autori e lettori di boccaccio

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AUTORI E LETTORI
DI BOCCACCIO
Atti del Convegno internazionale di Certaldo
(20-22 settembre 2001)
a cura di
Michelangelo Picone
Franco Cesati Editore
WINFRIED WEHLE
"VENUS MAGISTRA VITAE":
SULL'ANTROPOLOGIA ICONOGRAFICA DEL DECAMERON
I. TI rapporto di Boccaccio con le Belle Arti presenta due aspetti. Da un
lato nei suoi testi si incontrano creazioni figurative che hanno significativamente colpito e ispirato altre forme d'espressione artistica, e - in particolare
per impulso di Vittore Branca - sono venute nel frattempo a costituire un'importante sezione degli studi boccacciani. Accanto a ciò troviamo poi un altro,
non meno costitutivo, ma ben più celato rapporto: esso prende le mosse dall'immaginario per così dire contemporaneo, dalle figure dominanti dell'epoca che potrebbero aver influenzato le opere stesse di Boccaccio. TI mio intervento è dedicato a questo secondo aspetto, ispirativo, di "interespressività" l ,
che vorrei affrontare a partire da un interrogativo che porta al cuore del Decameron. Si tratta della questione antropologica fondamentale, sulla quale
Medioevo ed Umanesimo principalmente divergono: che cos'è l'uomo? Presenterò una riflessione articolata in tre passi successivi. TI primo di essi schizza a grandi linee l'orizzonte antropologico generale all'interno del quale si inquadrava il quesito attorno all'uomo, e a cui anche Boccaccio si è evidentemente riferito. Lo chiamerò "Prologo in Paradiso".
Per secoli, la cacciata di Adamo e Eva dall'Eden è stata determinante per
la visione cristiana dell'uomo. TI Paradiso terrestre era un potente equivalente
figurativo della promessa mitica di un'originaria felicità del genere umano. Felicità che i nostri progenitori avevano tuttavia compromesso mangiando il frutto dell' albero della conoscenza. TI mitografo della Genesi ne dava la colpa ad
Eva, cioè alla sensuale corruttibilità della natura umana 2. Da allora l'uomo si
riconosce come essere ambivalente: nel peccato ha preso coscienza della proI Per riprendere un termine opportuno di V. B RANCA, in Interespressività narrativofigu rativa: Efigenia, Venere e il tema della "nuda", in AA.VV., Il se rendit en Italie. Études offertes à André Chastel, Roma, Ed. dell'Elefante, 1987, pp. 57-68.
2 Cfr. Vecchio Testamento secondo la Volgata, trad. ed anno da A. Martini, Prato, F. Giaeh etti, 1852; Gen. 3, 6.
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W infried W ehle
Sull'antropologia iconografica del Decameron
pria duplice natura, di un "animal" / "rationale" 3. Nella prospettiva cristiana,
tuttavia, questo dittico era aprioristicamente soggetto ad una chiara pregiudiziale di tipo morale: a mettere in pericolo l'uomo sono i suoi stessi istinti naturali, cioè la parte "animale", che viene perciò coerentemente "demonizzata" .
Un'immagine rappresentativa stabilisce un nesso causale tra la caduta dell'uomo e la caduta di Lucifero e fa sfociare ogni desiderio sensuale in un "circulus
vitiosus" cui l'uomo di per sé non è in grado di sottrarsi. li lato naturale dell'uomo, rappresentato da Eva e dalla femminilità, è dunque declassato a negazione peccaminosa e colpevole della bontà dell' essere umano.
Da questa premessa sorge il mandato dell' antropologia postedenica: reprimere tutto ciò che naturalmente muove l'uomo, quindi il suo lato animale,
per far così trionfare il suo lato razionale. Ecco dunque il soggiorno terreno
suggerire in termini elementari l'immagine di un cammino: percorrendo la
via della purificazione e spiritualizzazione l'uomo nuovo doveva superare in
sé l'antico, creaturale Adamo. Come ricompensa per una tale "mutatio animi", il Nuovo Testamento gli prospettava un nuovo Paradiso spirituale: la
Gerusalemme celeste. Qui l'uomo avrebbe ottenuto per l'eternità ciò che nel
Paradiso terrestre, agendo arbitrariamente, si era pregiudicato: la partecipazione con Dio, l'essere come Lui 4.1n sostanza questo comandamento di "razionalizzazione" prescriveva all'uomo naturale un programma di mortificazione. Che ciò implicasse, per lo meno da un' angolatura terrena, un provocatorio paradosso, è addirittura evidente nella Summa theologica di Tommaso
d'Aquino. La misura dell'umanità, secondo la concezione cristiana, è data
dall'anima razionale (animus); è quest'ultima che definisce la natura dell'uomo. «Secundum naturam» è quindi per Tommaso proprio ciò che è «secundum ordinem rationis» 5. O viceversa: ciò che è contro la sua ragione, va contro la sua vera natura. Portato all' estremo: il lato spirituale dell'uomo è quello
propriamente naturale, mentre il lato naturale è, proprio per ciò, quello contrario a natura. Forse nessun dipinto ha saputo esprimere questa conversio
alla seconda natura in modo più stringente della Divina Commedia dantesca.
Eppure anch'essa ha a modo suo sanzionato una volta di più il giudizio sul
Naturale nella natura umana: chi lo asseconda rischia l'infernale perdizione
dell'anima. Chi lo supera ascende alla salvezza eterna. Una delle più impressionanti prediche figurate dell' epoca lo ha programmaticamente illustrato: gli
affreschi del Camposanto di Pisa.
Tavola 1: Caedm ons Parafrasi [della GeneszJ, XI sec., Oxford, Bodleian Library.
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J Cfr. la posizione rappresentativa assunta da S. Tommaso nella Summa the%gica e il panorama storico del problema in De homine, a c. di M. Landmann, Freiburg, Alber, 1962, pp.
112-30.
4 Gen. 3, 5.
5 S. T OMMASO, Summa theol. , IIII, 71.2c ad 1.3.
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Tav. l
Tav.2
Winfried W ehle
Tavola 2: Buonamico di Cristofano, detto Buffalmacco, Il trionfo della morte, ca.
1340; Camposanto di Pisa, particolare ("giardino d'amore").
