José Luis Villacañas Berlanga Mentre gli sforzi dell

annuncio pubblicitario
José Luis Villacañas Berlanga
Mentre gli sforzi dell’intelligenza umana s’indirizzavano verso una
sempre maggiore concettualizzazione del reale, permaneva la tendenza a
considerare la metafora un quantité négligeable. La più potente
formulazione di questa visione fu offerta, probabilmente, da
Wittgenstein nel suo Tractatus Logicus-Philosophicus , in cui la verità
d’una proposizione è definita dalla sua capacità di descrivere un fatto. Il
fatto viene a sua volta definito come uno stato di cose proprio del
mondo. All’interno di questa rappresentazione continua dei fatti del
mondo, si annida il silenzio che contiene sia l’inquietudine dell’io che
quella del mondo. La pittura invece, secondo Wittgenstein, eliminava per
sempre la metafora. La verità non era altro perciò che la struttura logica
dello stato delle cose e delle proposizioni. Non esisteva differenza
rilevante tra queste due entità isometriche. L’una faceva riferimento
all’altra senza bisogno d’andare oltre la sua relazione. Alla fine, il mondo,
cioè la parte compresa entro i nostri limiti, la serie di cose ed i suoi stati,
erano trasparenti per il linguaggio. La parte del linguaggio compressa
entro questa forma logica costituiva di fatto tutto il linguaggio.
La caratteristica saliente di Wittgestein risiede nella radicale forma
d’ascesi che la sua filosofia proponeva e, come in tutte le formulazioni
ascetiche, il silenzio era il metodo radicale per giungere alla serenità.
Solo
Wittgestein
propose
questa
forma
di
misticismo
dell’accettazione del mondo nel suo stato, in una forma compatibile al
positivismo logico. Tale grado di perfezione e di rinuncia, di purezza e
d’auto-limitazione erano indubbiamente disumani, eccetto che per il suo
carismatico fondatore. Nemmeno il positivismo dello stesso Wittgestein,
però, riuscì a mantenerlo a lungo in atto. Il filosofo viennese non era
ancora morto quando Max Black cominciò a scagliare le prime invettive
1
contro la proibizione di usare la metafora. Va detto però che nella parte
principale del suo articolo del 1954 egli ribadiva che chiunque usasse una
metafora era consapevole di poter sempre sostituire i termini impiegati
metaforicamente con quelli specifici. Nel caso in cui ciò a cui si fa
riferimento in senso metaforico non abbia un nome specifico, possiamo
invocare la catacresi, ovvero possiamo migliorare il nostro vocabolario.
Per quanto Black riconoscesse certi vantaggi nell’uso della metafora
entro il linguaggio quotidiano, soprattutto allo scopo di generare
strategie che alimentassero la curiosità scientifica, la vecchia tendenza
ascetica rimaneva dominante. Le metafore aspiravano soprattutto a
decorare e appartenevano alla pragmatica più che alla semantica. Uno
stile misurato e rigoroso non avrebbe dovuto usarle. Meno che mai in
filosofia (Black 1962).
Nel suo meritevole sforzo di vincolare la tradizione analitica alla
tradizione più continentale della filosofia, Paul Ricoeur prese in
considerazione il contributo iniziale di Black. In tal senso fu determinante
l’assunzione della dimensione pragmatica della metafora. Per Ricoeur non
è possibile che le parole operino in senso metaforico senza un opportuno
e determinato contesto. Allo stesso tempo, identificando la pragmatica
con il discorso (Rede, Discours), egli afferma il carattere événementielle
della metafora, vincolandola cosi al concetto di Ereignis , centrale in
Heidegger. La metafora è l’avvenimento che crea il significato o come ha
detto Monroe Beardsley, un’opera vera “in miniatura”.
Tutta la concezione di Ricoeur è dominata dalla dimensione
creativo-poetica della metafora. Su questo si basa, infatti, l’obiezione a
Black e Beardsley (Beardsley 1958). Entrambi avevano cercato di
disciplinare le potenzialità sovversive della metafora codificando la
gamma delle sue variazioni. Si parlò quindi di una sorta di delitto
linguistico, di una scala di connotazione potenziale, qualcosa di simile ad
un elenco di significati secondari comuni alle parole. Il linguaggio non è
solamente l’insieme di proposizioni ma anche l’insieme di metafore. Era
evidente che entrambi parlavano di metafore già morte, registrate nei
dizionari, dimostrando, in fondo, la loro ostilità nei loro confronti.
