Università degli Studi di Teramo Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Scienze del Turismo e dell’organizzazione delle manifestazioni sportive COMPETENZE EMERGENTI E OCCUPAZIONE NEL TURISMO a cura di Adolfo Braga e Lucia Scarnecchia Questo materiale è stato elaborato ad uso esclusivo degli studenti. È un estratto di un materiale in via di pubblicazione Anno Accademico 2015 – 2016 1 Capitolo Primo: La Competenza La nozione di competenza è presente, e ha spesso significati diversi e tra loro eterogenei. Nelle pagine che seguono il termine viene presentato secondo la sua accezione scientifica, ovvero come esso è venuto precisandosi nel confronto tra studiosi di varie discipline e nel passaggio progressivo attraverso diverse fasi di analisi della competenza e delle modalità ricercate per riconoscerla e descriverla. 1. La competenza e la «prestazione» Nella ricerca educativa la determinazione degli obiettivi è stata oggetto di una particolare attenzione in quanto tende a prefigurare, prima dell’attuazione vera e propria, i risultati dell’intervento educativo. Richiamiamo brevemente le caratteristiche essenziali di questa prospettiva teorica, di estrema utilità nel dare conto di aspetti particolari della competenza, senza, tuttavia, essere in grado di descriverla in tutte le sue valenze. Gli obiettivi si configurano come la descrizione di capacità e abilità di cui la persona deve disporre alla conclusione di un percorso formativo, di abilità non possedute all’inizio e che si vuole siano acquisite alla fine. Gli obiettivi vanno, per questo, definiti in modo riconoscibile, in una forma «operativa», fondata cioè non su affermazioni ma su comportamenti finali e misurabili, descritti in termini di performance, cioè di attività direttamente visibili o percettibili, manifeste o direttamente individuabili, grazie alle quali la prestazione finale diventa l’indicatore palese dell’efficacia dell’intervento. Il problema che si presenta è quello di stabilire i criteri con cui si definiscono gli stessi comportamenti finali: nella forma in cui è utilizzato, il termine «comportamento» include capacità, conoscenze, atteggiamenti, abilità che sono parte degli obiettivi educativi generali. È evidente che una semplice elencazione di prestazioni difficilmente può esaurire il valore e il significato cognitivo di un processo di apprendimento, ma è altrettanto chiaro che questa modalità di procedere permette di uscire dal campo delle impressioni e di accedere a quello dei giudizi, circoscritti ma precisi. A tal fine, è richiesta anche un’indicazione delle condizioni da porre nel momento della verifica delle acquisizioni e, nello stesso tempo, una specificazione dei criteri, cioè della qualità o del livello minimo accettabile della prestazione, in base al quale l’obiettivo si considera raggiunto, per esempio rispondere correttamente ad un certo numero di domande, sapere effettuare senza errori un dato quantitativo di operazioni, ecc. In questo senso, si parla di una «descrizione del compito» (task description), cioè di una descrizione dettagliata della prestazione finale che si identifica con l’obiettivo inizialmente stabilito. L’obiettivo, non descrivendo un metodo didattico ma un risultato, non viene identificato nella forma di un contenuto né di un’intenzione del formatore, ma ritenuto, piuttosto, come la concretizzazione di un apprendimento. In tale ottica, termini quali finalità, fini, obiettivi generali e specifici (o operativi) sono definiti in modo ordinato, secondo una sequenza logica. Tale sequenza va dal generale al particolare, costituito, appunto dall’obiettivo specifico, un obiettivo operativo scaturito dal frazionamento di un obiettivo generale in tanti enunciati quanti sono necessari affinché quattro esigenze «operative» siano soddisfatte: descrivere in forma univoca il contenuto dell’intenzione educativa; descrivere un’attività del formando in modo identificabile attraverso un comportamento osservabile; indicare le condizioni entro le quali il comportamento desiderato si deve manifestare; indicare a quale livello si deve situare l’attività conclusiva del formando e quali criteri saranno usati per valutare il risultato. 2 «Operazionalizzare» un obiettivo significa trasporre un concetto, una definizione, un principio sul piano concreto dell’azione e dell’applicazione diretta. Questo passaggio si realizza attraverso operazioni successive, corrispondenti a diversi livelli di generalità e di applicabilità. Si tratta di un processo la cui realizzazione non è semplice e tra l’altro, incontra, spesso, delle resistenze da parte di chi dovrebbe tradurre le indicazioni in pratica, con la conseguenza che, in molti casi, i «fini», per non parlare delle «finalità» si configurano come «desiderata», rapidamente dimenticati nella traduzione concreta delle intenzioni; mentre gli obiettivi «generali» rimangono generici e, anche se vengono frazionati, non rispettano i criteri indicati per una effettiva operazionalizzazione. Malgrado questi limiti, i caratteri positivi di un approccio fondato sulla operazionalizzazione degli obiettivi di apprendimento sono innegabili. Non a caso, l’ipotesi di «razionalizzazione» degli interventi educativi secondo questa metodologia, ha orientato le analisi di studiosi di impostazione molto diversa, ad esempio comportamentista e cognitivista, in altra sede difficilmente conciliabili. Da ciò la critica, secondo la quale la necessità di tradurre concetti in operazioni direttamente osservabili è destinata ad arenarsi di fronte ad una mancata puntualizzazione di ciò che si intende per operazioni, di fronte alla scelta di privilegiare la classificazione degli elementi osservabili rispetto ai criteri di organizzazione del pensiero e rispetto all’azione. L’insistenza sugli obiettivi comportamentali toglie, di fatto, spazio ai costrutti, agli elementi teorici, ai termini generali della conoscenza. Questa critica porta a definire l’operazionalizzazione degli obiettivi come un’operazione riduzionista basata su un’arbitraria delimitazione delle implicazioni teoriche e pratiche insite in un processo di acquisizione di conoscenze e nella stessa esecuzione di compiti che ne mostrino, in modo univoco, i risultati. Pur essendo questo vero, si tratta di una modalità di indagine che si presta alla verifica puntuale di acquisizioni specifiche, utile per esempio per la verifica di apprendimenti connessi con una disciplina, di prestazioni tecniche particolari, attinenti a un’attività professionale, per l’osservazione diretta di fenomeni che hanno certamente implicazioni ben più complesse di quelle visibili, ma di cui è utile registrare comunque «ciò che si vede», per esame su grandi campioni. Non a caso, gli studi sulla determinazione degli obiettivi sono una parte integrante di strategie didattiche, su procedimenti fondati su una individualizzazione dei processi di insegnamento-apprendimento. Il problema che in realtà si pone non è quello della operazionalizzazione degli obiettivi a fini valutativi, né di contrapporre l’esame di prestazioni oggettivamente rilevabili a osservazioni di altra natura, non riducibili in comportamenti immediatamente riconoscibili o, ancora, destinati a caratterizzare la crescita culturale complessiva con l’esito positivo in prove che hanno, per loro natura, un carattere limitato. La competenza è una risorsa, per descrivere la quale le prestazioni esplicite possono essere considerate, per alcuni aspetti, condizione necessaria ma non sufficiente, poiché i contenuti di sapere e le abilità che le sono proprie non sono riducibili a singole manifestazioni o abilità. Tale sistematicità costituisce insieme la risorsa e il limite dell’approccio centrato sulle prestazioni finali: il vantaggio è dato dalla osservabilità e, in genere, dalla misurabilità degli esiti, il limite è dato dall’assumere identici – per tutti – i percorsi di un’acquisizione e dall’ignorare i contenuti di conoscenza connessi con abilità pratiche. L’esplicarsi della competenza implica la complementarità tra strumenti e valori nella realizzazione di ogni attività, nella soluzione di problemi, nella presa di decisioni. In questa prospettiva, l’assunzione della competenza come categoria di analisi apre un importante capitolo di ricerca, che si configura ricco e stimolante: la competenza, se esige abiti intellettuali e atteggiamenti valutativi caratterizzati da una capacità di affrontare problemi di natura diversa e di complessità crescente, si fonda su una sensibilità che accompagna la capacità; è l’esito di giudizi che implicano consapevolezza, chiarezza sui fini, attenzione ai mezzi, dialettica tra gli uni e gli altri in un processo in cui le implicazioni materiali siano accompagnate da principi morali, che qualifichino l’azione e la rendano credibile in un percorso di crescita della società al quale, comunque, tutti partecipiamo. Per l’insieme di tali motivi, l’analisi della competenza, come pratica e come costrutto, impone una prospettiva integrata sia sul piano teorico sia su quello concreto dell’indagine. Su 3 questo aspetto, appare necessaria una precisazione, che costituisce la base per lo sviluppo ulteriore della riflessione. L’uso corrente del termine «interdisciplinare» è generico (Ocse, 1972), coprendo concetti diversi: il ricorso a competenti di discipline autonome e indipendenti chiamati a concorrere alla soluzione di un problema dopo aver effettuato specifiche ricerche, che realizza rapporti di pluridisciplinarità; la collaborazione fra specialisti di campi confinanti che interagiscono fra loro nella strutturazione concettuale di un’indagine settoriale, che realizza una situazione interdisciplinare, in quanto gli studiosi implicati si influenzano a vicenda nel corso della ricerca, discutendo ipotesi e metodologie; infine l’unificazione in un unico sistema ipotetico-deduttivo di materie tradizionalmente distinte, che dà luogo a una situazione di transdisciplinarità. Tali precisazioni, suggeriscono un’estrema cautela nell’affrontare la relazione tra saperi, poiché è difficile che i dati dell’esperienza, osservata, analizzata ed elaborata, possano essere descritti e interpretati in modo esaustivo da una singola disciplina, indispensabile strumento di indagine ma, per sua natura, inadeguata nel dare conto di tutti i dati di realtà. La complessità del contesto sociale pone di fatto il problema delle stesse modalità di analizzarla. In questo quadro, un’attenzione specifica va attribuita al tema della competenza, come oggetto possibile di ricerca fondata necessariamente su un’interdisciplinarità che non sia posta ad un livello astratto, né riservato all’ambito filosofico o scientifico. Il dato centrale di questa riflessione risulta, in definitiva, quello dell’intimo legame che lega il sapere, di qualunque natura esso sia, all’educazione e alla democrazia. La competenza, anche limitata al solo ambito professionale, non può essere e non è solo l’esito di una formazione rigida legata ad una disciplina, ma la risorsa indispensabile per dominare una realtà complicata, per ragioni sociali, oltre che tecniche, e per operare valutazioni che esigono un estremo impegno in settori diversi. Per questo, sono essenziali conoscenze specifiche, ma, nel contempo, una capacità analitica e critica che abiliti a giudizi responsabili e a scelte coscienti. La nozione di competenza è solo una parte della nozione più ampia di «cultura», che ha oggi un’applicazione estesa a variabili di natura diversa e nella quale sono accomunati, in uno stesso concetto, elementi eterogenei, in parte legati ad aspetti strutturali, in parte dipendenti dalle rappresentazioni che le persone hanno della vita e del mondo e che sono destinate, comunque, a evolvere nel tempo. 2. Il sapere e le «attività» Le caratteristiche disciplinari con cui è ordinato il sapere nell’attività didattica hanno suggerito di definire il lavoro scientifico come un procedimento attraverso il quale si sviluppano ambiti di conoscenza caratterizzati da un più alto livello di sistematicità rispetto alle conoscenze di senso comune. Tuttavia, la comprensione della modalità con cui il sapere è organizzato nella mente ha chiarito l’utilità della distinzione tra conoscenze strutturate e conoscenze di senso comune e, nel contempo, esige uno studio delle interrelazioni tra l’uno e l’altro aspetto del sapere. Lo studio delle dinamiche di elaborazione dell’informazione ha consentito di distinguere e precisare fasi diverse e tra loro connesse di trasformazione, riduzione, immagazzinamento, recupero del sapere; ha definito il ruolo nelle attività cognitive rispetto all’esecuzione di attività cognitive complesse, quali il comprendere, il ricordare, il ragionare, il risolvere problemi; ha descritto forme e possibilità operative finalizzate al potenziamento e all’affinamento di tali attività. Non è estranea a questa caratteristica degli studi cognitivi la relazione stabilita, in forma certamente radicale e profonda, tra ricerca sui processi di acquisizione del sapere e studi sull’intelligenza artificiale. La ricerca sui processi di acquisizione della conoscenza, fondata su modelli relativi all’elaborazione delle informazioni, ha tratto indicazioni significative dall’analogia tra il computer e la mente, grazie alle indagini realizzate e alle stesse critiche a cui queste sono state 4 successivamente sottoposte per l’utilizzo di estrapolazioni indebite o eccessivamente meccaniche. Gli studi sull’intelligenza artificiale sono stati a lungo caratterizzati dallo sforzo di costruzione di programmi atti alla simulazione, tramite calcolatore, di comportamenti cognitivi propri del pensiero umano, come la soluzione di problemi di difficoltà progressivamente crescente. Non è però possibile comparare l’agire umano a quello di qualunque macchina venga utilizzata per studiare la soluzione dei problemi e le scelte connesse a tali operazioni: la macchina, per quanto complessa e «intelligente», opera solo su dimensioni modificabili, dove l’uomo si muove su dimensioni che non sempre lo sono. Se dalla soluzione di problemi si passa alla presa di decisioni (che è evidentemente connessa alle stesse soluzioni di problemi), la tesi enunciata risulta confermata, poiché ogni decisione si fonda su un’analisi del contesto, oltre che del problema, su esami di tipo interpretativo e non solo analitico, su giudizi che non possono essere univoci e universali. Nei processi di decisione è sempre presente una componente emotiva, che può provocare ansie ed errori, ma che è anche la base per intuizioni apparentemente non logiche, in quanto non esprimibili in parole e formalizzabili con simboli, ma spesso efficaci e produttive. Di fatto l’intuizione non è un talento misterioso, ma un prodotto della formazione e dell’esperienza, accumulato sotto forma di conoscenze che convergono nella formulazione di un’ipotesi innovativa. L’agire creativo è, frequentemente, il risultato di rischi calcolati, nell’affrontare i quali la precisazione del calcolo si fonda su un bagaglio conoscitivo superiore. La competenza è, per questo, caratterizzata sempre da un sapere con cui si opera con una specificità tipicamente e ineludibilmente umana, non assimilabile ad alcuna macchina, per quanto sofisticata. Nelle organizzazioni è possibile accrescere la competenza se sussistono condizioni di superamento di comportamenti imposti da un sistema fondato prevalentemente su «routine». D’altro canto, l’azione delle organizzazioni e dei singoli che ne fanno parte è storicamente dipendente e le stesse routine sono basate su interpretazioni del passato più che su anticipazioni del futuro. Ciò avviene pur essendo le organizzazioni stesse orientate verso uno scopo. L’ambiente organizzato contiene di fatto tracce, stimoli, indicazioni che, al di là delle regole formali, favoriscono modi di vedere, di valutare, di giudicare, di usare il proprio sapere e di declinare in un determinato modo la propria competenza. Questa si caratterizza come un complesso di azioni pianificate sulla base di obiettivi generali e progettate nelle realizzazioni particolari. L’attuazione di azioni puntuali include varie componenti operative che rientrano nelle prerogative del singolo (pianificazione degli interventi, progettazione delle attività, realizzazione degli interventi, verifica di risultati) ma che, isolate, non definiscono nella completezza una competenza. Vi è, tra l’altro, una naturale continuità tra ciò che fa parte del patrimonio culturale acquisito e il nuovo sapere proposto, tra quanto è parte della memoria e quanto viene appreso e ne entra a fare parte. In tale prospettiva, appare evidente che nessun apprendimento ha il carattere di novità assoluta, che ogni acquisizione si innesta su strutture di conoscenza già organizzate, che il conoscere è un costruire o ricostruire il proprio sapere, a partire dalle informazioni proposte, in base alle conoscenze accumulate, che, in definitiva, l’apprendimento non è mai ripetitivo. Opera secondo schemi che, riorganizzando i dati dell’esperienza cognitiva nella memoria, incidono sia sulle conoscenze dichiarative, sia su quelle procedurali, determinando così la forma stessa della competenza e favorendone lo sviluppo nel quadro del processo costruttivo dell’acquisizione del sapere. Le indagini sulla competenza esperta focalizzano l’attenzione su prestazioni già acquisite, a livello più o meno «esperto», connesse, per esempio, con la memoria, la soluzione di problemi, la stesura di un testo scritto, l’esercizio di una specifica professione. Da ciò l’utilità dell’uso della nozione di competenza quale termine tecnico che si riferisce all’operare su schemi informativi situazionalmente collocati, con rapidità, fluidità, flessibilità e con modelli mentali che permettono l’accessibilità e la manipolazione di un più largo gruppo di informazioni. 