1 - K. POMIAN – CHE COS`È LA FILOSOFIA? Come parlare della

1 - K. POMIAN – CHE COS’È LA FILOSOFIA?
Come parlare della filosofia? e, anzitutto, da dove incominciare?
Di questo problema sono probabilmente possibili parecchie soluzioni. Quella che
abbiamo scelto noi si pone dapprincipio all'esterno della filosofia e cerca di
arrivare ad essa per via indiretta. Cominceremo infatti ponendo la seguente
domanda: quali sono gli oggetti che almeno un gruppo componente la nostra
società riconosce essere esistenti o reali? Vedremo che questi oggetti sono
diversi, che essi possono essere distribuiti tra un certo numero di categorie,
e che agli oggetti di ciascuna categoria si presume corrisponda un rapporto
specifico suscettibile di essere stabilito con essi e altresì un discorso intorno a
questi oggetti, il quale pretende essere un discorso vero, un sapere, poiché gli
oggetti ai quali esso si riferisce sono ritenuti esistere. Finché manteniamo
l'atteggiamento spontaneo, da tutti adottato nella vita quotidiana, questa pluralità
di discorsi, che affermano di essere delle conoscenze, non ci turba. Eppure
questi discorsi non sono semplicemente diversi: sembrano essere, o sono, in
conflitto. Ed è questo conflitto che ci costringe ad abbandonare l'atteggiamento
spontaneo e a domandarci se tutti gli oggetti, che crediamo esistere, esistano;
se tutti i rapporti, che pensiamo siano rapporti con oggetti esistenti, lo siano
davvero; se tutti i discorsi, che affermano di essere dei saperi, siano dei saperi.
Sono strane domande queste. E tali sono perché, mettendo in discussione la
legittimità della pretesa allo statuto di sapere avanzata da discorsi diversi,
costringono colui che le pone a porsi inizialmente al di fuori di tutti quei
discorsi, in uno spazio vuoto. Noi cercheremo qui di mostrare che tutte le
filosofie rispondono a domande di questo genere, e che rispondere a domande
di questo genere è appunto filosofare. ...
Che esistano esseri viventi e cose inerti, come pure oggetti non appartenenti
ad alcuna di queste due classi, è cosa che tutti ammettiamo (pur non
essendone sempre consapevoli e, spesso, senza aver neppure bisogno di proclamarlo) per il semplice fatto di praticare attività diverse, di cui s'intesse la
nostra vita quotidiana: di produrre e di consumare di comprare e vendere,
spostarsi e riposarsi, leggere e scrivere, pregare e osservare, pensare e calcolare, guardare ciò che si offre alla nostra vista e partecipare ad imprese collet tive, parlare e far l'amore... Ognuna di queste attività ci costringe, infatti, a
tener conto di qualche cosa differente da noi stessi e tale che dobbiamo ora
adattarci a esso, ora modificarlo con piú o meno fatica. Oggetti nei quali
talora c'imbattiamo porgono una certa resistenza alla nostra azione o al nostro
pensiero, esercitano su questi una costrizione e, in tal modo, si pongono innanzi
a noi come esistenti o reali. E noi li percepiamo spontaneamente come già
dati, come enti che esercitano su di noi una sorta di pressione che insistono
perché noi accettiamo la loro realtà, e noi allora gliela accordiamo talvolta
senza riflettervi, senza considerare in ogni singolo caso i pro e i contro; del
resto, sovente essa ci pare ovvia.
.. Si ha ragione di accordare esistenza o realtà (i due termini qui son presi
come sinonimi) a tutti gli oggetti ai quali esse vengono accordate nella nostra
società, se non dall'opinione comune, almeno da quelle di determinati gruppi?
Qualche problema ....
... Quanto all’articolazione interna della sfera di visibilità, al numero di fenomeni che
vi distinguiamo e identifichiamo, ciò dipende manifestamente dall'allenamento degli
occhi. Chiunque può infatti constatare che gli occhi conoscono un processo di
apprendimento, e che determinati oggetti, prima non visti benché soddisfacessero a
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tutte le condizioni richieste per esserlo, divengono sensibili non appena si viene
sensibilizzati alla loro presenza. Ora, questa sensibilizzazione è ingenerata da un
sapere (un saper dire o un saper fare) che suggerisce delle domande da porre a
ciò che può vedersi, suscita delle aspettative, orienta lo sguardo. Da tutto ciò
consegue che l'atto di vedere non è né potrebbe essere un rapporto immediato fra gli
occhi, intesi come meramente ricettivi, ed un oggetto che compaia nel campo
visuale.
Lo sguardo è sempre in qualche modo provvisto di informazioni, prima di posarsi su
di un oggetto; il che spiega le difficoltà che incontriamo quando veniamo posti
dinanzi a un oggetto completamente nuovo, e che riconosciamo tale, le piú volte,
solo dopo una serie di tentativi vani di ricondurlo a qualche cosa, se non già vista,
tale almeno che se ne sia già sentito parlare.