Ma questo categorico rigore dottrinale serbava, nella sua assolutezza, tutta una serie di quesiti rimossi, che a lungo andare non era possibile ignorare.
Essi, e non l'ortodossia, si sono dimostrati, nel corso della storia, oltremodo
produttivi. È lecito supporre che dalla rigorosa pretesa di superamento della
natura sia sorto lo spunto per superare questa antropologia ostile alla natura.
Essa era sconveniente non solo dal punto di vista teorico. Tommaso, nell'ambito del suo sistema di pensiero, concedeva alla natura intesa come principio,
anche laddove essa è un' entità priva di ragione, di essere senz' altro diretta ad
un fine. Come tutto il creato, anch'essa è «sub ratione boni» 6, anche nella
sfera pratica. Per limitata che fosse la permanenza dell'uomo in questa valle
di lacrime, il governo dei regni, l'amministrazione delle città, il sostentamento delle famiglie erano compiti imprescindibili, per quanto ostacolati dalla
natura peccaminosa. La realtà imponeva una moratoria pratica al rinnegamento teorico della natura. Per molti versi, infatti, l'antropologia cristiana
doveva rivelarsi problematica. Uno dei palcoscenici su cui la disputa si svolse
in maniera addirittura epocale è il Decameron .
La letteratura, tuttavia, ne parla in una lingua diversa da quella della filosofia e della dottrina cristiana. Per questo Boccaccio non prende le mosse
6
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S. T OMMASO, Summa contra gentiles ID, 3.
Sull'antropologia iconografica del Decameron
dalla preoccupazione per la salvezza dell' anima, bensì da una fatale vicenda
del suo tempo: la peste. il suo quadro narrativo è noto. La peste irrompe in
tutti gli schemi di significato e di comportamento vigenti, scardinando così
l'intera esistenza. E non è, d'altra parte, riconducibile in alcun modo ad una
causale ultima "ragione" 7 . Se la morte nera annienta indiscriminatamente
tutti, vecchi e giovani, buoni e malvagi, e soprattutto i bambini, com' era possibile conciliar ciò con un Dio moralmente giusto nel suo giudizio? Veniva
dunque a vacillare l'intera economia morale che faceva della vita terrena l'indicatore di quella nell' aldilà. Perciò la peste costringeva ad affrontare la questione fondamentale: qual è la giusta condotta di vita, sia in senso terreno che
ultraterreno?
A ciò il Decameron ha dato due risposte correlate l'una all'altra, rispecchiando in tal modo la duplice struttura di destinazione. La prima risposta è
insita nelle storie narrate: nella misura in cui esse costituiscono un'''epopea
mercantile" 8, sono maestre di pratica saggezza mondana. La seconda risposta
invece è fornita dalla cornice, che in un certo senso riflette la prima e può essere considerata la forma estetica con cui viene teorizzata 9: ed è di questa che
vogliamo occuparci qui. Boccaccio l'ha drammatizzata in modo estremamente immaginoso, secondo una poetica del "visibil parlare" IO. Lo spunto esteriore è rappresentato dalla decisione della brigata di ubbidire alla «natural ragione» e fuggire dalla città in preda alla pestilenza. Ma l'inaudita peripezia
avviene quando, dopo sole due settimane di soggiorno in campagna, essi ritornano nella città appestata. Evidentemente la morte nera non li spaventava
più. Che cosa era accaduto? Si sono raccontati cento novelle. E queste devono aver prodotto un mutamento di spirito tale da modificare radicalmente la
loro precedente concezione di vita e di morte. La mia tesi è che a tanto li ha
condotti un concetto nuovo, protoumanistico, di natura umana. La cornice lo
comunica in forma di una "allegoria di poeti", come quella sviluppata da
7 Poiché la peste negava ogni ragione transumana e umana, la brigata prendeva consiglio
dalla «natural ragione» (cfr. Intr. alla I Giornata, 53 ).
8 Cfr. V. BRANCA, Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni, 19703, p. 134.
9 Cfr. W . WEHLE, Der Tod, das Leben und die Kunst. Boccaccios «Decameron» oder der
Triumpf der Sprache, in Tod im Mittelalter, a c. di A. Borst et. al., Konstanz, Univo Verlag Konstanz, 1993 , pp. 221-60, e la discussione alla n . 57 (p. 256).
IO Per una riflessione teorica sulle relazioni fra immagine e testi cfr. H. BELTING, Das Bild
als Text. Wandmalerei und Literatur im Zeitalter Dantes, in H . BELTING-A. BLUME, Malerei und
Stadtkultur in der Dantezeit, Miinchen, Hirmer, 1989, pp. 23-64 . Per quel che riguarda i singoli
casi delle novelle, difficilmente rappresentabili iconograficamente, cfr. D . O EHLER, Zur Geschichte der Illustration des «Decameron», in Bild und Text im Dialog, a C. di K. Dirscherl, Passau, Rothe, 1993 , pp. 145-68; ma non senza interesse nei codici posteriori. Cfr. L.M. MUTO, A
proposito della cornice del «Decameron», in Letteratura Italiana e Arti Figurative, a c. di A. Franceschetti, Firenze, Olschki, 1987, I, pp. 291-301.
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Winfried Wehle
Dante 11, variamente praticata dall'Ovidius moralizatus e trattata da Boccaccio nelle Genealogie deorum gentilium 12.
II. Per molti versi la messa in scena di questa cornice sembra voler alludere, dal punto di vista sia strutturale che dei motivi, alla Divina Commedia. La
brigata attraversa tre stazioni 13, come il dantesco pellegrino dell'aldilà, ed anche il suo sviluppo mentale viene illustrato con la figura di un itinerario e alla
luce della dottrina della similitudo. Questo sarà oggetto della seconda parte
di questo mio intervento. A partire dal suo punto di interesse, potremo chiamarlo "itinerarium mentis in naturam". Già al principio del terzo giorno
(Intr. alla III Giornata, 3 ss.) i compagni abbandonano il loro primo ritiro e
ne raggiungono un secondo, incomparabilmente più bello e ricco del precedente; soprattutto il giardino, che ne è il centro, è rigogliosissimo. Ma anch' esso, come il Purgatorio di Dante, non è che preparatorio di un terzo luogo, cui spetta la più alta distinzione strutturale: la Valle delle donne (Cone!.
della VI Giornata, 18 ss.). Secondo tale omologia, i dieci giovani sono a
modo loro dei pellegrini, anche se in senso orizzontale e nell' aldiqua. Infatti
la Valle delle donne è il punto dell'itinerario di fuga più lontano da Firenze.