5 Tale definizione generale consente di entrare nel merito della varietà dei livelli di competenza, considerandone le implicazioni specifiche anche per capire come venga acquisita e come operi. La competenza, per quanto è stato sin qui detto, va considerata come una conoscenza contestualizzata, come una forma di expertise in cui la conoscenza dichiarativa è altamente proceduralizzata e automatica e in cui vi è una collezione di euristiche per la soluzione di problemi molto specifici. La competenza, di fatto, appare sempre più caratterizzata da livelli complessi di capacità di organizzazione del sapere, da un’articolazione dello stesso in forme idonee rispetto al contesto d’azione, da una contestualizzazione dell’insieme per una maggiore efficacia dell’azione prefigurata e attuata, da una flessibilità tanto più elevata quanto maggiori sono i livelli del sapere professionale, sociale, pratico. La competenza è un’abilità fondata sulla conoscenza e su un sapere gestito e governabile in più ambiti ed è evidente che non basta il sapere perché sussista la competenza: questa c’è se il sapere stesso è usato in un momento dato, nella forma adeguata, nel luogo giusto. In questo senso, la competenza è fortemente connotata sul piano socio-culturale e inequivocabilmente contestualizzata, poiché il contesto ne determina l’efficacia, ne orienta il manifestarsi, ne indirizza l’operatività. L’interazione, costituita dal dialogo ed eventualmente, dalla contrapposizione, è determinante nell’acquisizione delle competenze, rispetto alle quali lo scambio linguistico-cognitivo che si realizza intorno a diversi «oggetti» di conoscenza appare essenziale. Ne consegue la necessità di considerare, come si è detto, gli elementi propri di uno sviluppo potenziale connesso con le forme con cui le esperienze pregresse sono venute strutturandosi e organizzandosi, mediante processi di elaborazione progressiva veicolata da sistemi simbolici. In questa prospettiva, appare modificata la concezione di una regolarità sequenziale sia negli apprendimenti di base, linguistici e matematici sia nell’acquisizione di competenze legate all’ambito professionale o pratico in genere. Risulta, in tale ottica, limitativa un’indagine che non tenga conto degli specifici contesti dell’azione, delle forme di interazione, degli elementi di socializzazione, della crescita dovuta all’attivazione di quella che è stata definita «l’area potenziale di sviluppo» a cui è fortemente legata la crescita della competenza stessa. L’acquisizione della competenza viene così indicata come partecipazione a «una comunità di pratiche» nella quale i «partecipanti» hanno un progressivo accesso a parti differenti dell’attività e procedono nel corso del tempo verso una piena partecipazione ai compiti centrali, con un’abbondante interazione orizzontale tra i partecipanti stessi. Tale partecipazione è indicata alla base, fra l’altro, della costruzione di identità professionali e personali. Seguendo una logica analoga, chi impara deve avere prima di tutto l’opportunità di analizzare criticamente e sistematicamente la sua attività, comprese le contraddizioni che vi trova all’interno. È quello che viene definito il contesto di critica ad offrire a chi impara l’opportunità di costruire e utilizzare delle soluzioni pratiche, dei nuovi modelli per la sua attività, in altre parole, imparare qualcosa che ancora non esiste. Le collettività di persone devono essere capaci di imparare in modo «espansivo», attraverso la connessione tra il contesto tradizionale dello studio, il contesto della critica, il contesto di scoperta e il contesto di applicazione pratica. Da ciò una progressiva attenzione allo studio dei contesti di lavoro, come ambiti in cui le persone sono a contatto diretto con i propri strumenti professionali e in cui mettono in campo il loro sapere, direttamente, in relazione ad altri, in funzione e con l’uso delle macchine disponibili e necessarie. Partendo da queste premesse la nozione di «apprendimento espansivo» e sviluppa una riconcettualizzazione teorica della nozione di «attività». La relazione tra «teoria dell’attività» e diversità culturale formula cinque principi: – il primo principio considera il sistema di attività come un’unità di analisi in cui le azioni individuali e di gruppo sono indipendenti ma possono essere interpretate solo in riferimento ai sistemi di attività; 6 – il secondo principio afferma la molteplicità dei punti di vista, interessi e tradizioni dei sistemi di attività; – il terzo principio consiste nella storicità dei sistemi di attività, ossia descrive come la comprensione dei problemi e delle potenzialità di questi ultimi derivi dalla considerazione delle trasformazioni durante il corso del tempo; – il quarto principio è dato dal ruolo centrale assunto dalle contraddizioni come fonti non solo di conflitti, ma anche di cambiamenti dell’attività; – il quinto principio afferma l’importanza dei cicli espansivi come una possibile forma di trasformazione nei sistemi di attività. I principi della teoria dell’attività sono analizzati attraverso domande la cui risposta è ritenuta fondamentale per qualunque teoria dell’apprendimento che voglia essere credibile: chi sono i soggetti dell’apprendimento? Perché apprendono? Cosa li spinge ad apprendere? Cosa apprendono? Come apprendono? L’interazione tra principi e domande costituisce una matrice mediante la quale si è tentato di analizzare la teoria dell’attività in riferimento ad uno studio condotto in un contesto ospedaliero di Helsinki. La ricerca chiamata «Boundary Crossing Laboratory», consiste nella partecipazione di 60 membri del personale ospedaliero dell’area di Helsinki a 10 incontri in cui i partecipanti discutono di una serie di casi di pazienti videoregistrati dai ricercatori. L’obiettivo è l’acquisizione da parte dei diversi «attori» di una migliore organizzazione e coordinazione al lavoro durante tutto il percorso di cure offerte al paziente; coordinazione da stabilire tra i sistemi di attività dell’ospedale del paziente, in questo caso del bambino, i sistemi di attività del centro di cure primarie e i sistemi di attività della famiglia del bambino. Il Boundary Crossing Laboratory esemplifica concretamente un apprendimento di tipo alternativo attraverso l’uso dei concetti di cura concordata e negoziazione nella responsabilità delle cure. La ricerca dimostra come ad un apprendimento di tipo verticale, verso l’alto, sia possibile, non contrapporre, ma affiancare e rendere complementare un apprendimento di tipo orizzontale che consideri tutte le parti in causa. «Abitualmente tendiamo a descrivere l’apprendimento e lo sviluppo come processi verticali, miranti ad elevare le persone verso l’alto, ai più alti livelli di competenza. Piuttosto che denunciare semplicemente questo punto di vista come una reliquia di spiegazione sorpassata, ho suggerito di costruire una prospettiva complementare, vale a dire un apprendimento ed uno sviluppo orizzontale o obliquo […]». In particolare la costruzione del concetto di cura concordata (con il relativo concetto di negoziazione di responsabilità di cure) dai partecipanti del Boundary Crossing Laboratory è un utile esempio di apprendimento alternativo significante per lo sviluppo. Questo punto di vista apre un campo d’inchiesta straordinariamente fertile nell’azione reciproca fra tipi differenti di concetti nell’apprendimento. Il saggio di Engestrom ci fornisce una sintesi dei sistemi di attività, presentando prima una esposizione teorica del tema e, successivamente, le implicazioni pratiche di tali teorizzazioni. Evidenzia, altresì le possibilità di uno sviluppo, oltre che verticale, orizzontale dei sistemi di attività, mediante un’azione tesa a coinvolgere, coordinare ed organizzare, nel perseguimento di un obiettivo comune, tutti i livelli e i diversi attori dei vari sistemi di attività. L’acquisizione del sapere è l’esito di un processo, che nella prospettiva assunta, si conferma come attivo e costruttivo, esito di un percorso che si fonda su una strategia, su un metodo con cui affrontare un compito e conseguire un obiettivo, su una forma di controllo dell’ampio processo di codificazione, trasformazione e immagazzinamento dell’informazione, su un’attività e una dinamica che consentono l’assunzione di elementi di conoscenza non preesistenti e la cui acquisizione determina dei mutamenti anche nel sapere prima presente. Si può concretamente osservare, facendo ricorso a un esempio tratto dal campo della memoria, dove il concetto di strategia ha avuto un rilevante sviluppo, che il recupero delle informazioni dalla stessa memoria a lungo termine è parte del processo, mentre le modalità per consentire e controllare questo recupero (per esempio il ricorso ad appunti) rientrano nell’ambito delle strategie. Il termine «strategia» è stato usato in misura molto ampia per indicare i diversi schemi di decisioni nell’elaborazione dell’informazione da parte di 7 soggetti impegnati in compiti di identificazione di concetti. La caratteristica «organizzata» della nozione di strategia fa sì che essa venga avvicinata a quella di «piano», con cui è indicata la sequenza di azioni e decisioni analoga al programma di un computer. I piani, come le strategie, sono infatti orientati al raggiungimento di un obiettivo: la differenza, peraltro non fondamentale, consiste nel fatto che i piani hanno, al di là delle caratterizzazioni di dinamica, un livello di generalità superiore alle strategie. Lo studio dei processi cognitivi in termini di elaborazione dell’informazione, suggerisce, inoltre, l’utilità di distinguere chiaramente le capacità che hanno dei limiti non modificabili dovuti alle caratteristiche strutturali (per esempio, la dimensione della memoria di lavoro) dalle strategie, che sono modificabili e possono essere rese più efficaci. In base a questa distinzione, si può assumere che sussistano, rispetto all’abilità nell’esecuzione di un compito, tre limiti, di natura diversa: la capacità limitata, difficilmente modificabile, il non saper usare la strategia adeguata e la scarsa efficienza delle strategie usate, superabili mediante la formazione. Data tale premessa, è possibile osservare come, in situazioni specifiche di acquisizione del sapere, l’interazione con un contesto dia luogo ad una dinamica tra variabili difficilmente controllabili nella loro completezza, se si considerano le variabili stesse come interagenti e non isolate tra loro. Di fatto, dato un insieme di categorie di analisi, può risultare, in situazioni diverse, che nessuna di esse sia assente anche se ognuna può assumere una maggiore pregnanza rispetto alle altre, così come può configurarsi uno scambio tra due o tre di esse in misura maggiore o minore che tra le altre. La nozione di competenza, in definitiva, riguarda sia le prestazioni di fronte ad un compito o ad un problema, sia i processi che sostengono l’esecuzione di una data attività. È per questo difficile, pur essendo possibile, valutare la qualità di singole prestazioni, apprezzare nel suo complesso una competenza, la cui costruzione sembra legata alle acquisizioni realizzate nell’ambito di istituzioni scolastiche, a processi di apprendimento informale, in momenti e sedi diverse, a orientamenti di valore che sostengono l’attenzione verso fatti innovativi, all’appartenenza a una comunità professionale, alle capacità di esplicitazione di risorse cognitive, di varia natura, che presiedono processi di azione e di decisione e da cui dipende la qualità di una prestazione. In tale ottica, il modello di competenza delineato da Engestrom attraverso i «sistemi di attività» appare di estremo interesse. Esso, tuttavia, utilizzando la nozione di sistema, delimita al contesto specifico il riferimento pratico su cui si innestano e a cui sono di fatto ricondotte le attività. 3. La conoscenza e l’esperienza La conoscenza si costruisce o meno in relazione con le capacità di analisi, di comprensione, di incisione sulla realtà in cui si opera. È legata, in parte, al sapere consolidato in un dato ambito e, in parte significativa, all’organizzazione del sapere per un suo utilizzo in contesti limitrofi. L’abilità di studio, l’«imparare ad apprendere», dipende, a sua volta, dai modi di rappresentare, sintetizzare, riorganizzare nozioni e informazioni, e non solo dalla «quantità» accumulata delle stesse. La soluzione di problemi e la presa di decisione sono legate alle autonome potenzialità dei soggetti nell’elaborazione e nel conseguente utilizzo del sapere. Si fondano sia sul controllo delle proprie forme di approccio con le situazioni e i problemi reali, sia sulla verifica dei propri processi di acquisizione e di sistematizzazione della conoscenza. Le capacità di soluzione si basano altresì sull’autonomia di ciascuno rispetto al giudizio su dinamiche, atteggiamenti e orientamenti; si legano, inoltre, ad aspetti psicologici, caratteriali e di personalità, ma sono positivamente connesse con la certezza che ciascuna persona sviluppa rispetto al proprio sapere verificato e utilizzato in ambiti diversi. Il sapere e le abilità operanti in un contesto, assumono, quindi, una specifica consistenza nello stretto rapporto tra contenuti di conoscenza, loro utilizzo, loro controllo, loro elaborazione e rielaborazione. Si precisano nella loro connotazione relativamente autonoma rispetto a capacità 8 operative immediate. Si configurano come ricche di riferimenti teorici. Si chiariscono nel loro sviluppo permanente. Tutto ciò lega strettamente esperienza e conoscenza, in ragione della realtà esistenziale di ciascuno. Il problema che si pone diventa così quello di misurarsi sia con gli elementi di memoria storica, in relazione a caratteristiche sociali o di classe, definite da una configurazione strutturale oggettiva, sia con le percezioni soggettive, con le varie identità, i diversi livelli di maturazione e di coscienza degli individui, sia con il sapere e l’agire in più contesti sociali e lavorativi. La stessa definizione della nozione di competenza, in questa prospettiva, va ricercata nell’ambito di una visione storicamente determinata dell’evoluzione della società civile e delle sue strutture politiche. È necessario, a tal fine, fare in modo che cresca, sul piano dell’analisi, la consapevolezza del nesso tra condizione di lavoro e condizione di vita e di questi due aspetti tra loro e con l’ambito culturale ed educativo; promuovere una comprensione piena del carattere globale e processuale delle trasformazioni, al pari di una conoscenza del proprio tempo e del proprio contesto, della dimensione storica in cui si collocano le dinamiche sociali, in tutte le loro configurazioni politiche, culturali, civili, espressive, anche nelle forme estetiche ed artistiche. È per questo necessario affrontare le caratteristiche della trasmissione e dell’elaborazione del sapere tenendo conto di specifici contesti di conoscenza, cultura e potere e delle forme con cui questi sono socialmente definiti, distribuiti, valutati. La conoscenza, nel senso più ampio del termine, può essere, in definitiva, descritta come l’esito di un processo di formazione, nel sistema formativo e al di fuori di esso, in età evolutiva e in età adulta. In questa ultima fase dello sviluppo delle persone l’intreccio tra acquisizioni dell’esperienza e contenuti di sapere necessario per far fronte ai mutamenti delle condizioni di vita e lavoro risulta molto forte e va affrontato, ove si voglia intervenire, con un approccio che lega sistema di valori, contesti e processi di conoscenza. Anche per gli adulti, appare estremamente pregnante quanto è riconosciuto anche rispetto ad altre età e, cioè, che ogni acquisizione di conoscenza è l’esito di una trasmissione culturale legata a processi di trasformazione ed elaborazione del sapere, dipendente, tra l’altro, dal modo con cui determinati contenuti o argomenti sono recepiti, in relazione con le esperienze pregresse, con le situazioni e con le forme con cui ci si è confrontati con la conoscenza. Un’altra questione è il rapporto tra conoscenza, intesa come contenuto culturale e scientifico a carattere sistematico, e cognizione, intesa come modalità generali di elaborare l’informazione, assume caratteristiche particolari ove la si consideri in relazione alla costruzione della competenza e di abilità di base ad essa connesse. Entrambi gli aspetti suggeriscono, infatti, di tenere conto, in particolare delle forme e modalità di elaborazione delle conoscenze: le risorse linguistiche, matematiche, logiche che presiedono allo sviluppo del sapere nell’ambito scientifico e nella formazione sono determinanti per la promozione sia delle singole discipline sia delle risorse cognitive della persona. Tali strumenti si caratterizzano, tra l’altro, per la loro varia possibilità d’uso e assumono un ruolo centrale di mediazione tra contenuti variamente acquisiti. Le persone, inoltre, affrontano problemi e prendono decisioni attraverso procedimenti che si basano sempre su orientamenti di valore e risorse di sapere. La competenza si configura, pertanto, come un insieme di saperi e abilità la cui efficacia e il cui valore sussistono in un tempo dato e in una società determinata. L’esame della nozione stessa di competenza va, per questo, svolto relativizzandone la definizione rispetto a ogni comunità e al suo livello di sviluppo economico e sociale, all’evoluzione e alla configurazione complessiva della vita individuale, alle dinamiche di relazione interpersonale. L’esperienza, nelle sue valenze pratiche, va considerata non solo un momento del percorso di accesso alla conoscenza, ma la forma con cui i singoli fanno proprio, attraverso nozioni disciplinari o di senso comune, il sapere sociale e professionale. Esso è frutto, nel suo insieme, del funzionamento costruttivo e attivo della mente che, grazie a strategie appropriate, è in grado di dare luogo a livelli di analisi, sia teorica sia strumentale, sempre più sofisticata e complessa che ne determina lo spessore e ne orienta le modalità operative. 