2
Al contrario Ricoeur affermò sempre la dimensione creativa della
metafora, necessaria prosecuzione della sua dimensione pragmatica: la
metafora ha un significato sempre nuovo, se posta entro un evento
discorsivo nuovo. Seguendo John Austin Ricoeur affermava che la
metafora aveva sempre una dimensione locutoria, non si limitava ad un
“dire” ma presupponeva anche un “fare”. Inoltre, sebbene affermasse
che la metafora non aveva senso e significato, come sosteneva la
filosofia analitica, Ricoeur non voleva attenersi ai procedimenti d’analisi e
verifica tesi a trasformare la metafora in un’espressione linguistica
normale. Egli chiamava senso, non il contenuto grammaticale di una
proposizione, ma l’“imminente proposito del discorso”. La sua definizione
coincideva con la spiegazione della metafora, e per questo, non si poteva
soltanto assumere che fosse preferibile aumentare il senso delle parole e
cadere nell’assurdo logico, come voleva Beardsley. Il nuovo e creativo
statuto della metafora non si lasciava ridurre a nulla che fosse anteriore,
né per connotazione né per definizione. Si trattava di un’innovazione
semantica. Il processo d’esplicazione del suo significato doveva offrire
una via d’accesso a questo processo di creazione.
Ciò che caratterizza, tuttavia, la posizione di Ricoeur risiede nel
fatto che tutte le procedure possibili per spiegare il senso della metafora
dipendono dalla nostra effettiva comprensione di ciò a cui essa si
riferisce. Ricoeur infatti afferma che l’ascoltatore o il lettore sono
costretti a ricreare il significato all’interno della struttura del significato
stesso. Questa costruzione non ha regole. Per questa costruzione
possediamo soltanto indicazioni che al massimo ci guidano attraverso
permessi e divieti. Tutto ciò genera un significato verosimile, invece che
vero. La costruzione più verosimile sarebbe quella in grado di generare
l’ambito più integrato e concordante degli aspetti considerati. Questo,
però, significherebbe che è a mala pena possibile portare alla luce, dal
punto di vista della sua ricezione, il mondo che alita nella metafora come
creazione. Ricoeur ha affermato che quel mondo costituisce la referenza
della metafora, il cui significato, “lo scopo comunicativo”, può spiegarsi
solo a partire dalla sua referenza, il suo mondo, o da qualcuno dei suoi
aspetti. Entrambi, senso e referenza, costituiscono l’unico scopo della
3
comprensione. Questa operazione si attualizza nella “dinamica, ovvero
nell’azione del procedere da quello che si dice a quello di cui si è detto
qualcosa”. Per fortuna, l’aspetto del mondo non è celato dalla metafora,
ma è rivelato da quella. Pertanto la metafora è sempre qualcosa
d’estraneo, ma possiede un’estraneità che possiamo fare nostra nella
misura in cui scopriamo l’orizzonte del mondo che essa ci rivela.
Appropriandoci della metafora, scopriamo nuovi modi d’essere o nuove
forme di vita (ancora una volta, Heidegger e il secondo Wittgenstein,
insieme).
La capacità sincretica di Ricoeur è notevole. Su questo corpus di
concetti egli è riuscito a proiettare il mondo d’Aristotele. In quest’alveo
Ricoeur ha ricondotto a sua volta l’ambiente del romanticismo. La
metafora è soltanto una finestra su un mondo possibile, cosi come per
Aristotele era una parte di una tragedia. Il paragone fra tragedia e
mondo risulta quindi più facile. Il concetto di mimesi d’Aristotele fa il
resto. Questa mimesi non è, però, mera imitazione, ma a sua volta
poiesis, e i suoi elementi sono, pertanto, sempre metaforici. Il tutto l’opera, il mondo o il contesto - rappresenta sempre il determinante della
metafora, della sua forza. Così si arriva alla tesi centrale: “La spiegazione
della metafora, come successo localizzato all’interno del testo,
contribuisce all’effettiva interpretazione dell’opera come un tutto”.
La stessa cosa si potrebbe dire del suo contrario. I mondi possibili,
la possibilità d’immaginarli, quello che il romanticismo definì la forza
creativa comune alla natura e al genio, è quello che si attualizza in ogni
momento creativo del linguaggio, che a sua volta rivela il mondo e i suoi
componenti. Quando ricordiamo la frase del Tractatus, “Il mondo è quel
che è” scopriamo in Wittgestein una posizione distante dal
romanticismo. Egli era infatti un filosofo dall’atteggiamento estatico e
contemplativo, veramente platonico, che non si lasciava trasportare dalle
ali della metafora. Per questo la nozione di mondo possibile non ha senso
nel Tractatus, cosi come non lo ha la nozione di metafora.