Entrambi i luoghi dunque si richiamano reciprocamente secondo la topi ca
polare di città e campagna: nella prima, sotto l'influsso della peste, la vita è
degenerata fino alla "bestialità"; nella Valle essa si mostra nella sua perfezione ideale. Il luogo lo segnala tra l'altro con il fatto che i dieci giovani vi trascorrono un'intera giornata all'aperto, a contatto con la natura, senza il sostegno civilizzatorio di un' abitazione umana. Di più: Boccaccio dà a questa sosta
il contrassegno della peripezia. La brigata vi è giunta percorrendo cinque
unità spaziali (due miglia; due volte mille passi; un miglio). Dopodiché i dieci
giovani imboccano la via del ritorno, suddivisa in altrettante tappe, in tutto
quindi dieci unità. Il soggiorno nella Valle è dunque il loro - alternativo «mezzo del cammin» (In! I, 1). E anche il loro cammino è iscritto in modo
discreto, addirittura cifrato, nel sistema numerico decimale del Decameron.
Lo spazio della Valle viene ampiamente e accuratamente sviluppato. Qui,
alla fine della sesta e all'inizio della settima giornata, Boccaccio crea un vero e
proprio modello di pittura paesaggistica allegorica (Cone!. della VI Giornata,
19 ss.). Rispetto agli altri, il luogo risalta come un qualcosa al di fuori, un'ec11 Cfr. M. LENTZEN, Zur Konzeption der Allegorie in Dantes «Convivio» und im Brief an
Cangrande, in Dante Alighieri, a c. di R. Baum-W. Hirdt, Tiibingen, Stauffenberg, 1986, pp.
169-90.
12 Genealogie, XV, x, 1 55.
13 Cfr. L. MARINO, The «Decameron» "Cornice": Allusion, Allegory and Iconology, Ravenna, Longo, 1979, p. 79 55.
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Sull'antropologia iconografica del Decameron
cezione nel mondo circostante, un ideale. Il topos letterario dellocus amoenus
è elevato al superlativo. La natura vi ostenta una bellezza, un rigoglio e una
perfezione tali da far torto ad ogni realtà. Al centro lo specchio d'acqua cristallina, circondato da un prato disseminato di fiori purpurei; poi il boschetto
ombroso, cinto a sud da rigogliosissimi frutteti e a nord dal più nobile bosco
di latifoglie e conifere, che si innalza come un anfiteatro; chiuso da una catena di colline, su cui troneggiano sei castelletti. Il tutto accompagnato dalle
più propizie condizioni meteorologiche. In questa densa topografia è variamente inserita una ricca iconografia allegorica.
Prima di tutto, questo terzo luogo sta in manifesta corrispondenza con il
secondo in cui la brigata si era ritirata dal terzo giorno, e che, da parte sua,
rappresentava già un luogo superlativo rispetto al primo. Anche lì, al centro,
c'era un quadro perfetto della natura: il giardino del palazzo (Intr. alla III
Giornata, 5 ss). Boccaccio ne ha programmaticamente formulato il valore figurativo dicendo che «tutti cominciarono a affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel
giardino gli si potesse dare nè pensare [ ... h (ibid., 11). Questo giardino è
dunque ispirato dal genius loci del Paradiso. E a sua volta, la Valle delle donne presenta un'evidente corrispondenza con esso. Tutte le componenti essenziali e l'impostazione di base concordano, cosicché anch' essa è concepita sul
modello del Paradiso.
Ma se Boccaccio stabilisce tra i due giardini un manifesto rapporto di
corrispondenza, è solo perché intende contrapporne l'idealità secondo la modalità tesi-antitesi. Il giardino del secondo luogo deve la sua perfezione all'abilità dell'uomo. È un artefatto, nel senso migliore del termine, e quindi un
paradiso artificiale. Esso illustra ciò che la ragione pianificante e ordinatrice
dell'uomo è in grado di produrre elaborando e quindi coltivando la natura.
La Valle delle donne, invece, incarna - dimostrativamente -l'esatto contrario. Benché la sua incomparabile armonia suggerisca il «migliore artefice»
(Cone!. della VI Giornata, 24), è purtuttavia la sola natura che esibisce ciò di
cui, nel migliore dei casi, è capace per spontanea predisposizione. Anche la
natura stessa è, nella propria essenza, «arteficio» (ibid., 20). In questo senso
la Valle rende manifesta l'idealità insita in ogni natural cosa. Ma il clou vero e
proprio di questa contrapposizione consiste nel fatto che Boccaccio, ancora
una volta in modo discreto ma inequivocabile, esprime un giudizio di valore.
Infatti, come sottolinea l'apertura della VII giornata, qui l'armonia e l'accordo sono al culmine. Nella natura dunque opera il vero archetipo del paradisiaco. La cultura umana, anche al massimo grado di perfezione, produce soltanto abili imitazioni, per così dire reminiscenze del Paradiso perduto. Con
ciò Boccaccio, attraverso una cifra allegorica, ha capovolto l'antropologia do349
Winfried Wehle
Tav. 3
minante. Essa ammetteva, nelle naturali predisposizioni dell'uomo, solo la
corruttibilità e nella loro spiritualizzazione l'unica via di salvezza.