9 La competenza è in genere considerata tanto più alta quanto maggiori sono le capacità di pensiero astratto, svincolato da contesti specifici di esperienza. D’altro lato, ogni persona affronta dei problemi e tenta di risolverli ogni qual volta si proponga di raggiungere un obiettivo e cerchi di individuare le procedure e i mezzi per farlo. In questo quadro, si colloca una distinzione tra problemi: a. ben definiti. Sono «ben definiti» i problemi chiaramente formulati e formulabili. Rientrano in questa prima categoria, di cui si è maggiormente occupata la ricerca psicologica, problemi che hanno una soluzione univoca, chiaramente delineata sin dalla fase iniziale di esame del problema stesso; b. ben strutturati. Sono problemi che richiedono il pensiero produttivo, per i quali, la persona non dispone di un algoritmo, che deve quindi produrre, ma che hanno un’unica soluzione, come avviene, per esempio, in alcuni giochi. La distinzione, tra i problemi del primo e del secondo tipo, non è sempre netta, né facile da assumere; c. mal definiti. Si considerano mal definiti i problemi in cui non tutte le variabili in campo possono essere date in forma univoca, in cui l’informazione disponibile è incompleta o, comunque, non può essere data su tutti gli aspetti, rispetto ai quali non è prevedibile una soluzione unica né è possibile definire procedure per la migliore soluzione, né sono possibili criteri oggettivi per valutare la correttezza della soluzione; su cui non esiste un criterio preciso di soluzione né, a volte, si può affermare che lo stesso problema sia «risolto». I problemi economici, sociali, sanitari, di progettazione o di intervento, hanno, per esempio, questa costante. La differenza tra problemi diversi non è sempre netta e problemi analoghi possono afferire a una categoria o a un’altra se si relativizzano considerando le caratteristiche, per esempio l’età, del potenziale solutore. Appare comunque importante considerare sempre: l’ambiente del compito, costituito dal problema così come viene definito, in cui sono inclusi tutti i dati, le informazioni, gli elementi teorici o pratici a latere e lo spazio del problema, costituito dalla rappresentazione che la persona costruisce del problema stesso al fine di risolverlo. Le informazioni ricavate dall’ambiente del compito vengono codificate per essere interpretate in base alle strutture di conoscenza di cui la persona dispone, per l’attivazione di conoscenze e strategie. La rappresentazione stessa del problema risulta sempre legata alle differenze di persone o di gruppi. Due meccanismi complementari, di comprensione e di ricerca, operano congiuntamente nella soluzione dei problemi in un processo circolare, teso a favorire il buon esito dell’attività intrapresa. La comprensione del problema dà luogo a una rappresentazione da cui dipendono i processi di ricerca; questi, a loro volta, possono modificare o ristrutturare la rappresentazione stessa grazie a nuove informazioni, mentre i tentativi di soluzione, avviati dopo la costruzione dello spazio del problema, possono accrescere la comprensione, dando luogo a un nuovo spazio del problema. Le ricerche sull’«expertise», cioè sull’«essere esperti» chiariscono che : – gli esperti eccellono prevalentemente nel loro campo. Non vi sono conferme sul fatto che una persona molto competente in un campo possa trasferire la propria capacità in un altro campo. La ragione ovvia dell’eccellenza degli esperti è che essi hanno una buona gestione della conoscenza di campo; – gli esperti percepiscono gli elementi maggiormente significativi nel loro campo di osservazione. Questo è evidente nelle ricerche fatte, ad esempio, sul gioco degli scacchi, dove è noto che gli esperti eccellono nel richiamare l’insieme dei pezzi che vedono; tuttavia, questa abilità, di osservare modelli significativi non riflette una generale maggiore abilità di percezione; – gli esperti sono rapidi. Sono più rapidi dei novizi nell’uso di abilità (skills) del loro campo, e risolvono rapidamente i problemi con piccoli errori. Sebbene gli studi precedenti mostrino che gli esperti sono più lenti dei novizi nella fase iniziale di soluzione dei problemi, gli esperti risolvono i problemi in modo globalmente più rapido. Vi sono almeno due modi per spiegare la rapidità degli esperti. Per i compiti semplici, come per esempio la dattiloscrittura, la velocità viene da molte ore di pratica, che rendono l’abilità più automatica e liberano capacità di memoria utili per l’elaborazione di altri aspetti del compito. Così gli esperti possono essere rapidi, perché più rapidi 10 nell’esecuzione di un compito specifico o perché hanno maggiori capacità di esecuzione del compito totale. Un’ulteriore possibile spiegazione sulla rapidità degli esperti nella esecuzione dei problemi è che questi arrivano alla soluzione senza condurre una ricerca estensiva. Da ciò l’ipotesi che essi abbiano immagazzinato regole dirette di condizione-azione in cui uno specifico modello (la condizione) induce una sequenza stereotipica di azioni; – gli esperti hanno una superiore memoria a breve e a lungo termine. Il ricordo degli esperti sembra superare i limiti della memoria a breve termine. Ciò non avviene perché la memoria a breve termine è più ampia di quella di altre persone ma perché l’automaticità di molte parti della loro abilità libera risorse per un più ampio immagazzinamento; – gli esperti vedono e rappresentano un problema, nel loro campo, a un livello più profondo e teoricamente fondato (more principled) dei novizi. I novizi tendono a rappresentare i problemi a un livello più superficiale. Un modo semplice e solido di dimostrazione è quello di chiedere ad esperti e a novizi di classificare problemi e analizzare la natura dei loro raggruppamenti. Sia gli esperti che i novizi hanno proprie categorie concettuali, ma le categorie degli esperti hanno una base semantica di principio, dove le categorie del novizio sono orientate in modo scolastico e di superficie; – gli esperti investono una grossa mole di tempo nell’analisi qualitativa dei problemi. Nella fase iniziale di situazioni di problem solving, gli esperti, in genere, cercano di «capire» il problema, mentre i novizi si buttano immediatamente in tentativi di applicazione di equazioni e di soluzioni. Gli esperti, per analizzare qualitativamente un problema, costruiscono una rappresentazione mentale, da cui possano inferire relazioni idonee a definire una situazione, aggiungendo quindi i vincoli posti dal problema. L’utilità di analisi qualitative per aggiungere vincoli a un problema può essere vista chiaramente nell’ambito di problemi mal strutturati, o nei processi di presa di decisione; – gli esperti hanno forti capacità di autocontrollo. Gli esperti appaiono più coscienti dei novizi quando compiono degli errori, quando sbagliano nella comprensione, quando hanno bisogno di controllare e verificare le loro soluzioni. L’autocoscienza degli esperti si manifesta anche nella loro maggiore accuratezza, rispetto ai novizi, nel giudicare la difficoltà di un problema. Gli esperti pongono maggiori domande. I novizi, d’altro lato, pongono più quesiti su aspetti più semplici. È possibile sostenere che le maggiori capacità di controllo e di autocoscienza riflettano una maggiore conoscenza di campo come una diversa rappresentazione della stessa. Gli esperti poggiano la conoscenza su principi legati al compito, ordinando i problemi in categorie. L’abilità nel valutare le difficoltà dei problemi consente di decidere su come allocare il loro tempo per risolvere i problemi stessi. Così, la capacità di controllo riflette la conoscenza soggiacente e legata al contesto che consente di prevedere la difficoltà sulla base di principi piuttosto che su elementi di poca rilevanza. I risultati delle ricerche indicate ci spingono, in definitiva, a pensare agli alti livelli di competenza in termini di gioco tra strutture della conoscenza e abilità di elaborazione della stessa. Le differenze critiche evidenziate tra individui si precisano in relazione alla maggiore o minore abilità in un particolare contesto di conoscenze, alle diverse capacità di controllo e di autoregolazione del loro sapere, dei processi di rappresentazione della realtà generale e delle specifiche questioni affrontate. L’esperto converte il problema in un altro strutturato anche storicamente: in questa conversione spende tempo; questa conversione dà luogo a una nuova rappresentazione; questa rappresentazione include sottoproblemi e soluzioni parziali. Il novizio passa poco tempo nella fase di ridefinizione del problema iniziale e passa immediatamente a tentativi di soluzione parziale di problemi particolari; la rappresentazione è costruita in poco tempo; manca una dimensione storica. Nell’ambito delle scienze sociali i problemi sono, tra l’altro, «mal strutturati», poiché il quadro iniziale della situazione, per esempio economica o politica, che necessita di cambiamento, non può essere considerato «completo», né essere descritto in forma univoca, così come gli obiettivi di soluzione possono essere ricercati secondo percorsi diversi, anche a prescindere dalla 11 competenza in materia. Se nell’ambito di problemi di carattere scientifico, per esempio di matematica o di fisica, c’è in genere un accordo tra gli esperti rispetto alle «soluzioni», nel caso di questioni sociali gli orientamenti e le opinioni possono non concordare. Di fatto, gli stessi problemi, nel secondo caso, sono formulati mediante l’utilizzo di espressioni quali «cause» e «vincoli», e si caratterizzano per la presenza di sottoproblemi, tali da richiedere non tanto risposte schematiche e univoche, quanto delle argomentazioni. Per tutti i tipi di problemi risulta comunque confermato un atteggiamento comune rispetto al tempo dedicato, da parte degli esperti, per cercare la soluzione, alla rappresentazione del problema e dei vincoli di vario genere che lo caratterizzano. Gli inesperti investono meno tempo nella rappresentazione del problema e nella ricerca dei vincoli, tendono ad isolarne specifiche cause e propongono soluzioni che, in genere, si rivelano parziali. Il risultato più evidente del modo di operare è costituito dalle differenze nel processo di soluzione: mentre gli esperti si muovono su un numero limitato di possibili soluzioni, astratte e ben argomentate, gli inesperti propongono soluzioni con uno scarso fondamento teorico e caratterizzate da un numero limitato di argomentazioni a sostegno. Consegue, da parte degli esperti, una maggiore flessibilità, man mano che il ragionamento procede, nell’apportare eventuali cambiamenti nella rappresentazione del problema. Tali procedimenti sono possibili e si avvalgono del più veloce accesso agli schemi di conoscenza e delle capacità di controllo e di autoregolazione che si applicano sulle strategie adottate e sui contenuti trattati. La conoscenza degli esperti è altamente proceduralizzata e le conoscenze risultano essere sia generali sia specifiche, con il risultato, tra l’altro, di una maggiore capacità di attenzione e di sensibilità. La capacità di risolvere dei problemi e di prendere delle decisioni si lega, naturalmente, alla competenza costituita dalle conoscenze possedute, più o meno specifiche, di un determinato campo e dalla pratica acquisita con l’esperienza. Va aggiunto che la formulazione di istruzioni non è irrilevante ai fini della soluzione in quanto può evidenziare un aspetto più che un altro, può suggerire, sia pure in forma implicita, una strategia, può orientare o essere fuorviante, condizionando, nei fatti, il modo con cui è costruita la rappresentazione del problema. La difficoltà di comprensione di un problema proposto per iscritto, se dipende da come le istruzioni sono formulate, può essere l’esito di quell’analfabetismo funzionale, molto diffuso, che impedisce alle persone di comprendere testi consueti nella vita quotidiana, relativi all’uso delle medicine, alle procedure burocratiche per richiedere un certificato, alle notizie relative all’uso di un elettrodomestico. Capire un problema, da questo punto di vista, non significa evidentemente risolverlo, ma comprendere quali siano i suoi elementi costitutivi, dare una descrizione della situazione problematica, formarsene una rappresentazione cognitiva connessa con gli elementi necessari per la soluzione (procedure, strategie, mosse, ecc.), che individui le relazioni tra gli elementi del problema, e che integri la rappresentazione con le strutture di conoscenza di cui si dispone. L’abilità di risolvere problemi, in definitiva, si configura come il risultato dell’esperienza e della pratica in più ambiti del sapere con una peculiarità operativa e un’efficacia concreta che si esplica su più ambiti di specializzazione specifici, si basa su un’adeguata rappresentazione del problema, comprensiva di inferenze e saperi precedentemente acquisiti, fonda su un buon grado di conoscenza procedurale, relativa all’accessibilità, all’uso e all’applicabilità della conoscenza stessa, mentre gli inesperti mancherebbero di abilità procedurali e non saprebbero trarre vantaggio dal sapere di cui dispongono. Tale affermazione conferma l’ipotesi che le abilità generali di pensiero e di soluzione di problemi si sviluppino mediante la pratica in campi diversi e si configurino come risultato di una variazione dei campi di competenza. Ciò non implica la negazione di competenze generali, ma evidenzia che la «generalità» è data dalla capacità di controllo e gestione, in diversi ambiti, di un sapere più ampio. 12 4. L’«agire sociale» Il sapere variamente acquisito, l’esperienza consolidata mediante processi di azione e di decisione, le abilità concrete rispetto alla soluzione di problemi, costituiscono e definiscono, nel loro insieme, la competenza. Non a caso, abbiamo sottolineato come risulti sempre maggiore la difficoltà di descrivere e riconoscere formalmente l’acquisizione di una qualifica limitandosi alla pur utile verifica di singole prestazioni. L’ipotesi da adottare, in relazione all’ambito professionale, è quella di affrontare anche la competenza come costituita da un sapere che lega l’attività del singolo a un processo più ampio di azione organizzativa. Va posta, per questo, un’attenzione specifica non solo alle fasi di operatività individuale, ma anche a quelle dell’attività esplicata o richiesta dalla struttura organizzata. Tale procedura di analisi consente di tenere conto sia del sistema organizzato che dei soggetti operanti in esso. In tale prospettiva, si può osservare come la competenza sul lavoro si caratterizzi per un complesso di azioni pianificate sulla base di obiettivi generali e progettate nelle realizzazioni particolari. In questo quadro, la competenza può essere definita come «contestuale», legata all’ambito di azione, e «strategica» rispetto alle forme possibili di decisione e di intervento. Tale impostazione rompe i limiti di una sequenzialità rigida tra formazione di base e formazione professionale e suggerisce un’attenzione e una cautela nel definire qualunque competenza professionale che si rivela, anche quando le prestazioni appaiono povere, come estremamente complessa, in ragione anche del contesto organizzato in cui si esplica. La teoria dell’ «azione sociale» rappresenta uno dei riferimenti concettuali fondamentali della ricerca sociologica, ma, anche sotto un profilo storico, risulta avere influenzato studiosi contemporanei di diversa formazione che hanno in qualche forma utilizzato la nozione e contribuito a svilupparla. L’azione sociale può essere definita come una «sequenza intenzionale di atti forniti di senso che un soggetto individuale collettivo (spesso designato «attore» o «agente»), compie scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza». Tale progetto può evolvere nel corso dell’azione stessa, al fine di conseguire uno scopo, trasformare uno stato di cose esistente in un altro più gradito, in presenza di una determinata situazione – composta da altri soggetti capaci essi stessi di azioni e reazioni, da norme e valori, da mezzi e tecniche operative eventualmente utilizzabili allo scopo, da oggetti fisici – della quale il soggetto tiene coscientemente conto nella misura in cui dispone a suo riguardo di informazioni e conoscenze. Il concetto di azione sociale è (ivi, p. 69) «storicamente ed analiticamente avverso» a quello di comportamento sociale, in quanto presuppone un quadro di riferimento più ampio della considerazione esclusiva di ciò che, attraverso il comportamento, può essere dedotto in merito al soggetto e al contesto. Si distinguono quattro tipi di «agire sociale»: – l’agire sociale in relazione a uno scopo, connesso con la ricerca dei mezzi più idonei per conseguire lo scopo stesso; – l’agire razionale in relazione a dei valori, caratterizzato dalla convinzione totale nella positività di un dato comportamento, al di là delle conseguenze; – l’agire affettivo, legato agli affetti e alle emozioni come guida degli atteggiamenti e delle scelte; – l’agire tradizionale, legato a consuetudini, a costumi acquisiti, al gruppo di appartenenza e di riferimento sociale. Nessuna di queste forme dell’agire sociale agisce allo stato puro, si presentano intrecciate fra loro, poiché in ogni gruppo, collettività, comunità i diversi elementi che guidano l’azione sono tra loro connessi. La stessa razionalità dell’agire sociale è prefigurata come parziale e mai assoluta. Inoltre, tra le diverse forme dell’agire sociale, quella su cui insiste maggiormente Weber è la prima, specifica del suo essere fortemente condizionato dalla dimensione del lavoro, riferimento essenziale della società. Per Weber ([1904 1909] 2001), infatti, ogni conoscenza concettuale della realtà 13 poggia sul presupposto tacito che soltanto una parte finita di essa debba formare l’oggetto della conoscenza scientifica e perciò risultare «essenziale», cioè «degna di essere conosciuta». Ciò che dà significato a un oggetto di studio è il valore che viene riconosciuto ad esso in un momento dato e in relazione agli obiettivi che si intendono conseguire. Tale valore è culturalmente determinato e non è un assoluto valido in ogni tempo e in ogni luogo. In sostanza, non c’è nessuna indagine dai caratteri di oggettività assoluta, né risulta possibile una conoscenza indipendente dai punti di vista assunti per selezionare i dati, interpretare gli eventi, dare luogo, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o inconsapevolmente, agli oggetti, ai metodi all’esame dei risultati di una ricerca. Per tutto ciò non si tratta di conoscere le caratteristiche «oggettive» delle cose, ma le connessioni concettuali che ne accrescono la comprensione, che aprono nuove prospettive, che modificano e ampliano i punti di vista, le valutazioni, i giudizi. Tutto ciò significa che la conoscenza della realtà storico sociale è «a) sempre prospettica, ossia conoscenza da un particolare punto di vista; b) sempre asistematica, in quanto non può organizzarsi sotto forma di un sistema totale e definitivo delle scienze della cultura (la cultura stessa non costituisce un unico e immutabile campo di ricerca, ma un campo variabile e differenziato di campi indipendenti)». In questa logica sono stabiliti i criteri della ricerca storico-sociale, che non può essere condotta se non in relazione a specifici punti di vista. Essa tuttavia, non riduce il suo carattere di validità, grazie a una «spiegazione causale» che leghi aspetti soggettivi e oggettivamente validi della ricerca stessa. La prospettiva weberiana è alla base di molti sviluppi della ricerca, utile ai fini dell’analisi della competenza e dell’agire professionale. L’azione del singolo si lega, in questa logica, a un processo più ampio di azione e decisione al quale nella realtà organizzata sono associate le fasi di pianificazione e realizzazione di un prodotto, di un processo, di un insieme, più o meno complesso di attività. L’attenzione verso la nozione sociale e antropologica di cultura consente di analizzare aspetti importanti dell’organizzazione, in forma assolutamente coerente con la stessa nozione weberiana di agire sociale. Nell’insieme si rivelano infatti complementari nel descrivere il lavoro non solo rispetto alle variabili tecniche e alle implicazioni oggettivamente rilevabili ma anche in relazione all’impiego di capacità professionali. Da questo punto di vista, è possibile distinguere tra lavori che promuovono le risorse cognitive, anche se per un certo periodo non sono di per sé gratificanti e lavori che, al contrario, pur essendo gratificanti contribuiscono in misura circoscritta a far crescere le abilità mentali. La nozione di azione, assunta nei termini indicati, può consentire sia l’analisi del contesto organizzato e del sapere presente in esso sia il complesso di conoscenze che traggono origine da ambiti più ampi di riferimento, di esperienza, di provenienza. In questo quadro il collegamento tra cultura e competenza è l’esito della naturale connessione tra crescita economica e sviluppo democratico, tra abilità pratiche e conoscenze finalizzate a capire, proporre, progettare azioni e comportamenti. La competenza è una risorsa per agire in più ambiti di vita, con capacità di discriminare tra opzioni e possibilità; è l’esito di un diritto di comprendere la propria realtà professionale ed esistenziale, legandosi al sapere, nell’ambito di una data realtà, in uno specifico sistema di democrazia, in una prospettiva possibile di libertà e di giustizia. La competenza implica, di fatto, la capacità di essere autonomi e di dominare processi che possono e devono, evidentemente, essere, per una loro parte, circoscritti per le implicazioni di specializzazione, ma che vanno assunti con piena responsabilità, poiché ogni azione specifica è parte del complesso evolutivo di un’organizzazione sociale. Ciò esige la costante presenza di quella maturità critica legata ad atteggiamenti, orientamenti e, soprattutto, valori, rispetto ai quali la dignità di ogni azione non si qualifica solo per la sua validità e la sua efficacia immediate. La competenza si misura, inoltre, con una complessità di fronte alla quale gli approcci scientifici tradizionali si rivelano in misura significativa inadeguati. L’enfasi posta sul carattere interdisciplinare del sapere è per questo condizione necessaria a decodificare una realtà che si 14 presenta per molti aspetti difficile da comprendere e interpretare anche attraverso l’esame delle azioni che presiedono a processi complessi di azione e decisione nel contesto dato. La ricerca educativa, nel graduale passaggio da una pratica fondata esclusivamente su riferimenti teorico filosofici ad un approccio scientifico sperimentale ha dedicato uno spazio di rilievo alla questione. Ciò è avvenuto nel quadro di ipotesi didattiche tese a garantire la verifica degli esiti di intervento realizzati sulla base dell’esatta definizione dei traguardi formativi. A tal fine, non è stato considerato soddisfacente il riferimento a categorie intellettuali, sociali o affettive ma si è richiesta l’indicazione di specifici «comportamenti» finali. L’asse del discorso è stato centrato su tale aspetto anche quando non sono stati ignorati gli elementi critici della cultura o quelli psicologici delle abilità e dei processi cognitivi. Detto questo resta, tuttavia, aperto il quesito relativo all’«ampiezza» del contesto al quale fare riferimento nell’analizzare la competenza. 