti pianautori oggi sulla
cresta dell’onda, e talvolta con spessore e intensità notevolmente superiori ai fenomeni del momento.
Contemplare oggi il mistero della Passione, con sguardo
incuriosito, appassionato ma intimamente laico, è la sfida
lanciata per il concerto pasquale (giovedì 27 marzo in
Santa Lucia, ore 21) da Giuseppe Di Leva e Carlo
Galante, che per farlo s’immedesimano con un immaginario segretario di Pilato, un ‘intellettuale’ romano che già
presagisce come quanto sta avvenendo – vicenda in
fondo non così singolare per l’epoca – sarà foriero di profondissime conseguenze. I testi della Passione secondo
Anonimo s’ispirano naturalmente ai Vangeli, ma con l’inconfondibile firma di un autore, come Di Leva, che scrive pensando al teatro e alla musica – ha collaborato con
Carmelo Bene e firmato i libretti di opere di Henze, Fer-
Paolo Bessegato (27 marzo)
Giovanni Sollima con I Violoncellisti della Scala (14 aprile)
rero, Tutino – e che con Galante, a sua volta allievo di
Castiglioni a Milano e fecondo compositore per il teatro
e la danza, costituisce ormai un binomio consolidato. La
voce narrante affidata all’attore Paolo Bessegato, la
colonna sonora del racconto agli archi del Quartetto
Hager, il soprano Patrizia Polia intercala al parlato le
sue intonazioni di salmi e arie, sorta di “via crucis musicale” lungo le varie stazioni della Passione.
E tutta italiana è anche la conclusione di MICO, lunedì
14 aprile al Teatro Manzoni (ore 21), con un violoncellista e autore di fama ormai planetaria come Giovanni
Sollima – basti ricordare che il suo Violoncelles, vibrez!
è il brano più eseguito al mondo di un autore italiano
vivente. Nel progetto che lo unisce ai Violoncellisti della Scala, il timbro unico di Sollima si moltiplica, si riflette e si amplifica nelle trasposizioni
dal Sette e Ottocento di Biber e Piatti come nelle
sue personalissime esplorazioni dello strumento,
nate da un genuino – e molto mediterraneo – interesse per la natura e la fisicità del suono. Se nei
suoi brani Sollima cerca “parentele con vocalità e
tecniche strumentali arcaiche e comunque non
occidentali, intervenendo sia sul timbro che sulla
stessa accordatura dello strumento”, nelle trascrizioni delle più memorabili songs di Jimi Hendrix il
violoncello si sostituisce alla chitarra in funambolici virtuosismi, cui l’archetto di Sollima offre anche
sostegno ritmico e armonico: una one-man-rock
band che ben rappresenta lo spirito dell’artista
palermitano, già solista fra i più quotati del repertorio ‘classico’, ed ora intenso cantastorie in bilico
tra folk e poesia.
23
Ricordiamo Karlheinz Stockhausen, scomparso lo scorso 5 dicembre, compositore prolifico, già
ospite di Musica Insieme nell’89 con il suo Gesang der Jünglinge
Lo Zen e l’arte di tacere
di Carlo Vitali
“Tutti i momenti di una forma sono determinati dalla
morte, che è allo stesso tempo una reincarnazione della
forma. Ogni gesto di una costruzione musicale, ogni suo
momento è impregnato di morte. […] La morte dell’uomo rappresenta solo uno dei suoi stati, e la musica è la
forma astratta dei processi che richiamano la vita degli
organismi.”
Sono parole di Karlheinz Stockhausen in Texte zur Musik
(1989), scritte a commento di Katinkas Gesang o il Requiem di Lucifero, la seconda scena di Samstag.
Attraverso un rituale di accompagnamento del morente,
ispirato al Bardo Thodol del buddhismo tibetano, il canto
del flauto percorre in ventiquattro tappe il cammino che
conduce alla liberazione dell’anima. Per Stockhausen,
Lucifero non è solo il demonio della teologia giudaicocristiana, ma – etimologicamente – il portatore di luce;
così come Saturno, signore del sabato e pianeta della
vecchiezza, è anche il padre della verità. Da mercoledì 5
dicembre 2007 Stockhausen dimora nella luce della verità. La sua morte è avvenuta a 79 anni nella casa che abitava a Kürten-Kettenberg, a una trentina di chilometri
dalla natia Colonia; solo due giorni dopo, a funerale
avvenuto, è stata resa nota dalla fondazione che porta il
suo nome.
Nel luglio del 1953 i Ferienkurse di Darmstadt lo avevano incoronato successore di Webern entro un triumvirato di cui facevano parte Luigi Nono e Pierre Boulez. La
terza scuola seriale è sopravvissuta, e di molto, anche al
24
concetto dell’avanguardia musicale come trasformatrice
del mondo, ma Stockhausen rimarrà nella storia del
Novecento per la sua creatività proteiforme, capace di
passare dalla concentrazione spasmodica di Klavierstück
N. 3 (1953), un epigramma di mezzo minuto, allo smoderato ciclo “operistico” di Licht (1977-2002), di fronte al
quale la Tetralogia wagneriana rischia di passare da
modello di concisione. È stato un pioniere delle applicazioni elettroniche, contribuendo alla fondazione dei mitici studi di fonologia a Parigi e Colonia, ma il suo sconvolgente Gesang der Jünglinge (1955), tredici minuti per
nastro magnetico diffuso da altoparlanti in ogni angolo
della sala, è pareggiato per intensità emotiva solo da
Stimmung (1968), un madrigale congelato per un’ora e
un quarto nella quasi immobilità di un sestetto di voci
umane a cappella. Ha lasciato lavori organizzati fin nel
dettaglio di una notazione fra le più ossessivamente controllate, ed altri che affidano all’interprete la libera scelta
di tutti i parametri: altezza, ritmo, timbro e durata. Nella
partitura di Aus den sieben Tagen (1963) troviamo l’indicazione: “suonate un suono; suonatelo finché non sentite che deve cessare”.
Il gioco di antitesi e citazioni potrebbe continuare a
lungo, evidenziando un anelito alla totalità che abbracciava in modo onnivoro le culture e gli archetipi umani:
oriente e occidente, ragione e intuizione, tecnologia e
teologia, musica dei pianeti e inni delle nazioni
(Hymnen, 1967). E sul piano delle scelte private la stessa abbondanza nel dare la vita (sei figli nati da tre o quattro donne diverse, una schiera di nipoti, un clan biblico
dove quasi tutti fanno musica sotto l’occhio bonario del
patriarca); ma anche il rinchiudersi in una torre d’avorio
donde ultimamente le registrazioni, autoprodotte in regime di monopolio, filtravano sempre più rare e a prezzi
quasi inaccessibili.
Piuttosto che per la sua abilità manageriale nel monumentalizzare ancora in vita il proprio Ego – o per le sue
incaute dichiarazioni sul massacro delle Twin Towers, i
cui postulati metafisici dovevano fatalmente sfuggire ad
un’opinione pubblica esacerbata – preferiamo ricordarlo
per un messaggio inserito in Es, tredicesimo brano delle
15 Meditazioni, dove la ricerca della liberazione interiore si esprime con la grazia lieve del maestro Zen:
Non pensare NIENTE
Aspetta fino a che tutto sia calmo in te
Quando avrai raggiunto ciò
Comincia a suonare
Appena cominci a pensare, fermati
E cerca di ritrovare
Lo stato del NON-PENSARE
Poi, continua a suonare.
Da tempio dei Gesuiti ad Aula Magna e Auditorium, storia di una chiesa recentemente rinata a
luogo della musica, dall’acustica ottimale e la scenografica vetrata-fondale
La chiesa di Santa Lucia
di Maria Pace Marzocchi
I Gesuiti si insediarono a Bologna nel 1546, presso l’antica chiesa parrocchiale di Santa Lucia donata all’ordine da
papa Pio IV, ma solo nel 1623 fu avviata la costruzione
della nuova chiesa, che divenne il fulcro dell’imponente
insula di edifici collegiali e biblioteche, ubicata nel cuore
della città (tra le vie Castiglione, Cartolerie e de’ Chiari),
come era consuetudine per gli insediamenti dell’ordine,
caratterizzato dalla vocazione all’insegnamento e alla formazione dei ceti dirigenti.
Nel corso di circa un secolo furono edificati la chiesa
barocca di Santa Lucia (1623-1659) su progetto dell’architetto romano Gerolamo Rainaldi, gli edifici conventuali, il
Collegio di Santa Lucia (poi Liceo Ginnasio “L. Galvani”),
la Congregazione delle Scuole, il Collegio dei Nobili e il
Collegio dei Cittadini o di San Luigi, successivamente
ampliati all’inizio del Settecento. La chiesa fu edificata sul
modello della romana Chiesa del Gesù progettata dal
Vignola: analoghi il vano architettonico di ampie dimensioni e la grande luminosità, ma nell’edificio bolognese la
luce è ancor più amplificata dall’uso dell’intonaco bianco,
e l’invaso spaziale risulta mosso da alcuni elementi architettonici di matrice scenografica emiliana, come le colonne libere, i pilastri ed i coretti. Quando la chiesa fu inaugurata nel 1659 mancava ancora l’abside, allora sostituita
da un fondale di legno dipinto. Tra interruzioni e riprese
i lavori si protrassero fino al 1735, quando l’architetto
Francesco Angelini, seguendo i disegni del Rainaldi,
costruì la parte dell’abside fino al cornicione, non riuscendo tuttavia a completare il progetto originario di aula a
croce latina con transetti e cupola. Nel decennio seguente vennero avviati i lavori dell’annessa libraria, inaugurata nel 1752 con pubblica apertura: con l’ausilio di stuccatori, frescanti e plasticatori, l’architetto Giuseppe Antonio
Ambrosi vi realizzò un capolavoro del barocchetto bolognese. Quanto alla chiesa, dopo la soppressione dell’ordine nel 1773 si rinunciò definitivamente al completamento della facciata.
L’anno seguente subentrarono i Barnabiti, che si impegnarono nell’edificazione di una nuova abside (1840-43),
ma con le successive soppressioni del 1866 per la chiesa
e per alcuni degli imponenti edifici annessi, divenuti di
proprietà comunale, si aprì una storia di usi incongrui e di
degrado. Tra fine Ottocento e Novecento la chiesa e la
zona absidale divennero deposito, palestra, laboratorioofficina dell’Istituto Aldini Valeriani. Poi ci fu la chiusura
ed il successivo abbandono.
Dopo lunghi restauri l’ex chiesa di Santa Lucia avrebbe
ripreso vita nel 1988, quando fu inaugurata come aula
magna in occasione delle celebrazioni del IX Centenario
dell’Università di Bologna. Ma è anche auditorium e sala
da concerti, capace di più di 900 posti, grazie all’allestimento dell’apparato ligneo di palchi-tribune.
Un analogo adeguamento è stato successivamente attuato
per l’aula absidale di Santa Lucia, ricavata dalla “conchiglia”
della sei-settecentesca abside incompiuta, che la copertura
reticolare in acciaio e l’apparato ligneo (una sorta di cavea
analoga a quella dell’abside principale) hanno trasformato
in un piccolo anfiteatro capace di circa 300 posti, rievocante la tipologia degli antichi odeon di origine italica, divulgati nelle città romane, riproposti nel Rinascimento (Teatro
Olimpico di Vicenza). Fa da scena l’ampia vetrata a tutt’altezza che raccorda i grandi piloni incompiuti della chiesa
barocca, scenografico fondale-quinta trasparente per la
cavea lignea, e ad un tempo cannocchiale visivo sulla parete esterna in cotto sagramato dell’abside ottocentesca e
sulle anse dei transetti incompiuti.