E non è tutto. Questo dipinto allegorico della Valle delle donne contiene
un secondo livello di lettura, per così dire un ulteriore sensus allegoricus 14,
che conferma e approfondisce l'enunciato del primo. li punto di aggancio
esteriore è il motivo del bagno della componente femminile della brigata nel
laghetto. Vi entrano le sette donne e ne esplicitano significativamente 1'animus spogliandosi ed immergendosi nell' acqua fino al petto, cioè a metà corpo (Cone!. della VI Giornata, 30 ss.). Con gli abiti si disfanno degli ultimi residui della mentalità precedente, sconvolta dalla peste, soddisfacendo così il
criterio paradisiaco per eccellenza, la nudità. li loro bagno simboleggia dunque lo sposalizio con il principio vitale della natura. Che cosa un tale atto implichi, ce lo dicono gli altri elementi che compongono la scena. Nell'acqua
esse si muovono libere e leggiadre e giocano coi pesci. li testo valorizza
espressamente questo bagno come un atto di altissima portata culturale: lo
eleva al rango di «festa» Ubtd., 32). Ma in questa festa non vigono i metri di
misura patrizi di «sangue nobile», «bella forma», «costumi», <<leggi», «ragione» e «onestà» (Intr. alla I Giornata, 49), con cui si giustificavano i piaceri
della vita in campagna. La Valle delle donne - ed eccone la seconda dimensione - è soggetta ad un' altra legge: la legge naturale di Venereo
Tutti i caratteri essenziali della vicenda sono identificabili come rifacimento della mitografia venusiana 15. Di essa Boccaccio si è occupato a fondo
nelle Genealogie deorum gentilium (in particolare negli ultimi capitoli del libro ID, XXI-XXIV), cui certo egli doveva dedicarsi già all'epoca del Decameron. Con il loro aiuto è possibile svelare la sintassi mitologica di questa scenachiave. In dettaglio: il collegamento di Venere con l'acqua intesa come simbolo di vita, è ciò che ha fatto della Nascita di Venere del Botticelli un'icona.
Immagini più antiche, tuttavia, ne mostrano di regola gli attributi in maniera
più arcaica. È il caso dell' acqua trasparente che, più che celare, svela le forme
14 La costruzione della Valle è, a livello generale, una dimostrazione di ciò che LéviStrauss chiamava "bricolage" di miti. Metodicamente queste contaminazioni o questa interpenetrazione potevano sentirsi autorizzate dalla lirica stilnovistica e dalla sua prassi di corrispondenze; contenutisticamente dalla fede cristiana, la sola che permetteva di svalutare le figure mitologiche riducendole a finzioni pagane. Per una dimostrazione del suo procedimento dettagliato cfr. P. ORVIETO, Boccaccio mediatore di generi o dell'allegoria d'amore, in «Interpres», II
(1979) , p. 46 ss.
E .G . SCHREIBER, Venus in the Medieval Mythographic Tradition , in <<Journal of English
and German Philology», 74 (1975) , pp. 519-35; B. GUTHMOLLER, "Pro quanta potentia regni /
Est, Venus alma, tui". Venus in der Mythologie der ila!' Renaissance, in Faszination Venus. Bilder einer Gottin von Cranach bis Cabanel, a c. di E. Mai, K6ln, Wallraf-Richartz-Museum,
2000, pp. 50 ss.
Sull'antropologia iconografica del Decameron
Tavola 3: Anon., Ymago Veneris et luxurie, senza datazione [XIVIXV sec.]; Roma,
Bibl. Vaticana, ms. Palat. lat. 1726, fol. 43r.
delle sette giovani donne del Decameron, «il quale [cioè il pelaghettoJ non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva che farebbe una vermiglia rosa un
sottil vetro» (Cone!. della VI Giornata, 30). Accessori fissi sono i pesci come nella Valle: «cominciarono come potevano a andare in qua in là di dietro a' pesci» Ubid., 31) . Di regola Venere porta una ghirlanda di fiori - come
le narratrici del Decameron 16. E contornata di uccelli, per lo più colombe,
che simboleggiano la sua potenza generativa - come la Valle nel suo rigoglio
vegetativo, che riecheggia di canti d'uccelli (Intr. alla VII Giornata, 4). E la
l'
350
16 Un 'altra vicenda allegorica, anche questa ternaria, fa cambiare il copricapo dei dieci
giovani in successione, dalle ghirlande all'inizio del loro pellegrinaggio all 'alloro nella Valle fino
alle «frondi di quercia». Cfr. MARINo, The «Decameron» "cornice" cit.
351
Winlried Wehle
Sul!' antropologia iconografica del Decameron
conchiglia che la accompagna come un emblema, non ha forse preso forma
nella conca del lago, con l'afflusso e il deflusso dell'acqua? Come per stornare ogni dubbio, Boccaccio ha fatto ricorso a due ulteriori segni mitologici venusiani. L'unica a conoscere l'accesso recondito alla Valle è Elissa, allusione a
«la più appassionata figura virgiliana» (Didone), dunque «figlia mentale» di
Venere 17. E infine: la mattina del settimo giorno, quando la brigata si dirige
alla Valle, è Lucifero, la stella del mattino, ad indicare la strada (Intr. alla VII
Giornata, 2). Ma Lucifero, come spiegano le Genealogie, non è che un altro
nome del pianeta Venere l8 • Non c'è dubbio: la Valle delle donne parla illinguaggio cifrato della mitografia di Venere.
Boccaccio ha dunque inserito nella cornice del Paradiso cristiano una
concezione antica della natura, caricandolo così di un significato completamente diverso. In proposito le Genealogie insegnano che, dall' antico repertorio figurativo venusiano, egli ha scelto quegli attributi che fanno del bagno
nella Valle delle donne un rito iniziatico nella natura della "Venus magna" 19.
Così a tutti i corpi viene attribuita una "potenza", un fine naturale insito in
loro come diritto proprio: la conservazione e la procreazione (Geneal. III,
XXII, 7). La tesi allegorica della Valle è dunque la seguente: la natura ha in sé,
potenzialmente, un ideale di perfezione suo proprio. Esso a sua volta permette di motivare progetti esistenziali non più solo ed esclusivamente impegnati
nell'annullamento spirituale del Naturale nell'uomo. Così il cammino dei dieci giovani si è in un certo senso trasformato in un "pellegrinaggio nell' aldiqua". A misura che essi si allontanano dall'ormai problematica "ragione" di
un ideale culturale patrizio e cortese, si avvicinano nella Valle "ad fontes" di
un'idea di comunità alternativa. Scoprono che la natura, che ha la cattiva
fama di degradare l'uomo allivello di bestia, contiene nella "natural ragione"
(Intr. alla I Giornata, 53) un proprio piano vitale. li Decameron può dunque
essere considerato un significativo evento dell' età moderna nel senso che ha
valorizzato la natura come principio culturale produttivo.