5. L’«ampiezza» del contesto La posizione universalista, secondo cui non vi sono variazioni culturali di rilievo nei processi cognitivi (salvo quelle, superficiali, attribuibili a specifici contenuti) appare, di fatto, contraddetta non solo se si considera la differenza tra le culture, ma anche se si considerano le caratteristiche differenziate, tra soggetti, all’interno di una stessa cultura. Ogni comunità o collettività sviluppa forme di adattamento culturale, che mutano nel tempo ma che mantengono costanti per lunghi periodi le loro caratteristiche essenziali, diverse rispetto ad altri gruppi perché legate a particolari condizioni storiche e sociali. È possibile, inoltre, assumere, in relazione a determinate questioni, problemi e situazioni la presenza di riferimenti di valore e di modelli culturali relativamente omogenei a cui corrispondono caratteristiche simili, all’interno dello stesso gruppo, per ciò che attiene agli orientamenti e agli stili cognitivi. Anche per questo, è sostenibile la tesi secondo cui il rapporto tra cultura e cognizione è l’esito delle interazioni tra le persone e gli ambiti della loro vita quotidiana, diversi per atteggiamenti prevalenti, orientamenti presenti, sistemi di valore. Le differenze nelle prestazioni di soggetti e di gruppi differenti vanno, conseguentemente, attribuite alle situazioni, naturali o sperimentali, in cui vengono richiesti o, comunque, svolti determinati compiti. In questo quadro, il sapere è venuto delineandosi come un insieme di competenze e conoscenze la cui efficacia e il cui rilievo sussistono in un tempo dato e in una società determinata. L’esame della nozione stessa è stato svolto relativizzandone la definizione rispetto a ogni comunità e al suo livello di sviluppo economico, all’evoluzione e alla configurazione complessiva della vita individuale, alle dinamiche di relazione interpersonale. Ne è stata, altresì, sottolineata la connotazione storica che ne definisce i caratteri e ne determina l’apprezzamento globale, ferme restando risorse di varia natura a fronte dei comportamenti legati allo spazio e al tempo in cui si sviluppa e si esplica. Date tali premesse, il tema della competenza permane come nozione significativa: i cambiamenti richiamati non richiedono solo maggiori saperi, ma esigono sensibilità e capacità di far fronte a trasformazioni in un sistema di certezze e di relazioni che si riteneva consolidato, in ruoli che non sembravano poter mutare con tale rapidità, nelle responsabilità diverse tra i sessi, nella dinamica temporale tra le generazioni. Risulta falsa, in tale ottica, l’alternativa tra valore della teoria e valore della pratica, poiché ogni acquisizione teorica ha implicazioni pratiche e ogni abilità pratica muove da una teoria. Permette di uscire dal circolo vizioso, presente in ogni ipotesi didattica, tra requisiti e prerequisiti, in quanto assume come riferimento una situazione e le richieste cognitive che questa pone, a prescindere dall’ordine gerarchico con cui le discipline hanno organizzato le conoscenze. Favorisce il superamento del dilemma tra conoscenze generali e abilità specifiche, poiché consente di 15 dimostrare che le competenze sono generali se consentono di risolvere problemi e prendere decisioni in più contesti specifici, grazie ad abilità e a saperi verificati in situazioni diverse. Gli aspetti sociali del saper fare e, più specificamente, del sapere professionale, dipendono da una dinamica tra fini e mezzi, con cui la competenza si esplica guidata da rappresentazioni sociali che essa stessa contribuisce a definire, agendo in una società determinata, in relazione con le caratterizzazioni culturali che le sono proprie, nell’ambito di organizzazioni e sedi di varia natura. Il sapere professionale è per tutto ciò il risultato di un percorso con cui le persone costruiscono la propria capacità di interpretare la realtà e di agire su di essa, nel proprio contesto di lavoro e nel loro impegno per la convivenza civile. Va precisato, ai fini del ragionamento complessivo, come la forma e lo stile del pensiero siano, in qualche modo, il risultato dell’interiorizzazione delle funzioni inerenti al linguaggio che usiamo e il linguaggio stesso sia uno strumento essenziale della mente, un mezzo potente per combinare esperienze, un utensile per organizzare le idee attorno alla realtà. Le parole invitano a formare dei concetti e la caratteristica combinatoria e produttiva del linguaggio permette di smontare i diversi aspetti dell’esperienza e di rimontarli in nuovi modi. Il linguaggio fornisce una tecnica interna per programmare le nostre discriminazioni, il nostro comportamento, le nostre forme di consapevolezza. Sul piano dell’attività cognitiva il linguaggio è il mezzo più importante per effettuare trasformazioni nella realtà, per mutare la sua forma, riorganizzandola sul piano delle possibilità. Gli studi sui mutamenti delle durate, delle scansioni e dei gradi di normatività del corso di vita hanno da tempo evidenziato come, nell’ultimo secolo, si siano determinate le condizioni e si siano sviluppati due processi temporalmente distinti: il primo di progressiva istituzionalizzazione e regolarizzazione, insieme demografica e normativa, delle scansioni e delle sequenze temporali sempre più omogenee tra individui e gruppi sociali; il secondo, viceversa, di de-regolazione dei modelli normativi emersi precedentemente. Traiettorie familiari e traiettorie lavorative, connesse con variabili demografiche e socioeconomiche, si sono combinate diversamente per i due sessi, a tal punto che assumere come unicamente rilevante l’una o l’altra variabile può portare ad errori di valutazione. In ogni caso, se la flessibilità nel corso della vita può essere percepita e formulata come richiesta, a partire dal possesso di risorse professionali, culturali, familiari, in molti altri casi è solo una necessità, non una scelta elaborata come tale. Il cambiamento degli assetti produttivi è stato, anche per questo, affrontato partendo dalle sue conseguenze e, in particolare, dal mutamento generalizzato del modo di produrre e dall’emergere di nuove attività o «nuovi lavori». Il problema del riconoscimento delle competenze, in termini contrattuali e retributivi è stato sovente visto come un corollario dei cambiamenti degli assetti produttivi e organizzativi, tendendo a porre l’accento sullo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come fatto che «inevitabilmente» conduce a definire diverse modalità contrattuali e una diversa regolamentazione del rapporto di lavoro. Da ciò l’esigenza di porre attenzione non solo in relazione alle organizzazioni (che costituiscono, comunque, un microcosmo importante per capire processi che si realizzano nelle società più ampie), ma anche al modo con cui le persone vedono, mediante rappresentazioni individuali e sociali, la realtà in cui operano e le prospettive di sua evoluzione La riproduzione sociale è l’insieme dei processi nei quali le persone, le famiglie e le comunità soddisfano in modo immediato i propri bisogni di conservazione e di crescita. Tali processi, al pari di quelli produttivi, comportano l’impiego di determinate risorse, che sono di due tipi: beni di consumo e servizi ottenuti sul mercato o presso il settore pubblico; capacità personali che in parte si applicano a quegli stessi beni e servizi, in parte sono esercitate agendo direttamente su altre persone. Le attività di riproduzione sociale, per questi motivi, includono, nel loro svolgimento la produzione di significati, orientamenti, valori, «simboli» culturali, idee e, conseguentemente, identità, in particolare di genere, alla quale si connettono condizioni e modi di essere specifici e socialmente determinati. 16 In questo quadro si colloca un processo sociale e culturale di estremo rilievo nella costruzione di modi di pensare e di agire, nelle valutazioni e giudizi sulle relazioni interpersonali, competenze e saperi complementari rispetto alle conoscenze formalizzate dell’istruzione, ma non meno importanti di esse per il vivere sociale e la convivenza civile, con particolare rilievo della diversità di genere e di classe sociale. Nelle società contemporanee, ove si va inevitabilmente riducendo il ruolo della solidarietà tradizionale, familiare o comunitaria, questioni oggi al centro della discussione, quali quelle dell’occupazione e della disoccupazione sono strettamente collegate agli assetti del welfare state, decisive in ogni politica di eguagliamento delle opportunità tra uomini e donne. Da un lato, le persone in cerca di occupazione devono poter trovare nello stato assistenziale sostegno economico e aiuto nella ricerca di un lavoro adeguato alle loro competenze e aspirazioni. Da ciò, l’ambiguità del concetto, molto usato, di «educazione permanente», ove connesso con il considerare questa «idea guida» assoluta, di per sé positiva, indipendente dai contesti storici in cui si è sviluppata, ignorando che l’educazione permanente ha la sua origine nell’educazione degli adulti, che proprio in questo ambito la significativa estensione delle attività formative ha avuto spesso la sua matrice nei paesi industrializzati nella necessità delle aziende di qualificare in maniera continuativa operai e quadri, dimenticando che la domanda formativa dei lavoratori non si identifica sempre con i bisogni delle imprese, che le forze sociali e sindacali sono interessate ad una formazione che contribuisca a diminuire quel dislivello tra dirigenti ed esecutori che rappresenta un indice fondamentale delle forme e dei rapporti di dominazione e di subalternità nelle società economicamente sviluppate. Se si parte da questo dato, è facile cogliere il fatto che non può esistere un solo ‘progetto di educazione permanente’ partendo da un’ipotesi di comunità senza contrasti politici e culturali. Con ciò s’intende affermare, tra l’altro, che, se le sorgenti del progresso culturale e delle trasformazioni educative sono state spesso le lotte sociali, economiche e culturali, è da questo dato che si deve partire per una riflessione seria sul sapere e sulla formazione, per costruire nuove strutture e dare un significato, un valore e una funzionalità effettiva a quelle esistenti. In questa prospettiva, parlare di educazione significa parlare concretamente delle esigenze di globalità dell’azione formativa, opponendosi conseguentemente alla separazione tra formazione professionale, generale, sindacale, politica e culturale, separazione coerente con la logica di un sistema fondato su una rigida stratificazione dei singoli e dei gruppi e su una divisione del lavoro che contraddice alla base il bisogno delle persone di percepire e vivere una propria unità. Una proposta metodologica per verificare un’ipotesi concettuale di educazione permanente nel suo impatto con la realtà è la definizione di indicatori che permettono di valutare la progressione di politiche educative. Tra questi appare molto interessante un’ipotesi che individua tali indicatori: la partecipazione dei figli dei lavoratori a tutti i livelli di istruzione; la partecipazione dei lavoratori stessi a tutti i livelli di istruzione; la gestione di attività formative da parte di educatori che non fanno parte del sistema scolastico in qualità di insegnanti; il contributo diretto dei lavoratori come educatori; l’educazione come strumento di promozione non solo individuale ma anche collettivo; l’eliminazione delle separazioni rigide tra diversi canali della scuola secondaria; l’eliminazione dei canali paralleli a livello di educazione secondaria; il superamento delle diseguaglianze nella qualità delle scuole in aree urbane e rurali; l’introduzione della cultura popolare, orale e scritta, quale parte integrante dei curricoli scolastici; il superamento di ogni separazione tra le cosiddette discipline «manuali» e le cosiddette discipline intellettuali; l’integrazione tra educazione generale e formazione professionale; la crescita nel consumo di beni culturali (libri, giornali, film, ecc.); lo sviluppo della partecipazione alla vita comunitaria (partiti politici, sindacati, associazioni a vario livello, ecc.); la promozione dei contenuti culturali e il perfezionamento dei metodi dei programmi dei mass media; lo sviluppo dell’interesse dell’esperienza lavorativa da un punto di vista educativo; lo sviluppo significativo nelle sperimentazioni nel campo della autoistruzione; la partecipazione degli studenti, ai vari livelli di età, alla gestione delle istituzioni educative; l’integrazione fra formazione iniziale e formazione successiva; la promozione di tutte le forme di agevolazioni 17 (congedi pagati, borse di studio, materiali didattici, ecc.) necessarie per permettere ai gruppi sfavoriti di trarre profitto dal sistema educativo. L’educazione si basa infatti su una teoria dialettica. Non è un assoluto ma oggetto di una critica continua. I suoi fondamenti dichiarati sono soggetti a verifica, e studi diversi dovrebbero contribuire a ridefinirne la teoria e la pratica. Le variabili in gioco, da tenere presenti, in un processo di ridefinizione costante sono collegate alle forze economiche, politiche e culturali in gioco, al sistema sociale, alle strutture e alle esperienze educative, alle strutture a vocazione non direttamente educativa; alle metodologie, alle tecnologie, ai contenuti e agli approcci centrati sul discente; agli spazi educativi, all’ambiente complessivo, alle varie teorizzazioni in materia. Di fatto, oggi, l’identità sociale prevalente di ogni individuo appare come un fattore che muta in rapporto al prevalere di condizioni ed eventi esterni e interni, quali l’appartenenza ad una determinata fascia generazionale, il tipo di ruolo e di impegni familiari svolti, il tipo di impegno in attività di mercato, il tipo di fase in atto nella carriera professionale. Tale orientamento di più ampio respiro ha contribuito ad accentuare uno spostamento dell’asse della ricerca sui terreni della differenziazione sociale, della complessità e dell’identità, tentando di superare la crisi di paradigmi interpretativi dei mutamenti in atto e introducendo nuove categorie di analisi. Ogni collocazione sociale si lega a varie forme di rappresentazione individuale e collettiva, in parte condizionata da modelli e valori della cultura dominante, spesso con una certa debolezza per l’assenza di un solido retroterra, legato alla propria storia, e di un sistema di riferimento di classe, quale potrebbe essere fornito da una precisa collocazione lavorativa. Ne consegue una gamma di comportamenti varia ed estesa, con una contraddittorietà evidente tra forme organizzative più o meno labili, finalizzate a rivendicazioni (p.e. di servizi, di abitazioni, di lavoro) che lasciano intravedere una percezione collettiva della propria condizione, a diversi livelli di consapevolezza, e nel contempo atteggiamenti verso il consumo che appaiono come una estremizzazione di modelli consumistici. Resta il fatto che, se nell’evoluzione economica e sociale, si è realizzato un generico miglioramento delle condizioni di vita, con una diminuzione della «deprivazione assoluta», si è nel contempo accresciuto il senso della «deprivazione relativa» come direbbe Germani (1975), cioè la percezione della propria carenza rispetto a ciò che altri hanno. 