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La “persona europea”: María Zambrano
Maria Teresa Russo
1. L’originalità di un “pensiero appassionato”
Tra i filosofi d’area spagnola degli ultimi cinquant’anni, María
Zambrano (1904-1991) è senz’altro la più nota al pubblico italiano, anche
per merito delle numerose traduzioni apparse recentemente nel nostro Paese.
Originaria di Malaga, allieva di Ortega y Gasset e di Zubiri, insegnerà
all’Università di Madrid fino allo scoppio della guerra civile. Dal 1939, la sua
condizione di esiliata la condurrà in Messico, a Cuba, a Parigi.
Particolarmente significativi saranno gli anni di permanenza a Roma (19531964), dove Zambrano entra a far parte di quella comunità di intellettuali che
anima la vita culturale della capitale, tra i quali Cristina Campo, Elémire Zolla
ed Elena Croce.
La filosofia di Zambrano a pieno titolo appartiene a quel genere che
Hannah Arendt qualificava felicemente come pensiero appassionato: pensare e vivere si mostrano un tutt’uno, nello sforzo di raggiungere una sintesi tra
ragione e cuore, tra poesia e filosofia. La si può considerare una pensatrice
di confine, purché questo giudizio non la costringa su una soglia che le impedisce di appartenere a pieno titolo all’una o all’altra forma espressiva, la poesia o la filosofia, confinandola in una sorta di zona neutra dove rimangono
insoddisfatte le esigenze di entrambe. Maria Zambrano fa senz’altro filosofia,
ma in cerca di una modalità espressiva che concili in sé il rigore e la passiopag 1
ne, per un’adesione più profonda del pensiero alla vita. In lei la filosofia
non è mai puro esercizio speculativo, ma esigenza profonda dell’essere
alla ricerca di risposte vitali.
Una filosofia, dunque, la sua, estremamente attenta alla vita e alla
storia umana, in un’epoca come quella della prima metà del Novecento,
in cui in l’Europa viveva una profonda crisi. Il tramonto del razionalismo
di fine Ottocento minacciava, infatti, di trasformarsi in vera e propria eclissi della ragione, mentre la fiducia nell’uomo stava lasciando il passo alla
scomparsa del soggetto e lo Stato, in alcuni Paesi, somigliava in modo sempre più inquietante al Leviatano immaginato da Hobbes. Si può dire che
l’Europa stava mettendo in discussione le sue stesse premesse, quegli ideali che, veicolati dalla cultura greca e dal pensiero ebraico-cristiano, avevano cementato progressivamente l’umanesimo europeo: il valore della
persona, la libertà, l’idea di comunità politica ordinata al bene comune.
E’ interessante notare che, in un momento storico che vede la
donna affacciarsi con decisione sempre maggiore sulla scena culturale e
politica, siano proprio alcune donne a farsi interpreti della necessità di una
rinascita dell’Europa, attraverso un pensiero forte orientato, più o meno
esplicitamente, ad alimentare le radici dell’umanesimo europeo. Assieme
a donne come Edith Stein (1891-1942), Simone Weil (1909-1943),
Hannah Arendt (1904-1975), Maria Zambrano mostra la fecondità di una
proposta che ha il suo leit motiv nel valore della persona e della sua libertà. Non a caso il simbolo più espressivo della filosofia di Maria Zambrano
è l’aurora. Il suo è un pensiero aurorale, perchè la luce ancora indefinita
dell’alba è simbolo dell’inizio di una vita nuova, di una nuova modalità di
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conoscenza, dell’incertezza della libertà. L’aurora è come offerta, non si
impone come la chiarezza meridiana della luce del sole, metafora, invece, della razionalità moderna. In aperta critica al razionalismo moderno,
atteggiamento più imperativo che contemplativo, di fronte cui la vita o si
annichila o si ribella, Maria Zambrano intraprende un cammino alla scoperta di tutto quanto sfugge alla pura oggettivazione analitica: l’uomo, l’amore, la libertà, la storia.
L’uomo come enigma da decifrare e, allo stesso tempo, l’uomo
come un essere che deve realizzarsi, cioè come vocazione. Né mera natura biologica né semplice autocoscienza, ma essere dotato di anima e per
questo con una vocazione estatica. L’estasi mostra proprio la necessità di
proiettarsi fuori di sé, motivata in ciascuno dalla coscienza tragica della
propria finitezza. La storia è, dunque, considerata come una tragedia da
interpretare, ma anche un sogno da realizzare. La storia europea, in particolare, va letta, secondo Zambrano, alla luce di una crisi, ma anche di una
possibilità di rinascita.
2. La crisi della Spagna agli inizi del XX secolo nel pensiero della generazione
del ‘98
Il pensiero spagnolo della prima metà del Novecento si alimenta
della riflessione di quegli intellettuali che, secondo l’espressione utilizzata
dal filosofo Ortega y Gasset nel 1908 e dallo scrittore Azorín (pseudonimo di José Martinez Ruiz) nel 1913, era nota come “generazione del ’98”.
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Essa inaugura quella che P. Lain Entralgo ha definito Edad de Plata della
cultura espanola, periodo che va dal 1898 al 19361.
Com’è noto, la data del 1898 è estremamente significativa per la
storia della Spagna. E’ il simbolo della fine di un’epoca della storia spagnola durata quattro secoli. Indica la data del cosiddetto Desastre, che ebbe
un’enorme risonanza, maggiore tra i pensatori che tra i politici. Nel 1898,
la flotta spagnola fu distrutta a Cavite e a Santiago di Cuba, da parte degli
USA, con la perdita delle ultime colonie (Cuba, Portorico, Filippine). Il
bilancio delle perdite fu elevatissimo per la Spagna, mentre fu quasi nullo
per gli USA2.
Con il termine “generazione del ‘98”, s’intende non soltanto un
insieme di pensatori uniti dalla contemporaneità, ma soprattutto da un
legame interno di tipo ideologico e spirituale, dalla consapevolezza di una
crisi della coscienza spagnola, da uno spirito di protesta e di ribellione3.
Secondo l’espressione di P. Cerezo, si tratta di una generazione tragica, tesa tra radicalismo, utopia e nichilismo4. Antipositivismo, pessimismo ontologico, scetticismo e irrazionalismo sono ritenute le linee essenziali di tali pensatori, assieme all’esplorazione sistematica del fallimento
delle credenze e della fiducia esistenziale; il rifiuto dell’oggettività del
razionalismo scientifico si accompagna in loro all’appello a una nuova
soggettività come via d’accesso a una realtà più autentica e profonda.