In che misura la nuova antropologia di Boccaccio fosse rivoluzionaria ce
lo chiarisce un' altra, delicatissima corrispondenza figurativa. Essa porta in
certo qual modo alla luce la segreta antitesi del bagno nel paradiso di Venere.
È infatti lecito supporre un riferimento ad un' altra costellazione figurativa,
che vorrei documentare con il Battesimo di Cristo di Andrea Pisano (sul portale meridionale di San Giovanni a Firenze). Che somiglianza di momenti
e di strutture tra la scena di Vene re immersa e l'atto battesimale di Cristo!
L'iconografia cristiana non si sovrappone, come in un palinsesto mentale, al
mitico diritto naturale di Venere? Visto in questa prospettiva, il bagno dei
dieci giovani nella Valle acquisterebbe comunque un ulteriore significato:
sottolineare i segnali che parlano a favore di una palingenesi dallo spirito della natura. Volendo, questo andare "ad fontes" si pone già nel segno di una
"rinascita" il cui seme culturale germoglierà pienamente nel Rinascimento.
17 Così Branca, riferendosi a G. Billanovich, ad loc. Sviluppato e sottilmente integrato nel
suo sistema delle virtù che organizza giornate e figure da V. KIRKHAM, The Sign 01 Reason in
Boccaccio's Fiction, Firenze, Olschki, 1993, pp. 164 ss.
18 Gen. III, XXII, 20.
19 Cfr. B. GUTHMOLLER, Venus in der Mythologie cit., pp. 50-51. L'importanza di Venere
nelle opere precedenti al Deeameron è stata esaminata da R. HOLLANDER, Boeeaecio's Two Venuses, New York, Columbia University Press, 1977. Questa la sua tesi: tali "opere minori" sarebbero generalmente caratterizzate da una doppia struttura di Venere - tematica e morale.
Boccaccio si riallaccerebbe in entrambi i casi alla tradizione della rappresentazione dell' amore
sensuale, per poi distruggere ironicamente questa «religion of love» allo scopo di trasportarla
sul piano di un altro, più elevato ideale di Venere basato su presupposti morali e cristiani. Convincente nella tesi di Hollander è il fatto che essa riconosca nelle opere giovanili il contrasto fra
due opposte concezioni di Venere (e allo stesso tempo riveli la consapevolezza poetica di Boccaccio come nuovo Ovidio, p. 112). Non del tutto comprensibili sono peraltro i motivi per i
quali questo trapasso debba essere inteso come ironico o parodistico. Boccaccio ha rappresentato l'amore, secondo l'antica concezione cristiana e stilnovistica (Ovidio, Cicerone, Dante),
come bivalente ma al contempo in se stesso coerente, sulla scorta della dottrina antropologica
dominante che vede nell'uomo la duplice natura di "animaI rationale". Sostanzialmente Hollander non esclude dalla sua tesi nemmeno il Deeameron: l'opera non sarebbe in contraddizione con un trapasso dall' amore terreno a quello cristiano. A questo punto si oppone la tesi integrativa: non la sensualità in sé è peccato (piuttosto è il fondamento della vita), ma il suo essere
stata esclusa dall'immagine cristiana dell'uomo. È necessario pertanto collettivizzarla e porla
sotto controllo sociale: "il ragionare".
352
III. A favore di una tale interpretazione parla anche un' altra complessa
corrispondenza di questa scena-chiave del Decameron. Essa introduce nel testo addirittura una terza dimensione. Ancora una volta enunciato come tesi:
come Boccaccio aveva per tutta una vita dialogato con Dante, anche la Valle
delle donne intrattiene una vivace intertestualità con il Paradiso terrestre della fine del Purgatorio. Si tratta al contempo di un'emozionante disputa letteraria sul tema 20. Limitiamoci ad un breve cenno alle concordanze strutturali
più appariscenti: in entrambi i casi, i pellegrini che partono da un "orrido cominciamento" (Intr. alla I Giornata, 4), la «selva oscura» come sviamento dal
retto cammino, cui corrisponde la peste, che getta nel caos la ragione comune. Poi le tre stazioni dell'itinerario. Per Dante esse conducono ad una meta
suprema. Anch'egli però prevede un ritorno: l'io della Divina Commedia
20 "Imitative distance", come lo aveva caratterizzato R. HOLLANDER (Boeeaecio's Dante:
Imitative distanee «Dee.» I, 1 and VI, 10], in «Studi sul Boccaccio», XIII [1981-82], pp.
169-98). Un rapporto quasi separatistico propone invece E. SANGUINETI, sostenendo una voluta
parodia da parte di Boccaccio; ciò non tiene conto del carattere comitivo del poetare di allora
(cfr. Lettura del «Deeameron», Salerno, Ed. 10/17, 1989, p. 26).
353
Tavv.4,5
Winfried Wehle
Tavola 4: Andrea Pisano, Battesimo di Cristo (ca. 1330); San Giovanni, Firenze.
Sull'antropologia iconografica del Decameron
deve ritornare al punto di partenza per rivelare al mondo le sue esperienze
ultraterrene. Non altrimenti si dovrà interpretare il mandato dei dieci narratori: rendere testimonianza, in parole ed opere, della loro nuova comprensione del contesto esistenziale più profondo. In ambedue i casi il punto di svolta
è rappresentato da un Paradiso terrestre: inteso, nella Commedia, come preparazione alla felicità suprema, il Paradiso celeste; qui, nel Decameron, finalizzato ad una nuova ars vivendi. Per entrambi questo ideografico ritiro è
inaccessibile a volgari interessi, e per raggiungerlo è necessaria una guida posta sotto la regia di Venere 2 1 : qui Elissa, lì Matelda, la «ninfa» (Purg. XXXIX,
4; XXXI, 106) . Allo stesso modo, ambedue i giardini sono deserti. Dante
identifica il centro del suo Paradiso terrestre, seguendo una visione biblica,
con l'albero della conoscenza; esso è inaridito dopo il peccato originale. È necessario quindi il rinnovamento spirituale, che presuppone l'immolazione degli istinti naturali. È quanto fa allegoricamente il «carro trionfante» del Cristianesimo. Significativamente, l'albero del Paradiso «si rinovella» (Purg.
XXII,55) .
