María Zambrano Una penombra toccata d’allegria di Rosella Prezzo Come si diventa filosofi? Come qualcuno, nel caso specifico qualcuna, una donna, fa della propria vita il luogo e il tempo di una filosofia, e della filosofia la forma in cui ne va della vita stessa, della sua molteplicità dispersa, in ombra e silente? Come portare alla luce del pensiero e della parola la “la verità di quel che accade nel seno nascosto del tempo” che “è il silenzio delle vite” e “il mutismo del mondo”, di cui pur continuiamo a vivere patendoli? È quanto María Zambrano ci indica e ci mostra, pazientemente e umilmente, con ironia e pietà, attraverso l’esercizio di un pensare che incorpora l’attenzione al sentire. Ciò non può non modificare la stessa trama filosofica, proprio perché “il circolo del pensare universale – la filosofia – nella sua perfetta riuscita lascia in ombra e accantona la passività attiva che è vivere”. Possiamo quindi dire, con le parole di Nelly Sachs, che Zambrano è una di quelle figure che “hanno inciso una ferita nei campi della consuetudine”. Nel riportarci sempre di fronte al segreto, all’intimità del vivere, alle viscere della storia, a quella vita in cui tutti siamo, ma che perlopiù lasciamo abbandonata nel suo ermetismo a vivere, sola, di paure e rancore, o che esiliamo ai confini del giorno; nel rammemorarci l’oscura evidenza dell’“adsum”, l’oscura presenza che si è, là dove si sente ciò che non si sa, il “misterioso vincolo” che ci lega alla realtà, non come un albero alle sue radici, ma come ogni corpo è legato all’ombra che porta con sé e in sé, Zambrano ci riporta al compito della nostra necessaria libertà, di esseri viventi e pensanti in una imprescindibile convivenza. È infatti in questo vincolo originario, in questo “pegno”, con l’alterità plurale che il suo pensiero si radica e, al tempo stesso, si fa strada, trovando la sua necessità (una “ragion pratica”) e le modalità del suo dire (una “ragion poetica”). La sua passività e la sua trascendenza. Qui occorrono però nuovi mezzi di visibilità e una luce diversa da quella senza ombre, origini o provenienza - che si accende in medio coelo imponendosi dall’alto come un dominio, in cui si è identificata la coscienza e la ragione filosofica. Occorre rivolgerci a una luce che, appartenendoci più intimamente, viene ogni giorno a risvegliarci, rinnovando l’originario essere dati-venuti alla luce, la nostra prima fondamentale circostanza, la nascita. Una luce che ha sempre “viscere d’ombra” e reca in sé, inestricabili, il dolore del parto e l’allegria di un nuovo incipit. “La penombra toccata d’allegria”, immagine di quel “viscere celeste” che è l’aurora, è infatti ciò che si è rivelato alla filosofa spagnola come più adatto al suo pensiero. Ma credo che tornare a sentire per poter pensare sia divenuta anche la nostra urgenza, la necessità più impellente nel nostro mondo comune, segnato così profondamente dalla catastrofe del sensibile, della presenza e della convivenza.