L’aula absidale è ora un recuperato ‘luogo per la musica’,
dove si tengono i concerti del Collegium Musicum Almae
Matris dell’Università di Bologna e la stagione di Musica
Insieme in Ateneo, quest’anno alla sua undicesima edizione. E l’acustica di Santa Lucia è davvero ottimale, come è
stato verificato in occasione del convegno sul design acustico (Bologna, Palazzo d’Accursio, ottobre 2006) promosso da Perspectiv (Associazione Europea dei Teatri
Storici) ed incentrato sulla verifica dell’acustica di luoghi
storici trasformati in nuovi auditori.
L’Aula Absidale di Santa Lucia
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LUNEDÌ 4 FEBBRAIO 2008 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21
Rafal Blechacz
pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart
Claude Debussy
Karol Szymanowski
Fryderyk Chopin
Sonata in re maggiore KV 311
Estampes
Variazioni in si bemolle minore op. 3
Vingt-quatre Préludes op. 28
PAG. 28
32
Il concerto fa parte degli abbonamenti:
• “I Concerti di Musica Insieme”
• “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
LUNEDÌ 11 FEBBRAIO 2008
Alban Berg Quartett
Franz Joseph Haydn
Alban Berg
Franz Schubert
PAG. 30
32
Auditorium Teatro Manzoni - ore 21
da Le ultime sette parole di Cristo sulla Croce
Hob. III: 50-56: Introduzione: Maestoso e Adagio
Lyrische Suite
Quartetto in sol maggiore D 887
Il concerto fa parte degli abbonamenti:
• “I Concerti di Musica Insieme”
• “Musica per le Scuole”
LUNEDÌ 10 MARZO 2008 Auditorium Teatro Manzoni - ore 21
Daniel Hope
violino
Sebastian Knauer pianoforte
Igor’ Stravinskij
Edvard Grieg
Felix Mendelssohn-Bartholdy
PAG. 33
32
Johannes Brahms
Suite Italienne
Sonata n. 3 in do minore op. 45
Selezione di Lieder
(arrangiamento per violino e pianoforte)
Sonata n. 3 in re minore op. 108
Il concerto fa parte degli abbonamenti:
• “I Concerti di Musica Insieme”
• “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
LUNEDÌ 31 MARZO 2008
Kopelman Quartet
Aleksandr Borodin
Dmitrij Šostakovič
Pëtr Il’ič Čajkovskij
PAG. 37
32
Auditorium Teatro Manzoni - ore 21
Quartetto n. 2 in re maggiore
Ottavo Quartetto in do minore op. 110
Secondo Quartetto in fa maggiore op. 22
Il concerto fa parte degli abbonamenti:
• “I Concerti di Musica Insieme”
• “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme:
Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - Tel. 051 271932 - Fax 051 231423
E-mail: [email protected] - Sito web: www.musicainsiemebologna.it
Sperimentazioni sonore
di Sara Bacchini
meno mannheimer della coeva KV 309, forse proprio perché Mozart era solito dapprima assorbire il
LUNEDÌ 4 FEBBRAIO 2008 Teatro Manzoni ore 21
gusto musicale di una determinata località, ritenendone poi solo quegli aspetti che più lo inteRAFAL BLECHACZ pianoforte
ressavano. L’Allegro con spirito d’apertura mostra
ancora alcuni caratteri tipici del periodo salisburWolfgang Amadeus Mozart Sonata in re maggiore KV 311
ghese: si presenta come una sinfonia italiana, in
Claude Debussy
Estampes
Karol Szymanowski
Variazioni in si bemolle minore op. 3
cui l’incisività del primo tema si contrappone alla
Fryderyk Chopin
Vingt-quatre Préludes op. 28
liricità del secondo, basato su una breve appoggiatura insistita. Nell’esposizione è di particolare
interesse il passaggio di materiale melodico tra le
due mani, che spazia nei vari registri della tastiera
l grande viaggio a Mannheim e Parigi del 1777-78 segna (mettendo così in risalto l’eguaglianza dei pianoforti Stein);
un’importante svolta nell’evoluzione pianistica di Mozart, seguono poi una breve Coda, sulla quale si fonda principaldovuta essenzialmente a due fattori: l’acquisita consape- mente la sezione dello sviluppo, e la ripresa, nella quale i due
volezza della propria arte strumentale, e la scoperta dei piano- temi vengono presentati in ordine inverso. L’Andante con
forti di Johann Andreas Stein, i più moderni e completi dell’e- espressione segue invece lo stile sentimentale cui si accennava
poca. A lasciarlo ammirato, oltre alla ‘ginocchiera’ con la fun- prima: il tema si ripresenta ogni volta variato in senso ornazione del moderno pedale di risonanza, è soprattutto la loro mentale, riappare anche negli episodi secondari, viene esposto
uguaglianza di suono, dovuta ad un preciso ritrovato tecnico – dalla mano sinistra e accompagnato da un lungo trillo della
lo scappamento – che consentiva all’esecutore un controllo del destra. Chiude la Sonata un Rondeau in 6/8 che s’impone subitasto, e quindi della sonorità, molto più preciso rispetto alle to per il brioso ritmo di caccia: brillante, perfettamente costruitastiere dell’epoca. Mannheim, città assai nota per la sua orche- to nell’alternanza di passaggi umoristici e momenti riflessivi, è
stra, era anche conosciuta per la creazione di uno stile sinfoni- caratterizzato da un episodio in tonalità minore e da una virco ‘sentimentale’, basato sulle sfumature e sulla dinamica: tuosistica cadenza centrale.
caratteristiche, queste, con le quali Mozart entrò in contatto Recuperi di forme appartenenti alla tradizione passata ma riletdurante il soggiorno nella cittadina tedesca e che si riflettono te in chiave moderna attraverso l’esplorazione delle qualità timanche nelle composizioni del periodo. La Sonata in re mag- brico-tecniche degli strumenti avvengono anche nell’Ottogiore KV 311, composta nel 1777, ha comunque uno stile cento: è il caso del preludio, genere musicale di forma libera e
Lunedì 4 febbraio
La Locandina
28
I
RAFAL BLECHACZ
Nato in Polonia nel 1985, si accosta al pianoforte all’età cinque anni. Nel
2005 vince all’unanimità il Primo Premio al Concorso “Chopin” di Varsavia,
aggiudicandosi inoltre il Premio della Radio Polacca per la “miglior esecuzione di mazurche”, il Premio della Società Polacca Chopin per la “miglior esecuzione di polacche” e quello della Filarmonica di Varsavia per “la migliore
esecuzione concertistica”. Vince inoltre il concorso istituito da Krystian
Zimerman per “la miglior esecuzione di sonate”. Andrzej Jasinski, segretario
della giuria, riferisce come sin dal primo turno del concorso si fosse reso conto
che il candidato alla vittoria era Rafał Blechacz, l’unico ad aver mostrato il
giusto approccio alla musica di Chopin. Nel luglio 2006, Blechacz sostituisce
Lang Lang a Verbier nella Sala Médran. Dopo la sua esibizione, un critico
inglese paragona la naturalezza dell’artista a quella del grande Zimerman,
affermando che Chopin “gli calza come un guanto. Il suo controllo, il nobile
fraseggio, la capacità di smorzare una melodia senza affettazione – scrive il
giornalista – tutto ciò gli dà una particolare connotazione”. Obiettivo dichiarato di Blechacz è quello di trasmettere gioia e freschezza al pubblico. “Nelle
mie interpretazioni – spiega l’artista – cerco di non essere influenzato da altri
pianisti, perché ciò potrebbe alterare l’equilibrio interno che si presume raggiunto dopo una lunga preparazione. Un’altra cosa che mi preme è ampliare
il mio repertorio, e ciò richiede tempo. Preferisco presentare un nuovo brano
al pubblico solo quando sento di averlo adeguatamente maturato”.
Rafal Blechacz
carattere improvvisativo che originariamente introduceva una Debussy aveva scoperto all’Esposizione Universale di Parigi del
fuga o una suite di danze per liuto, cembalo o orchestra. In 1889. Adagiata sui tasti neri, Pagodes sceglie la luminosa tonaesso Chopin pare tuttavia conservare l’idea di un pezzo di strut- lità di si maggiore, dominata da un tema pentafonico ostinato,
tura indefinita, indipendente, priva di uno schema formale al quale le ornamentazioni ritmiche e melodiche conferiscono
fisso, che però non introduce più nulla. Terminati durante un maggiore autenticità locale. A seguire, La soirée dans Grenade,
soggiorno invernale a Majorca con George Sand, i Préludes op. profonda, sensuale ed ossessiva habanera in fa diesis maggio28 sono pieni di allusioni, ricordi, evocazioni, che indagano re, che trae la sua prodigiosa forza di suggestione dalla prel’intimità più profonda del composisenza di un pedale ostinato di do dietore. Organizzati secondo l’ordine
sis nella parte grave della tastiera.
Debutta a Bologna
delle scale, per il quale ad ogni tonaEvocazione malinconica ed altera di
lità maggiore segue la relativa minouna notte andalusa, cronologicamenun pianista-rivelazione,
re, questi ventiquattro pannelli nelte è il primo dei pezzi spagnolegpremio “Chopin” 2005
l’insieme hanno un senso formale
gianti di Debussy, ed è ancora più
compiuto: Chopin riesce in questa
prodigioso se pensiamo che egli non
difficile impresa alternando velocità, densità ritmiche e caratte- ebbe mai occasione di andare in Spagna. A rinfrescare l’atmori espressivi in modo che ciascun pezzo abbia il suo comple- sfera dopo l’afosa notte andalusa, il vento parigino sferzante di
mento nel vicino e che il massimo dell’estensione e della den- Jardins sous la pluie: toccata virtuosistica in mi minore, perfetsità venga raggiunto nella parte centrale. I Préludes (omaggio ta stilizzazione del picchiettio della pioggia, e poi della schiarial Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach) apparvero con- ta e del cinguettio di mille uccelli infreddoliti e bagnati. Lo stestemporaneamente nel 1839 sia a Parigi che a Lipsia e la loro so Debussy, annunciando il completamento dell’opera, precipubblicazione provocò molto scalpore nell’ambiente musicale sava: “Quando non si hanno i mezzi per pagarsi i viaggi, non
dell’epoca, perché il maestro polacco sfidava le convenzioni c’è altra possibilità che supplire con l’immaginazione”.
del periodo sia per la forma che per la breve durata dei brani.