Ma proprio in questo punto decisivo, Boccaccio, contraffacendolo, si discosta da Dante. Per lui soltanto gli uomini, ma non il Paradiso, cioè la natura come tale, hanno compromesso l'annunciata felicità. Per questo egli rappresenta il suo Eden servendosi di un altro linguaggio figurato: e pone al centro la fonte e la sorgente, l'acqua della vita. Vale a dire: al di là di ogni "civiltà", la natura conserva in sé la propria originaria qualità vitale. Dunque non
solo il suo completo superamento spirituale - come enunciato nel Paradiso
terrestre dantesco - conduce alla felicità, bensì anche Venere, cioè l'obbedienza alla natura rettamente intesa. Entrambi comunque concordano sulla
necessità di una radicale conversione. Essa è espressa nei due atti paralleli di
rinnovamento: per due volte il pellegrino dell' aldilà deve sottoporsi al battesimo - negativo nell'acqua del Letè (Purg. XXX, 94 ss.) , positivo in quella
dell'Eunoè (Purg . XXXIII, 127 ss.) - prima di poter portare a termine il proprio cammino. Anche la brigata si reca due volte nella Valle delle donne: la
prima volta per ricevere il battesimo di Venere; la seconda - altro fatto significativo - per partecipare sotto gli alberi d'alloro, e nelle immediate vicinanze
dell'acqua, non solo ad un "triumphus" (come in Dante), ma all'ascolto delle
novelle.
E proprio questo, accanto all'ideale secondo battesimo, riguarda l'altra
Tavola 5: Andrea Mantegna, Venere e le Grazie, in "Tarocchi di Mantegna" , ca.
1465.
354
2 1 Con riferimento a H. GMELIN, Die Gottliche Komodie. Kommentar II. Teil, "Der Uiuterungsberg", Stuttgart, Klett, 1955, p. 435 ss. Recentemente sottolineato da U. Bosco-G. REGGIO nel loro commento della Divina Commedia, II: «Purgatorio», Firenze, Le Monnier, 1979,
pp. 469 ss., e da B. KONIG, Canto XXVIII, in Lecturo Dontis Turicensis, II: <<Purgatorio» , a c. di
G . Giintert e M. Picone, Firenze, Franco Cesati, 2001 , pp. 435 55.
355
Winfried Wehle
Sull'antropologia iconografica del Decameron
antitetica corrispondenza delle due scene: per Dante, il soggiorno nel Paradiso terrestre funge in secondo luogo da iniziazione letteraria del pellegrino
dell' aldilà! 22 Egli sa che questi potrà conquistare la corona d'alloro del poeta
(Par. I, 15) solo se saprà trovare un linguaggio in qualche modo in grado di
dar forma alle ineffabili verità del Paradiso celeste (Par. V, 127 ss.).
Boccaccio replica in simmetria contrastiva. La Valle è a sua volta concepita come un grande evento sonoro, soprattutto durante ia seconda ~isita all'inizio della VII giornata: «né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri ucelli» (Intr. alla VII Giornata, 4). Il canto d~gli usignuoli non è per i dieci giovani che il segnale per unirsi fin dal
mattinO a questo canone della natura, discostandosi in ciò dal loro rituale
cortese: «acciò che di canto non fossero dagli ucelli avanzati, cominciarono a
cantare e la valle insieme con essoloro» (Intr. alla VII Giornata, 6). La concordanza del creato si esteriorizza in un'universale consonanza. "Cantare" è
la lingua originaria del Paradiso, sia terrestre che celeste. Per Boccaccio, è la
natura stessa la quintessenza di quest'armonia creaturale. Il Paradiso terrestre dantesco si presenta al pellegrino dapprima nel canto della ninfa Matelda
(Purg. XXVIII, 40 ss.), quintessenza sensibile della natura terrena. Entrambi
fann~ riferimento alla teoria musicale dell"'una voce" 23. Nella Valle dunque,
la bngata, accanto ad una nuova concezione della natura (dell'uomo) trova
anche il modello estetico atto ad esprimerla. Perciò Vene re incarna ~l contempo anche una poetica 24. Essa rivela ai pellegrini terreni del Decameron
che quel che conta non sono solo le voci dall' alto - rappresentate in Dante
dagli angeli. Una "ars bene vivendi" - questo l'insegnamento emblematico
della Valle delle Donne - deve in primo luogo prestare ascolto alla voce della
natura e su di essa accordare il linguaggio umano. Che con ciò si volesse intendere la letteratura, è fuor di dubbio. Essa era come «musique naturelle»
(Eustache Deschamps) non solo più vicina all'ideale - musicale - del "cantare" d~ qua~to ~on lo fosse il linguaggio utilitario, cui Boccaccio allude con gli
a~ben fruttlfen della Valle. Dimostrativamente, egli situa i racconti della VII
gIOrnata sotto i suoi allegorici allori. Con la lingua della natura del luogo viene rappresentativamente legittimata la prosa naturale del Decameron nel suo
complesso - contro la pretesa esclusiva del linguaggio in versi. E del resto, il
re di ogni giornata non portava forse, fin dall'inizio, la fatidica corona d'alloro, emblema dei poeti? A questo punto dunque, attraverso l'allegoria, sembra prepararsi il terreno per l'ingresso della letteratura nel programma della
imitatio natura e 25.
•
22 In una ingegnosa Lectura Dantis del XXIX canto del Purgatorio, M. PIeONE ha messo
m luce questa dimensione autoriflessiva della dantesca "allegoria dei poeti" (cfr. Lectura Dantis
Turzcenszs, II: Purgatorio cit., p. 447 ss., "lettura metaletteraria").
23 Analizzata da R. HAMMERSTEIN, Die Musik der Engel. Untersuchungen zur Musikanschauung des Mittelalters, Bern, Francke, 1962.
24 Gia proprietà integrale nell'immagine di Venere come la concepì Boccaccio nelle Geneal. XXII, 2 ss. dove è detta madre delle Grazie, «acuta nel pensare le composizioni dei versi».