Il tipo di perfezione inumana proposta da Wittgestein era stato, in
realtà, già da tempo contestato. Nessuna filosofia aveva lottato tanto
come quella di Kant per delimitare ciò che è possibile concettualizzare.
4
Kant aveva mostrato anche l’ineludibile fascino che ha per l’uomo
l’irraggiungibile. Alla radicale ostilità nei confronti del fattuale e
dell’irraggiungibile è riservata infatti una possibilità particolare: fra i limiti
del concetto si trova l’idea.
Il modo in cui l’uomo si avvicina all’idea, di per sé veramente
irraggiungibile, è attraverso il simbolo. Il terreno filosofico del simbolo è
diverso da quello della mera possibilità logica e della mera fattualità. Il
simbolo è la necessaria presenza sensibile di un’idea possibile. Kant
identificò l’impossibilità d’eliminare l’attitudine antropologica nei
confronti della metafisica, prevedendo forse che la separazione
dall’irraggiungibile si potesse pagare solo al costo immenso della noia.
Questo era un prezzo che un uomo moderno, come Faust, non avrebbe
potuto pagare. Kant interpretò quindi i limiti del mondo non per istaurare
il silenzio, come Wittgestein, ma per inaugurare un altro modo di parlare
dell’incomprensibile, il modo simbolico, il modo metaforico. Là dove
nasceva veramente il mistero, il limite della logica, doveva sorgere il
linguaggio della metafora, per ridurre l’ineffabile, una delle forme del nonconoscibile.
Aldilà di tutti i tecnicismi del kantismo, che rendono la cosa in sé
incomprensibile, ciò che viene considerato veramente misterioso dal
criticismo kantiano è sempre stato l’individuo e insieme a lui la sua
esistenza. Quest’individuo, questa unità, sia essa un semplice oggetto o
un essere umano può rappresentare il mondo. Per questo l’unico approdo
dell’individuo fu l’estetica che per questo si trovava molto aldilà della
conoscenza teorica. In un certo senso, il neokantiano Cohen aggiunse
che per portare a termine un’opera sugli individui, era necessario
condividere “l’ingenuità storica che ci vincolava di nuovo al mito” (Cohen
1922, p. 34 ss.).
Questo passaggio ebbe un lettore molto attento, direi, in Ortega y
Gasset. Al ritorno dal suo viaggio in Germania, dove aveva studiato
insieme a Cohen, si concentrò sulla tesi che sostiene che la vita è
l’individuale. Inoltre, quel mondo dell’individualizzazione era per Ortega il
mondo proprio dell’arte. Per Ortega: “arte è individualizzazione. Le cose,
res, sono individui”. L’arte così tentava di appropriarsi del mistero
5
dell’individualità. Questi erano i limiti di tali concetti. Sicché, quando
Ortega volle costruire un’estetica su queste basi, non ebbe altra scelta
che quella di costruire una teoria della metafora, attualizzando quella
relativa al simbolo, che ogni criticismo necessita per attingere in qualche
forma all’irraggiungibile. A tale scopo bisognava creare un “io” per
ciascuno degli oggetti individuali dell’arte. Questa era la metafora
costitutiva dell’arte, quella che determinava l’esistenza stessa dell’arte.
Attraverso questa metafora si aspirava a “vedere le case dall’interno”.
“Tutto, se guardato dal suo interno, rappresenta l’Io”. Da un punto di
vista logico questo è naturalmente impossibile, perché ogni cosa ha la
propria positività esistenziale. L’esistenza in quanto tale, non è un
fenomeno, ma la base di tutti i suoi fenomeni. L’arte, tuttavia vuole
penetrare la sua esistenza, rivelare il mistero della sua intimità. In uno
scritto occasionale, com’è l’intera opera d’Ortega, destinato in questo
caso a fare da prologo ad un libro di un poeta spagnolo, Ortega
introdusse un’epigrafe dedicata alla metafora. Secondo Ortega tutto
quello che conosciamo delle cose secondo la scienza è un muro che
impedisce di catturare la loro individualità. È necessario, pertanto,
identificare l’oggetto estetico come ciò che, creato in seno all’arte,
rende palese l’intimità dell’oggetto, la sua stessa esistenza, il suo “io”
vitale.