… S e si assume che il sapere quotidiano e la scienza forniscano due rappresentazioni di un medesimo mondo, è evidente che queste saranno non solo
differenti, ma difficilmente compatibili. Infatti, secondo la fisica attuale, l'Universo
non e che una poltiglia di elettroni protoni, fotoni, ecc., tutti esseri dalle proprietà
mal definite in perenne interazione. Come può darsi che codesta poltiglia si
organizzi, sulla nostra scala, in un mondo relativamente stabile e coerente, ben
lontano dal caos quantistico e meccanicistico che la teoria ci suggerisce? ... a noi
interessa soltanto l'accertamento di una incompatibilità fra un mondo
rappresentato come «poltiglia di elettroni » e un mondo composto da oggetti stabili,
tra il mondo della scienza e il mondo della conoscenza percettiva.
... l’esistenza di altri oggetti ancora. Per esempio, la prima persona del singolare
designa manifestamente chi sta parlando ed è visibile, ma, oltre a ciò, un oggetto
che parla, il quale, invece, visibile non è. In effetti, questo oggetto non è identificabile con il corpo, del quale vediamo muoversi le labbra e a cui attribuiamo
l'origine dei suoni che percuotono le nostre orecchie, perché esso è assunto come
fonte di senso e come ricettore di quelli. La psicologia, la psicanalisi e la
linguistica cercano di ricostruire questa fonte di senso.
… Abbiamo sottolineato a piú riprese la funzione svolta dalla fede
nell'ammissione, che ciascuno di noi fa, dell'esistenza di oggetti osservabili (quelli
della scienza) e riproducibili (quelli della storia, della sociologia, ecc...);
senza dubbio, veniamo assicurati che possiamo convincercene da noi, ma
è manifesto che non lo facciamo, giacché tale possibilità è prettamente teorica: il
solo modo di convincersi veramente che esistono neutrini o che sia esistito un
faraone di nome Tutmosi III, è di diventare fisico o egittologo rispettivamente. In
effetti, nella vita quotidiana l'esistenza di oggetti osservabili e riproducibili è
ammessa attraverso un riconoscimento dell'autorità degli scienziati e degli storici,
entrambi i quali costituiscono dei gruppi di professionisti organizzati in istituzioni.
Lo stesso avviene con la fede in Dio; solo che qui vien riconosciuta l'autorità di un
altra istituzione: di una Chiesa o di una setta, di un libro ritenuto frutto di
rivelazione o di una tradizione.
Per un non-scienziato, quindi, l'affermazione dell'esistenza di particelle elementari differisce dall'affermazione dell'esistenza di Dio, non logicamente, ossia per il suo fondamento (che, in entrambi i casi, è costituito da un atto di
fede), ma socialmente per la natura dell'istituzione la cui autorità viene riconosciuta. Queste due affermazioni differiscono altresì in quanto che la prima
si ritiene non incida sul comportamento quotidiano dell'individuo, mentre ci si
attende che la seconda fondi il rispetto di talune norme che regolano i rapporti
dell'individuo con gli altri e con se stesso.
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… A sentire i discorsi dei corifei delle diverse istituzioni, non si può non esser
colpiti dal posto in essi occupato dal riferimento all'avvenire. Il fatto, in sé, non ha
nulla di sorprendente: è del tutto legittimo ammettere l'esistenza di una condizione
futura della nostra società e di assimilarla a un oggetto provvisoriamente invisibile.
Ma non ci si limita soltanto ad affermare che questo stato futuro della società
perverrà all'esistenza: se ne parla anche come se fosse possibile prevederne i
caratteri principali. È questo, infatti, che si pretende. Gli uni considerano
l'avvenire un prolungamento del presente e assicurano che è possibile
inferirne le linee generali a partire dai caratteri degli oggetti sociali che già ci
sono noti. Si suppone quindi che questi ultimi rappresentino qualche cosa
che ancora non è, ma che tuttavia si lascia in qualche modo cogliere;
contengono (così si dice) delle virtualità, che è possibile studiare fin d'ora,
sebbene la loro attuazione sia condizionale e lontana nel tempo. Altri
considerano l'avvenire opposto al presente per questo o quel rispetto, ossia
per quasi tutti i riguardi, e interpongono fra i due una rottura rivoluzionaria; il che,
tuttavia, non impedisce loro di caratterizzare l'avvenire giovandosi della sua
opposizione nei confronti del presente, e di mostrare quali saranno le
differenze tra quello e questo.
Quanto a chi ascolta codesti discorsi, per lui le descrizioni dell'avvenire, quali che
siano, sono oggetti di fede; li accetta in quanto riconosce l'autorità delle
istituzioni o, dei gruppi che se ne fanno garanti, e che sono altrettante chiese.
da K. Pomian “Filosofia/filosofie” in Enciclopedia Einaudi, vol. VI
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