356
IV. I dieci giovani sono partiti per salvaguardare il loro codice cortese - e
hanno trovato una specie di religiosità della Natura. E allora: non è a dir
poco stupefacente che essi non abbiano in alcun momento pensato di rimanere per sempre in questo ritiro paradisiaco, cioè di ridiventare in tal senso
"naturali"? La sera stessa già fanno ritorno alla seconda stazione. Anche qui
Boccaccio si riallaccia a Dante. Entrambi fanno proseguire i loro pellegrini,
dalla natura di nuovo alla città: Dante alla Gerusalemme celeste; Boccaccio a
Firenze. Ma è proprio questa concordanza strutturale che rende tanto più
pregnanti le differenze ideologiche. Nella questione del senso della vita umana, per Dante si tratta di accreditare una soluzione trascendente, spirituale.
Boccaccio, invece, rimane per così dire nel purgatorio dell' esistenza terrena e
postula un ordinamento vitale compatibile con la dignità dell'uomo, prima
del passaggio alla vita eterna. Ciò non ha più nulla a che fare con la colpevole
mondanità da cui i dieci giovani erano affetti all'inizio. Il programma boccacciano di una virtù che trovasse legittimità, anche nell'immanenza, contiene
già evidenti tratti protoumanistici. Il terzo ed ultimo passo del suo pellegrinaggio nell' aldiqua sarà perciò dedicato ad una rappresentazione prospettica
di questo "animal rationale" capovolto.
La brigata, dunque, abbandona nuovamente la Valle delle donne. Boccaccio dà a questa partenza il valore di un segnale. La Valle, praticamente
inaccessibile, non è al di fuori di qualsiasi realtà storica e civilizzatrice? Il rimanervi non equivarrebbe quindi ad una fuga edonistica dalla responsabilità
sociale? La predica penitenziale del Campo Santo la condannerebbe, non
meno del giardino d'amore cortese. L'uomo, del resto, si è nel frattempo irreversibilmente allontanato, sia culturalmente che socialmente, dalle sue origini
paradisiache, al punto che un retour à la nature è comunque pensabile solo a
livello di speculazione o di finzione. Boccaccio è dunque ben più radicale di
quanto non lo saranno più tardi Colombo 26 o Rousseau 27. Ciò tuttavia gli
permette di rifunzionalizzare il mito. Pur essendo al di fuori di ogni esperienza storica, l'immaginario di Venere ha un suo valore: Boccaccio ne usa gli atCfr. Geneal., 14 e 17,4 ss.
Cfr. W. WEHLE, Columbus' hermeneutische Abenteuer, in Das Columbusprojekt, a c. di
W. Wehle, Miinchen, Fink, 1995, pp. 153 ss.
27 Cfr. P. GEYER, Die Entdeckung des modernen Subjekts, Tiibingen, Niemeyer, 1997, pp.
151 ss.
25
26
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Winfried W ehle
r av.6
tributi mitologici proprio per sottolineare il carattere mitologico degli stessi.
Vale a dire che, proprio nel momento in cui li demitizza nel contesto, li riacquista come segni utilizzabili dal punto di vista letterario. Venere serve anche
a questo. Essa è presente in tutte le sue connotazioni distintive: come figura,
però, come quintessenza della natura, è assente. Le figure mitologiche dell'antichità, come insegnano le Genealogie deorum gentilium, alla luce delle
verità cristiane non possono che ridursi a finzioni pagane 28 . Questo cambiamento di prospettiva fa sì che Venere cessi di essere garante della divinità
della natura. li rapporto di motivazione si è capovolto: una natu.ra creata dal
Dio cristiano si fa garante della divinità della figura poetica "Venere". Originaria è dunque la natura, non Venereo
Che Boccaccio consideri la natura venusiana della Valle una finzione,
un'invenzione, lo ha sottolineato lui stesso. La sua incomparabile bellezza ed
armonia, a ben vedere, non vanno attribuite esclusivamente ad una natura
che di per sé si dispiega in modo perfetto! Essa deve la propria espressione
ideale ad un presupposto imprescindibile, che Boccaccio ha concretizzato nei
simbolici «palagi, [ciascuno] quasi in forma fatto d'un bel castelletto» (Cone!.
della VI Giornata, 20). Le mura naturali del Paradiso, costituite dalle colline
circostanti, sono coronate di sei edifici fortificati - prodotti dall'arte dell'uomo civilizzato. Essi - con una citazione della tradizionale iconografia cristiana che vuole il Paradiso esagonale - segnano i confini del paradiso della Valle
e la proteggono dagli influssi esterni. I segnali sono inequivocabili: perché la
natura possa mostrarsi dal suo lato ideale, occorre l'artificio dell'uomo 29 .
Detto con una figura etimologica: senza l"ingegnosità dell'arte", non è più
possibile recepire la mitica "ingenuità della natura". Infatti la natura in sé
non è né buona né cattiva; è priva di interessi morali. Soltanto se riferita alla
duplice natura umana dell'" animal rationale", essa può, laddove la ragione
fallisce, degenerare in "bestialità" (Firenze), o al contrario, se assistita dalla
ragione, generare umanità. Una buona natura è una prestazione culturale.
In questo modo Boccaccio ha in sostanza capovolto l'antropologia dominante. Una delle sue decisive intuizioni: il riconoscimento del rapporto paritetico tra le due nature dell'uomo. Come la "Venus magna" e la "Venus secunda ", anche la naturalezza e la spiritualità sono tra loro intrinsecamente
Apprezzato da Zaccaria nella sua Introduzione alle Genealogie cit., pp. 29 sS.
Convinzione preparata dalle opere giovanili nelle quali dominava già un interesse antropologico che si rivela in paesaggi a misura d'uomo (cfr. V. BRANCA, Il paesaggio in Boccaccio,
in Klaniczay-Emlekkonyu, Budapest, 1994, pp. 32-47 ). A. SCAGLIONE (Nature and Lave in the
Late Middle Ages, Berkeley, University oE California Press, 1963 , pp. 83 ss.) differenziando da
parte sua due concezioni d'amore propone, per il Decameron, una mediazione tramite la morale, senza però mostrare come il Boccaccio costituisca ed istituisca la sua pratica (discorsiva) .
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29
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Sull'antropologia iconografica del Decameron
Tavola 6: Anon. , Dio che porta Adamo alla fontana del Paradiso (fine del XIV sec.);
Paris, Bibl. de l'Arsenal, No. 5057.
unite. Di più: alla luce dello sviluppo della brigata egli suggerisce che il fondamento di una generale ars vz'v endi risiede nel legame dell'uomo con la natura. Legame che i concetti umani di virtù avrebbero poi il compito di sviluppare e controllare in senso socialmente compatibile. L'Umanes~o e il Rinascimento daranno svariate conferme di questa lettura della condztzo humana.