In ambito letterario, sono esponenti della generazione del ‘98:
Azorín, Ganivet, Pio Baroja, Joaquin Costa, Antonio Machado; in ambito
filosofico, Miguel de Unamuno. C’è da osservare che non tutti sono d’accordo su questa categoria di generazione del 98: c’è disaccordo sulle
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cause della nascita, sui componenti, sulle idee comuni e gli stessi Miguel
de Unamuno, Ramiro de Maetzu, Pio Baroja la criticarono come inadeguata.
Appare il cosiddetto problema de España, dovuto al rifiuto della
modernità scientifica, sociale e filosofica di cui la Spagna aveva sofferto.
Quando, però, alcuni di questi pensatori prendono coscienza della loro
emarginazione storica, si rendono anche conto che la modernità in cui tardivamente si sono inseriti è irrimediabilmente ammalata. L’idea di decadenza e il Regeneracionismo sono due note dominanti: la diagnosi della
malattia della Spagna si accompagna, infatti, a diversi tentativi di analisi.
Per alcuni, causa della decadenza è il clima di chiusura dovuto al cattolicesimo, per altri, al contrario, come Menendez Pelayo, il motivo starebbe
nell’eccessiva permeabilità alle correnti di pensiero straniere, che avrebbe
determinato la perdita dell’identità nazionale.
Sono innegabili e riconosciuti i legami tra la generazione del ‘98 e
il pensiero europeo: a fianco a Schopenhauer, abbiamo la cultura francese, con l’influenza di pensatori come Renan, Sabatier, Bergson. Per quanto riguarda l’area italiana, Leopardi, D’Annunzio; evidenti i rapporti col
pragmatismo di W. James.
Su questo terreno, si svilupperà la speculazione dei pensatori più
significativi della filosofia spagnola della prima metà del XX secolo:
Miguel de Unamuno (1864-1936), José Ortega y Gasset (1883-1955),
Xavier Zubiri (1898-1983).
María Zambrano (1904-1991), ammiratrice di Unamuno e allieva di
Ortega e Zubiri, raccoglierà l’eredità di questi maestri, ma traducendola in
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accenti e temi del tutto nuovi.
3. L’Europa tra agonia e speranza nella riflessione di Maria Zambrano
Profondamente radicata nell’humus della Spagna del suo tempo, la
riflessione zambraniana mostra contemporaneamente un respiro europeo,
che ha indubbiamente contribuito al consenso incontrato fuori del suo
Paese. Partendo dalla considerazione che la crisi della Spagna di quegli
anni sia parte di una più vasta crisi europea, quella che definisce l’agonia
dell’Europa, la pensatrice non imbocca la strada di complesse analisi
socioculturali, ma si rivolge piuttosto a cercare quegli elementi che contribuiscano a ricomporre l’immagine originaria dell’uomo europeo.
Ripartire dall’uomo significa per Zambrano ripartire dalle radici di
una cultura che non si costituisce in contrapposizione alle altre, ma ne eredita gli interrogativi, cercando di offrire una risposta più piena. Ripartire
dall’uomo significa ancora ripartire dalla filosofia, che deve riscoprire la
sua autentica vocazione di un sapere capace di orientare la vita, di sciogliere i dubbi della ragione e di soddisfare le esigenze del cuore. Ripartire
dall’uomo significa, allora, ripartire da un uso diverso della ragione,
com’ella osserva, “più complesso e delicato, che contenga in sé la propria
critica costante, cioè che sia accompagnato dalla consapevolezza della
relatività”5. Si tratta, dunque, di approdare a una sorta di relativismo che
sia lontano dallo scetticismo e che viene definito come un relativismo posi tivo.
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Per Maria Zambrano la storia di una civiltà, di una cultura si definisce come storia di una speranza. Sperare è prerogativa dell’umano, giacchè
solo l’uomo tende naturalmente verso qualcosa che non possiede. La pensatrice utilizza l’immagine di sapore platonico della nascita incompleta, per
indicare il carattere autotrascendente dell’uomo, che lo rende un essere sempre in cerca di una perfezione posta fuori e al di sopra di sè.
“Ogni cultura è dunque conseguenza della necessità che sentiamo di nasce re nuovamente. Per questo è la speranza il fondo ultimo della vita umana,
quello che reclama ed esige la nuova nascita, il suo strumento, il suo veicolo.
Per questo l’essere umano non riposa; perchè tutte le volte che in successive
culture è tornato a nascere, non ha potuto ottenere la nascita definitiva, giac chè in nessuna di esse ha trovato, nè può trovare forse, quell’essere intero e
compiuto di cui va in cerca. Tutte le culture realizzate, nonchè le utopie, sono
conati di essere. E le forme che hanno raggiunto una maggiore stabilità sono
quellle che si sono attenute più strettamente alla struttura della vita umana,
sempre speranzosa di rinascere.”6.
La cultura europea presenta una radicale differenza da quella orientale:
“Le durature culture orientali sembrano essere nate, dunque,
dall’ansia di dis-nascita, quella europea dalla ri-nascita. E per questo la
storia europea è più storia di qualsiasi altra fino ad oggi, perchè, oltre
alla violenza o all’ansia di esistere, ha la consapevolezza di questa spe -
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ranza, allo scoperto. E anche perchè la sua speranza è stata quella
di rinascere costantemente qui sulla terra come scenario della sua
resurrezione. Tutte le altre culture, anche quella greca, quando pen savano alla sopravvivenza era per collocarla al di là della terra. O
non avevano davanti a sè, trasparente, la speranza di resuscitare, o
la trasferivano più oltre: nell’immortalità. Insomma, la generale cre denza europea generata dalla sua speranza di resuscitare è stata la
vita eterna, la resurrezione; ma in questo mondo. In questo mondo
sempre, sebbene sia stata sognata nell’altro, sia stata creduta nell’al tro”7.
In quest’ottica la formazione della cultura europea non è altro che la
nascita della speranza europea, della speranza cristiana, che si profila
all’orizzonte e si materializza in una figura che la Zambrano non esita a
definire padre dell’Europa: sant’Agostino.
“Per strano che possa sembrare, è possibile quasi indicare
l’anno della data di nascita della cultura europea, quando è venuto
alla luce il suo protagonista, l’uomo che con le sue ansie manifeste
è destinato a determinare inesorabilmente il corso successivo.