Influenzato prima da Chopin, poi da Skrjabin, considerati
modelli supremi dell’attività artistica, Karol Szymanovski divenDA ASCOLTARE
ne ben presto un abile manipolatore delle più sottili e raffinaUn applauso incontenibile sovrasta la conclusione orchestrale del Rondò
te armonie tardoromantiche, raggiungendo la perfezione nello
del primo Concerto in mi minore di Chopin: è il 24 ottobre del 2005 e il vensviluppo dei temi. Fin dalle sue prime opere emergono il forte
tenne Rafał Blechacz sta vincendo la XV edizione del Concorso “Chopin”
interesse per la musica polacca nella sua essenza più pura, e la
di Varsavia, il più importante al mondo, quello che ha lanciato Pollini,
volontà di comporre secondo principii e ideali della propria
Argerich e Zimerman, quello che può cambiare la vita ad un pianista. Tutta
cultura natìa: nel 1906 fonderà, insieme ad altri colleghi, la
l’elettricità di quella serata e l’intera cronaca del luminoso traguardo del
“Giovane Polonia in Musica”, che aveva come intento princigiovane polacco verso il massimo alloro si possono rivivere nel box di tre
pale quello di diffondere ed accrescere il repertorio e la tradicd dell’etichetta polacca Dux, non distribuita in Italia ma acquistabile via
zione musicale polacca. Figlio di un proprietario terriero, nel
Internet. C’è proprio tutto quello che Blechacz suonò per vincere, anzi
1902 cominciò a prendere lezioni private di armonia e comstravincere: Studio op. 10 n. 10, 6 Preludi op. 28, il Notturno op. 62 n. 1, 2
posizione da Noskowski, il più noto maestro di Varsavia, sotto
Valzer op. 64, Barcarola op. 60, Polacca op. 53, 3 Mazurche, Sonata op.
la cui guida furono composte le Variazioni in si bemolle mino58, Concerto op. 11 (con la Filarmonica di Varsavia diretta da Antoni Wit)
re op. 3 e anche la Prima Sonata op. 8 per pianoforte. I free il bis: il Chiaro di luna di Debussy. Fino ad una ventina di anni fa era la
quenti viaggi in Italia, a Lipsia, Berlino e Vienna tra il 1906 e il
Deutsche Grammophon a distribuire internazionalmente una selezione
1914 ne influenzarono poi molto da vicino il successivo camdelle prove del vincitore dello “Chopin”. Ora bisogna accontentarsi degli
biamento stilistico, linguisticamente affine all’impressionismo di
spartani (ma esaustivi) compact disc della Dux, venduti in tempo reale
Ravel e di Debussy.
durante il concorso, poi reperibili in Polonia o per corrispondenza. Dal
Introducendo nella musica occidentale una nuova concezione
2000 la Deutsche Grammophon produce un disco in studio e poi mette
del materiale sonoro e rifacendosi anche alle tradizioni oriensotto contratto il vincitore per qualche anno. Così è successo anche a
tali, Claude Debussy è forse il primo autore occidentale a comBlechacz, il cui cd d’esordio esce dopo ben due anni dalla vittoria. È un
porre con suoni anziché con note. Al pianoforte egli è solo, l’atvero peccato, però, perché si perde molto l’effetto-concorso, quel desito creativo e l’esecuzione materiale si confondono più intimaderio del pubblico di scoprire quasi in diretta un nuovo grande pianista.
mente che altrove: totale libertà ritmica e fraseologica, duttilità,
La gagliardia, la potenza emotiva di un pianista di classe superiore quale
leggerezza e indipendenza dello strumento, gli hanno permesBlechacz – nel momento dell’agone davanti a un pubblico stipato, per di
so di comporre secondo una logica atonale, pur adoperando
più in una musica incendiaria come quella di Chopin – sono il sale della
materiale assolutamente tonale, liberando la frase musicale
vita di discofili e pianofili. Il nuovo cd di Rafał Blechacz è un prodotto di
dalla tirannia della stanghetta di misura e introducendo una
gran classe, registrato ad Amburgo nel luglio 2007: il giovane vi suona i
varietà infinita di strutture ritmiche. Punto di volta della sua
Preludi op. 28, il Preludio op. 45, quello postumo e i due Notturni op. 62.
evoluzione in campo pianistico è il 1903 con Estampes: opere
Ma l’ascolto prolungato non delude le aspettative, perché nel fresco piadella prima maturità, apogeo delle ricerche sul colore e sulla
nismo di questo ventitreenne abbondano virtuosismo, poesia sonora,
ricchezza sonora dello strumento, questi quadri inaugurano
musicalità, pulizia di suono, onestà intellettuale. Le stesse qualità che
una maniera che dopo Images raggiungerà il culmine e si conriscontrammo nel suo cd d’esordio (Accord) registrato nell’aprile 2005 e
cluderà con i due libri dei Préludes. Pagodes, il primo quadro
finanziato dal Ministero della Cultura (questo succede in Polonia!), in cui il
del trittico, evoca le risonanze cristalline del gong, delle camNostro eseguiva da par suo la Sonata op. 22 di Schumann, i tre Studi da
pane, dei cimbali e delle altre percussioni balinesi, che
concerto di Liszt, la Suite Bergamasque di Debussy, le Variazioni op. 3 di
Szymanowski e la Polacca “Eroica” di Chopin. (as)
Aurora e crepuscolo
A
Lunedì 11 febbraio
di Stefano Dondi
30
nche in Spagna le opere di Haydn
La Locandina
godevano di grande considerazione,
LUNEDÌ 11 FEBBRAIO 2008 Teatro Manzoni ore 21
se nel 1785 un canonico del duomo
di Cadice gli commissionava una serie di pezzi
ALBAN BERG QUARTETT
destinati a commentare le sette parole del
Salvatore sulla croce durante la liturgia del
Joseph Haydn
da Le ultime sette parole di Cristo
Venerdì Santo. Tale fama era il risultato della
sulla Croce Hob. III: 50-56:
Introduzione: Maestoso e Adagio
diffusione ormai europea delle sue opere strumentali, teatrali e soprattutto sacre. Ciò che il
Alban Berg
Lyrische Suite
religioso spagnolo chiedeva era qualcosa di
Franz Schubert
Quartetto in sol maggiore D 887
assolutamente nuovo e particolare. Ce ne ha
lasciata testimonianza lo stesso Haydn: “Nella
cattedrale di Cadice si era allora soliti celebrare la Quaresima con un oratorio, alla cui maggiore efficacia sacra oscurità. A mezzogiorno tutte le porte venivano chiudovevano contribuire non poco le seguenti disposizioni. Le se; la musica cominciava. Dopo il Preludio il vescovo saliva
pareti, le finestre e le colonne della chiesa erano rivestite di sul pulpito, pronunciava una delle sette parole e faceva una
teli neri e solo una lampada accesa nel mezzo illuminava la riflessione su di essa. Poi scendeva dal pulpito e cadeva in
ginocchio davanti all’altare. La pausa era riempita dalla musica. Allo stesso modo per due, tre
volte ecc., e ogni volta l’orchestra interveniva
ALBAN BERG QUARTETT
alla fine del discorso. Il compito di comporre in
Günter Pichler
violino
sequenza sette Adagi della durata di dieci
Gerhard Schulz
violino
minuti ciascuno, senza annoiare l’ascoltatore,
Isabel Charisius viola
non era dei più facili”. L’opera fu dunque iniValentin Erben
violoncello
zialmente concepita per orchestra, ma subì due
Negli ultimi trent’anni è stato ospite regolare delle capitali musicali e
rielaborazioni: una per quartetto d’archi, realizdei maggiori festival di tutto il mondo. Oggi l’Alban Berg Quartett
zata parallelamente ai Quartetti dell’op. 50,
anima inoltre una propria serie di concerti nella prestigiosissima
un’altra, in forma di oratorio, portata a termine
Konzerthaus di Vienna (dove ha debuttato nel 1971 e di cui è attualpresumibilmente attorno agli ultimi anni del
mente membro onorario), al Royal Festival Hall di Londra (dove sono
Settecento. Da una lettera al suo editore londiArtisti Associati), all’Opera di Zurigo, al Teatro degli Champs-Elysées di
nese sappiamo che Haydn riteneva questa sua
Parigi, alla Philharmonie di Colonia e alla Alte Oper di Francoforte.
composizione inseparabile dal contesto liturgiAssai più importante delle critiche superlative della stampa e dell’entuco: “Queste Sonate sono elaborate in maniera
siasmo del pubblico è per il Quartetto la realizzazione del messaggio
conforme alle parole. Così Cristo Nostro
interpretativo delle opere eseguite e l’arricchimento costante del repertoSignore ha parlato sulla croce… Ogni sonata
rio che spazia dal periodo classico all’avanguardia; il nome “Alban
come ogni testo è espresso dalla musica struBerg” simbolizza quest’impegno. Il Quartetto si dedica attivamente
mentale unicamente in modo che desti anche
anche alla formazione di giovani musicisti: tutti i suoi membri insegnano all’Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna e, dal
1993, anche presso la Musikhochschule di Colonia, succedendo al
Il leggendario Quartetto
Quartetto Amadeus. Il suo impegno per la crescita culturale ed artistica delle nuove generazioni è pari alla devozione che il Quartetto ha nei
saluta Bologna nella sua
confronti sia dell’attività concertistica che della musica nel senso più
ultima tournée
ampio del termine. Sin dal debutto, l’attività discografica occupa un
posto speciale nel lavoro del Quartetto, il quale ottiene oltre una trentinell’anima dei più sprovveduti la più profonda
na di importanti premi internazionali (Grand Prix du Disque,
impressione…”. Haydn afferma in questo
Deutsche Schallplattenpreis, Premio Edison, Japan Grand Prix, Gramomodo, con il consueto senso della misura, la
phone Magazine Award). Molte delle sue incisioni – fra cui l’integrale
religiosità serena ma non intaccata dal dubbio
dei Quartetti di Beethoven, Brahms, Berg, Webern, Bartók, il ciclo comdi un tipico esponente dell’assolutismo illumipleto degli ultimi Quartetti di Mozart, nonché le numerose registrazionato. La forzosa sobrietà cui sospinge la formuni dal vivo – sono considerate pietre miliari sia dal pubblico che dalla
la per quartetto d’archi determina un’intensità e
critica. Nel 2005 il Quartetto subisce una grave perdita con la morte del
una concentrazione espressiva assolutamente
violista Thomas Kakuska. Al suo posto suona oggi Isabel Charisius, sua
uniche all’interno dell’intera produzione, non
allieva nei corsi di perfezionamento.
solo cameristica, di Haydn. Senza il gigantismo
e gli orpelli di coro, solisti e orchestra, la musica del com- fanciulla”, avrebbe detto Schumann), sotto le parvenze
positore austriaco si impone chiara, netta e regolare con la apparentemente più innocue della titubanza malinconica,
forza della necessità fin dall’introduzione, ieratica e ‘proces- mina alle fondamenta quel perfetto equilibrio tra forma ed
sionale’, non una nota di troppo, non una di meno, mai una espressione. Il paradosso di Schubert (ovvero il suo modo
pausa superflua, nessun immotivato cambiamento di dina- particolare di essere romantico) sta proprio in quel suo ostimica: quanto di più prossimo si
nato attaccamento alle forme trapossa immaginare all’idea di classidizionali, in quel suo non osare
Nelle Sette parole
cità secondo Winkelmann: “nobile
intaccarle esternamente, corrosemplicità e quieta grandezza”.
dendole però dal di dentro. Se
Haydn raggiunge
Una lezione di civiltà ed equilibrio
ogni sistema in crisi ritrova un
un’intensità
che permette a questa musica di cirequilibrio organizzando la propria
costanza di oltrepassare la dimenstruttura attorno a un nuovo elee una concentrazione
sione strettamente liturgica per aspimento aggregante, in Schubert
espressiva assolutamente
rare a quella universalità che solo la
questo elemento è il Lied. La
forza della ragione può dare.