6. Una conclusione provvisoria Lo sviluppo della conoscenza – inequivocabilmente fondato su caratteristiche oggettive e sensibilità soggettive rispetto a un dato contesto, immediato o remoto, percepibile o rappresentato dalla singola persona o da gruppi di cui fa parte – è favorito, naturalmente, dal tipo e dalla qualità delle esperienze, in tempi e luoghi diversi, dai collegamenti del nuovo con ciò che già si conosce, del significato dato alle cose. In questo quadro, hanno rilevanza le molteplici interazioni da cui scaturiscono valutazioni, giudizi, azioni, decisioni. È l’esito, costantemente mutevole, di un’elaborazione sia di saperi volutamente trasmessi e accolti, sia di idee, informazioni, abilità acquisite in via informale o attraverso l’esperienza. È il risultato di percorsi non lineari, nel corso dei quali, si costruisce e ricostruisce un personale modo di porsi di fronte alla realtà, si assumono riferimenti di valore, nascono legami di appartenenza, si definisce un’identità legata a condizioni e valutazioni di carattere sociale, storico, di genere, di classe, civile, etnico e culturale. La cognizione e lo sviluppo cognitivo, se dipendono da molte variabili, avvengono in forme dipendenti dai margini di autonomia, di libertà, di assetto sociale, di relazioni promosse e consentite, dai modelli di autorità, dai livelli di responsabilità attribuita o assunta, in un contesto dato e in una società determinata. Ogni atto cognitivo è, di fatto, una risposta a un insieme di circostanze specifiche. È un’attività su cui pesano condizioni sociali e culturali preesistenti. L’apprendimento può essere, quindi, considerato come un’attività socialmente situata nel quadro di 18 una particolare situazione di lavoro, di residenza, di vita. L’esperienza cognitiva, nella sua componente di analisi e di indagine del reale, malgrado la diversità dei soggetti a cui si riferisce e la validità delle sue tecniche, ha, in tale ottica, una struttura analoga sia nell’ambito del senso comune che in quello scientifico, con un diverso rilievo dell’uno o dell’altro fattore, in relazione alla natura dei problemi trattati. Tale dinamica configura una costante dialettica tra ciò che si conosce e l’oggetto stesso della conoscenza. L’esperienza assume, per questo, configurazioni che dipendono dalla cultura complessiva in cui l’esperienza stessa si esplica. Lo sviluppo della nostra analisi, a partire da queste premesse, spinge a considerare le connessioni reciproche e l’integrazione tra gli aspetti soggettivi e oggettivi della realtà, più che la loro semplice «interazione». In definitiva, all’idea di un apprendimento inteso come semplice ricezione e memorizzazione si oppone la tesi di un’attività cognitiva caratterizzata dall’elaborazione dell’informazione, dall’uso di strategie, dalla verifica di ipotesi e dalla tendenza a superare i limiti del dato immediato. Ipotizza che sussista, da parte dell’individuo, una capacità e un’attività che si realizza attraverso materiali e strumenti reperibili nei prodotti della scienza e della cultura, che si svolge secondo percorsi di scoperta e di invenzione, che, grazie a questi, si definiscono stili di pensiero, modalità di analisi della realtà, forme diverse di espressione e di esercizio della competenza. Ad esse si lega un procedimento intuitivo che garantisce una prima forma di conoscenza, preliminare a successive acquisizioni, legate o meno a specifiche discipline, organizzatori concettuali utili ma non indispensabili per costruire la conoscenza. In questo quadro, appare centrale il nodo che lega conoscenza ed esperienza e che può essere sciolto solo definendo con maggiore chiarezza cosa si debba intendere, da un punto di vista cognitivo, per esperienza. Quanto è stato fin qui sostenuto non risolve ancora il problema pur avendo chiarito come l’acquisizione del sapere si realizzi in ogni situazione di vita sociale in cui si fanno proprie conoscenze, competenze, abilità, legate sia al vivere quotidiano, sia alla ricerca scientifica, più o meno formalizzate, più o meno fondate su presupposti di correttezza logica. L’esperienza è un processo in cui il soggetto attraverso un rapporto diretto con la realtà, le persone, gli oggetti, gli atti, le azioni, le attività, gli affetti, la ragione viene costruendo e ricostruendo il suo peculiare modo di essere e di pensare. Questo dipende dalla condizione del contesto, economico e sociale, dalle caratterizzazioni di classe e di genere, dalle diversità linguistiche, etniche, demografiche, generazionali, dalle forme di una selezione della cultura di una società. Si può per questo sostenere che ogni processo di acquisizione del sapere sia l’esito di un processo di trasmissione, di trasformazione e di elaborazione delle idee, condizionato dal modo con cui determinati contenuti o argomenti sono recepiti in relazione alle esperienze pregresse, con una conseguente eterogeneità delle forme di accesso al sapere e alle abilità. Tale approccio evidenzia la complessità della relazione tra conoscenze strutturate ed esperienze vissute, mentre risulta difficile assumere che un contenuto di conoscenza venga adeguatamente recepito se non si comprende come altri contenuti, indotti dall’esterno, sono venuti organizzandosi nello schema percettivo e cognitivo, incidendo su comportamenti, conoscenze, valori. Ogni atto o manifestazione palese investe, di fatto, abilità e capacità che sono sempre il risultato di elaborazioni mentali complesse, anche quando l’azione non sembra presentare particolari difficoltà. La conoscenza è una risorsa di adattamento flessibile, di capacità di apprendere dall’esperienza e di risolvere problemi nuovi, non riducibili ad un sapere disciplinare, fortemente restrittivo, né a singole prestazioni, la cui definizione risulta utile - in quanto fondata su azioni definite anche negli elementi procedurali connessi con l’assolvimento di un compito - ma non sufficiente per un esame di capacità di decisione, di scelta, di comportamento. Queste capacità, seppure legate a risultati precisi, sono difficilmente articolabili secondo prestazioni prevedibili nell’ambito di un processo ordinato di esecuzione e riconducibili in modo puntuale ad un ambito di sapere formalizzabile una volta per tutte. In questo quadro, assume pregnanza la dinamica tra conoscenze di senso comune e conoscenze scientifiche, la relazione tra conoscenza ed esperienza, la 19 complessa acquisizione di saperi e abilità, in poche parole la costruzione della competenza, nozione per tutto ciò complessa, difficile da definire, suscettibile di interpretazioni diverse. Capitolo Secondo: Il tema della competenza. Approcci e modelli 1. Dall’identità professionale al concetto di competenza Il passaggio dalla modernità alla postmodernità - cioè da un lungo periodo durante il quale una certa solidità istituzionale, valoriale, lavorativa ecc. sembrava essere garantita all’individuo, ad una fase storica durante la quale, al contrario, qualsiasi confine del quotidiano si è liquefatto sotto il peso dei fenomeni della globalizzazione (Zolo, 2004; Bauman, 2000) – ha comportato, nell’ambito delle economie mondiali, delle turbolenze talmente significative da determinare profondi mutamenti sul versante sociale e, soprattutto, nel mondo del lavoro, con gravi ripercussioni sulla condizione occupazionale di vari Paesi e, in special modo in Italia, coinvolgendo un gran numero di soggetti. La parola chiave di tale processo di liquefazione è flessibilità che, seppur originariamente intesa come opportunità di evoluzione formativa e di potenziamento delle abilità individuali, ha finito ben presto col coincidere con gli spettri di una precarietà che, partendo da una dimensione individuale, ha coinvolto in brevissimo tempo la dimensione collettiva (Usai, 2011; Sciolla, 2010; Accornero, 1997). I mutamenti intervenuti nel modo in cui gli individui vivono la propria vita sembrano rispecchiare i più ampi mutamenti in atto nei processi di mobilità globale e, allo stesso tempo, risultano esserne influenzati; la crescente “mobilizzazione” del mondo – identificabile nei sempre più rapidi spostamenti di individui, beni, servizi, idee e informazioni – incide profondamente sui modi in cui si vive, si fa esperienza, si comprende la propria vita, si intende la propria professione (Urry, 2010). Flessibilità, dunque, in ogni sua accezione: è flessibile il grado di libertà con il quale l’imprenditore, sulla base dell’andamento produttivo, decide di variare le retribuzioni o di sfruttare abilmente il ricorso a forme atipiche di contrattazione che escludono posizioni lavorative stabili; flessibile è anche l’autorità esercitata sul lavoratore nel momento in cui gli viene imposto di cambiare postazione, non necessariamente formandolo adeguatamente, mortificando le competenze già acquisite; flessibile diviene il lavoratore stesso, che diventa polivalente nel tentativo di colmare le incertezze della propria condizione lavorativa. Come argutamente osserva Sciolla, la flessibilità, considerata in questi termini, genera un paradosso: un lavoratore è motivato a multi-specializzarsi, accettando dinamiche di riqualificazione professionale, laddove maturi un senso di grande appartenenza all’azienda e ne condivida gli obiettivi; ma la fedeltà e la motivazione derivano, il più delle volte, dalla lunga permanenza di un lavoratore all’interno dell’azienda che gli permette di maturare un forte senso di appartenenza, condizione negata dalle varie tipologie di contratto a tempo determinato (lavoro interinale, job sharing, contratti a progetto ecc.). Il mondo del lavoro vive così una serie di trasformazioni che, pur non essendo concepite per ostacolare i lavoratori, impattano sulla loro vita in maniera spesso drammatica. Non è tuttavia da sottovalutare neanche l’incidenza che il comportamento dei lavoratori, in termini di domanda, di 20 atteggiamento di acquisto e di propensione ai consumi, ha nel determinare turbolenze tali, nel mercato dei consumi, da rendere più o meno flessibile il mercato del lavoro a seconda dei contesti. La flessibilità permette alle aziende di snellire le procedure - attraverso l’affidamento di alcuni settori a consulenti esterni - e i processi produttivi, attraverso la delega di parti delle lavorazioni a fornitori terzi; ciò permette loro di ridurre volumi e costi e di diventare più maneggevoli anche se ne nascono sempre di più ma durano sempre meno perché si chiudono, si cedono, si camuffano, si accoppiano, si fondono (Accornero, 1997)). La flessibilità richiesta ai lavoratori attualmente consiste nell’accettare la variabilità e di concepirla come normale; normalità che passa attraverso l’acquisizione e la gestione costante delle più disparate informazioni, attraverso la capacità di risoluzione immediata dei problemi e di lavorare in team, anche da postazioni remote, mobili o fisse che esse siano, con la consapevolezza che, parafrasando Guy Aznar, il lavoro per tutti a tempo pieno e per tutta la vita non esiste più. E’ pur vero, tuttavia, che il danneggiamento percepito a livello identitario sia maggiormente riscontrabile nelle generazioni che hanno vissuto in pieno il passaggio da un sistema del lavoro fondato sul “posto fisso” ad un sistema flessibile. Le nuove generazioni sembrano maggiormente in grado di attivare efficaci meccanismi di reazione nei confronti del rischio di “precarizzazione” dell’identità professionale dal momento che si sono forgiate al suo interno e ne conoscono i limiti ma anche le opportunità. Emergono, così, nuove tipologie di identità professionali che tendono a fare della precarietà uno strumento costruttivo, traendo da ogni breve esperienza lavorativa, gli elementi maggiormente arricchenti ai fini della costruzione del carattere e della personalità. Un diverso senso di precarietà può investire anche il giovane lavoratore che svolge un’attività non conforme al suo livello di istruzione e che, quale meccanismo di reazione, cerca all’esterno dell’azienda in cui opera nuove opportunità di arricchimento professionale. In tal senso, molto interessanti risultano gli esiti di una ricerca, svolta in Francia sul finire degli anni ’80, e menzionata da Sciolla1, nella quale si evidenzia la presenza di giovani lavoratori, con grado di istruzione superiore, maggiormente qualificati rispetto alle mansioni loro attribuite, e dotati di una cultura professionale alternativa rispetto alle prospettive di ascesa tipiche dei colleghi; si tratta di soggetti che aspirano all’autonomia e che sembrano muoversi con grande disinvoltura all’interno della complessità. Questa tipologia di individui basa la definizione della propria identità professionale sulla formazione e sull’acquisizione di competenze che spesso esplicitano in attività da essi percepite come maggiormente significative e meritevoli di quella passione non espressa all’interno dell’azienda - esercitate al di fuori del canonico luogo di lavoro, dimostrando l’assoluta mancanza di un qualsivoglia senso di appartenenza all’azienda. Si assiste in questo modo ad uno sdoppiamento dell’identità, la convivenza, cioè, tra la dimensione identitaria falsa, ma ufficiale, espressa sul posto di lavoro - e nella quale questi soggetti non si identificano - e una dimensione essenziale e autentica che essi alimentano attraverso percorsi formativi e/o la partecipazione a processi e reti relazionali che possono avere luogo sia all’interno sia all’esterno dell’azienda ma che avvengono, in ogni caso, tra individui connotati da identiche aspirazioni2. Sciolla L., L’identità a più dimensioni. Il soggetto e la trasformazione dei legami sociali, Ediesse, Roma, 2010. Il riferimento è al Rapporto LASTREE del 1989 su “Innovations de formation et socialization professionnelle par et dans l’entreprise“ che Sciolla, a sua volta, riprende da un lavoro di Dubar. 2 Sciolla evidenzia che un alto grado di instabilità caratterizza quella che Dubar definisce identità di rete in ragione del fatto che “lo spazio di investimento di sé è dato da una rete di relazioni (tra affini) che consentono di realizzare in anticipo mobilità volontarie e poiché le conoscenze strutturali circolano in queste reti grazie alle nuove tecnologie della comunicazione”. (Dubar, cit. in Sciolla, op. cit.). 1 21 Si tratta, in definitiva, di una sorta di deviazione che l’individuo compie nel suo processo di identificazione: il legame fiduciario - che ha a lungo permesso al lavoratore di maturare un forte senso di appartenenza all’azienda - non cessa di esistere ma, non essendo più posto nei confronti dell’impresa, viene attivato nei confronti di soggetti affini, riconducibili al gruppo professionale di riferimento. Sciolla, ad esempio, citando uno studio degli anni ’90, effettuato sui professionisti della Silicon Valley, sottolinea come la reale probabilità che i lavoratori di aziende differenti abbiano già avuto occasione di condividere un’esperienza lavorativa comune, grazie alle dinamiche di mobilità tra aziende riconducibili allo stesso settore, faciliti la nascita di legami fiduciari fondati sulla condivisione di esperienze e competenze, di abilità e attitudini. Il processo di identificazione, in questi casi, non solo non perde di sostanza, pur mutando il contesto relazionale all’interno del quale esso viene esperito, ma dota il soggetto di uno spazio maggiore di autonomia. La forma di identità di rete ben si adatta ad un lavoratore contemporaneo che considera la mobilità sociale nei termini di una grande opportunità; assai meno perseguibile risulta invece per tutta quella vasta gamma di lavoratori che vivono sulla propria pelle gli effetti delle grandi trasformazioni intervenute all’interno del sistema delle imprese e del sistema-lavoro. Il riferimento è all’identità marginale3 radicatasi sia nelle categorie di lavoratori salariati, continuamente minacciati dallo spettro del licenziamento, che percepiscono la propria attività come marginale all’interno dell’azienda di riferimento, sia in altre categorie di lavoratori esclusi dal lavoro come i disoccupati o gli esodati – categorie fin troppo spesso trascurate sia dallo Stato sia dalle organizzazioni di rappresentanza - per i quali un “riscatto sociale” sembra possibile solo a condizione che essi siano disposti ad attivare nuovi meccanismi di identificazione che permettano di potenziare la propria identità complessiva. E’ all’interno di questo scenario che il tema della competenza diventa un cruciale argomento di dibattito: nella dimensione politico-istituzionale spesso non risultano ancora ben chiare le responsabilità decisionali in materia di policies formative tra Stato e Regioni e ciò non garantisce l’omogeneità dei modelli formativi – e di acquisizione di competenze - sul territorio nazionale pur rispettando l’autonomia delle singole Regioni in materia, come sancito dalla Riforma del Titolo V della nostra Costituzione; nell’ambito delle politiche sociali e del lavoro, il tema della competenza diventa cruciale per individuare e prevenire i cambiamenti che intervengono nel rapporto tra offerta e domanda di lavoro onde evitare che si abbiano eccessive turbolenze sul versante occupazionale; infine, nella dimensione dell’educazione scolastica, resta cruciale il problema della “legittimazione” delle competenze, laddove esse non siano acquisite attraverso canali e percorsi formalmente riconosciuti. I termini competenza e competenze sono attualmente assai diffusi nel sistema della formazione e dell’orientamento anche se non sempre viene loro attribuito un significato univoco. In tal senso, può essere utile distinguere i due approcci più comuni, in tema di competenze, rispettivamente nati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. a) L’approccio americano, con il termine competenza, identifica ogni caratteristica personale che, combinata in genere con altre, permette la performance eccellente di una data mansione in una data impresa. In questa ottica, possiamo ritenere competenze le conoscenze, le capacità tecniche e quelle trasversali, i tratti caratteriali, gli atteggiamenti, le attitudini, l’autostima, oltre ad alcune caratteristiche di natura fisica quali, ad esempio, il tempo di reazione. Secondo tale orientamento, le 3 Sciolla L., op. cit. 22 competenze dunque sono i fattori “a monte”, che precedono una buona performance professionale rendendola possibile. I fattori che il modello americano individua sono riconducibili a tre categorie: le conoscenze, cioè saperi di natura tecnica (ad esempio come si cucina la pasta) e di natura generale (conoscere il significato di una parola); le capacità di natura tecnica (ad esempio saper cucinare la pasta) o trasversale (saper comunicare efficacemente); altre caratteristiche personali (tratti del carattere, interessi, valori, attitudini individuali). L’impostazione di tale modello deriva dalla prima teorizzazione del concetto di competenza che risale al 1965 ad opera del prof. David McClelland dell’Università di Harvard, nell’ambito della psicologia dell’organizzazione. Qualche anno dopo, in un articolo del 1973, egli afferma che i test attitudinali allo studio, la cultura scolastica ed i titoli di studio non facilitano la possibilità di predire il successo professionale di un individuo e avvia un filone di studi focalizzando l’attenzione sui “fattori aggiuntivi” – le competenze appunto – necessari all’ottenimento del successo professionale, proponendo un modello basato sulle competenze come metodologia maggiormente efficace nel predire il successo in una attività lavorativa e superando, di fatto, la previsione basata sul solo quoziente intellettivo. Il merito dell’articolo di McClelland sta nell’aver richiamato l’attenzione sui tratti di personalità dell’individuo, suggerendo una nuova direzione di indagine fino ad allora trascurata dalla psicologia statunitense. Va tuttavia evidenziato il fatto che lo scopo di McClelland è quello di identificare esclusivamente i fattori che permettono una performance eccellente ed esistono solo se riferiti a una specifica mansione svolta all’interno di una data impresa. La capacità di parlare inglese, ad esempio, è una competenza solo a condizione che costituisca un fattore essenziale per l’ottenimento dell’efficacia nello svolgimento di una data mansione in una data impresa. E’ in questo modo che si giustifica la molteplicità di sfere di competenza, che McClelland definisce competency models, ognuna delle quali è relativa ad una data mansione e ad una data impresa. Nel 1981 Richard Boyatzis, nel tentativo di rintracciare elementi comuni tra le varie competenze individuate all’interno dei competency models fino ad allora elaborati, cerca di definire la competenza in maniera tale da includere nella definizione quanti più modelli possibili, arrivando a definire la competenza come “un’intrinseca caratteristica di un individuo che è causalmente collegata ad una prestazione efficace o superiore in una mansione”; tale caratteristica può essere “una motivazione, un tratto, un’abilità, un aspetto dell’immagine di sé o del proprio ruolo sociale, o un bagaglio di conoscenze che egli/ella usa”. Analizzando tale definizione, si può osservare che Boyatzis pur riconducendo la competenza ad una mansione specifica, sembra ampliare la definizione dando adito ad interpretare la competenza come un attributo generico dell’individuo scollegato da uno specifico contesto di lavoro, seppur collegato ad una prestazione efficace o superiore. In questa ottica, la competenza può essere definita come “ogni caratteristica personale che (di solito combinata assieme ad altre) può dar luogo a una generica buona prestazione lavorativa”4. Le due definizioni appena citate sono quelle alle quali si fa maggior riferimento nella gestione delle risorse umane e nella formazione aziendale anche se, in Italia, va evidenziata la tendenza degli ultimi anni a considerare tali definizioni, soprattutto nei campi dell’orientamento, dell’istruzione e della formazione non aziendale, con un’ulteriore variante, venendo a mancare il riferimento alla performance eccellente. Per competenza, dunque, si arriva ad intendere “ogni caratteristica personale genericamente utilizzabile sul lavoro, indipendentemente dal contesto di 4 Evangelista L. in www.orientamento.it. 23 lavoro e dal livello di prestazione ottenibile con il suo utilizzo”5. Ecco dunque che questo ultimo aggiornamento nella definizione riduce la competenza ad una qualunque risorsa personale utilizzabile in via generica sul lavoro, senza tener conto né del contesto applicativo né del livello di performance raggiungibile; viene meno il riferimento ad una prestazione eccellente, o quanto meno buona, dal momento che molti degli individui coinvolti nei percorsi di istruzione e formazione sono, in realtà, ancora assai distanti da un contesto lavorativo definito e, di conseguenza, il livello qualitativo delle loro prestazioni non è in alcun modo quantificabile, né tantomeno prevedibile. In tal senso, dunque, l’elaborazione di un profilo di competenze equivale a stilare un elenco di risorse personali ritenute utilizzabili per svolgere mansioni lavorative anche se permane, rispetto all’impostazione originaria, la convinzione che una prestazione non dipenda esclusivamente dal quoziente intellettivo e dalle conoscenze tecniche di un soggetto ma anche da altre tipologie di caratteristiche come, ad esempio, i tratti caratteriali e i valori individuali. Possiamo dunque notare come, nel tempo, il significato del termine competenza sia stato soggetto ad una sorta di riduzione: da caratteristica personale che consente una performance lavorativa eccellente in una data mansione all’interno di una data organizzazione si è passati a considerare la competenza come una caratteristica personale che può consentire una buona performance e, infine, a considerare la competenza come un mero fattore individuale utilizzabile sul lavoro. b) Il modello inglese definisce la competenza come “un determinato compito lavorativo che la persona è in grado di svolgere secondo un livello predefinito”, suggerendo l’idea che la competenza sia un comportamento osservabile tipico di una data mansione che un soggetto è in grado eseguire sulla base di uno standard prefissato di esecuzione. In tal caso, l’elaborazione di un profilo di competenze equivale a stilare un elenco dei principali compiti richiesti da una mansione che il soggetto è in grado di eseguire. Tale approccio deriva dal modello (sviluppato nel Regno Unito) dei National Occupational Standards all’interno del quale sono stati elaborati gli standard di prestazione che è necessario possedere o acquisire per ritenersi competenti nei confronti di una determinata attività lavorativa6. Tale impostazione sembra legittimare maggiormente l’apprendimento non formale perché focalizza l’attenzione su ciò che un soggetto sa fare piuttosto che sul come lo ha imparato. 