C’è un personaggio che sempre ha affascinato le menti
europee e che, per il luogo geografico di nascita, non è propriamen te europeo. E proprio questo servirà all’Europa. Questo grande
uomo è Sant’Agostino. La sua vita, resa trasparente dalle
Confessioni, ci offre, nella sua concretezza personale, il transito dal
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mondo antico al mondo moderno. Le sue Confessioni, in verità, ci
mostrano in modo diafano il duplice processo coincidente di una
conversione personale che allo stesso tempo è storica. La Storia stes sa si confessa in lui. Infatti ciò che cambia non è tanto l’anima di
Sant’Agostino, ma l’anima del mondo antico che si converte nel
nuovo. E’ una conversione storica o, se si preferisce, la soluzione di
una crisi, della crisi nella quale il mondo antico -la filosofia greca e
il potere romano- muore certamente per sopravvivere, ma in un’al tra forma”8.
Egli esercita una sorta di mediazione tra la speranza antica, ormai
decaduta e trasformata in disperazione e quella nuova, frutto del cristianesimo, che comporta anche la rivelazione di una nuova immagine di uomo.
“Il mondo antico da cui Sant’Agostino si stacca, non muore nella
sua essenza più vera; formerà la nuova cultura che si chiama
Europa. E allora sorge la domanda: in cosa consiste il cambiamen to? Cos’è che nasce? Cos’è che è morto? Se la Filosofia greca e il
Diritto romano e persino la struttura del suo potere persisteranno
nella Chiesa cattolica, cosa è cambiato? E’ l’uomo, l’uomo genera to da una nuova fede, da una credenza, da un nuovo orientamento
della sua speranza. Ciò che propriamente è cambiato è questa spe ranza, formula della nuova nascita. Così si spiega il fatto che il
Cristianesimo, la nuova fede, che era nato nelle sue pure origini lon tano dallo splendore dei sistemi filosofici e che con San Paolo rea -
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lizzò la rivoluzione più temeraria di tutti i tempi, assimilasse con
tanta rapidità la Filosofia e le formule imperiali romane.Ormai nien te di tutto ciò era di ostacolo, trasformato in strumento per l’uomo
nuovo che aveva fatto la sua comparsa nella storia. Perchè questa
assimilazione dell’antico avvenne quando l’uomo nuovo, il nuovo
orientamento della speranza, si era rivelato pienamente; quando
quest’uomo era interamente formato. E questo lo si può vedere in
sant’Agostino.
Sant’Agostino ha sempre esercitato un’attrattiva particolare per chè è il primo “Padre” in un’epoca di “padri” che conobbe più di
ogni altro la necessità che l’uomo ha di essere rigenerato; in lui la
voracità dell’istinto carnale fu repressa dalla castità, per lasciar il
passo alla fecondità solitaria dello spirito, che doveva dare alla luce
l’uomo nuovo. sant’Agostino è stato il padre dell’Europa, del prota gonista della vita europea.
Ogni resurrezione non è che la trasmutazione di qualcosa che
continua ad essere la stessa, ma che non può più permanere nean che un istante di più nella sua forma e così, in modo repentino e
inavvertito, trova una nuova ispirazione, si rende conto che la sua
speranza e la sua disperazione erano divenute inestricabili o troppo
difficili, e ne scopre altre nuove. E’ questa trasmutazione di speran ze e di disperazioni ad essere il centro delle Confessioni di
sant’Agostino. Da ciò appare con semplice evidenza che una cultu ra umana non è che un sistema di speranze e di disperazioni. Per
questo, quando si ha il merito di fondarne una, le speranze disper -
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se si uniscono e si raccolgono in un sistema. La vita umana è siste matica, ma non a base di ragioni e non-ragioni, bensì di speranze e
disperanze. A volte questo congegno si inceppa per cui non funzio na più, allora l’uomo agonizza, si dibatte e comincia a cercare, per chè non sa cosa sperare. “Perchè ciò che dobbiamo sperare non lo
sappiamo e così lo spirito geme con gemiti inenarrabili”, dice san
Paolo, che conobbe più di ogni altro la disperazione e la speranza
che nasce da essa. Con sant’Agostino l’uomo nuovo è già nato; già
sa cosa deve sperare”9.
Di fronte all’uomo greco, pessimista e incapace di appassionarsi
alla vita -la Zambrano fa sua ricreandola l’interpretazione anticonformista
della grecità, che ha trovato tra i suoi epigoni anche Nietzsche- e pertanto
aggrappato ad una speranza che vedeva nella ragione e nella filosofia il
cammino di salvezza, si erge l’uomo nuovo che fa la sua comparsa nelle
Confessioni.
“Qual era la speranza greca che Sant’Agostino salverà in mezzo
alla disperazione? La verità è che si è ricoperto il pessimismo greco
di ghirlande di fiori, con le quali l’immaginazione europea ha rives tito la Grecia, infantilizzandola. Niente di meno autentico di ques ta Grecia bucolica, di questa Grecia “pagana” con cui i parnassia ni di tutti i tempi hanno rivestito i loro sogni di “un mondo miglio re”. In realtà, la Grecia è servita all’europeo per proiettare su di
essa ciò che gli mancava, il lato più in ombra e più desolato della
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sua vita. Verso la Grecia si sono diretti i sogni repressi e Grecia è
stato il nome che spesso ha colmato la nostalgia europea e i suoi
impossibili aneliti.
No, la vita greca -come già hanno messo in luce eminenti ricer catori, storici e filosofi- aveva un fondo di pessimismo10. Un pes simismo esistenziale che spiega molto bene l’aspetto oggettivo
della ragione greca, il fatto che la sua filosofia non cercasse altro
che verità generali, universali, senza troppo sforzo per lasciar
posto all’uomo. Utilizzando un concetto di Max Scheler, possiamo
dire che il greco non si è preoccupato eccessivamente di occupa re il suo “posto nel cosmo”, per quanto in verità lo occupasse nel
senso più oggettivo del termine, vale a dire più razionale. Il greco
ebbe sete di ragione, per il suo disgusto nei confronti della vita. In
nessun luogo della sua poesia possiamo tovare un inno di ringra ziamento per essere nato; e i canti alla vita sono funerari. Il culto
a Dioniso, diodella vita, non è un culto gioioso ma terribile e lo
stesso Dio acquista immediatamente un aspetto di dio degli inferi.