dimensione melodica dilaga nella
uniche all’interno della
La generazione romantica, allontasua opera ad ogni livello, intacsua intera produzione
nandosi da questo sicuro porto per
cando la luminosa linearità della
lanciarsi alla ricerca piena di insidie
forma-sonata ma indirizzando,
di nuovi approdi, ha dovuto inevitabilmente manomettere il anche mediante una nuova concezione armonico-timbrica,
perfetto meccanismo in cui si oggettivizzava il discorso le potenzialità dell’espressione musicale verso mete del tutto
musicale. Non che lo spirito classico sia mai del tutto tra- inesplorate (troppo poco si ricorda ad esempio quanto gli
montato, soprattutto in quella città di Vienna in cui si era deva l’arte di Anton Webern). Il lirismo, presente nei toni sia
dapprima meravigliosamente sviluppato. Eccolo infatti per- pur leggiadri fin dalle composizioni giovanili, diviene in
vadere ancora l’opera di Beethoven, Weber, Schubert, quelle più mature il sintomo di una lacerazione profonda, di
Mendelssohn, per arrivare fino a Brahms. Ma il demone un dissidio, certo mirabilmente trasfigurato, tra il proprio
oscuro della melanconia, il virus dell’inquietudine labirinti- essere e la distratta sordità del mondo. Le movenze più
ca, ha progressivamente messo in discussione quell’ordine, accorate dell’ultimo Schubert sono dunque la manifestaziodando vita a una nuova creatura: sicuramente più bizzarra, ne di una crisi della ragione che in musica si traduce in uno
contraddittoria e, talora, contorta, ma forse più accattivante slittamento dal piano di una struttura tematica, rigorosae familiare. Se in Beethoven l’assalto alla fortezza del classi- mente articolata, a quello della giustapposizione di spunti
cismo viennese assume i connotati del titanismo individua- melodici autosufficienti ed autonomi, inseriti in un contesto
listico, Schubert (“paragonato a Beethoven… un carattere di di precarietà prodotto dal continuo alternarsi di maggiore e
Alban Berg Quartett
31
Lunedì 11 febbraio
32
minore. Il Quartetto in sol maggiore,
l’equilibrio classico, a causa del preval’ultimo dei venti quartetti del compolere di una potenza oscura e maligna,
sitore austriaco, è un compendio di
in una ridda conclusiva di inappagate
tutte queste caratteristiche. Vi si palesa
aspirazioni.
tra l’altro con forza una ricerca di effetCon Alban Berg (1885-1935) e la sua
ti che ci riporta allo stile sinfonico, più
Lyrische Suite (1926) ci troviamo proche a quello cameristico. Scriveva
iettati in una fase ulteriore ma conseSchubert nel 1824 all’amico Kupelwieguente del processo di introiezione
ser: “Non ho scritto molti nuovi Lieder,
della rappresentazione musicale.
ma mi sono dedicato ad alcune opere
Frutto esemplare e tra i più perfetti
strumentali; ho infatti composto 2
della temperie espressionista, questa
quartetti per archi e un ottetto e voglio
composizione associa in effetti allo
scrivere un altro quartetto: in questo
scavo capillare nei meandri dell’inconmodo voglio prepararmi la strada per
scio il rigore geometrico della tecnica
una grande sinfonia”. L’ultimo dei tre
dodecafonica. Nella suite l’abbandono
quartetti cui si allude è quello in sol
della tradizionale struttura del quartetmaggiore che fu portato a termine due
to per archi consente al compositore
anni dopo ed eseguito integralmente
viennese una maggiore libertà ed
solo dopo la morte dell’autore. È sicuanche una assai variegata escursione
ramente una delle composizioni più
emotiva; basta leggere i titoli dei sei
sconvolgenti ed innovative di Schumovimenti: Allegro gioviale, Andante
bert. Fin dalle prime battute l’ascoltaamoroso, Allegro misterioso, Trio estatore ha la percezione di un clima da
tico, Adagio appassionato, Presto delitragedia imminente, dove energie conrando, Largo desolato. D’altra parte un
trastanti cozzano e si intrecciano l’una
soggettivismo così rimarcato avrebbe
con l’altra senza requie e senza redenpotuto tralignare nel confuso velleitarizione. Lo stesso contrappunto si svismo di tante composizioni novecenteluppa drammaticamente in funzione
sche, se non avesse avuto dalla sua l’earmonica e melodica e non rappresennergia aggregante della serie di dodici
ta un rifugio di geometriche certezze.
note (“senza altri rapporti che tra di
Le idee musicali si succedono come in
loro”), nonché la sottile imbastitura di
un lento procedere all’interno di una
temi e allusioni musicali che legano
natura ostile, ammaliata e ammaliante,
l’un l’altro in successione ciascuno dei
in un crescendo di progressivo, ansimovimenti. Il fascino intrinseco di
mante sgomento. La dialettica beethoquesto lavoro di Berg risulta poi
veniana, in virtù della quale l’artista Alban Berg
accentuato dal suo programma nascoaffronta a testa alta le avversità, cede il
sto che solo in anni relativamente
passo qui alla rassegnata consapevolezza dell’inevitabile recenti (1976) è stato svelato. Già Adorno aveva intuito che
sconfitta. Nel secondo movimento la dimensione contem- si trattava di “un’opera segreta” e George Perle, grande stuplativa, associata ad un canto struggente, definisce, nei toni dioso del compositore austriaco, accennava a un “dramma
enfatici di un recitativo, una condizione di estatica, agghiac- psicologico completamente soggettivo”, sotteso alla compociata impotenza. Col riaffacciarsi
sizione. La riscoperta di una partidebole di un tema di marcia la
tura annotata dallo stesso Berg,
tensione accumulata svapora in
appositamente per la sorella di
Fra le composizioni
una ascetica, quasi celestiale conFranz Werfel, Hanna, ha permesso
più sconvolgenti
sacrazione elegiaca. Lo Scherzo
di mettere in luce i riferimenti simpropone una sorta di danza spetbolico-numerici a una vicenda
ed innovative di Schubert,
trale di sapore prebruckneriano,
sentimentale che per ovvi motivi
l’ultimo Quartetto
intervallata dalle movenze di un
l’autore volle lasciare enigmatici.
Lied il cui potere straniante semUna sorta di linguaggio cifrato la
è davvero la
bra anticipare addirittura Mahler.
cui chiave fu consegnata solo alla
conflagrazione definitiva
Questa tensione rimane inalterata
diretta interessata.
dell’equilibrio classico
nell’Allegro conclusivo.
Certo, è un cabalismo erotico che
Ancora una volta il Lied non riesce
poco aggiunge al valore artistico,
a divenire elemento chiarificatore,
eccelso, della Lyrische Suite, ma
anzi contribuisce per contrasto ad acuire il senso di malefi- che contribuisce a comprendere meglio quel rapporto tra
zio indotto dallo spigoloso articolarsi delle parti, dove le manierismo labirintico dell’elaborazione tecnica e aspirazioprogressioni armoniche inattese producono un senso di ne a una sempre più inafferrabile verità dell’esistenza che
precarietà, di vertigine tale da sembrare spingere verso un massimamente contraddistingue il miracolo dell’arte noveinevitabile abisso. È davvero la conflagrazione definitiva del- centesca.
di Maria Chiara Mazzi
La Locandina
LUNEDÌ 10 MARZO 2008
Teatro Manzoni ore 21
DANIEL HOPE
SEBASTIAN KNAUER
Igor’ Stravinskij
Edvard Grieg
Felix Mendelssohn-Bartholdy
violino
pianoforte
Suite Italienne
Sonata n. 3 in do minore op. 45
Selezione di Lieder: Suleika – Auf Flügeln des Gesanges – Hexenlied
(arrangiamento per violino e pianoforte di Daniel Hope e Sebastian Knauer)
Johannes Brahms
Sonata n. 3 in re minore op. 108
Q
uando un autore si accinge ad utilizzare un orga- tratta nel 1933 dalle musiche di Pulcinella) quando la tranico dalla storia plurisecolare, come il violino e sposizione è operata dallo stesso autore, anche se in collapianoforte, certamente qualche problema se lo borazione col violinista Duskin, oppure (come nel caso dei
pone. Innanzitutto perché la storia della letteratura Lieder di Mendelssohn) quando l’adattamento proviene dallo
musicale per questo organico è talmente ricca di capolavori stesso interprete del concerto. Dobbiamo invece pensare che
che il confronto avviene inevitabile. Un confronto, innanzi- le trascrizioni, gli adattamenti, le trasposizioni da un organitutto, sull’impiego e sull’equilibrio tra i due strumenti, poiché co all’altro hanno avuto, e ancora hanno, una funzione
tutta la prima fase dell’avventura del duo, sino a fine importantissima nella diffusione della musica perché hanno
Settecento, si è giocata con l’accompagnamento del clavi- consentito la fruizione di repertori specifici al di fuori dei loro
cembalo (e non del pianoforte) mentre la situazione si è poi contesti, allargandone la conoscenza e la diffusione. Diverso
assestata da Beethoven in poi. Ma non finisce qui: c’è anche è, invece, l’approccio che i compositori hanno nei confronti
un confronto sulle forme, perché da quando il classicismo delle forme ereditate dalla tradizione, soprattutto quando si
viennese ha fatto della sonata la struttura più impegnata e tratta di autori collocati quasi ai margini, temporali o geograprivilegiata, quasi tutto il resto è stato collocato tra le ‘forme fici, della tradizione stessa.
minori’, secondo l’idea che, per aspera ad astra, solo le cose Brahms iniziò l’attività di compositore scrivendo sonate per
complesse e difficili sono ‘di valore’. Infine, non manca il pianoforte, dimostrando all’inizio di voler rimanere ancorato
confronto sul ‘consumo’ di questo prodotto artistico, perché ad una forma classicamente tradizionale in un momento in
nel corso dei secoli la musica da camera diventa musica da cui, soprattutto in ambito cameconcerto, con tutto ciò che questo fatto porta con sé dal ristico e sinfonico, prioritaria era
punto di vista della struttura tecnica e dell’impatto da parte l’idea del cambiamento. Se tutdell’ascoltatore. Così sta a lui stabilire le gerarchie in questo tavia si analizzano soprattutto le
programma, dove le forme ‘serie’ della sonata si alternano a sue opere cameristiche, noterepagine di fascino straordinario ideate per altri organici e mo come il legame con la ‘sto‘adattate’ al violino per ricordare che, invece, “c’est bien ria’ sia solo apparente, e sotto di
agréable d’être important, mais c’est aussi bien important d’ê- esso si agitino le acque molto
tre agréable”. Secondo la logica di questo cappello ci si per- mosse di una continua ricerca
donerà se il nostro discorso si presenterà un po’ ‘disordina- di un linguaggio che corrisponto’ rispetto all’ordine simmetrico proposto dal programma, da al suo pensiero musicale.
Non a caso le grandi forme sinche ci propone, per ogni tempo del concerto, un hors-d’œufoniche vengono progressivavre e un brano più seriamente strutturato.
Cominciamo proprio dai due brani che aprono rispettiva- mente abbandonate a favore
mente la prima e la seconda parte, cercando di ascoltarli per della musica da camera, dove
quello che sono senza paragonarli alle sicuramente ‘più Brahms riesce a compiere un’oimpegnative’ sonate di cui sono premessa. Troppo spesso, infatti, consideTrascrizioni e adattamenti
riamo le trascrizioni meno importanti o
meno significative per l’espressione delda un organico all’altro hanno
l’estetica di un autore, soprattutto quelle
da sempre una funzione
di brani più complessi. E ciò (come nel
caso della Suite Italienne di Stravinskij,
importantissima per la
diffusione della musica
Sebastian Knauer
Lunedì 10 marzo
Una storia infinita
Lunedì 10 marzo
DA ASCOLTARE
34
È già cospicua la discografia del violinista inglese
Daniel Hope, inaugurata a vent’anni nel 1995 con l’incisione per la Nimbus Records dei Concerti di Toru
Takemitsu, Kurt Weill e Alfred Schnittke con la English
Symphony Orchestra diretta da William Boughton.