2. I modelli delle competenze Nell’evoluzione degli studi sulle competenze, è stato fondamentale comprendere non solo quanto il concetto di competenza sia connesso al contesto lavorativo di riferimento (Klemp, 1980; Boyatzis, 1982) ma anche quanto a tale fattore siano riconducibili elementi di volontà e intenzionalità (Ratti, 1992). Ciò ha portato successivamente a ritenere che non sia possibile attribuire alla competenza un carattere esclusivamente codificato e trasferibile, ossia esplicito, e a 5 Ibidem Nel National Occupational Standards i compiti lavorativi sono denominati “functions” e sono descritti in “units”. Se volessimo analizzare il rapporto esistente tra l’approccio americano e quello inglese in merito, ad esempio, alle capacità tecniche (statunitensi) e le units britanniche noteremmo come tra i due approcci non esista una reale corrispondenza poiché laddove la capacità tecnica di matrice americana è riconducibile esclusivamente al profilo tecnico della mansione, le units britanniche sono riconducibili alla totalità dei fattori (non solo tecnici) che sono necessari per svolgere efficacemente la mansione. A titolo esemplificativo, analizzando la figura del receptionist, nell’approccio americano “saper utilizzare il computer” è una competenza laddove nell’approccio inglese tale capacità è solo una componente della più ampia competenza di “gestire il booking”. 6 24 mettere in luce le implicazioni che la dimensione esperienziale, di tipo implicito, ha nell’acquisizione di competenze, tanto da poterla definire come un sapere in azione (knowledge in practice). La necessità di individuare, codificare e, conseguentemente, esplicitare le competenze acquisite in via implicita grazie all’esperienza, collegandole a contesti lavorativi specifici, ha portato alla nascita di tre modelli per l’analisi delle competenze: a) Modello individuale delle competenze (McClelland, Spencer & Spencer, Boyatzis): Gli studiosi riconducibili a tale orientamento analizzano le competenze soprattutto in termini di interazioni tra soggetti impegnati in attività lavorative e contesti organizzativi all’interno dei quali tali attività vengono esplicate. L’esponente di maggior rilievo di tale approccio è David McClelland che nel suo lavoro The Achievement sostiene il ruolo dell’autorealizzazione tramite l’attività lavorativa; tale autorealizzazione costituisce il bisogno/competenza in grado di dare una spiegazione alla diffusione dello spirito manageriale, oltre che costituire un forte input utile allo sviluppo economico. E’ grazie a McClelland che il termine competenza entra nella letteratura sulle risorse umane sostenendo che, all’interno dei processi di selezione del personale, sia maggiormente opportuno utilizzare la valutazione delle competenze dei vari candidati piuttosto che ricorrere ai test di intelligenza o limitarsi a valutare le certificazioni scolastiche. In seguito a successivi studi empirici, McClelland arriva a sostenere che nella valutazione delle competenze non può non tenersi conto dei tratti della personalità di un soggetto, dei suoi fattori motivazionali né dell’immagine di sé, elementi che fanno parte del corredo di lungo termine di un soggetto e che, nel tempo, sono modificabili solo parzialmente. La definizione maggiormente calzante al modello individuale delle competenze è quella proposta da Lyle e Signe Spencer nel 1995 che definiscono la competenza come “una caratteristica intrinseca di un individuo, la quale è correlata ad una performance efficace o superiore alla media”. I vari studi susseguitisi nel tempo hanno portato ad individuare cinque elementi fondamentali che compongono le competenze: Motivazioni, ossia schemi mentali interiori che spingono una persona ad agire; Tratti, ossia non solo le caratteristiche fisiche ma anche la generale tendenza a comportarsi o a reagire in un determinato modo ad una situazione o ad un’informazione; Immagini di sé, ossia atteggiamenti, struttura valoriale o idea di sé; Conoscenza di discipline o di argomenti specifici; Skill, ossia la capacità di eseguire un compito. Va osservato che gli skills costituiscono caratteristiche osservabili e di conseguenza potenziabili attraverso percorsi formativi specifici; l’immagine di sé, i tratti e le motivazioni, al contrario, appartengono alla sfera intima della persona che, in quanto tale, risulta essere maggiormente sommersa e più difficilmente modificabile. b) Modello delle competenze distintive (Charue-Deboc, Hutchins, Weick, Prahalad e Hamel). Negli anni ’90 del 1900 nasce il modello delle competenze distintive come approccio sistemico e strategico basato sulle Core Competences aziendali, ossia le attitudini, le abilità e le conoscenze di un’impresa. Con tale termine si intende evidenziare l’apprendimento collettivo di un’azienda in termini, soprattutto, di coordinamento delle diverse capacità produttive al suo interno e delle particolari attitudini a progettare, realizzare un prodotto ma anche organizzare, gestire e programmare. Si tratta di un filone di studi che focalizza l’attenzione sulle risorse invisibili o intangibili all’interno di un’organizzazione, partendo dal presupposto che le imprese riescono a raggiungere e a mantenere un successo competitivo solo a condizione di rendersi capaci di 25 individuare un sistema di tecnologie e di mercato/prodotto in grado di massimizzare il rapporto tra flessibilità e stabilità, tra integrazione e diversificazione, tra crescita della produttività e aumento della capacità d’innovazione. Possiamo considerare le core competences come una sorta di sottoinsieme dell’esperienza aziendale che trasversalmente coinvolge le varie funzioni e arricchisce l’organizzazione di un valore aggiunto che caratterizza e, appunto, distingue un’azienda rispetto alle altre. Secondo tale approccio, le imprese sono da considerarsi veri e propri “portafogli di competenze”, ossia incubatori all’interno dei quali le conoscenze e i saperi si accumulano, si integrano, si moltiplicano e si rielaborano attraverso continui processi di apprendimento organizzativo. E’ evidente che il patrimonio di competenze distintive non sia una risorsa del singolo individuo che nell’impresa opera ma dell’organizzazione aziendale nel suo complesso che ne resta titolare anche nel caso si eventuali sostituzioni di personale in azienda. c) Competenze come attributo dei sistemi distribuiti dei saperi e delle reti di attori (Callon, Latour, Engestrom) In tale modello, si supera definitivamente la logica individuale per esaminare, in un dato contesto, le interazioni tra individuo e organizzazione; i saperi, infatti, si legano alla performance, ossia all’esecuzione delle conoscenze nel contesto produttivo. La cosiddetta “competenza esperta” non si forma attraverso la semplice acquisizione di conoscenze ma grazie alla rielaborazione di elementi di conoscenza in un “contesto d’azione” che è costituito da una rete di attori. In tale accezione la costruzione di sistemi esperti passa attraverso la ricostruzione e descrizione delle regole di trasformazione delle conoscenze nella pratica professionale. Il sapere operativo viene costruito nella sperimentazione della regola interiorizzata. Sono dunque le reti di attori e il concetto di regole i due elementi principali di questo modello. Le regole infatti divengono l’elemento di strutturazione della competenza. La ricostruzione della performance avviene attraverso un processo di apprendimento che permette di rappresentare dettagliatamente i diversi tipi di sapere, come questi vengono elaborati nell’azione e come sono riformulati in forme simboliche astratte. In questo modello l’attore agisce in uno spazio nel quale mette in pratica le proprie competenze al fine di svolgere una procedura e supplire all’incompletezza della regole. Queste ultime, infatti, non possono essere mai complete, ma devono essere interiorizzate dal soggetto che le applica poi attraverso le proprie conoscenze e energie. E’ la sperimentazione della regola che crea il sapere operativo. 3. Il concetto di competenza: una natura articolata La competenza è un concetto che si lega a una pratica umana, a una forma complessa di azione attraverso cui sono svolti i compiti e i progetti che la caratterizzano. È dunque intesa come insieme di conoscenze codificate e di esperienza e proprio per tale natura viene considerata un elemento “situato”, ossia legato al contesto, alla situazione nella quale di esprime. La competenza costituisce un elemento che attinge al collettivo ma è declinato in termini personali; è una “capacità in azione”, un elemento che evolve e che difficilmente può essere legato a un solo aggettivo. La competenza ha due sfere dimensionali principali: - dimensione soggettiva - dimensione intersoggettiva e oggettiva della competenza. 26 La dimensione soggettiva della competenza fa riferimento a due aspetti principali. Il primo è legato alla componente “interpretativa” della competenza, ossia alla necessità di dare senso a una situazione o a un problema cogliendone gli aspetti che implicano un intervento trasformativo. Il secondo aspetto è correlato invece alla capacità di prospettare una situazione modificata secondo un obiettivo preciso o una soluzione del problema trovato. Ciò significa che, dinanzi a situazioni problematiche che richiedono un intervento da parte del soggetto o dinanzi alla necessità di perseguire un determinato obiettivo, si pongono in atto interventi operativi che modificano la situazione. La seconda componente principale è costituita dalla natura progettuale pratica. Quest’ultima implica il possesso di schemi adeguati ossia della capacità di mettere in atto strategie adatte per realizzare l’azione decisa in maniera efficace e efficiente. La dimensione intersoggettiva e oggettiva della competenza è connessa alla capacità dimostrata in particolari situazioni e dunque al sistema di attese presenti nelle organizzazioni. Qualunque ruolo si rivesta all’interno di una organizzazione sono previste tutta una serie di funzioni (“regole”) da attendere in quanto previste dal ruolo stesso. La dimensione oggettiva fa riferimento al collegamento tra area del lavoro (contesto dell’attività e contenuti di lavoro), ruolo (riferimento alla posizione occupata dal soggetto e alla loro molteplicità), sé (elementi professionali e personali del soggetto). In sintesi la competenza è un complesso indivisibile di saperi, capacità, idee e modalità di azione che consentono l’esercizio di una professione. La competenza professionale è frutto della conoscenza posseduta e dell'esperienza di applicazione di tale conoscenza ad attività finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. Èssa è, pertanto, sempre contestualizzata; all’interno del contesto, infatti, ogni soggetto rielabora le informazioni che riceve dall’ambiente in cui è inserito riorganizzandole in funzione di ipotesi più ampie. La competenza professionale può essere infatti definita come la capacità di: - comprendere, - analizzare e valutare determinate questioni e problemi concreti - operare delle scelte. Le competenze sono molto spesso implicite e difficilmente codificabili, in quanto risultato di un processo sociale di apprendimento continuo. Si tratta di un mix di sapere ed esperienza personale professionale ed organizzativa. Le competenze possono essere articolate su tre aree: - area delle competenze strumentali; area delle competenze organizzative area delle competenze comunicative/ relazionali Le competenze strumentali sono quelle finalizzate alla costruzione di un prodotto, di un segmento di prodotto o di un servizio. Esse possono essere "tecniche/tecnologiche" e "concettuali" e presuppongono l'applicazione di tecniche, l'uso di tecnologie e strumenti e l'applicazione di conoscenze procedurali. In questo caso l’accento è dunque posto sul prodotto: ad esempio la preparazione di un piatto nel caso di uno chef. Le competenze organizzative assumono l’obiettivo di ottimizzare le modalità normali di erogazione del servizio e si basano su una conoscenza dell’attività svolta in tutte le sue sfaccettature, delle risorse e dei vincoli di cui si deve tenere conto. In questo caso l’accento è dunque posto sul ciclo 27 produttivo: ad esempio il coordinamento o la supervisione delle attività da svolgere nella cucina nel caso di uno chef. Le competenze comunicative/relazionali sono messe in campo per migliorare e moltiplicare i flussi di comunicazione, i contatti e le forme di collaborazione - all’interno e verso l’esterno - al fine di raggiungere al meglio l’obiettivo dell'organizzazione. In questo caso l’accento è dunque posto sulla relazione tra persone: ad esempio la collaborazione che lo chef crea con gli altri cuochi di partita per far funzionare al meglio il lavoro della cucina. 4. L’analisi dei fabbisogni Il tema dell’analisi dei fabbisogni di formazione ha assunto nella società contemporanea una centralità indiscussa in ragione di una serie di fenomeni. Questi ultimi sono legati in particolare alla necessità di governare i mercati del lavoro, di orientare i percorsi lavorativi degli individui, di affrontare i cambiamenti in ambito tecnologico, organizzativo e sociale ma anche alla volontà di ridisegnare la formazione e renderla sempre più presente durante il corso di vita delle persone. Programmare la formazione utilizzando percorsi di indagine costruiti ad hoc è utile per favorire l’inserimento sociale e professionale dei giovani e il ritorno in formazione degli adulti; consente inoltre di ragionare in termini di riconoscimento formale delle competenze acquisite sui luoghi di lavoro e che non sono riconosciute attraverso certificati o diplomi. L’analisi dei fabbisogni assume pertanto un ruolo centrale nella formazione degli adulti in quanto offre un supporto alla programmazione e/o alla progettazione formativa. Cosa si intende tuttavia per “bisogno formativo”? Il bisogno è la conseguenza di una mancanza, di un deficit ma rappresenta anche un’aspirazione, una necessità di completamento. E’ un tendere verso il benessere, elevando la qualità della vita lavorativa; si tratta di spinte evoluzionistiche di cui spesso l’individuo/organizzazione non è consapevole direttamente. Il bisogno formativo non deriva soltanto dallo scarto tra compito da svolgere e abilità e competenze possedute ma è anche uno stato di mancanza da colmare tra ciò che si ha o si è e ciò che si pensa si dovrebbe avere o essere. Esso scaturisce, inoltre, dalla relazione tra individuo e organizzazione, considerando che oggi l’individuo trascorre sempre più ore al lavoro rispetto al tempo libero. Ciò implica l’idea che anche l’organizzazione abbia dei propri bisogni rispetto agli individui e li espliciti in base al proprio modello culturale. Il bisogno è pertanto quello stato che determina un rapporto dialettico tra l’interpretazione dei bisogni soggettivi (anche illusori) con quelli della committenza. Esso fa riferimento a una domanda che può essere esplicita o implicita: - la domanda esplicita fa riferimento alla dichiarazione di una volontà manifesta verso una specifica attività formativa e culturale e dipende dalle condizioni oggettive, dai bisogni soggettivi e da rappresentazioni della realtà. In questo senso, ad esempio, se volessi lavorare nel turismo e ritenessi necessario approfondire la conoscenza della lingua inglese chiederei di poter seguire un corso di lingua presso una struttura formativa o attraverso un percorso di studio all’estero. In entrambi i casi l’obiettivo della domanda di formazione sarebbe esplicito perché caratterizzerebbe la scelta del mio percorso formativo; - la domanda implicita invece non si esprime perché debole. Questo significa ad esempio che potrei rendermi conto della necessità di studiare l’inglese per lavorare nel turismo ma non essere 28 altrettanto lucido nel chiedere di approfondire l’uso della tecnologia informatica di cui potrei avere altrettanto bisogno. I bisogni di formazione possono essere relativi a uno stato di carenza oggettivamente dato (es. mancanza di un titolo di studio superiore o universitario), oppure dipendere dalla percezione propria dei soggetti interessati. Quando il bisogno è oggettivo può avvenire che non si esprima una domanda: chi ha più bisogno di istruzione può essere portato a negare l’esigenza di una crescita personale; quando si è espulsi precocemente dal sistema scolastico solitamente si tende a pensare che non sia un percorso utile e pertanto si ritiene di non averne bisogno. I bisogni di formazione non appartengono esclusivamente all’individuo ma “sono contemporaneamente dell’organizzazione e degli individui, nel senso che l’attività di formazione si sviluppa all’interno di un contesto istituzionale che li comprende entrambi. La difficoltà sta proprio nell’armonizzare i due aspetti” (Quaglino e Carozzi). 