La vita non era un’avventura e neppure un valore. In realtà non ci
sarebbe bisogno di alcuna indagine, nè storica nè filosofica, se non
ci fossimo ostinati a proiettare sulla Grecia i nostri aneliti di felici tà. Sarebbe sufficiente aver contemplato, anche in una semplice e
povera riproduzione, il volto infinitamente malinconico di un
fauno, la più “pagana” delle sue creature; basterebbe aver presen te il severo e quasi accigliato volto della vergine Pallade, così aus tera e bellicosa; basterebbe la severità malinconica di quella bellis -
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sima testa della più illustre delle sue etere, Aspasia, per percepire
il pessimismo, come tenebroso fondale nel paesaggio di una così
splendida cultura. Anzi: si potrebbe azzardare un sospetto vivissi mo: in tutte quelle culture in cui la bellezza ha tanta importanza,
come in Grecia, è presente il pessimismo. Le culture vitali moder ne e il cristianesimo antico, con la sua forte speranza di vita eter na, non hanno sentito questo imperioso e totalizzante bisogno di
bellezza che la Grecia manifesta nella sua perfezione, e che rac chiudeva una protesta, una ribellione contro la meschinità dell’e sistenza umana, una sfida (l’unica consentita senza processo)
all’invidia degli dei olimpici.
Il greco non ebbe vocazione per la vita; la ebbe per la ragione,
per la bellezza, per cose che avrebbero raggiunto il loro essere sol tanto in un luogo che non è la vita nè la morte, ma l’immortalità.
E per questo scoprirono l’immortalità, che in essi ha più chiarezza
e forma che in nessun altra parte. E questa scoperta rassicurante
rivela il loro genio positivo e creatore: provando orrore sia della
vita che della morte -in questo consiste il pessimismo- scoprirono
l’immortalità, una sorta di oltremondo, scoprirono l’essere. Essere
che è contrario in certo modo alla vita. Tutti i popoli o culture vita liste respinsero l’idea di essere e mai avrebbero potuto scoprirla;
l’essere al di là della vita e della morte, come la ragione, come la
pura bellezza di cui i suoi marmi ci mandano il riflesso”11.
Era necessario, dunque, indicare alla speranza un altro orientamen-
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to, che non avesse alimento unicamente nella ragione e nella filosofia; era
necessario un padre che generasse una nuova categoria di persona:
“La speranza per i greci risiedeva nella ragione, nella strada aper ta dalla ragione e che ad essa si aggrapparono in quel cammino
di salvezza che fu la filosofia. La scuola di Alessandria ci mostra
l’ultimo splendore di questa cultura, il grado estremo a cui era
giunta e dal quale ormai non poteva retrocedere e neppure pro seguire più avanti.
La speranza cristina, invece, è una replica ad un’altra dispera zione: la disperazione che si ostina a vivere e che in mezzo alle
più grandi disgrazie ancora si lamenta del suo essere perituro.
“Ricordati adesso che dalla polvere mi desti forma e alla polvere
mi dovrai far tornare?” “Ricordati che la mia vita è vento e che i
miei occhi non torneranno a vedere il bene”. Disperazione che si
ostina a vivere; fame di vivere consumandosi, non fame di ordi ne nè di ragione. “E dopo che la mia pelle sarà disfatta, ancora
vedrò nella mia carne Dio” -dice Giobbe- e prosegue: “Io lo
vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno, anche se i miei
organi si consumano dentro di me”.
Era la disperazione, la rabbia di vivere che aspettava Cristo, il
conciliatore, colui che avrebbe portato resurrezione e vita eterna.
E tale ostinazione comportava un disprezzo della ragione, giac chè non era questione di ragioni e quando Giobbe le chiede alla
divinità, non sono ragioni di stile greco; sono ragioni personali,
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ragioni di un qualcuno a un altro qualcuno, ragioni di vita.
Ma quando il cristianesimo attecchì nel suolo della cultura del
mondo greco, c’era, oltre a ciò, un’altra disperazione; la dispera zione del mondo antico, per meglio dire, il disinganno della
ragione. L’uomo della strada, che non si sentiva il coraggio di
essere martire della filosofia alla maniera neoplatonica, non
aveva dove aggrapparsi. Il cristianesimo si potè confondere, per
questo, con il cinismo, per la sua disperazione della ragione, per
la sua disperazione della verità, dalla radice certamente così
diversa, ma con un’apparente somiglianza.
La ragione, anche al suo massimo splendore, non potè genera re nuovamente l’uomo; lo lascia nella solitudine e nell’abbando no. La crisi del mondo antico, sotto quest’aspetto, può ben chia marsi l’impotenza della Filosofia. Non è questo il momento di
mostrarla nei tratti più essenziali, ma è evidente che quando
sant’Agostino ci riferisce delle sue peregrinazioni per le Scuole,
della sua avidità di sapere e della sua inquietudine, ci sta ripor tando questo avvenimento, il vuoto della filosofia antica, nella
quale si sarebbe potuto trovare senso generatore solo abbrac ciandosi ad essa con l’eroismo di un Plotino. Per il momento, i
filosofi non potevano essere padri. Eppure, molto presto lo saran no, tanto quanto gli altri, quanto quelli così chiamati in virtù della
nuova fede dell’uomo nuovo”12.
E’ in questo momento di crisi che fa la sua comparsa un altro tipo
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di ragione, quella che la Zambrano definisce ragione indifesa e che
vede incarnata in modo particolare da Seneca, saggio più che filosofo:
una ragione che additando la rassegnazione, ossia l’accettazione del
fallimento, come unico cammino possibile, proponeva una sorta di
amara “sapienza del relativo”13, giacchè l’assoluto era ormai troppo
elevato e distante. E’ dunque una ragione che batte in ritirata, riparando nell’unica possibilità rimasta, quella della speranza che l’antica fede
nel logos della natura possa essere ancora difesa e consolazione al rancore di una vita ribelle e priva di ordine. Era il massimo che si poteva
chiedere ad un pensiero senza trascendenza divina, al quale mancava
quella nozione che la Zambrano ritiene fondamentale per recuperare
una nuova direzione della speranza: la nozione di creazione.
Di fronte a questa ragione indifesa di Seneca, il cristianesimo proporrà una ragione materna, quella dei Padri della Chiesa, per certi
aspetti molto vicina alla prima, perché portatrice di una verità capace
di radicare nell’anima e non solo nell’intelligenza, persuasiva e feconda.
“La ragione nei padri si fa materna, per la sua stessa rinuncia al
proseguimento dialettico, per il suo limite nel perseguire un’ide alità. Rinuncia all’idealità per rivolgersi a qualcosa di concreto,
che per di più non pretende di definire. Da essere logicamente
ideale si trasforma in divinamente materialista, se per materialis mo intendiamo l’attaccamento materno al concreto, all’uomo
reale, la rinuncia all’astrazione per non staccarsi da ciò che è
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più intimamente umano”14.