Senza dubbio oggetto dell’arte non era l’oggetto stesso reale,
individuale. Si trattava di un oggetto estetico, diverso dal reale, ma
ugualmente individuale ed esistente. Il piacere fondamentale dell’arte è
dato dal fatto che l’oggetto estetico sembra offrirci l’intimità
esistenziale di un essere reale. Ortega afferma: “sembra come se
attraverso l’oggetto estetico ci arrivasse la cognizione dell’esistenza
stessa delle cose dall’interno. La relazione grazie alla quale l’oggetto
estetico acquisisce una certa dimensione ontologica è la metafora.
Quell’oggetto che si rende trasparente, l’oggetto estetico, trova la sua
forma elementare nella metafora. Io affermerei, che oggetto estetico e
oggetto metaforico sono una sola cosa, o piuttosto, che la metafora è
l’oggetto estetico elementare, la cellula bella”.
6
Ortega, che conosceva gli sforzi dell’ontologia più recente, fa
dell’oggetto estetico il regno dell’essere. Per accedervi era necessario
eliminare il regno fisico degli esseri. Quell’eliminazione, e la sua nuova
creazione, costituisce la metafora: “La metafora è un procedimento e un
risultato, una forma d’attività mentale; è l’oggetto prodotto da questa”.
Si trattava di un passaggio dall’ambito fisico all’ambito estetico, quasi di
morte e resurrezione degli enti individuali. Nell’esempio del poeta
catalano López Picó, analizzato da Ortega, si parla del cipresso come
dello “l’espectre, d’una flamma morta”. La metafora ha ucciso il cipresso
reale e ha creato un cipresso estetico la cui vita interiore è una fiamma,
seppur morta. È un processo di sintesi. Il nuovo cipresso estetico ci
permette di conoscere l’io del cipresso come fiamma, il fondersi con la
fiamma e il continuare a vivere dopo essersi spento, come un tizzone, in
cui le zone scure segnalano ancora il fuoco precedente. Ortega così
esclude una non-identità del mondo fisico per inaugurare un’identità nel
mondo estetico. In ogni caso, però, la metafora è possibile perché c’è
una metafora che trascende ogni estetica: la trasformazione degli esseri
in attività personale, in un “io”, la trasposizione dal loro posto reale nel
mondo ad un posto nell’ambito del sentire. Questa è la fine della
mancata identità tra l’io personale e quello degli altri esseri e s’inaugura
un’identità comune, realizzata dalla sfera estetica. Ogni metafora è la
scoperta di una legge dell’universo estetico, universo essenzialmente
panteista dove ciascun Io è Uno. L’ontologia dei regni dell’essere, base
del pecettivismo orteguiano, permetteva questa teoria della metafora
come teoria generale dell’arte.
È strano che l’approccio più sistematico alla metafora non proceda
interamente da questo passaggio kantiano. È curioso ma spiegabile.
Hans Blumenberg si fonda, di fatto, su Husserl, che a sua volta si
dedicò all’elaborazione di una fenomenologia come scienza rigorosa, in
grado di ampliare al massimo ciò che è possibile concettualizzare, in
modo tale che non si potesse sentire la mancanza di ciò che ancora
esiste oltre i propri limiti. Blumenberg guardò con ironica pietà l’opera del
maestro (quello sarà il gesto che lo indisporrà per sempre nei confronti di
Heidegger), e trovò che tutto il suo pensiero dipendeva da una metafora
7
di base: la fondazione originaria (Urstiftung). Senza dubbio, come
dimostrò nella sua abilitazione, Die ontologische Distanz. Eine
Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls (1950),
questa fondazione originaria aveva una struttura peculiare. Dobbiamo
immaginarla, ma la possiamo solo intravedere come una perdita. Visto
che la fenomenologia cerca un fondamento essa finisce per affermare
che l’uomo ha avuto solo talvolta un sogno solido. Di questo terreno
fermo dell’umana esistenza rimangono poche tracce. Innanzi tutto ci
rimane l’ansia di sicurezza. Che la fermezza, la stabilità di quella forma
d’esistenza nel mondo, la vita, sia più forte della scienza, è la ragione
della nostra delusione nei confronti della scienza.
La metafora, che rappresenta principalmente una dissonanza
nell’ambito di questo progetto scientifico fondamentale, non solo non è
stata bandita, ma è stata sopportata e spesso addirittura cercata.
Questo è il problema di Blumenberg. A suo giudizio, la delusione della
scienza e l’accettazione della metafora avrebbero una radice comune:
creare un collegamento con gli strati arcaici del processo di curiosità
teorica. La metafora ci manterrebbe ancorati all’ambito della vita. La
fiducia che abbiamo in lei è un’impronta archeologica della sicurezza che
si suppone l’essere umano aveva avuto nel mondo della vita.