5. L’analisi dei fabbisogni come percorso di indagine L’analisi dei fabbisogni di formazione può essere intesa in molti modi ad esempio come analisi della domanda di formazione. In questo caso l’oggetto di indagine è rappresentato dalla domanda esplicita di formazione (di cosa il soggetto o l’organizzazione pensa di avere bisogno). Un secondo tipo di indagine focalizza l’attenzione sull’analisi delle domande di qualifiche (ad esempio professioni o mestieri) attraverso la raccolta di dati presso le aziende o ricerche sulle inserzioni dei giornali. Una variante di questo tipo di indagine è rappresentato dalle ricerche sui fabbisogni di figure professionali; in queste indagini l’oggetto è costituito da specifiche caratteristiche legate ad attività o profili professionali. Sono indagini che si basano sulla descrizione dell’attività lavorativa e implicano interpretazione e sintesi del ricercatore. La differenza tra domanda e fabbisogno è che mentre la domanda fa perno sui soggetti interessati, la nozione di fabbisogno è invece relativa ai contesti. Qualunque sia l’oggetto (qualifiche, figure o competenze) le ricerche sull’analisi dei fabbisogni sono utili per comprendere e analizzare il mercato del lavoro, aumentare l’occupabilità delle persone in tutte le fasi della vita utilizzando l’aggiornamento e la riqualificazione. La ricerca finalizzata all’effettiva analisi dei bisogni di formazione degli adulti deve partire non dai bisogni direttamente espressi ma dai problemi. Ciò in quanto, come precedentemente detto, l’espressione di un bisogno formativo non (sempre) coincide con una domanda esplicita. L’analisi dei fabbisogni ha una dimensione anticipatoria per cui evita di cogliere solo gli aspetti contingenti ma cerca di prevedere quali bisogni si manifesteranno nel prossimo futuro. Il “fabbisogno di formazione” mira a indagare la domanda esplicita di formazione, il bisogno di formazione e a interpretare la domanda implicita di formazione. L’analisi dei fabbisogni può dunque essere descritta come un processo complesso di diagnosi basato su un’indagine. Data la complessità di tale indagine occorre prestare particolare attenzione: - alla scelta degli obiettivi di utilizzo dei risultati del processo di analisi; - all’individuazione degli oggetti; - alla scelta dei soggetti di riferimento; - alle scelte di carattere metodologico. 29 L’analisi dei fabbisogni è analoga a una attività di ricerca ma è da considerarsi anche come un’attività interpretativa che deve generare delle opzioni e delle decisioni in campo formativo. Deve, vale a dire, avere ricadute in termini di realizzazione di corsi di formazione oppure di riconoscimento delle competenze sul luogo di lavoro. Occorre ricordare che il bisogno indagato attraverso l’analisi dei fabbisogni può essere espresso dall’individuo, dall’organizzazione ma anche dal territorio e che elementi da comprendere con attenzione sono legati alle motivazioni per cui si esprime e alle modalità con cui viene espresso. L’analisi dei fabbisogni può utilizzare una metodologia di tipo quantitativo oppure di tipo qualitativo. I metodi quantitativi possono essere: - analisi dei dati statistici relativi alla domanda e all’offerta; - rilevazione della domanda di lavoro attraverso lo studio degli annunci economici; - rilevazione della domanda di lavoro tramite questionario e/o interviste strutturate. I metodi qualitativi sono invece: - approccio biografico; attraverso l’intervista biografica il narratore racconta la sua esperienza di vita lavorativa e la interpreta in base a valori, aspirazioni, ansie; - intervista in profondità per ricostruire il tema della storia formativa dell’individuo; - intervista individuale e di gruppo attraverso un canovaccio di intervista; - osservazione diretta fondata sull’analisi interpretativa del ricercatore. L’oggetto privilegiato dell’analisi dei fabbisogni è individuato nel legame tra fabbisogni e competenze, laddove la competenza professionale diviene oggetto di indagine in quanto considerata una categoria di analisi migliore rispetto a quelle tradizionalmente usate (mestiere, ruolo, profilo professionale). Consente inoltre di introdurre nell’analisi dei fabbisogni la dimensione dell’anticipazione e definire gli scenari in cui gli individui si trovano e si troveranno a operare. 6. Come rileviamo le competenze? Una proposta metodologica Qualche anno fa, durante le lezioni del corso, nelle ore del laboratorio metodologico, è stata progettata e realizzata una indagine volta a analizzare i fabbisogni formativi nel settore turistico a Giulianova. Tra i metodi esistenti per la rilevazione dei fabbisogni si è scelto di utilizzare nel lavoro di laboratorio quello che pone la competenza come oggetto di analisi. La competenza professionale viene intesa in tale accezione come un complesso indivisibile di saperi, capacità, idee e modalità di azione che consentono l’esercizio di una professione. Essa non può dunque essere ricondotta all’esecuzione di una mansione ma è legata al contesto, ossia agli ambiti di azione in cui si esplica. La competenza è frutto di un processo di apprendimento continuo e se da un lato appartiene al soggetto che la mette in atto, dall’altra ha anche una dimensione organizzativa e sociale, entrambe da sottoporre a analisi. Si è deciso pertanto di utilizzare una metodologia di indagine di tipo qualitativo che attraverso interviste ha analizzato la dimensione individuale della competenza (“analisi delle competenze”) e contemporaneamente esaminato i contesti organizzativi degli operatori (“analisi dei contesti organizzativi”) che fanno parte del sistema turistico giuliese a vario titolo (alberghi, agenzie di viaggio, enti pubblici, associazioni, ristoranti e bar). 30 6.1 Analisi dei contesti organizzativi L’analisi organizzativa è utile non solo per contestualizzare le competenze dei soggetti intervistati ma anche per ricostruire il sistema turistico locale e attraverso indicatori di tendenza (investimenti futuri, occupazione, profitto) ragionare sullo stato di salute del settore a Giulianova e le sue prospettive future. Il metodo prevede la realizzazione di interviste a partire da una traccia che mira a ricostruire alcune variabili fondamentali quali: - - elementi caratterizzanti l’organizzazione: tipo di struttura, dimensione aziendale, organigramma (chi fa che cosa), tipo di clientela o turismo, tipologia di servizi offerti, indicatori di tendenza, elementi caratterizzanti la gestione e la cultura organizzativa, punti di forza e di criticità dell’organizzazione elementi caratterizzanti le relazioni con il sistema: relazioni con altre parti del sistema, relazioni con altre organizzazioni fuori sistema, rapporto con la concorrenza, punti di forza e di debolezza del sistema, richieste da inoltrare al sistema per lo sviluppo dell’organizzazione, richieste per lo sviluppo del settore turistico, attività strategiche per il funzionamento del sistema Di seguito si riporta un esempio di sintesi dell’analisi dei contesti organizzativi effettuata in un albergo del Trentino. 31 Sintesi dell’analisi dei contesti organizzativi: esempio di una struttura alberghiera del Trentino Elementi caratterizzanti l’organizzazione Tipo di struttura Hotel Dimensione aziendale (con soci) Circa 109 dipendenti Organigramma L’organizzazione è divisa in amministrazione (un responsabile), personale (un responsabile), economato (un responsabile che si occupa principalmente degli acquisti, una segretaria, e un magazziniere), room division (un room division manager o capo ricevimento) che coordina: -desk informazioni (una prima segretaria e sei ragazze al desk informazioni), -portineria (tre portieri, due persone all’ufficio prenotazioni, cinque facchini) -camere (due governanti, ventisei cameriere ai piani). Food & beverage composto da -cucina (un responsabile cucina o chef executive che coordina sei capi partita, ognuno dei quali ha due collaboratori; i capi partita sono assegnati a: primi piatti, secondi piatti, antipasti, pasticceria, macellazione, lavaggio; la sezione lavaggio è composto dalla responsabile del lavaggio e sette lavapiatti) -sala (un responsabile ristorante, un primo maitre, tre maitre, venti camerieri, una hostess) -bar (un responsabile bar, quattro baristi, un addetto ai frigo bar) Centro benessere (un responsabile e sette persone, tra cui una fisioterapista, due estetiste, un addetto alle pulizie e massaggiatori). Tutto ciò fa capo al direttore, che è affiancato dal vice direttore- marketing manager. Al direttore fanno direttamente capo anche i due giardinieri, i due manutentori e i tre bagnini. Tipo di clientela/di turismo L’80% della clientela è straniera (soprattutto tedeschi, seguono gli americani e gli inglesi, ultimamente gli svizzeri e si sta cercando di aprirsi uno spazio sui mercati dell’est), il 20% italiana. L’hotel registra circa 70.000 presenze in sette mesi; si tratta per il 70% di turismo vacanziero e per il 30% turismo congressuale: quest’ultimo ha un'importanza fondamentale perché permette di allungare la stagione. È un tipo di turismo particolare che richiede degli sforzi ad hoc di cura durante tutto il corso dell’anno. Sui sette mesi di apertura c’è una media del 78% di occupazione posti letto e periodi di tutto esaurito, in genere luglio e agosto. La domanda proviene dalla famiglia in vacanza, dalle aziende che richiedono l’organizzazione di un convegno, da una struttura come il Palacongressi che richiede un numero di stanze per ospitare congressisti “esterni”, agli eventi dell’Hotel. Relativamente ai congressi, quindi, essi sono in parte acquisiti direttamente dall'hotel e in parte organizzati dal Palacongressi (in questo secondo caso l'hotel offre solo la sistemazione agli ospiti, non gestisce il convegno in sé). 33 Tipologia di servizi offerti 164 camere e 33 villette nel parco per un totale di 450 posti letto (chi alloggia in albergo ha come basic pernottamento e colazione, chi alloggia nelle villette paga soltanto il pernottamento e se vuole fare colazione deve pagarla extra) centro benessere (che propone anche massaggi ayurveda) e area fitness di 600 metri quadri; realizzato nel 2000, molto utile per le giornate piovose e fondamentale per affacciarsi con le proposte congressuali a settori prima sconosciuti (ad es. il mondo della cosmesi), oltre che per raggiungere un segmento di clientela italiana che sceglie il luogo di vacanza specificatamente per il centro benessere che offre (in particolare in bassa stagione) 3 ristoranti piano bar tutte le sere campi da tennis, scuola surf e vela piscina riscaldata Miniclub, area giochi accompagnatore tour con biciclette deposito surf e bike spazi congressuali attrezzati aria condizionata in tutte le stanze organizzazione congressi e viaggi d’incentivazione (con relativo programma di intrattenimento), in particolare nei periodi di bassa stagione. Indicatori di tendenza Fatturato in crescita di circa il 6% all'anno negli ultimi tre anni Buon periodo per il turismo congressuale Aumento del personale negli ultimi anni di circa 20 unità soprattutto per la creazione del centro benessere. E’ stata introdotta, inoltre, una hostess nel ristorante Investimenti previsti: riedificazione del ristorante, riarredamento di 7 villette, costruzione nuova piscina coperta vicino al centro benessere, assunzione di due nuove figure: un P.R. e un web marketing. Elementi caratterizzanti la gestione e cultura organizzativa Organizzazione complessa fortemente strutturata. A ogni area fa capo un responsabile; ogni responsabile ha un suo vice che lo sostituisce in casi di emergenza o nei riposi. Le decisioni che hanno impatto sulla struttura dell’hotel o ciò che lo circonda dipendono dal direttore; una volta a settimana il direttore incontra i capireparto per condividere decisioni e programmare le attività in accordo con la proprietà. Tutte le decisioni di acquisto passano per l’economato (come i rapporti con i fornitori); le scelte più importanti come gli investimenti sono fatte dalla società Punti di forza Il servizio, la pulizia, la completezza e la ricchezza della struttura e dei servizi offerti, il parco di 7 ettari. Criticità la piscina coperta è distante dal centro benessere; carenze nel settore marketing per la ricerca di nuovi mercati. 34 Relazione con il sistema Relazioni con altre parti del sistema Relazione con il Palacongressi per la negoziazione di disponibilità di alloggio per congressi e fiere. Relazioni con altre organizzazioni fuori sistema Collaborazione con centri di formazione professionale, Tourismous Team. Rapporto con la concorrenza Non ha concorrenti a Riva, forse qualcuno a Gardone o Sirmione (si definisce albergo leader nella zona per disponibilità ricettiva e orientamento non solo all’accoglienza ma anche al lavoro congressuale). Richieste da inoltrare al sistema per lo sviluppo dell’organizzazione Più collaborazione e confronto tra gli operatori del settore, per sentirsi meno isolati. Proposte e iniziative di intrattenimento innovative, per poter far fronte alle richieste delle aziende relativamente ai viaggi d’incentivazione. Richieste per lo sviluppo del settore turistico Uno degli interventi realizzati nella zona che ha avuto più successo è la pista ciclabile tra Riva e Torbole a sbalzo sul lago, apprezzata anche dai pedoni. Occorrerebbero altri interventi di questo tipo nella zona. Maggiore collaborazione tra gli operatori del settore Attività strategiche per il funzionamento del sistema Nuova APT Punti di forza del sistema Bellezza dei luoghi, dall’entroterra alla spiaggia. Punti di debolezza del sistema Mancanza di cura dei privati per la zona; offerta limitata dei negozi e di attività per i giovani. Difficili vie di comunicazione e assenza di cartellonistica. Esistenza di strutture alberghiere e agenzie di viaggio non all’altezza della categoria. Difficoltà di ipotizzare un’apertura annuale perché la zona non offre nulla nel periodo invernale (i negozi chiudono alle 19). Mancanza di interazione e cooperazione tra gli attori presenti sul territorio. 35 6.2 Analisi delle competenze La competenza professionale è frutto della conoscenza posseduta e dell'esperienza di applicazione di tale conoscenza ad attività finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. Il concetto di competenza è legato pertanto a una pratica umana, a una forma complessa di azione attraverso cui sono svolti i compiti e i progetti che la caratterizzano. Date le caratteristiche di tale concetto il metodo utilizzato per la rilevazione delle competenze prevede l’utilizzo di una traccia per le interviste a lavoratori del settore incentrata sull’analisi del quotidiano (cosa facciamo, come lo facciamo, come dovremmo farlo). L’obiettivo è coniugare la descrizione del contesto organizzativo e quella dell’esperienza individuale, individuando in seconda battuta quali competenze vengono attivate. L’analisi delle competenze utilizzata rileva le competenze a partire dalle differenziazioni indicate tra concetti chiave (azioni, attività, ambiti) e articolazioni delle competenze connotative (tecniche, organizzative, relazionali). In sintesi le aree di interesse dell’indagine sono: - azioni compiute dai singoli individui attività cui le azioni possono essere ricondotte l’individuazione di ambiti di attività l’individuazione di aree di competenza connotative per ambiti di attività. Le “azioni” sono modalità coscienti ed intenzionali di interpretazione del compito attribuito, in maniera esplicita o implicita, ai singoli. E’ cosa materialmente si fa per raggiungere gli obiettivi più o meno espliciti della proprio missione (come si agisce) e quali strumenti si usano. Sono dunque modalità coscienti e intenzionali di interpretazione del compito attribuito in modo esplicito o implicito ai singoli Le “attività” sono aggregazioni di azioni che accomunano attività finalizzate al conseguimento del medesimo obiettivo. È una descrizione articolata di ciò che gli individui fanno, delle attività che li vedono impegnati, del grado di autonomia. Ad esempio, se a una persona è affidato il compito di gestire le scorte (attività) svolgerà una serie di azioni finalizzate al raggiungimento dello scopo “gestire le scorte” e dunque controllerà le scorte, stenderà l’inventario, provvederà agli ordini, contatterà i fornitori, controllerà la qualità degli ordini relativi agli accessori (tab.1). Tutte le azioni descritte concorrono a spiegare cosa materialmente si fa per svolgere l’attività gestione delle scorte. Per analizzare le attività dei lavoratori impegnati nel settore turistico giuliese si è utilizzata una traccia per le interviste che ha analizzato cosa a ciascuno viene richiesto di fare, cosa capita di fare, il riferimento ai segmenti del ciclo produttivo su cui il soggetto interviene, la ricostruzione della storia professionale, delle modalità di apprendimento e delle relazioni che si mettono in atto con colleghi, superiori e datore di lavoro. Gli “ambiti di attività” sono aggregazioni che accomunano attività finalizzate al conseguimento del medesimo obiettivo produttivo a prescindere dalla possibile suddivisione delle azioni connesse tra più persone. Ad esempio in un albergo potremo individuare ambiti di attività quali reception, cucina, sala, servizio ai piani, amministrazione. In ciascuno di questi ambiti troveremo una serie di attività che li caratterizzano e che sono necessarie per il funzionamento dell’ambito stesso. Le competenze che contraddistinguono l’azione degli individui in un determinato ambito di attività a prescindere dalla posizione gerarchica occupata sono denominate “competenze connotative”. Le competenze connotative per tutti gli ambiti di attività sono state 36 suddivise in tre aree di competenza che perseguono diversi obiettivi: competenze strumentali, organizzative, relazionali. - le “competenze strumentali” sono quelle finalizzate alla costruzione di un prodotto, di un segmento di prodotto o di un servizio. Sono relative all’applicazione di tecniche, l’uso di tecnologie e l’applicazione di conoscenze teoriche; - le “competenze organizzative” assumono l’obiettivo di ottimizzare le modalità normali di produzione; - le “competenze relazionali” sono messe in campo per migliorare e moltiplicare i flussi di comunicazione a fini produttivi. Possono essere “interne”, che presuppongono la gestione dei flussi comunicativi all’interno dell’organizzazione tra pari, con dirigenti e con dipendenti ed “esterne”, che presuppongono tutta la fitta rete di relazioni che si viene a costruire con clienti, fornitori, istituzioni, concorrenti, consulenti, servizi e vari attori coinvolti nella gestione del processo e/o dell’impresa produttiva. Ogni individuo, in ciascun ambito di attività, può sviluppare proprie competenze su tutte e tre le aree considerate a prescindere dalla posizione gerarchica occupata (titolare, dipendente, etc.) e dall’ampiezza del suo intervento in uno o tra più ambiti (ad esempio il cameriere che ogni tanto sostituisce il collega alla reception avrà competenze in entrambi gli ambiti seppure sviluppate con un diverso grado di approfondimento). Tab.1 Esempio di attività - azioni in un ambito specifico AMBITO DI ATTIVITA’: servizio ai piani ATTIVITA’ AZIONI gestione rapporti fornitori controllare scorte stendere l’inventario contattare i vari fornitori provvedere agli ordini controllare la qualità degli ordini relativi agli accessori 6.3 Come individuare le competenze a partire dalle interviste Per presentare i risultati delle interviste effettuate ai lavoratori del settore turistico di riferimento dai partecipanti al laboratorio si sono utilizzati tre schemi di sintesi, ciascuno propedeutico al successivo e in cui l’obiettivo ultimo è la rappresentazione delle competenze nelle tre aree considerate (strumentali, organizzative, relazionali). Il primo schema (schema 1) indica nelle tre colonne rispettivamente la figura professionale intervistata, le azioni che essa svolge nel corso della propria giornata lavorativa e le attività che le rispettive azioni descrivono in base agli obiettivi di riferimento. 