Questo uomo nuovo è l’uomo interiore:
“Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas. L’uomo euro peo è nato con queste parole. La verità è dentro di lui, si rende
conto per la prima volta della sua interiorità e per questo può
riposare in essa, per questo è indipendente e, ben più che indi pendente, libero”15.
Il recupero dell’interiorità passa attraverso la nozione di creazione
che, riconoscendo all’uomo non più soltanto la categoria di individuo,
ma di persona, gli attribuisce ben altra dignità.
“Essere persona cristiana significa essere infinito e senza misu ra; essere individuo stoico significa avere una misura, essere
soggetto a un limite. Lo stoico prende dalla vita il “carico pro porzionato alle sue forze”; come dice Seneca: “bisogna cerca re che chi sopporta sia più forte del sopportato”; l’uomo è una
creatura che è ancora sotto la nozione di quantità, perché non
c’era l’idea di creazione. La persona cristiana, invece, non ha
limiti, né per le sue forze, né per la sua vita, né per la sua
morte”16.
Quest’uomo nuovo, dunque, padrone di se stesso, giacché possie-
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de un’anima che non è più una forza ignota e indomabile da placare e
tenere sottomessa, è dunque libero e, allo stesso tempo, infinito nella
sua apertura alla trascendenza.
“La persona cristiana non ha limiti, né per le sue forze, né
per la sua vita, né per la sua morte. C’è qualcosa nell’uomo che
tutto traspone e trascende; essere uomo significa possedere
questa interiorità che trascende tutto, questa interiorità impossi bile da circoscrivere. Per questo una persona, un cristiano, è
come una prospettiva infinita che non si esaurisce mai in nessu no dei suoi atti né in tutti messi insieme; è qualcosa che rimane
sempre al di là; è nel fondo, ha fondo. Per questo ha bisogno di
rivelarsi, di confessarsi, e mai si esaurirà, mai si esprimerà del
tutto, perché il suo autentico essere risiede al di là”17.
L’uomo interiore ha dunque bisogno più che mai di rivelarsi, ma
questa volta la sua rivelazione non è tanto la ricerca inquieta di una
perfezione disincarnata e irraggiungibile, quanto piuttosto confessione,
ossia parola, racconto a un interlocutore, azione rivelativa per il solo
fatto di essere compiuta dinanzi a un qualcuno che le conferisca significato. Quest’uomo è finalmente un essere completo, non uno spirito
puro: per questo la sua interiorità ha un centro, costituito dal cuore,
che partecipa allo stesso tempo del suo essere spirituale e corporeo. Il
cuore è la grande novità del pensiero di Agostino ed è alla ricomposizione del cuore disperso e frammentato che mira la sua confessione.
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Questione etica e non metafisica quella dell’ordinare e del ricomporre
il cuore: non è l’ascesa intellettuale di stampo neoplatonico, ma l’itinerario esistenziale che non ha come termine lo stato disincarnato del
filosofo antico, bensì la conquista della piena unità di corpo e anima.
4. Città possibile e citta utopica
L’uomo di S. Agostino, secondo la Zambrano, così come sperimenta un conflitto interiore tra quel che è e quel che vuole essere, allo stesso modo vive tra due mondi, senza abitare pienamente nessuno dei
due. C’è il mondo in cui vive, ma ce n’è anche un altro, la città ideale
sulla quale egli proietta i suoi sogni e che è, in un certo senso, il paradigma della cultura europea. Ad essa si deve l’idealismo costituzionale dell’uomo europeo, che ha davanti a sé sempre un oltre, un orizzonte trascendente in cui collocare le sue speranze. C’è sempre il progetto di una “città impossibile” nella cultura europea, che si è espresso di
volta in volta o nella nostalgia, nel ritorno al paradiso perduto, vagheggiato dalla poesia romantica o nella speranza di instaurare la giustizia,
la pace, che ha ispirato le grandi rivoluzioni.
E’ un’utopia? In un certo senso sì, perché se la storia è storia di speranze, è anche storia di utopie. La “città di Dio” auspicata da S.
Agostino presenta però una fondamentale differenza dalle altre utopie
apparse nella storia, come ad esempio, quella della repubblica platonica. Platone tenta, con la sua repubblica, di razionalizzare la speran-
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za, ossia di raggiungere sulla terra una sorta di modello perfetto di convivenza umana, dove regni la giustizia, grazie al dominio della ragione. Ciò che caratterizza questa “città dei filosofi” è l’eliminazione del
tempo, per cui esse sono espressione di una speranza atemporale, che
non si proietta più in un oltre, ma si circoscrive all’interno del regno
della ragione.
Non così per la “città di Dio”. Essa non elimina il tempo, ma lo
include in sé, in quanto non è atemporale, ma eterna. S. Agostino non
auspica la città di Dio, ma la vede; non la sogna, ma la descrive. Essa
è già una realtà, anche se è posta in un oltre18. Non comporta l’eliminazione della città terrena, ma anzi tende a instaurare sulla terra l’immagine fedele di quella città che già si trova nell’altro orizzonte. Ma
questa immagine dovrà sempre misurarsi con la realtà del tempo e
dunque, consistere più in un progetto, in un “non ancora”, che in una
realizzazione perfetta.”19.
“Se l’uomo europeo, rivelato nella confessione agostiniana, vive in
conflitto tra quel che vuole essere e quel che è, e per questo ha bisogno
della chirezza del cuore, allo stesso modo si muove anche tra due mondi.
Due mondi: nessuno dei due riesce ad essere raggiunto.
Egli infatti ha in comune con l’uomo di tutti i tempi la necessità di
farsi la sua casa, di crearsi il proprio ambiente. E in questo senso ogni cre atura umana sentirebbe questo bisogno e non in particolare l’europeo. Ma
dalla sua interiorità inesauribile, dalla sua speranza di resurrezione qui sulla
terra, è nata l’esigenza rivoluzionaria di un mondo, di una città ideale sem -
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pre al di là dell’orizzonte. E’ la sua ansia storica. Il voler sostantivare i suoi
sogni, il credere in essi in qualche modo.