Grazie a quest’incisione e alle successive per la stessa
etichetta britannica, il violinista si fece conoscere al
grande pubblico per il suo apostolato nella musica del
Novecento e contemporanea: nel 2000 seguirono le
Sonate di Šostakovič, Schnittke, Pärt e Penderecki, poi
le Sonate di Walton, Elgar e Finzi, in duo col pianista
Simon Mulligan. Del 2003 è il bel disco Forbidden
Music con opere per violino, viola e violoncello di compositori perseguitati quali Klein, Krása e Schulhoff, in
trio con Philip Dukes alla viola e Paul Watkins al violoncello. Archiviata una partecipazione di gran rango in un
disco collettivo della EMI registrato allo Heinbach
Chamber Music Festival (musiche di Hindemith e
Prokof’ev), Hope fu ingaggiato nel 2004 dalla Warner
per la registrazione della nuova revisione critica del
Concerto di Alban Berg accoppiato al difficile Concerto
di Benjamin Britten, con la BBC Symphony Orchestra
diretta da Paul Watkins. A questo disco, unanimemente lodato dalla critica internazionale, fece seguito la
prima incisione mondiale di Apotheosis (in memoriam
Joseph Joachim) di John Foulds con la City of Birmingham Symphony Orchestra diretta dall’eccellente
Sakari Oramo. Al bellissimo album Warner East meets
West con musiche di Ravel, Falla, Schnittke, Bartók,
Shankar (con Gaurav Mazumdar e Sebastian Knauer),
è seguita l’incisione della Sonata in sol maggiore per
violino e pianoforte KV 379 e del fantomatico e incompiuto Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e
orchestra di Mozart (la cui numerazione è ancora più
astrusa: K. App. 56/K 315f) nel completamento del
musicologo inglese Philip Wilby, accanto al pianista
tedesco Sebastian Knauer e alla Camerata Salzburg
diretta con raro acume da Sir Roger Norrington. Quindi
la provocatoria incisione “semibarocca” dei Concerti
per violino di Bach con la Chamber Orchestra of
Europe. Due eventi discografici importanti che a Hope
portano fortuna internazionale, al punto da fargli conquistare nel gennaio 2007, a 32 anni, un contratto in
esclusiva con la Deutsche Grammophon. Primo frutto
di questo matrimonio il tutto Mendelssohn da poco nei
negozi: Concerto in mi minore op. 64 con la Chamber
Orchestra of Europe diretta da Thomas Hengelbrock,
Ottetto op. 20 nella versione del 1832, tre Romanze
senza parole per violino e piano (ancora Knauer alla
tastiera). Hope è letteralmente innamorato della musica
da camera, al punto da essere diventato violinista del
celebre Trio Beaux Arts, accanto all’inossidabile pianista israeliano Menahem Pressler e al violoncellista
Antonio Meneses: in tale veste in occasione del 50°
anniversario del Trio Beaux Arts ha inciso il Trio n. 1 di
Mendelssohn, il Dumky di Dvořák e i due Trii di Šostakovič (Warner). (as)
perazione dapprima di assimilazione e poi di critico approfondimento di una tradizione che non viene abolita o dimenticata, ma arricchita delle istanze innovative del secondo
romanticismo. In particolare poi, Brahms affronta seriamente
il percorso della musica per violino e pianoforte solamente
nell’ultimo periodo della sua attività, se escludiamo il giovanile Scherzo della Sonata F.A.E. (acrostico per il motto Frei
aber einsam, “libero ma solo”) scritta in collaborazione con
Schumann e Dietrich. Il problema che egli aveva trovato di
più ardua soluzione era infatti stato quello della fusione di
uno strumento melodico e perlopiù monodico come il violino con la parte di un pianoforte per il quale egli aveva scoperto densità e spessori sonori mai uditi in precedenza. Ma
la grande predilezione per la musica da camera, accanto ad
una nuova scrittura pianistica più rarefatta e soppesata, insieme con l’onda del successo ottenuto dal Concerto per violino, lo indusse a riprendere questa tradizione storica. Brahms
recupera un modello di sonata vicina a quella beethoveniana, ancorata alla suddivisione in tempi, e le sue tre sonate
per violino e pianoforte racchiudono, pur con aspetti e caratteristiche differenti, quella che è la summa del suo pensiero
estetico, le sue inquietudini, il suo amore per il folklore e la
sua rivoluzione musicale. Iniziata e portata avanti contemporaneamente alla Sonata op. 100 e pubblicata a Berlino nel
1889, la Sonata op. 108 è da quella assai differente. Se infatti nella seconda, piena di intimità affettuosa, il coinvolgimento personale e soprattutto emotivo del compositore era
un dato di fatto dichiarato, questa terza Sonata in re minore
è interamente dominata dall’idea della costruzione astratta e
non intimistica. Tuttavia, anche dietro a questa maschera, sia
il primo che l’ultimo tempo (caratterizzati da una ricchezza
tematica grandiosa), pur essendo in ogni parte all’interno
guidati da un principio stilistico e costruttivo straordinari,
sono assai difficili da inquadrare in uno schema precostituito sotto il profilo formale. Non a caso poi questa volta la
sonata presenta una dedica al grande pianista e direttore
d’orchestra Hans von Bülow: la parte del pianoforte assume
infatti un’importanza e uno spessore che raramente erano
stati presenti anche nei grandi pezzi cameristici della maturità. E ciò al punto che la parte pianistica diventa quasi predominante e conduttrice del discorso musicale, quella in cui
Brahms adotta le soluzioni più avveniristiche e sorprendenti.
La terza Sonata di Brahms
è la summa del suo pensiero
estetico, le sue inquietudini,
il suo amore per il folklore
e la sua rivoluzione musicale
Conseguenza immediata ed inevitabile di ciò è un’altra caratteristica peculiare di questa sonata: il materiale tematico non
è sempre subordinato alla costruzione del duo, ma vive spesso autonomamente in una sola delle due parti. Esempio di
questo intreccio, che raggiunge anche spessori polifonici, è il
densissimo primo tempo, cui segue un Adagio dall’accorata
sensibilità, contemplativo più che lirico, e uno Scherzo leggerissimo staccato e arpeggiato. Il quarto tempo è reso dram-
maticamente angoscioso dal movimento ternario aggressivo
e incalzante, nel quale si aprono a tratti momenti di calma
accordali o lirici, oppure momenti di ulteriore tensione creati dagli sfasamenti ritmici e dai diversi andamenti contrastanti ma contemporanei dei due strumenti. Tempo e sonata si
concludono insomma su un finale quale raramente era stato
dato di riscontrare in composizioni per questo organico cameristico, tanto che a buon diritto questa sonata può essere collocata tra le più alte espressioni di questo genere musicale.
Grieg non introduce i modi
popolari nelle forme
della tradizione, ma elabora
sul dato folklorico un linguaggio
del tutto autonomo
E in Germania (al Conservatorio di Lipsia, abbeverato cioè
alla fonte della cultura musicale tedesca) si forma Grieg, per
questo all’inizio fortemente influenzato dallo stile musicale
tedesco, particolarmente nell’adozione di modelli schumanniani e mendelssohniani. La svolta stilistica decisiva nel suo
percorso artistico avvenne però al ritorno in Norvegia, grazie
al quale egli, in collegamento stretto con la cultura romantica del suo Paese, fondatore della Società Musicale che aggregava anche grandi letterati (come Bjørnstjerne Bjørnson e
Henrik Ibsen), poté aprire lo sguardo sull’immenso patrimonio popolare del suo paese anche se, al contrario di quanto
stava accadendo ad altri compositori nazionalistici, egli non
introdusse direttamente i modi popolari nelle forme della tradizione ma elaborò sul dato folklorico un linguaggio del tutto
autonomo. “Ai miei sguardi attoniti si rivelò un mondo di bellezza che le gioie di Lipsia mi avevano nascosto. Avevo finalmente scoperto me stesso. Padroneggiavo con la più grande
facilità tutte le difficoltà che a Lipsia mi erano parse insormontabili. Con una immaginazione sbrigliata mi misi a comporre opere una dietro l’altra. Non fui affatto sconcertato dai
rimproveri, che all’inizio si fecero alla mia musica, di essere
strana e artificiale: sapevo ormai quello che volevo, e mi
diressi risolutamente verso il luogo che avevo deciso di raggiungere” scrive lo stesso compositore che, spesso in giro per
l’Europa, a metà degli anni Ottanta resta stabilmente nel suo
Paese e lì ottiene i maggiori successi (e anche un contratto
con la Peters, una delle case editrici più importanti al
mondo). Questo passaggio dall’internazionalità allo spirito
nazionale, così come afferma il compositore, può essere tracciato anche attraverso le tre sonate per violino e pianoforte
su cui il musicista scrive: “Esse caratterizzano diversi periodi
della mia evoluzione: la prima è ingenua e prolissa di idee;
la seconda nazionalista; la terza volta ad assai più vasti orizzonti”. E in quella concezione ‘germanocentrica’ nella quale
anche i musicisti più nazionalisticamente convinti finivano
poi per ricadere, la Sonata n. 3 è quella che sicuramente presenta maggiore adesione alla costruzione, alla forma tradizionale, alla complessità dell’intreccio formale senza comunque dimenticarsi (in particolare nelle parti cantabili) della
nostalgia popolare. Composta tra 1886 e 1887, eseguita per
la prima volta al Gewandhaus di Lipsia con l’autore al pia-
DANIEL HOPE
Studia alla Highgate School di Londra e con Zakhar Bron, diplomandosi poi alla Royal Academy of Music di Londra. A soli 10 anni si esibisce per la televisione inglese con il contrabbassista Gary Karr e, l’anno successivo, esegue i Duetti di Bartók alla televisione tedesca, invitato dal violinista Yehudi Menuhin. Da quel momento, inizia per Hope
una lunga collaborazione con il musicista statunitense, con più di 60
concerti in duo: nell’ultimo di essi, tenutosi nel 1999 alla Tonhalle di
Düsseldorf, Hope esegue il Concerto per violino di Schnittke. Dal 2002
collabora con il Trio Beaux Arts in tournées in Europa e Nord America
e, nel corso del 2005, festeggia con la formazione il 50° anniversario
della nascita. Ad oggi, l’artista si è esibito con alcuni fra i più celebri
direttori d’orchestra – tra i quali Kurt Masur, Mstislav Rostropovič,
Jeffrey Tate ed Eliahu Inbal – e con le migliori orchestre, dalla Royal
Philharmonic alla Sinfonica della Radio di Berlino, dalla Israel
Philharmonic alla RSO di Mosca. Nel 2004 vince il Classical Brit
Award, il Deutsche Schallplattenpreis e l’ECHO Klassik Preis per la sua
registrazione dei Concerti di Berg e Britten. Famoso per le sue “incursioni nella musica contemporanea” (New York Times, 2004), Hope si
dedica a progetti eclettici, collaborando con attori, registi e musicisti –
da Klaus Maria Brandauer a Mia Farrow, a Uri Caine – in opere che
spaziano dal jazz alla musica contemporanea. Molti di questi progetti sono stati eseguiti per la prima volta al Savannah Music Festival in
Georgia, di cui Daniel Hope è co-direttore artistico. L’ultimo progetto
East meets West, pubblicato dalla Warner e destinatario di una nomination al Grammy, presenta opere per violino ispirate al musicista
indiano Ravi Shankar. Attivo anche nella cameristica, Hope è solista e
direttore di diversi ensemble strumentali, come la Chamber Orchestra
of Europe e la Camerata Salzburg. Dal gennaio 2007 incide in esclusiva per la Deutsche Grammophon.