Blumenberg è riuscito a creare un laboratorio filosofico complesso,
nel quale Freud assume una posizione assolutamente centrale. Il mondo
della vita è un territorio nel quale la legge non è imposta dalla coscienza,
Questa, come esposto chiaramente nel suo Tractatus, proclamando la
perenne ripetizione della tautologia, obbedisce all’istinto di ripetizione,
alla spinta verso l’autoaffermazione. La coscienza, afferma Blumenberg è
rimasta così “consegnata alla cura della propria identità” (Blumenberg
1979, p.116).
Questa tirannia dell’identità non dobbiamo supporre appartenga
alla forma incosciente del mondo della vita. Al contrario, bisogna
assumere che questa coscienza basata sull’identità sia la riparazione di
un disturbo nell’ambito della relazione stimolo-risposta. Prima di questo
disturbo non era necessario assumere la rigorosa politica dell’identità.
8
La metafora è un’impronta di quella vita non costretta dall’istinto
di ripetizione e d’identità ma anche del processo di riparazione e di
trasferimento entro l’ambito dell’identità di ciò che si presenta come
diverso e al tempo stesso uguale.
La metafora è una reinterpretazione, una strategia che permette
di far arrivare alla coscienza qualcosa che per principio lotta per fuggire
da essa, qualcosa che appartiene alla Lebenswelt, dove le cose erano
solide e avevano un significato. Impronta di questo significato è la
metafora, che risveglia l’entusiasmo atavico, afferma Blumenberg, in una
natura che è allo stesso tempo stabile, ferma e
da decifrare. Se il
processo di conoscenza si fonda sulla continua perdita delle domande
che lo hanno avviato, la metafora ci parla di quello che perdiamo in tutte
le scienze.
Per Blumberg, come per Ortega – le cui carriere intellettuali si
somigliano per molti aspetti –, solo l’aggettivo “estetico” permetterebbe
il ritorno della metafora dall’esilio, entro un mondo determinato
dall’esperienza disciplinata. Solo l’estetica offrirebbe una licenza
disinibitoria alla metafora. Ma è propriamente quest’interpretazione
estetica della metafora che ci impedisce di comprendere la sua profonda
dimensione antropologica, che non si può confondere con nessuna delle
competenze tecniche concrete, che formano parte dell’estetica. Una
sicurezza e una significatività del mondo intero, aldilà delle identità della
coscienza, tanto più necessaria ed efficace quanto più riesce a
racchiudervi il senso del mondo nella sua totalità, creando così l’unica
forma di coscienza in grado di offrirci di nuovo la fede perduta nel
mondo della vita. Questa è l’essenza d’una metafora speciale, chiamata
da Blumenberg “metafora assoluta”.
È indubbio che tutti coloro che si sono occupati di metafisica
hanno cercato sempre di trasferire queste funzioni in una forma
operativa che fosse simile alla scienza. Come in Kant, queste operazioni
della metafisica non possono essere tolte all’uomo, né possono
soddisfarci. Accade come nel caso dei miti. Semplici simboli e idee,
continuano, tuttavia, a sedurci con la loro eterna pretesa d’essere presi
alla lettera.
9
Denotazione/Connotazione, Discours, Lebenswelt, Mondo della vita,
Rede.
Cohen H., 1922, Ästhetik des reinen Gefühls, vol. I. Berlin, Cassirer.
Black M., 1962, Models and Metaphors, N. Y., Ithaca, Cornell University.
Beardsley, M. C., 1858, Aesthetics: Problems in the Philosophy of
Criticism, New York, Hackett.
Ricouer P., 1972, La métaphora et le problème de l’hermenutique,
<<Revue philosophique de Louvain>>, n. 70, pp. 92-112.
Ortega y Gasset, J., 1982, Obras Completas, Alianza Editorial, Madrid.
Blumenberg, H., 1960, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Bonn,
Bouvier; trad. it. 1969, Paradigmi per una metaforologia, Bologna, Il
Mulino.
Blumenberg, H., 1979, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer
Daseinsmetapher , Frankfurt a. M., Suhrkamp; trad. it. 1985,
Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza,
Bologna, Il Mulino.
Haverkamp, A., a cura, 1983, Theorie der Metapher, Darmstadt,
Wissenschaftliche Buchgesellschaft.
Borsari, A., a cura, 1999, Hans Blumenberg, Mito, metafora, modernità,
Bologna, Il Mulino.
10
Scarica