Per questo la storia è più storia in Europa che in altre parti, per ques ta importanza definitiva dell’orizzonte, per la credenza nei propri sogni che
corrisponde all’ansia di uscire da sè. Ansia di uscire da sè più forte quanto
più chiara consapevolezza si abbia dell’interiorità. L’uomo interiore non
cammina verso la santità, cammina verso la storia, vuole uscire da sè per
realizzarsi qui sulla terra, ma allo stesso tempo sa, ha saputo da poco che
una cosa del genere non sarà affatto realizzabile.
Lo sforzo dell’uomo europeo è consistito nell’instancabile tensione
di tendere verso un mondo, verso una città sempre all’orizzonte, irraggiun gibile. Il paesaggio europeo è puro orizzonte, soprattutto in alcune delle
sue più nobili terre, come quella di Castiglia, la storia è puro orizzonte.
E’ il costitutivo idealismo dell’europeo che ha preceduto l’idealismo
propriamente detto, nella sua versione tedesca, ultima ed estrema versio ne che non sarebbe stata possibile senza l’idealismo di fondo, la radice da
cui cominciò ad esistere l’uomo europeo, che è come la condizione della
sua vita, il suo intimo sostrato.
Idealismo che si concretizza e si verifica in questo anelito, nella
necessità di avere al limite dello sguardo un mondo, di vivere in vista di
esso, gravitando di più verso la possibilità, attribuendole più valore che
alla realtà stessa.
E’ il vivere in progetto, credendo più nella realtà del progetto che in
quella visibile che dipende dall’invisibile e dalla sua realizzazione. E’ il sen tirsi abitante di un altro mondo. “Il mio regno non è di questo mondo”, si
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legge nel Vangelo. E questa verità fa sentire l’europeo più esiliato di qual siasi altro, perchè invece di annullare la sua volontà o di acquietarla, l’ha
mantenuta libera, libera di volere che questo regno discenda in questo
mondo. Prigioniero del suo duplice amore: al mondo invisibile, all’oriz zonte e a quello di quaggiù, al quale tiene legata la sua volontà. Al perso naggio che nasce con l’”uomo interiore” di san Paolo, spetta questo nuovo
mondo da lui richiesto. E’ il fondo utopico, essenzialmente utopico della
storia europea, la sostanza del suo sogno che inizialmente è stato come l’o rizzonte che inquadrava la sua realtà e che, a misura del trascorrere del
tempo, ha soggiogato la volontà europea perchè lo realizzasse”.
Per questo, secondo la Zambrano, la storia europea è “storia di una
gigantesca disfatta”20, ma il saper vivere in questa tensione di un’esistenza tra due mondi è il segreto della speranza cristiana. Voler annullare del
tutto la distanza tra le due città, cercare impazientemente di costruire
quanto prima la perfetta città di Dio già sulla terra, sarebbe pretendere di
annullare qualsiasi distanza tra l’essere e il dover essere, la grande utopia
rivoluzionaria moderna: “è l’ansia di realizzare da sé il Regno di Dio e la
sua giustizia, esaurire con l’attività umana l’intero ambito della creazione;
voler sostituire il soffio divino cancellando l’abisso che ce ne separa, l’abisso del tempo”21.
Come l’uomo europeo è mosso da un’insaziabile tensione, ha un
carattere di autotrascendenza, così anche la storia d’Europa si proietta in
un oltre, in un orizzonte che è progetto mai pienamente realizzabile, ma
che dà senso al mondo presente. Per questo la storia d’Europa ha un carat-
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tere essenzialmente utopico e l’agonia dell’Europa, nel senso etimologico
del termine, è lo sforzo titanico di realizzare un sogno, quello di dare visibilità a un mondo invisibile, destinato in un certo senso a fallire, e che proprio in questo fallimento trova la sua conferma di eternità.
La malattia dell’Europa comincia, allora, quando viene meno la
tensione verso il trascendente, quando si annulla la differenza tra i due
uomini, quello interiore e quello concreto, nonchè la distanza tra i due
mondi, quello visibile e quello invisibile, nell’illusione di poter realizzare
tutto subito. La speranza fallita si converte allora in delirio. E’ la tentazione del monismo, sempre in agguato, il tentativo di cancellare le ombre per
rimanere in piena luce, ma che priva l’uomo di quanto gli è più proprio e
più caro: la capacità di vivere a contatto e a costo del male e la speranza
nella resurrezione, che è speranza di essere creati nuovamente e in modo
definitivo.
“Sempre nel fondo intricato dell’incubo e nella terribile tensio ne tra i due mondi, si trova vivo l’anelito del regno di Dio sulla
terra, per la cui unica immagine l’Europa si è accesa di nostalgia e
di speranza, alla ricerca della sua permanente utopia, della sua
resurrezione ultima e definitiva, della sua trasfigurazione. E per
questo la più grave malatttia europea sarà la caricatura della sua
intima speranza, quella che ammanta il tradimento al suo utopis mo rivoluzionario di resurrezione. Malattia che sotto l’apparente
energia nasconde il languore, la fatica di continuare a vivere in ten sione, nella tensione idealista dell’abitante di due mondi. La fati -
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ca di questo consustanziale idealismo si può definire pragmatica mente, necessità di “successo” immediato, di distruggere l’oriz zonte perchè tutto sia a portata di mano, ebbrezza che faccia
dimenticare la distanza incolmabile tra le due città, quella di Dio
sempre all’orizzonte, e quella della terra, sempre in costruzione,
che annulli anche la differenza tra i due uomini, tra l’uomo concre to e il sempre nascente “uomo nuovo”. L’annullamento totalitario
della distanza, della distinzione tra “il bene che voglio e il male
che faccio”. Barbarie monista, mistica contraffatta che soppianta
la permanente speranza di resurrezione e la consustanziale utopia
creatrice. Stanchezza della lucidità e dell’amore all’impossibile e
abbandono del sapere più peculiare dell’uomo europeo: il saper
vivere nella disfatta”22.
Si può affermare, dun que, che Maria Zambrano capovolga la categoria di decadenza, già al centro della riflessione di Nietzsche sulla parabola della cultura europea, perchè ne ribalta perfettamente il significato
rispetto a quello conferitole dal filosofo tedesco. Decadenza è per
Nietzsche il tradimento che l’uomo europeo fa alla vita, a quel dionisiaco
autentica cifra della grecità, la cui colpa è da addebitarsi fondamentalmente al cristianesimo; per la Zambrano, invece, causa della decadenza è l’abbandono dell’autentica speranza cristiana, che ha riconciliato l’uomo con
la vita, perchè, rivelandogli la sua origine, lo ha reso trasparente a se stesso.