SEBASTIAN KNAUER
Comincia a studiare pianoforte giovanissimo e si perfeziona poi con
Gernot Kahl, Karl-Heinz Kämmerling, Philippe Entremont, András
Schiff, Christoph Eschenbach e Alexis Weissenberg. Vincitore di numerosi concorsi, debutta a soli 13 anni alla Musikhalle di Amburgo con
il Concerto per pianoforte in re maggiore di Haydn e nell’ambito dei
Concerti Europei per la RAI a Venezia. Si esibisce in Europa, Stati
Uniti, Sud America e Asia come ospite regolare delle più importanti
sale concertistiche, tra le quali Gewandhaus di Lipsia, Philharmonie
di Berlino, Concertgebouw di Amsterdam, Konzerthaus e
Musikvereinssaal di Vienna, e in festival internazionali, dal Bonn
Beethovenfest al Bremen Musikfest, dal John Adams Festival of the BBC
Symphony di Londra al Festival delle Arti di Shanghai. L’elenco dei
direttori d’orchestra con cui collabora conta nomi prestigiosi come
Gerd Albrecht, Vladimir Fedossejev, Neeme Järvi, Sir Roger Norrington,
Philippe Entremont e Ingo Metzmacher. Si esibisce con famose compagini, tra cui l’Orchestra Filarmonica e Sinfonica di Amburgo, la
Kölner Kammerorchester, le Orchestre da Camera di Vienna e Olanda,
la Camerata Salzburg, l’Orchestra Sinfonica di Lucerna, l’Orchestra
dei Pomeriggi Musicali di Milano, la Sinfonia Varsavia, la New York
City Opera e la Filarmonica di Shanghai. Oltre al suo sodalizio artistico in duo con Daniel Hope, Knauer ha lavorato con musicisti del
calibro di Hermann Prey, Olaf Bär, Alban Gerhardt, Quartetto Aron
di Vienna, Quartetto Philharmonia di Berlino, con le compagnie di
ballo di John Neumeier e di Amburgo e con l’attore Klaus Maria
Brandauer. Nel 2001 fonda il Festival Les Jeux Floraux de Marseille, di
cui è direttore artistico.
35
noforte, essa vive di un fortissimo sentimento tragico che
tutta la permea e la infonde. Il primo movimento è strutturato su una forma rigidamente classica, anche nel contrasto
creato da un primo tema tragico e drammatico (su cui poi si
giocherà tutto lo sviluppo) e una seconda idea, melodica e
delicata. Giocato sulla dolcezza malinconica è il movimento
successivo, in tre sezioni delle quali quella centrale ricorda le
movenze di una canzone popolare norvegese. Il più originale nel trattamento formale è però l’ultimo tempo, che alterna
senza svilupparli due temi principali di grande carica ritmica
e straordinaria suggestione armonica, in cui l’autore ribadisce
il senso di grandiosità e di forza di questa sua parte di ispirazione.
IL VIOLINO DI HOPE,
TRA CLASSICA E CONTEMPORANEA
di Alessandra Masini
Un violinista cresciuto con il suo strumento e che ancora giovanissimo intraprende una strabiliante carriera. Oggi Daniel
Hope è un artista maturo che medita la musica tra passato e
presente. Atteso per il suo debutto bolognese nella stagione
di Musica Insieme, Hope racconta la sua collaborazione con
il grande violinista Yehudi Menuhin e con il Trio Beaux Arts,
e naturalmente il sodalizio artistico con Sebastian Knauer, che
lo accompagnerà al pianoforte in questa avventura italiana.
Maestro, può raccontare ai nostri lettori del suo incontro con Jehudi Menuhin e del vostro sodalizio artistico,
nonché del grande rapporto di amicizia che vi univa?
Ho conosciuto Yehudi Menuhin quando ero ancora in fasce,
avevo solo sei mesi. Curiosità del destino, mia madre si era
proposta per un impiego come sua assistente, e pur non
essendo una musicista aveva ottenuto il posto. Così, ho avuto
la fortuna di crescere in casa di Menuhin a Londra. Era un privilegio straordinario per me poter vivere a stretto contatto con
un musicista così unico nel suo genere, ma anche incontrare
i grandi artisti che frequentavano quella casa, come Mstislav
Rostropovič, Stephane Grappelli e Ravi Shankar. La cosa più
bella di Menuhin, a mio parere, era la sua mente vorace, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e direzioni da seguire. Sarei
felice se almeno in minima parte mi avesse trasmesso qualcosa!
L’Italia e Bologna. Che impressione ha di questi posti,
dato che, proprio con il prossimo concerto, avrà modo
di incontrare per la prima volta il pubblico bolognese?
Adoro l’Italia per molte ragioni. Devo confessare inoltre che
ho un debole in particolare per la cucina italiana, è sempre
stata la mia preferita! E, naturalmente, la vastità e la ricchezza
della cultura e della vostra storia mi hanno sempre affascinato sin da quando ero bambino. Ho visitato Bologna diverse
volte, ma, ora che mi si prospetta l’opportunità di esibirmi in
questa città, sono molto emozionato.
Quali sono stati i suoi più recenti excursus nella musica contemporanea?
Di recente ho collaborato con György Kurtág e Mark Antony
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Daniel Hope
Turnage, due compositori eccezionali ma straordinariamente
diversi tra di loro. Hanno composto opere per il Beaux Arts
Trio, nel quale da alcuni anni suono il violino.
Quanto alle collaborazioni con Mia Farrow, Brandauer e
Uri Caine, ha qualche ricordo particolare delle scoperte
che ha realizzato lavorando in campi artistici così diversi fra loro?
Mi piace la combinazione tra musica e parola. Lavorare con
un grande attore come Brandauer mi ha fatto scoprire come
musicista molte cose riguardo alla presentazione e al dosaggio dei tempi nell’enunciazione di una frase. I musicisti possono imparare davvero molto dagli attori, soprattutto come
meglio pronunciare le loro ‘frasi’…
Parliamo ora del duo con Sebastian Knauer: come vi
siete conosciuti e come si è sviluppata la vostra collaborazione? Come definirebbe Knauer, sia come artista che
come partner alla tastiera?
Sebastian Knauer ed io collaboriamo ormai da quindici anni.
Ci siamo incontrati la prima volta ad Amburgo, la sua città
natale, ed immediatamente siamo diventati grandi amici. Sono
inoltre il padrino di suo figlio. È il partner ideale per un duo,
nel vero senso del termine. Knauer è un artista consumato, ha
una tecnica insuperabile, ma, come per ogni altro artista, è la
musica stessa che è alla base della sua ricerca.
Quali sono i suoi progetti futuri nel campo della musica
d’oggi?
Sono molto interessato alla musica contemporanea, soprattutto quando è il violino ad esserne coinvolto. La cosa che personalmente mi piace in modo particolare della contemporanea è la melodia. Sembrerebbe strano a dirsi, ma ho la sensazione che stiamo ritornando proprio verso quest’aspetto
musicale, dopo molti anni in cui la contemporanea tendeva
invece ad inoltrarsi sempre più nel mondo dell’astratto. A mio
avviso i compositori che segneranno il ventunesimo secolo
saranno proprio coloro che reintegreranno la melodia in
modo originale e nuovo. Sono molto ottimista riguardo a questo tipo di musica.
Quartetti al buio
di Alessandro Taverna
e ci pregava di non cominciare a suonare senza
di lui. Aveva bisogno delle prove, non tanto per
LUNEDÌ 31 MARZO 2008 Teatro Manzoni ore 21
verificare la sua nuova opera, né tanto meno per
cambiare alcuni dettagli. Ne aveva bisogno perKOPELMAN QUARTET
ché gli esecutori comprendessero la sua idea di
suono per quella musica”.
Aleksandr Borodin Secondo Quartetto in re maggiore
Ma ancora non è arrivato il momento di costruiDmitrij Šostakovič Ottavo Quartetto in do minore op. 110
re l’ultimo quartetto come un’inaudita sequenza
Pëtr Il’ič Čajkovskij Secondo Quartetto in fa maggiore op. 22
di Adagi che per ben sei volte invitano a prepararsi e distendersi nella tomba. Eppure questa triplice ricorrenza di tre Larghi nell’architettura
rmai prossimo alla fine, Dmitrij Šostakovič cerca un scandita in cinque movimenti dell’Ottavo Quartetto di Dmitrij
conforto nel dialogo con gli spiriti grandi d’epoche Šostakovič è un rito funebre spossato. La musica, nel senso
lontane e diverse. L’artista russo scolpisce in musica letterale del termine, muore fra le mani dell’autore, si esaurii sonetti di Michelangelo, fruga nel grande canzoniere della sce, sfiorando il silenzio. Questa estrema soglia espressiva è
lirica europea del XX secolo – dove trova qualche poesia di il graduale affievolirsi delle forze, la stanchezza mortale che
Federico García Lorca, di Guillaume Apollinaire e di Rainer fa svanire perfino la presenza di chi ascolta. È un canto
Maria Rilke in cui va e viene la Morte – e lascia a un sopra- sospeso al nulla. Nel silenzio si logora anche quella firma
no e ad un basso il compito di spartirsi gli undici movimenti stampata nelle note, all’avvio delle prime battute del primo
di una sinfonia che è come una ‘serenata al secolo breve’, movimento, firma vergata nell’aria e, prima ancora sul pentadedicata ai soldati e ai poeti morti, una sinfonia che può con- gramma, dal violoncello. Re, mi bemolle, do e si bequadro
tare su un’orchestra dove sono sopravvissuti gli archi e le per- segnano le iniziali del compositore, secondo quella proceducussioni. La sinfonia ha preso forma di una serenata, perché ra tramandata nei secoli e di cui si erano avvalsi anche Bach
non si può immaginare altro momento per essere eseguita e Beethoven, ma stavolta rinnovata con un effetto perturbanche la notte. È la notte in cui si aggira l’uomo del Novecento: te. Sulla soglia di questi piani sonori attenuati e inclinati sul
“La morte attende tutti noi e io non vedo niente di buono alla baratro del nulla, che senso può ancora avere preoccuparsi
fine delle nostre vite.” La frase Šostakovič l’avrebbe potuta di conservare il proprio nome?
mutuare da un pensatore come Cioran, il pessimista che ad La morte nel Quartetto in do minore si annida nell’Allegro che
Est riconobbe un orizzonte familiare, una terra attratta dalle si srotola come una frenetica danza, un isterico moto perpecatastrofi: “Con i suoi dieci secoli di terrori, di tenebre e di tuo avviato e ribattuto dal primo violino. Spettrale agitazione
promesse, la Russia era più atta di chiunque ad accordarsi che accomuna qualsiasi danse macabre, spaventosa corsa
all’aspetto notturno del momento storico che attraversiamo. verso il vuoto dove si sfidano il pericolo del silenzio e la
L’apocalisse gli si adatta meravigliosamente, ne ha l’abitudine legge di gravità. Un appiglio per non cadere potrebbe offrire il gusto e vi si esercita oggi più che mai”. È per questa ragio- lo quel tema ebraico di cui il musicista si era servito nel Trio
ne che Šostakovič ha vissuto la sua esistenza con un eroico in mi minore, ma tutto scorre troppo veloce per accorgersedandismo che gli ha suggerito di sfidare e sfiorare mortali ne. Più chiare le citazioni di altre opere disseminate negli altri
pericoli? Nella Russia di Stalin arte e morte erano accomuna- movimenti. Il primo tempo accoglie una cellula dalla Prima
te. Fallace reputare che si potesse sfuggire alle conseguenze Sinfonia, nel secondo Largo trova spazio una scheggia stradi quest’equazione. Perfino un quartetto d’archi sarebbe stato ziante della Lady Macbeth del distretto di Minsk. Sono tutti
esposto ad un tale pericolo. Eppure nei suoi quindici quartetti Šostakovič cerca il linguaggio originario della propria
ispirazione. Fra essi si ritrovano le pagine più intime e sconvolgenti della sua opera. Se nei suoi ultimi quartetti
Beethoven aveva spinto la ricerca musicale in una direzione
che preludiava al silenzio, sottoponendo il suono ad un esercizio di vertiginosa rivoluzione espressiva che tocca l’ascesi e
l’estasi, Šostakovič si accinge a compiere il cammino in direzione opposta. A lui ciò che importa di più è riappropriarsi
del suono, ridargli un corpo dopo che Beethoven lo aveva
condotto alle soglie di una gloriosa smaterializzazione. E la
prova sta nella voce di uno dei quattro solisti del Quartetto
Beethoven, i quali tennero a battesimo la maggioranza delle
opere cameristiche di Šostakovič: “Prima ci suonava dalla
partitura il suo nuovo lavoro al pianoforte, poi ci dava le parti
La Locandina
Kopelman Quartet
Lunedì 31 marzo
O
episodi da interpretare come lancinanti intermittenze del
cuore. L’opera prende forma nell’estate del 1960, per essere
affidata agli archi del Quartetto Beethoven, in vista della
prima esecuzione, che avverrà il 2 ottobre dello stesso anno
a Leningrado.