Manca ancora un ultimo aspetto di questo capovolgimento antropologico,
uno dei più importanti. Esso si esplicita a sua volta per segni. In una scena apparentemente casuale, la mattina del nono giorno i dieci giovani abb~donano
il loro rifugio ed entrano in un boschetto limitrofo (Intr. alla IX GlOrnata, 2
ss.). Gli animali si fanno loro incontro mansueti e fiduciosi, tanto che è possibile giocare insieme. Non si potrà ignorare in questa scena ~a c~rri~pon~enza
discreta con la «selva oscura» e le fiere dantesche. E come il sortileglO arumale
359
p
Winfried Wehle
di queste si scioglie nella «divina foresta» del Paradiso terrestre (Purg. XXVII,
2), anche Boccaccio offre un'analoga dimostrazione di natura riscattata. Uomini
e anin:ali si mostrano riconciliati in un naturale accordo. A significare che entrambI, ognuno a modo suo, sono liberati della bestialità insita in loro. Che si
tr.att~ d~ una ~ttoria mentale, Boccaccio lo evidenzia espressamente. Quando i
dIeCI giovam abbandonano nuovamente il boschetto, dice infatti: «Essi eran
tutti di frondi di quercia inghirlandati» (ibid., 4). Portano cioè l'emblema dei
vincitori. Hanno composto a modo loro, vale a dire dalla parte di Venere, la
contesa antropologica tra "animal" e "rationale". Ancora una volta il testo sottolinea - anche qui ricorrendo ad una cifra: «sei canzonette, più lieta l'una che
l'.altra L.. ] cantate furono" (ibzd., 6) -l'indice paradisiaco della "Venus magna"
npreso dalla Valle delle donne, identificando il loro canto come eco di quell' altro gran canone della natura.
La maggior implicazione di questa scena, tuttavia, risulta solo alla luce
~e~'intero ~ontest? di rimandi interni del Decameron. Giunta infatti al primo
ritIro, la bngata SI era ornata di belle ghirlande (Intr. alla I Giornata, 103),
come si addice ai giardini d'amore cortesi. Il re di ogni giornata dedicata ai
racconti, però, porta la corona d'alloro. La sua superiore identità era stata
svelata dalla Valle: là il novellare (in prosa) veniva posto sotto il patronato del
"cantar~", riconoscendo cosÌ capacità poetica al suo "ragionare". Ma le ghirlan.de dI quercia, di cui i dieci giovani infine si cingono il nono giorno, attribUiscono a questo "ragionare" addirittura un effetto 10goterapeutic0 3o • Esso
li ha gu~riti dall' errata opinione che li aveva spinti a fuggire da Firenze credendo dI poter salvaguardare i valori della società soltanto al di fuori della società stessa. L'alloro è per cosÌ dire il presupposto della ghirlanda di quercia.
La letteratura è esaltata come "giardino" culturalmente protetto, in cui i bisogni naturali dell'uomo non devono necessariamente essere rifiutati, ma possono anzi venir dibattuti e coltivati alla luce di una natura ideale.
Il potere che Boccaccio attribuisce cosÌ all'arte del linguaggio, corrisponde già al miglior Umanesimo linguistico d'imitazione ciceroniana. In modo
m~l~o iJ:nmediat.o, infatti,. il I?ecamero.n pronuncia le sue parole forse più sigmfICatIve: «ChI scontratI gIt avesse [1 membri della brigata], niun' altra cosa
avr~bb~ P?t~~o dire se non: "O ~ostor non saranno dalla morte vinti o ella gli
uccldera Iteti » (Intr. alla IX GIornata, 4). La brigata ha sconfitto la morte
lO Per i rapporti fra poesia, retorica ed etica cfr. A. CERBO, Ideologia e retorica nel Boccaclatmo, NapolI, Ferraro, 1984, pp. 47 ss. Per un'approfondita analisi retorico-etica del Decameron cfr. KI~AM, T~e St~n o( Reason cit., I?P ..173-97, che sottolinea il progetto politico e
morale del raglOnar~. L ImplicaZIOne affettologlca illvece è, nel suo complesso, messa in rilievo
da N. ORDINE, che SI concentra sulla funzione del riso (Teoria della novella e teoria del riso nel
Cinquecento, Napoli, Liguori, 1996, pp. 41 ss.).
Sull' antropologia iconografica del Decameron
non sul piano fisico, bensÌ su quello mentale. La morte non è più il paradossale traguardo di una vita che ha inizio solo dopo di essa. In tal modo l'aldiqua acquisisce un proprio valore autoreferenziale 31, che si fonda sulla ragionevole coltivazione dei diritti naturali. Quando poi i giovani fanno ritorno
alla città appestata, effettuano un radicale scambio di ruoli. Fuori nella campagna, lontani dalla pratica sociale, hanno condotto una vita otiosa e si sono
raccontati storie ricche d'azione. Di ritorno a Firenze, invece, sono sfidati ad
agire in prima persona, riprendendo una vita activa. Applicando poi la nuova
dottrina di vita ricavata dalle loro novelle, diventano essi stessi potenziali novelle, che altri potranno raccontarsi e alla cui luce dibattere e riflettere su di
un comportamento conforme a natura. Questa funzione esemplare fa sÌ che
essi continuino a vivere oltre la morte. In altre parole: il Decameron aderisce
già ad un' antropologia che affermerà il suo pieno diritto solo più tardi, in un
altro paese, l'Arcadia. Dove programmaticamente si proclamerà che l'uomo
diviene uomo attraverso l'arte.
Universitiit Eichstiitt
.
CIO
360
)1 La cornice trova così, come ha sottolineato M. Picone, la sua più alta giustificazione
strutturale, integrando la linearità del raccontare nella circolarità dell'opera, del resto simbolicamente ripresa nella disposizione della brigata in cerchio attorno al re di turno; al contempo fa
sì che il récit si esaurisca perfettamente nel discours (cfr. Introduzione a Il racconto, a c. di M. Picone, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 7-52, alla p. 51).
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