Pur tuttavia, la speranza europea continua a resistere e l’agonia
dell’Europa è segno di questo combattimento:
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“Agonizzare- è non poter morire a causa della speranza. No,
nessuno ci rimanda indietro dalla morte, nessuno ci lancia di nuovo
alla vita, se non la speranza nascosta. La speranza che scaturisce
disperatamente di fronte ad ogni avvenimento insopportabile. E
quanto più insopportabile è ciò che si soffre, più profonda rinasce
la speranza. Forse bisogna soffrire tutto questo perchè la speranza si
riveli in tutta la sua profondità.
E per questo c’è Storia. Per questo l’Europa è stata il luogo più
“storico”, più appassionatamente artefice di storia, della Storia
conosciuta. Perchè essa nacque il giorno della rivelazione della spe ranza più totale che sia stata conosciuta, della speranza che l’uomo
non aveva osato confessare a se stesso finchè il Cristianesimo non
gliene diede motivo. Speranza riversata nella storia. Da qui questa
tragedia. L’Europa, nello scoprire la vita come speranza, visse la sto ria come tragedia, “condannata” ad agonizzare, a non poter mori re; a rinascere dalle sue successive morti, giacchè non si può retro cedere dalla speranza a cui si è vincolati. A sperare di nuovo!
Non può morire l’Europa, perchè deve continuare per la sua stra da, che è agonia, che è calvario della speranza più sfrenata”23.
5. Persona, individuo e democrazia nella riflessione di Maria Zambrano
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Maria Zambrano scrive Persona e democrazia nel 1958, mentre era in
esilio nell’isola di Porto Rico. Per quanto originali, le sue riflessioni non
avrebbero il peso che invece acquistano alla luce della prefazione scritta
dalla stessa Zambrano all’edizione del 1987:
“sembrava allora che la democrazia fosse intrecciata con l’idea di pro gresso, che in maniera chiara e ovvia appare oggi come qualcosa per cui
non c‘è bisogno di lottare; ma per chi scrive queste righe, nè in quel
momento e ancora meno adesso è chiaro, preciso e trasparente il senso
reale ed effettivo di quel termine che filologicamente appare così eviden te”24.
Gli anni Sessanta rappresentavano, infatti, il periodo della vittoria delle
democrazie occidentali, all’indomani di quella crisi profonda che l’Europa
aveva attraversato. Eppure, secondo Zambrano, proprio grazie a quella
crisi era stato messo in drammatica evidenza il carattere sacrificale della
storia, innegabile fattore di progresso, smarrito invece dopo aver raggiunto la stabilità.
“Oggi non si vede più il sacrificio: la storia si è tramutata in un
luogo indifferente in cui qualsiasi avvenimento può presentar si con la stessa validità e gli stessi diritti di un Dio assoluto che
non consente la più lieve obiezione. Tutto è salvo e allo stesso
tempo vediamo che tutto è distrutto o sul punto di distrugger -
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si”25.
La cosiddetta crisi dell’Occidente è stata dunque superata, ma la situazione a cui ha lasciato il posto non è più rassicurante: forse non vi sono
più Leviatani all’orizzonte, ma non vi sono più neanche idealità che fanno
soffrire e sognare. L’Occidente appare così, secondo la pensatrice, come
una grande pianura, priva sia di nostalgia che di speranza, le due condizioni essenziali perchè vi sia storia in senso autentico.
Ciò che Zambrano definisce come carattere sacrificale della storia o sto ria etica merita di essere approfondito, perchè, assieme alla nozione di
persona, costituisce il pilastro delle sue riflessioni sulla democrazia e sul
futuro dell’Europa.
“La storia intera si potrebbe definire come una sorta di aurora ripetuta e
mai pienamente riuscita, protesa verso il futuro”26.
Storia è realizzazione dell’umanità dell’uomo, che ha avuto bisogno di
essere rivelato a se stesso. L’alba dell’uomo avviene grazie a due rivelazioni, quella greca e, più pienamente, quella cristiana, nella sua promessa
d’infinito27.
“A partire dalle due rivelazioni, quella realizzata in forma umana dalla
Grecia e quella in foma divina da Cristo, in Occidente l’umanesimo si è
esteso progressivamente in un’alba sanguinosa e oscura, dalla luce a tratti
vivissima, una luce che acceca e illumina”28.
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Questo risveglio della coscienza nell’uomo comporta, dunque, simultaneamente, un conflitto, che è alla radice del carattere tragico della storia,
così efficacemente messo in risalto dalla tragedia greca. Un elemento tipico della tragedia antica è costituito dal fatto che il protagonista agisca
senza sapere, senza la conoscenza che sarebbe necessaria per l’azione.
Ciò contiene, secondo Zambrano, una universale verità sull’uomo:
“Il conflitto dell’essere uomo si propone dunque non in termini di di
“esistere”, di “essere o non essere”, ma in termini di conoscenza”29.
Nella tragedia di Edipo questo difetto di conoscenza appare in tutta la sua
radicalità. E’ solo dall’agire, attraverso la sofferenza che comporta, che
scaturisce la conoscenza: si tratta, dunque, di un sapere tragico, che si
trova alla radice della storia stessa.
Il carattere sacrificale della storia emerge così con chiarezza, come appare evidente la presenza costante, in tante epoche storiche, a partire da
Caino e Abele, di un idolo e di una vittima.
“Idolo è ciò che pretende di essere adorato o riceve adora zione, ossia devozione assoluta: assoluta finchè dura. Idolo è
ciò che si nutre di questa adorazione o devozione smisurata
e, una volta che ne viene privato, finisce per crollare. E’ un’im magine distorta del divino, un’usurpazione.(...) Poi s’impone
la rivoluzione e l’idolo diventa la vittima”30.
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Solo il Dio che è anche vittima, Cristo, può eliminare tale dialettica tragica:
“L’accettazione di questo mistero avrebbe dovuto liberarci dall’adorazio ne dell’idolo e della sua ombra e dalla necessità che debba esserci sempre
un condannato”31.
Invece, ogni assolutismo non ha fatto altro che imporre un surrogato di
culto, tentando volontaristicamente di realizzare un’impossibile perfezione.