Come vaticinato dal filosofo Ernst Bloch, il buio è dentro di
noi, la notte si è prolungata fino a tutto il Novecento. E il
mistero contagiante sottrae la sensazione di quiete perfino
nell’evocazione di un Notturno. Così è anche per il Notturno
collocato quale terzo movimento del Quartetto in re maggiore di Aleksandr Borodin. Paiono lontani gli esordi cameristici
del musicista russo che, giovanissimo, impiegò i temi del
Robert le Diable di Meyerbeer per tramare il suo primo Trio
per archi. Sono trascorsi molti anni e se il Primo Quartetto
assorbe ancora qualche idea da un’opera lirica – ma stavolta
propria, Il principe Igor – il secondo Quartetto per archi trova
un centro di gravitazione che va ben oltre i cromatismi
dell’Allegro moderato su cui la pagina si apre. Sono cromatismi impregnati di un esotismo esibito senza filtri, come la
percezione del proprio orizzonte d’origine. Del resto non era
la posizione del musicista, con le sue ascendenze tartare a
suggerirlo? Ad Est dell’Est, dunque. Subito dopo, gli ascoltatori della prima esecuzione, avvenuta a Pietroburgo nel 1882,
si sorpresero che Borodin avesse collocato il riflesso esitante
di un valzer nella trama dello Scherzo. Ma il centro sta altrove, nell’Andante in la maggiore. “L’abbandono cedevole
DA ASCOLTARE
Tutti i grandi quartetti hanno in repertorio il Quartetto n. 2 in re maggiore di
Borodin, divenuto popolare per lo struggente Andante del terzo movimento,
più noto come Notturno. L’incisione forse più diffusa e lodata è quella realizzata nel lontano 1961 per la Decca inglese dal Borodin Quartet, nella sua
prima formazione, cioè Rostislav Dubinsky e Jaroslav Alexandrov al violino,
Dmitri Shebalin alla viola e Valentin Berlinsky al violoncello. Ad essa si può
forse preferire la nuova incisione con tecnica digitale dello stesso Borodin
Quartet realizzata negli anni ’90 per la Warner, ancor più stupefacente nel
suono e nella carica musicale, o addirittura l’ultima incisione realizzata due
anni or sono dall’etichetta Onix per festeggiare i 60 anni della formazione.
Oppure le versioni più ‘occidentali’ di quest’opera così intrisa di romanticismo russo: come quella solo apparentemente fredda del Quartetto Italiano
(Philips) o quella altrettanto moderna del Quartetto Emerson realizzata nell’aprile 1984 (DGG). Ricordiamo inoltre la pregiata incisione del Quartetto
Accardo (Salvatore Accardo e Margaret Batjer violino, Toby Hofmann viola
e Peter Wiley violoncello), realizzata una ventina d’anni fa per la genovese
Dynamic nell’ambito delle celebri “Settimane musicali internazionali di
Napoli”. Esecuzione che possiede un suo fascino discreto e che consigliamo di ascoltare con molta attenzione, soprattutto il celebre Notturno, dove i
quattro sfoderano sonorità ricercate e una cantabilità italiana tutta speciale,
che in questo pezzo fa il suo bell’effetto. Ancora il Quartetto Borodin è interprete forse insuperato dell’ottavo Quartetto in do minore op. 110 di Šostakovič (Emi), del quale anche i quartetti inglesi Fitzwilliam (Decca) e Brodsky
(ASV) hanno realizzato incisioni piuttosto interessanti nelle rispettive integrali. Entrambe le versioni sono praticamente azzerate tuttavia da quella nuovissima e scintillante dello Hagen Quartett (DGG, 2005), in cui vibrano una
temperatura musicale e una tensione emotiva a tratti sconvolgenti. Inutile
dire che anche nei quartetti di Čajkovskij – come in generale in tutto il repertorio russo – forse il Borodin Quartet non conosce rivali (BMG e Warner).
Alternative possono essere l’inglese Gabrieli String Quartet (Decca), esecuzione decorosa e molto diffusa, alla quale preferiamo però la meno conosciuta incisione del formidabile Keller Quartet (Warner). (as)
Nel secondo Quartetto, Čajkovskij
prende possesso della forma
sottraendola all’ombra occidentale,
trasferendola in un clima russo
all’inventiva del momento trova, nel Notturno, il proprio
empireo – ha annotato con acume Mario Bortolotto – e anche
dove il compositore si rende conto di quel che fa, nel canone fra violoncello e violino, poi fra i due violini, il rilassamento ad occhi semichiusi domina senza inciampi…”. Gli
archi si preoccupano di segnare all’ascolto i centri concentrici di una passione che non si spegne con le ultime battute
del terzo movimento. Oltre il recinto del Notturno e prima
che la tensione si sciolga in un moto perpetuo, la notte evocata da Borodin si stende sulle battute del Finale.
È stato Modest Čajkovskij a raffigurare la vita del fratello Pëtr
Il’ič in un movimento a spirale: “Ad ogni svolta in una data
direzione, attraversava sempre zone di cattivo umore”. Il fato
čajkovskijano può mostrarsi sotto molte apparenze e tutte
nascondono uno stesso volto. Insondabile. Sarà sorprendente ravvisarlo nell’indole dell’eroe della pigrizia immortalato da
Ivan Gončarov, nel romanzo scritto nel 1859, quando le inclinazioni di Čajkovskij, ancora per poco, ondeggiavano. “Dal
volto l’indolenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino
alle pieghe della veste”. Alla fine di una monumentale monografia in quattro volumi dedicata a Čajkovskij, David Brown
è proprio lì che si arresta: nella camera di Ilja Il’ič Oblomov,
l’uomo che trascorre le sue giornate disteso su un letto, incapace di vincere la propria inerzia. “L’inerzia è intrinseca alla
creatività russa”. Come i romanzi di Dostoevskij crescono sull’accumulazione di scene sostanzialmente statiche, così la
musica di Čajkovskij può procedere accumulando “le vecchie
cose” – valzer o melodie altrui – e ripetendole fino allo stremo delle forze. Ai tempi dei tre quartetti, scritti negli anni
delle prime affermazioni, fra Pietroburgo e Mosca, “le vecchie
cose” ci sono già. Il giovane musicista le ha trovate frugando
nella memoria collettiva della sua terra. Sono sedimenti del
folklore ucraino, memorie di canti popolari. “È quanto ho
scritto di meglio. Nulla di quanto abbia composto mi è mai
sgorgato con tanta facilità e agio. L’ho completato per così
dire in una sola seduta”. E con facilità il quartetto fu accolto
a Mosca in occasione della prima esecuzione nel marzo 1874.
Era già chiaro nel primo Quartetto, composto un paio di anni
prima, ma ancor più lo è chiaro nel secondo: Čajkovskij
prende possesso della forma sottraendola all’ombra occidentale, trasferendola in un clima russo. Sedimenta certo anche
Mozart, ma conducendo la lezione classica alle estreme conseguenze, colte proprio nel Quartetto delle Dissonanze. Sedimenta perfino l’incertezza tonale del Tristan. La conversazione galante, con il compositore russo, prende pieghe imprevedibili, audaci come nella stretta finale dell’Allegro con moto.
Dopo il grande slancio patetico dell’Andante, ecco la sensazione di essere sempre sul punto di non aver più risorse per
andare avanti. Trovata la strada per una serie di variazioni,
siamo comunque ben oltre i febbrili esercizi condotti da
Schubert. Con Čajkovskij la variazione è diventata un’ossessione molesta, un tarlo sonoro che attacca il tema non tanto
per trasfigurarlo, ma per spossarlo e, inflessibilmente, farne
polvere.
Un intermezzo... musicale
In questo numero Carlo Vitali propone una caccia alla
soluzione in cinque indizi, mentre il bersaglio ci porta
a suon di musica dall’opera mozartiana alla più sana
delle attività… quella del riso, coadiuvata come da
tradizione anche dalle lepide vignette di Aurelia.
Buon divertimento!
Tutte le soluzioni a pagina 56 di questo numero.
LE VIGNETTE
di Aurelia
Oggi mi sento un po’ alterata
Sei troppo sensibile!
Smettete di spingere!
NOTE ENIGMATICHE
di Carlo Vitali
VERO O FALSO?
La colonna sonora del film Arancia meccanica di
Stanley Kubrick usa in molte sequenze centrali un
valzer di Richard Strauss.
IL BERSAGLIO
NOTE ENIGMATICHE
di Carlo Vitali
QUIZZONE IN CINQUE INDIZI
Si tratta d’indovinare il nome di un compositore classico
molto fortunato ai suoi tempi, poi quasi completamente
dimenticato.
1. È sepolto a San Pietroburgo, ma era nato molto lontano:
più o meno 3.780 chilometri a sud-ovest della metropoli
russa.
2. Studiò a Bologna con un maestro che era quasi suo
omonimo. Anzi gli omonimi erano due, e per distinguerli
i contemporanei facevano ricorso alla loro nazionalità.
3. Compose più di trenta opere e una ventina di balletti
per i maggiori teatri dell’epoca: il San Carlo di Napoli,
il Burgtheater di Vienna, l’Ermitage di San Pietroburgo,
il King’s Theatre di Londra. Inoltre varia musica sacra,
sinfonie e divertimenti per orchestra, ottetti per
strumenti a fiato e un concerto per violino.
4. Il suo brano più conosciuto è l’aria “Oh, quanto un sì
bel giubilo”, eseguita ancor oggi centinaia di volte
l’anno in tutti i teatri del mondo. Peccato che sia una
semplice citazione all’interno di un’opera di altro
autore.
5. Alla fine del 2007 è uscita una sua biografia televisiva,
una coproduzione russo-spagnola intitolata Una cosa
rara.
Partendo dalla parola indicata dalla freccia, raggiungete
quella contenuta nel centro del bersaglio, eliminando
successivamente tutte le parole incluse in esso, secondo
le seguenti regole:
1. La parola può essere un sinonimo o un contrario della
parola che la precede.
2. Può essere un anagramma della parola precedente.
3. La si può ottenere aggiungendo, togliendo oppure
modificando una lettera della parola precedente.
4. Può essere collegata alla precedente in un proverbio,
oppure nel titolo o nella trama di un lavoro teatrale,
musicale o artistico in genere.
5. Può collegarsi alla precedente in una metafora o
similitudine, o ancora per associazione d’idee.
6. Può formare insieme alla precedente il nome di un
personaggio celebre o di un luogo conosciuto, reale
o immaginario.
39
Fra Czerny e il Novecento
di Chiara Sirk
La nostra ideale libreria, questo mese
mette in vetrina tre titoli. Sono, in ordine alfabetico d’autore, Confusamente
il Novecento di Giampiero Cane,
Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte di Carl
Czerny e Voci e tamburi lontani. La
musica ispirata agli Indiani d’America
di Dario Müller. Affrontano argomenti
distanti, pur essendo tutti ‘d’argomento
musicale’. In realtà il percorso di lettura rivela una sua coerenza. Partendo
dalle regole ottocentesche di Czerny si
arriva alla ‘confusione’ del secolo scorso, passando per una terra di mezzo in
cui l’incontro fra le certezze dei musicisti americani e la musica dei Nativi
produce un curioso repertorio che
tenta di unire mondi musicali lontani.
Ecco, possiamo immaginare un viaggio
in cui vediamo lentamente sgretolarsi
un mondo in cui tutto è chiaro e normato. Così, infatti, era senza ombra di
dubbio per Czerny, compositore
negletto, sempre in auge per i suoi
volumi di tecnica, obbligatori per l’apprendista pianista, autore di pagine
ingrate, a detta dei più, povere d’ispirazione e zeppe di sfide e trabocchetti.
Le curatrici, Maria Chiara Mazzi e
Margherita Pierantoni, nel volumetto
pubblicato da Pardes mostrano in 119
pagine in piccolo formato che ogni
difficoltà, ogni passaggio ha un senso.
La formula è
40
quella assai apprezzata nella letteratura
di due secoli fa: uno scambio, immaginario s’intende, di lettere tra insegnante e allievo. La giovane Cecilia rimane
nell’ombra, mentre il musicista le spiega perché affrontare certe asperità. Si
scopre così, dal capitolo “Sul tocco e
sul modo di suonare il pianoforte” fino
a quello conclusivo “Sull’esecuzione
delle improvvisazioni”, che lo studio
dello strumento è una scalata continua
verso la vetta in cui non esiste più l’incertezza o l’errore, resta solo il perfetto
fluire della musica.
Il volume Voci e tamburi lontani. La
musica ispirata agli Indiani d’America
di Dario Müller, pubblicato dall’editore
Zecchini, ci porta verso orizzonti decisamente più originali. Se l’autore da
tempo coltiva l’interesse per la musica
scaturita dal contatto fra Europei trapiantati nel nuovo continente e tribù
autoctone, il grande pubblico ignora
tutto di queste vicende. È risaputo l’impatto che ebbe la musica d’importazione africana sulle vicende compositive
degli Stati Uniti, ma il fatto che questo
esito fu del tutto imprevisto e addirittura inviso agli intellettuali che s’interrogavano sulle radici della musica della
nuova nazione, è meno noto. Lo spiega bene nell’introduzione Marcello
Sorce Keller. Come andò a finire lo
sappiamo, quello che invece ignoriamo è che per qualche decennio diversi
compositori cercarono di creare una
musica ‘autenticamente’ americana
entrando in contatto con le melodie
degli Amerindi. Che tutto questo sia
scomparso, e che i nomi ricordati in
questo volume siano di perfetti sconosciuti ai più (da Edward MacDowell ad
Arthur Farwell, da Carlos Troyer a Lily
Strickland), indica che il tentativo non
sortì gli esiti sperati. Il volume ricorda i
protagonisti della vicenda e fornisce
una buona interpretazione dei motivi
di questo fallimento. Chiudono il libro,
cui è allegato un cd, una postfazione
di Carlo Vitali e una ricca bibliografia.
Confusamente il Novecento di
Giampiero Cane, edito da Clueb, in
copertina la riproduzione di un collage
polimaterico dell’autore, è una raccolta
di scritti nati in diverse occasioni. Non
si tratta di una collezione di articoli,
saggi e riflessioni ormai stantii e finalmente rilegati (i volumi di questo
genere costano poco lavoro all’autore
e sono di scarsa o nulla soddisfazione
per il lettore). Questo è un libro povero di citazioni e pieno di spunti, dove
l’apparato critico una volta tanto è
sostituito dall’esercizio critico, da
un’implacabile riflessione su un secolo
ricco di complessità. Che Giampiero
Cane abbia voluto cimentarsi con il
Novecento è indicativo di una certa,
tenace volontà di ragionamento anche
sugli argomenti meno semplici. Per
leggere il volume occorre essere attrezzati con quella cultura che una volta si
reputava bagaglio minimo di un interessato all’arte. Non è un volume dedicato agli specialisti, anzi, la capacità di
tessere relazioni
fra vari repertori,
di spaziare tra
epoche lontane,
di mescolare
musica colta e leggera e diverse arti
risulta piacevolmente estranea a
certi rigori travestiti
da attendibilità
scientifica in cui
capita d’imbattersi,
ma richiede tempo
e dedizione. Vale la
pena riuscire a trovare entrambi.
Bellezza in musica
di Alberto Spano
L’avventura discografica del Quartetto
Alban Berg comincia a Vienna nel
marzo 1974, tre anni dopo la sua fondazione, per l’etichetta Telefunken
(poi Warner) e fin dalle musiche scelte
è chiaro il ‘manifesto’ interpretativo
del giovane quartetto: Quartetto op.
76 n. 3 (l’Imperatore) di Haydn,
Quartetto op. 3 e Suite Lirica di Alban
Berg. Il che significa voler dire a voce
alta la propria origine viennese orgogliosamente sostenuta nella caratteristica eleganza e, nel contempo, riaffermare questa gloriosa tradizione proiettandola in avanti nel tempo fino ad
abbracciare l’esiguo ma essenziale
repertorio della Seconda Scuola di
Vienna. L’incisione del 1974, in cui i
quattro dimostrano di aver mirabilmente ereditato e fuso assieme il rigore e l’intelligenza del Quartetto
Italiano e la bellezza del suono e il
lirismo del Quartetto Amadeus, la
ritroviamo in uno splendido cofanetto
che la Warner ha prodotto raccogliendo la totalità delle registrazioni
dell’Alban Berg Quartett fra il ’74 e il
’78: un pezzo di storia dell’interpretazione del nostro secolo, un vademecum indispensabile per la conoscenza
del repertorio quartettistico, se si
esclude l’opera di Beethoven, autore
affrontato in disco solo più avanti. Vi
troviamo gli ultimi dieci Quartetti di
Mozart (i sei dedicati ad Haydn, il KV
499 Hoffmeister e i tre Prussiani). Vi
troviamo i Quartetti D 804 e 173 di
Schubert, i due di Brahms, l’op. 106 di
Dvořák, i Cinque Movimenti op. 5, le
Sei Bagatelle op. 9 e il Quartetto op.
28 di Webern, infine il Quartetto di
Erich Urbanner, composto nel 1972.
Memorabile la lettura brahmsiana,
impostata sulla valorizzazione estrema
dell’intrinseca complessità formale e
sul suo scioglimento in bellezza sonora e in struggimento lirico. E memorabili Berg e Webern, certo diversi da
quelli ‘quasi avanguardisti’ del
Quartetto Italiano, ma ugualmente
intensi e coerenti.
Passato alla Emi, l’Alban Berg realizza
nel trentennio successivo una discografia della quale citiamo i Quartetti di
Debussy e Ravel, il primo di Smetana
e l’Americano di Dvořák, i due
Quartetti di Janáček e quattro
Quartetti di Schubert (D 804, D 810, D
887, D 87). Fondamentali e universalmente ammirate le incisioni dei
Quartetti di Bartók e la silloge di autori contemporanei pubblicata nel 1994
comprendente il Quartetto op. 45 di
Gottfried von Einem, il Quartetto n. 2
“in memoriam Christi Zimmerl” di
Haubenstock-Ramati, il Concertino, il
Doppio Canone e i Tre pezzi di Igor’
Stravinskij.
Nel 1996 esce il cofanetto 1971-96,
25th Anniversary Edition, Music of the
20th century, comprendente tutte le
registrazioni dell’Alban Berg di musiche del Novecento: Berg, Bartók,
Rihm, Schnittke, Stravinskij,
Haubenstock-Ramati, Einem e
Janáček. Inutile sottolineare l’importanza (anche culturale) di questo box,
al quale si aggiunge poi la bellissima
incisione dal vivo del Quartetto di
Luciano Berio accoppiato ai Quartetti
81 e 82 di Haydn.
Ma è alle due integrali beethoveniane
che i discofili pensano subito quando
si parla di Quartetto Alban Berg: la
prima registrata in studio fra il ’78 e
l’83, la seconda interamente dal vivo
nel 1989 nella Mozartsaal di Vienna.
Le interpretazioni non differiscono
sostanzialmente, se non per le diverse
prese del suono e per ininfluenti
problemi di intonazione nei live
viennesi all’inizio e al termine delle
singole esecuzioni. In entrambe è
portato al più alto livello quel lavoro
di scandaglio e di approfondimento
del testo che ha reso unico il
Beethoven del Quartetto Alban Berg:
a cominciare dal supremo equilibrio
nello stacco dei tempi e nella chiarezza polifonica fra gli strumenti e il loro
inimitabile colore.
Capitolo collaborazioni fissate in disco:
Elisabeth Leonskaja per il Quintetto
op. 34 di Brahms e La Trota di
Schubert (Georg Hörtnagel al contrabbasso), Philippe Entremont per il
Quintetto di Schumann, Alfred
Brendel per il Quartetto n. 2 e il
Concerto KV 414 di Mozart, Rudolf
Buchbinder per il Quintetto di
Dvořák, Sabine Meyer per quello con
clarinetto di Brahms, Heinrich Schiff
per il Quintetto per archi di Schubert,
membri dell’Amadeus per il secondo
Sestetto di Brahms, Heinz Medjimorec,
Alfred Mitterhofer, Ernst Ottensamer,
Alois Posch e Wolfgang Schulz per il
fortunato album del 1994 con i valzer
degli Strauss e di Lanner trascritti da
Berg, Schönberg e Webern. Infine il
bandoneonista Per Arne Glorvigen per
l’album popolare Tango sensations
con musiche di Astor Piazzolla, Juan
Carlos Cobián, Eduardo Arolas, Julio
de Caro e Kurt Schwertsik, inciso dal
vivo nel 2003.
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Editore
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Direttore responsabile:
Fabrizio Festa
In redazione:
Bruno Borsari, Fulvia de Colle, Marco Fier,
Alessandra Masini, Roberto Massacesi
Hanno collaborato:
Sara Bacchini, Alessandro Di Marco, Stefano Dondi,
Maria Pace Marzocchi, Maria Chiara Mazzi, Chiara Sirk,
Alberto Spano, Alessandro Taverna, Carlo Vitali
Grafica e impaginazione:
S.O.S. Graphics - Castel San Pietro Terme (Bologna)
Stampa:
Grafiche Zanini - Anzola Emilia (Bologna)
Registrazione al Tribunale
di Bologna n° 6975 del 31-01-2000
MUSICA INSIEME RINGRAZIA:
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REGIONE EMILIA-ROMAGNA
PROVINCIA DI BOLOGNA
COMUNE DI BOLOGNA
SOLUZIONI DI PAGINA 39:
NOTE ENIGMATICHE
QUIZZONE IN CINQUE INDIZI
Vicente Martín y Soler nacque a Valencia nel 1754 e
morì a San Pietroburgo nel 1806. Aveva studiato a
Bologna con Padre Giovanni Battista Martini (gli omonimi
erano appunto lui, “il Martini spagnolo”, e Johann Paul
Aegidius Schwarzendorf, soprannominato “il Martini
tedesco”). L’aria “Oh, quanto un sì bel giubilo” proviene
dall’opera Una cosa rara, ossia bellezza e onestà su libretto
di Lorenzo da Ponte, rappresentata a Vienna nel 1786 con
enorme successo. Mozart la cita nel Finale secondo del
Don Giovanni.
VERO O FALSO?
Due volte falso. Kubrick usò Il bel Danubio blu di Johann
Strauss figlio in 2001 Odissea nello spazio.
Il tema conduttore di Arancia meccanica è la Nona Sinfonia
di Beethoven, ultimo movimento.
IL BERSAGLIO
CLEMENZA – TITO – MITO – MINO – REITANO – RESTANO
RESTAGNO – ENZO – RE – MINORE – ENORMI – GIGANTI
CADUTA – CAUTA – CASTA – DIVA – NORMA – NORA
ORNA – TORNA – RIEDI – IRIDE – RIDE
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