“L’esistenza dell’assolutismo non dipende nè da qualche forma di
pensiero filosofico nè da qualche religione. Si tratta di una situazione, piut tosto che di una teoria o di una specifica fede religiosa. Una situazione che
è al centro della tragedia occidentale, il punto in cui la passione di esiste re umanamente diventa volontà. E dato che il modo supremo e totale di
esistere è quello di Dio, vuole imitarlo. E’ l’ignoranza insita in ogni perso naggio tragico, che non “sa ciò che deve fare”. E vive così dentro il suo
sogno, rinchiuso in esso, privato della libertà. E solo il riconoscimento del
suo errore gli restituirà la libertà. Solo identificandosi, riconoscendosi,
potrà attraversare la soglia davanti alla quale si è arrestato” .32
Perchè, al contrario, possa nascere una democrazia, è necessario il passaggio dalla storia sacrificale alla storia etica, che si può compiere soltan-
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to attraverso il superamento della categoria di individuo e il recupero della
categoria di persona:
“Se dovessimo dare una definizione di democrazia, potrem mo dire che è la società in cui non solo è permesso, ma è addi rittura richiesto essere persona. Nell’espressione “individuo” si
insinua sempre un’opposizione alla società, un antagonismo.
La parola individuo suggerisce quanto nell’uomo concreto
individuale esiste di unico, ma in un senso leggermente nega tivo. Invece, il termine persona include l’individuo e in più insi nua nella mente qualcosa di positivo, qualcosa di unico per chè positivo, perchè è un “di più”, non una semplice differen za”33.
L’assunzione della categoria di individuo ha prodotto storicamente soltanto due modelli di organizzazione sociale: da un lato, l’anarchismo e l’individualismo, dall’altro l’assorbimento dell’individuo nello Stato, teorizzato da Hegel e realizzato nei totalitarismi.
“La persona è qualcosa di più dell’individuo. E’ l’individuo
dotato di coscienza, che ha consapevolezza di sé e si conce pisce come valore supremo, come ultima finalità terrestre; e
in questo senso era così fin dal principio: ma come futuro
ancora da scoprire, non come realtà presente in forma espli cita”34.
pag 30
Al polo opposto, vi è la categoria della massa, che Zambrano mutua
dalle riflessioni del 1927 di Ortega y Gasset35; a questa stessa nozione di
massa anche Hannah Arendt dedicava negli anni ‘60 particolare attenzione, nella sua analisi del fenomeno del totalitarismo36.
“La massa è una materia grezza, uno ‘starsene lì’ come materia:
significa una degradazione perchè allontana la realtà-popolo, che
è una realtà umana, dall’aspetto in cui la realtà umana raggiunge
il suo splendore, la possibilità di vivere come persona. Il che impli ca responsabilità e coscienza”37.
.
Secondo Zambrano, non è possibile il recupero della categoria di
persona senza la riscoperta di due dei suoi connotati essenziali, quella che
Ortega definisce la capacità di solitudine, ossia lo spazio dell’intimità e
della coscienza, e la responsabilità, indispensabile perchè vi sia un agire
etico:
“Dalla solitudine nasce la responsabilità, il nostro farci
carico di ciò che decidiamo e facciamo, e anche di ciò che fac ciamo o troviamo già fatto, perchè possiamo addossarci quello
che non abbiamo deciso nè creato, caricarlo sulle nostre spalle,
camminare volontraiamente sotto il suo peso. E tutto questo,
che non possiede figura, è capace di generarne una: la persona
visibile è come la colata di questa libertà, di questa intimità invi -
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sibile nelle circostanze”38.
La democrazia è allora questo, per Zambrano: un’organizzazione sociale in cui sia rispettata l’intimità e incentivata la responsabilità, una
forma politica in cui non soltanto si sia costretti ad essere persone, ma si
sia aiutati ad esserlo. Uno spazio dove la necessaria gerarchia non comporti discriminazione nè l’uguaglianza annullamento delle differenze, in
un ordine che, con un’espressione di Zambrano, “è più simile all’ordine
musicale che architettonico”39.
Le osservazioni che chiudono il saggio, pur scritte quasi mezzo
secolo fa, sono di grande attualità e rappresentano un auspicio anche per
l’Europa dei nostri giorni:
“Raggiungeremo l’ordine democratico solo con la partecipazione
di tutti in quanto persone, il che corrisponde alla realtà umana. E
l’uguaglianza di tutti gli uomini, “dogma” fondamentale della fede
democratica, dovrà essere uguaglianza tra persone umane, non tra
qualità o caratteri, perchè uguaglianza non significa uniformità. E’,
al contrario, il presupposto che permette di accettare le differenze,
la ricca complessità umana e non solo quella del presente, ma
anche quella dell’avvenire. E’ la fede nell’imprevedibile
”1.
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NOTE
1 Cfr. P. Lain Entralgo, La generacion del ‘98, Espasa Clape, Madridi 1948.
2 Cfr. J. L. Abellán, Historia crítica del pensamento español. La crisis con temporánea (1875-1936), vol. 5/2, Espasa-Calpe, Madrid, 1989, p. 164.
3 Cfr. La filosofía española en la crisis de fin de siglo (1895-1905), in
“Anuario filosofico”, XXXI/1-1998, pp. 3-15.
4 P. Cerezo y Galán, De la generación trágica a la generación clásica, in
Historia de España, Espasa Calpe, Madrid 1993, t. XXXIX, vol. I, p. 150.
5 La reforma del entendimiento, in Senderos, Anthropos, Barcelona
1986, p. 79. La traduzione di tutti i testi riportati, ove non sia indicato
diversamente, è dell’autrice del presente articolo.
6 M. Zambrano, La agonía de Europa, Mondadori, Madrid 1988, pp. 4565.
7 Ivi, p. 46.
8 Ivi, p. 47.
9 Ivi, p. 50.
10 Nietzsche, Rodhe, Burckhardt.
11 Ivi, p. 50.
12 Ivi, p. 52.
13 Séneca, Siruela, Madrid 1994, p. 79.
14 Ivi, p. 66.
15 La agonía de Europa, cit., p. 52.
16 Ivi, p. 57.
17 Ibidem.
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18 Cfr. Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 129-130.
19 La agonía de Europa, cit., p. 62.
20 Cfr. Ibidem.
21 Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 131.
22 Ibidem.
23 Delirio y destino, cit., pp. 255-256.
24 Persona e democrazia. La storia sacrificale, Mondadori, Milano 2000,
p. 1.
25 Ivi, p. 2.
26 Ivi, p. 29.
27 Cfr. Ivi, p. 39
28 Ibidem.
29 Ivi, p. 60.
30 Ivi, pp. 44-45.
31 Ivi, p. 46.
32 Ivi, pp. 103-104.
33 Ivi, p. 157.
34 Ivi, p. 118.
35 Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna
1984.
36 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità,
Milano 1996.
37 Persona e democrazia, cit., p. 172.
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