37 Schema 1. Esempio di analisi in una azienda Apt FIGURA PROFESSIONALE AZIENDALE AZIONI Responsabile marketing Ricerche su internet di indirizzi di associazioni scientifiche o mediche o aziende che fanno congressi per la selezione di potenziali clienti Visione dei calendari congressuali presso concorrenti Contatto telefonico con la persona o l'associazione selezionata per concretizzare la promozione Invio di materiale informativo Invio di preventivo Stesura preventivo (raramente) Gestione della banca dati dei clienti congressuali Sollecitazione presso un corrispondente italiano di promozione per le associazioni internazionali Gestione della campagna pubblicitaria Gestione dei redazionali con le riviste del settore congressuale Gestione dei calendari in internet e delle informazioni sul sito Comunicazione degli eventi congressuali sul territorio Invio biglietti di Natale Partecipazione alle fiere di settore per la presentazione dell’organizzazione Organizzazione di eventi promozionali in loco. Frequenza di seminari internazionali per l’aggiornamento sulla promozione, sulla ricerca di nuovi clienti e sulle tendenze del mercato Preparazione di una relazione marketing annuale che contenga dati statistici, proposte di attività per l'anno successivo e un budget allegato ATTIVITA’ Ricerca potenziali clienti Promozione Aggiornamento in materia di promozione Preparazione del programma annuale di marketing Il secondo schema adottato (schema 2) è finalizzato a sintetizzare per ciascun ambito le attività di riferimento e le figure professionali che all’interno delle organizzazioni considerate svolgono quel tipo di attività. 38 Schema 2. Esempio di analisi in un albergo AMBITI DI ATTIVITA’ ATTIVITÀ’ FIGURE AZIENDALI BAR Approvvigionamento Responsabile del ricevimento Capo Cuoco 1 Chef executive 1 cameriera di sala 4 Barista Chef Servizio al banco Preparazione cocktail Servizio al bar ACCOGLIENZA Riordino e pulizia bar Preparazione panini, sandwich, toast Registrazione clienti Chef 2 Gestore Socio titolare - Direttore 2 Barman Maitre 3 Cameriera di sala 2 cameriera di sala 3 Barista Addetta al ricevimento Gestore Socio titolare - Direttore 2 Barman Barista della piscina Cameriera di sala 2 Maitre Barista Cameriera di sala 2 Barman Cameriere di sala 7 Barman Barista della piscina Responsabile del ricevimento 1 Contabile 1 direttrice (socia) 1 Addetta al ricevimento Receptionist Caporicevimento Socio titolare - Direttore 1 Socio titolare - Direttore 2 Accoglienza dei clienti Receptionist Gestore Titolare e direttrice dell’hotel Socio titolare - Direttore 2 Socio titolare - Direttore 1 Socio titolare – Collaboratore Segretaria Formazione collaboratori Caporicevimento 39 Informazioni ai clienti Responsabile del ricevimento 1 Contabile 1 Addetta al ricevimento Receptionist Caporicevimento Socio titolare - Direttore 1 Socio titolare - Collaboratore Titolare e direttrice dell’hotel Socio titolare - Direttore 2 Addetta al ricevimento2 I primi due schemi consentono, insieme, di individuare quali competenze per ciascun ambito di attività, sono messe in pratica da tutti coloro che a vario titolo intervengono nei singoli ambiti. Le competenze individuate nelle tre aree considerate (strumentali, organizzative, relazionali) vengono infine presentate all’interno di uno schema di sintesi appositamente costruito (schema 3). È evidente che mentre il primo schema sintetizza ogni intervista effettuata ed è specifico per ciascuna figura professionale incontrata, il secondo e il terzo schema costituiscono una sintesi di tutti gli ambiti, le attività, le figure e le competenze connotative incontrate all’interno del settore turistico considerato. 40 SETTORE: ALBERGHI E RISTORANTI DESCRIZIONE DELLE COMPETENZE DIAGNOSTICATE NEGLI AMBITI DI ATTIVITA’ DEL SUBSETTORE AMBITO DI ATTIVITA’: CUCINA AMBITO DI ATTIVITA’ COMPETENZA CONNOTATIVA AREA DI COMPETENZA Utilizzo di tecniche per la scelta delle materie prime Uso degli elettrodomestici e degli strumenti per la preparazione, lavorazion piastre e tutti gli utensili presenti in cucina) Applicazione di tecniche per la preparazione e lavorazione degli ingredienti u Uso di tecniche per la preparazione e lavorazione degli ingredienti utilizzati p Uso del computer per la registrazione dei fornitori, la gestione delle scorte, de Conoscenza della caratteristiche e delle potenzialità di utilizzo degli elettrodo Conoscenza delle modalità per la preparazione, lavorazione e cottura degli ali Conoscenza dei piatti tipici locali e dei dolci Conoscenza delle caratteristiche dei piatti previsti nel menu e degli ingredient Conoscenza delle corrette modalità di abbinamento dei piatti nel menù Conoscenza delle lingue Conoscenza delle corrette modalità di accoglienza dei clienti STRUMENTALE CUCINA Conoscenza delle fasi e dei tempi di preparazione delle pietanze Conoscenza degli orari per la colazione, pranzo e cena Conoscenza degli orari delle attività svolte dall’albergo al di fuori del proprio Pianificazione del lavoro nel proprio ambito di attività Programmazione delle fasi necessarie per la preparazione delle pietanze Gestione del tempo in funzione delle richieste dalla sala Coordinamento delle attività svolte dai colleghi nello stesso ambito di attività Coordinamento con gli addetti alla sala Coordinamento con la direzione Controllo delle scorte presenti in magazzino Preparazione dei menù Organizzazione del lavoro dei collaboratori Gestione dei rapporti con i fornitori Gestione degli approvvigionamenti ORGANIZZATIVA RELAZIONALE Interna (cura delle relazioni interpersonali) Raccordo e collaborazione con i colleghi dello stesso ambito di attività, con g direzione e il titolare Scambio di consigli e suggerimenti Formazione a dipendenti più giovani e a stagisti nel proprio ambito di attività Esterna (cogliere gli elementi dei contesti di riferimento) Gestione dei rapporti con i fornitori di materie prime Cura dei rapporti con i clienti 41 Capitolo Terzo: Sistema Turistico e professioni 1. Diversificazione e personalizzazione del consumo turistico Tra le caratteristiche rilevanti della società post-industriale, in materia turistica, dobbiamo considerare: la crescita continua del tempo libero; il riconoscimento del Turismo come settore importante dell’economia del Paese; la costante crescita di interesse verso la produzione di servizi piuttosto che di beni materiali; l’aumento della mobilità e la riscoperta di forme di vacanza alternative. Il turismo, pur affermando una propria connotazione di “massificatore”, tende sempre più ad adattare il proprio profilo alla moltitudine di livelli culturali dell’utenza e alle relative richieste. Si impone, dunque, l’esigenza di considerare che non esiste più una unica tipologia di turismo, ma una struttura di turismi plurimi che vedono il turista attore in più segmenti di mercato, a seconda della scelta turistica che compie. Le caratteristiche di unicità del turismo sono nel fatto di essere un’industria particolare, fortemente condizionata dall’apparato distributivo e da forze esterne, integrata in altri settori dell’economia, con elementi di forte stagionalità.7 Questa frammentazione dei modelli comportamentali presuppone una logica di “sistema” organizzativo, gestionale ed imprenditoriale che necessariamente deve basarsi sull’integrazione tra i vari settori in gioco, sull’innovazione costante dei servizi e, soprattutto, sull’adeguata specializzazione delle risorse umane che nel turismo operano. In una società, come quella attuale, in cui le attività da svolgere nel tempo libero sono una scelta consapevole e non frutto di casualità, le caratteristiche dell’offerta turistica dovrebbero diversificarsi ed estendersi anche a nicchie specifiche di mercato, ampliando le possibilità di scelta dei fruitori. La nuova coscienza ambientalista, poi, ha aperto strade impensabili fino a qualche decennio fa, per una ricerca tutta nuova di elementi culturali ricchi di significato e di valori condivisi; ricerca che sempre sfocia in turismi alternativi al prodotto mare o montagna. Il turista alternativo tende a dissociarsi dal “turismo di massa”, visto come l’arte del nonviaggio e della mancanza di idee; egli è un turista che vuole un viaggio “su misura”, conforme alla sua curiosità ed alla sua cultura; egli cerca nell’esperienza turistica non una mera evasione, ma l’occasione di crescita, di arricchimento culturale, in sintonia con l’ambiente naturale, le tradizioni locali e le comunità dei territori che visita. Questo è un tipo di turismo che non deve creare tensioni all’interno delle aree in cui si sviluppa ma, per arrivare a questo, sono necessarie politiche di totale coinvolgimento di tutti gli attori sociali presenti, ognuno dei quali deve assumersi la responsabilità del proprio ruolo all’interno di un progetto comune. Le amministrazioni locali ed i singoli cittadini devono essere consapevoli della valenza culturale dell’area in cui vivono e considerarla come un patrimonio da salvaguardare a tutti i costi. “…L’uomo è portatore di una solenne responsabilità per la protezione ed il miglioramento dell’ambiente per le generazioni presenti e future…Le risorse naturali della Terra devono essere salvaguardate a beneficio delle generazioni presenti e future attraverso una programmazione ed una gestione appropriata e attenta…….deve essere mantenuta e, ove possibile, ricostituita e migliorata la capacità della Terra di produrre risorse vitali rinnovabili…”8 L’elevato livello di frammentazione è visibile nel fatto che un turista, quando acquista il prodotto “vacanza”, acquista servizi diversi da diversi fornitori; questi servizi, nonostante l’elevato grado di complementarietà, sono venduti con base individuale, all’interno di “pacchetti-tutto-compreso” che non sono altro che la sommatoria di tali servizi. 8 Dalla Conferenza O.N.U. “Human Environment” – Principio 3. Stoccolma 1972 7 42 Lo sviluppo sostenibile, così come sancito dalla Conferenza Mondiale sul Turismo Sostenibile di Lanzarote del 1995, deve basarsi sul concetto di “sostenibilità” economica, etica e sociale. Diventa, dunque, un processo che presuppone un sistema gestionale globale delle risorse e capace di tutelare il capitale naturale e culturale. Il turismo, proprio perché estremamente mobile e diversificato, se considerato con visione sistemica, e non puramente di crescita turistica, può essere uno dei veicoli più idonei per lo sviluppo della sostenibilità. Occorre, però, una politica turistica differente, rispetto a quella sinora seguita, che non inciampi nel rischio di far divenire la sostenibilità solo uno slogan od un fenomeno di moda. L’aumento della diversificazione della domanda turistica ha ampliato anche il ventaglio delle prestazioni professionali richieste; nascono nuove figure professionali, e molte altre ne dovranno nascere, capaci di valorizzare singole aree e di stimolare la curiosità dell’utenza verso determinate destinazioni. Il dinamismo che permea la società attuale, inoltre, insieme al continuo desiderio di confronto con altre realtà, sembra stia facendo emergere una nuova tipologia di viaggiatore che sfrutta abilmente le facilitazioni dell’era telematica. Lo strumento Internet diffonde l’informazione del mondo come un unico villaggio globale, in cui all’uomo è data la possibilità di muoversi liberamente. Ma questa tanto chiacchierata globalizzazione sembra sempre più minacciare l’identità e l’equilibrio di tutti i sistemi locali che spesso non sanno come identificarsi ed inserirsi all’interno di politiche più ampie e generali ormai diffuse e riconosciute universalmente. In un tale scenario, definire il turismo non è semplice. Si tratta di un fenomeno ampio, diversificato, con molteplici chiavi di lettura che presuppone la confluenza di programmi di intervento e politiche relazionali particolarmente frammentarie. La definizione comunemente accettata di “turista” è quella proposta dalla World Tourism Organization nel 1981, secondo la quale il turista è, in sintesi, colui che si reca in un luogo altro dalla sua abituale residenza per un periodo non inferiore alle 24 ore, o per un pernottamento, (altrimenti sarebbe una semplice attività ricreativa) per ragioni di divertimento, di svolgimento di attività sportive, lavorative, di studio, di famiglia o di partecipazione ad eventi in genere. Come si può evincere, tale sommatoria definizione considera alcune attività relative esclusivamente al viaggio, alla ricettività e al tempo libero, ma non accenna minimamente alla portata economica del fenomeno turistico. Questa riduzione è dovuta probabilmente alla considerazione che l’esperienza turistica è mossa da elementi psicologici, sociali e culturali, ancor prima di poter essere misurata in chiave monetaria. Mc Intosh e Goeldner, nel 1990, ampliano la visione definendo il turismo come l’insieme dei fenomeni e delle relazioni che nascono, sia nelle regioni di origine del flusso turistico, sia in quelle ospitanti, dall’interazione tra turisti, fornitori di lavoro, governi e comunità ospitanti il cui compito è attrarre e rendere gradevole il soggiorno ai turisti. Affianco al termine “comunità”, è stato aggiunto recentemente anche il termine “ambiente” rendendo esaustiva la definizione che, in tal modo, va a considerare tutti gli elementi in gioco: quelli relativi al turista (con riferimento alle motivazioni e alla soddisfazione); quelli riguardanti le comunità ospitanti (includendo l’impatto economico, sociale e culturale); quelli relativi all’ambiente (prendendo in considerazione gli impatti ecologici) ed, infine, quelli relativi ai governi (comprendendo tutto ciò che è decisione politica). E’ proprio dall’analisi di questa definizione che si evince la connessione dei diversi elementi che operano ed interagiscono all’interno di un unico sistema, anche se resta ancora aperto il dibattito sul tema se il turismo sia esclusivamente un settore, oppure un’area disciplinare autonoma, dai contorni definiti. 43 Il valore del turismo è dato dalla combinazione di tutti questi elementi, ma è anche vero che la varietà delle componenti ne crea la specificità e la problematicità. 2. Il “Sistema Turistico” La considerazione dell’alto rilievo economico e sociale del fenomeno turistico solo di recente ha permesso all’intero comparto di meritare una degna attenzione e diventare oggetto di studio, creando, però, una serie di problematiche per tutti coloro che insegnano, studiano e fanno ricerca sull’argomento: l’area di studio è carente da un punto di vista concettuale e spesso denota debolezza formale; quindi, nell’approccio alla materia, ci si trova spesso davanti ad equivoci di tipo terminologico9; inoltre, non sembra neanche esistere una definizione comune su cosa costituisca l’industria turistica e ciò genera spesso la mancanza di un certo rigore e di specificità; l’oggetto di studio della materia abbraccia diversi settori industriali e numerose altre discipline accademiche obbligando docenti e ricercatori a flettere le proprie competenze verso approcci multidisciplinari da inserire in un unico apparato di studio; il turismo, come oggetto di studio, lamenta una peculiare debolezza in termini di raccolta, confrontabilità e qualità di dati esaurienti: le statistiche non sono aggiornabili facilmente poiché, trattandosi di un fenomeno assai complesso e dinamico, non permette comparazioni sul breve periodo; alcuni approcci tradizionali sono orientati a considerare esclusivamente la portata economica del fenomeno, mentre ultimamente si assiste alla crescente crescita di coloro che tendono ad evidenziare il significato e il valore che esso ha per gli individui; proprio a causa della sua trasversalità e complessità, il turismo richiede elevati standard professionali e grande apertura mentale da parte di tutti coloro che vi operano, non dimenticando mai che il turismo non è, o per lo meno non è solo, l’immagine dell’isolotto sperduto nell’oceano dove tutto è possibile. Non sottovalutando affatto i diversi altri approcci utilizzabili per fornire uno schema di studio del turismo organizzato, quello qui adottato fa riferimento allo schema proposto da Leiper nel 199010. Il modello di Leiper individua tre elementi fondamentali: 1. i turisti, attori protagonisti del sistema; il turismo è un’esperienza tipicamente umana, vissuta con un alto grado di intensità ed aspettativa; 2. gli elementi geografici suddivisi in: la regione di origine del viaggiatore che rappresenta il mercato della domanda turistica, il luogo dove si sprigiona la partecipazione del turista, dove egli cerca le informazioni, effettua le prenotazioni e da cui parte in base a proprie motivazioni e secondo criteri di scelta del tutto individuali; la regione di destinazione, dove, a tutti i livelli, sono pienamente avvertibili i veri impatti dell’attività turistica e dove si scatenano le strategie di pianificazione e gestione, oltre che le politiche pubbliche del turismo; l’impulso alla visita di luoghi straordinari, nel senso di fuori dall’ordinario, costituisce la sorgente di energia che rende dinamico l’intero sistema, poiché crea la domanda nella regione di origine; Si fa riferimento ad una certa difficoltà nel racchiudere talune attività turistiche in una categoria piuttosto che un’altra, dal momento che tali attività sono difficilmente segmentabili in assenza di definizioni formali riconosciute (ad esempio: verde o ecologico?, responsabile o sostenibile? alternativo o estremo?...). 10 Leiper propone il primo schema di un “Sistema Turistico” nel 1979, provvedendo ad un suo aggiornamento nel 1990. 9 44 la regione di transito che, nonostante l’apparenza, non costituisce esclusivamente lo spazio che intercorre tra l’origine e la destinazione, ma è composta di tutti quei luoghi che possono essere visitati durante il percorso. Inutile sottolineare la peculiarità delle aree di transito nell’essere “regioni di destinazione in divenire”: con politiche adeguate e la consapevolezza dei residenti un luogo di transito meritevole può sfruttare il “passaggio” per entrare nel mercato delle destinazioni; 3. l’industria turistica composta dall’insieme delle attività imprenditoriali ed organizzative poste in essere per la produzione del prodotto turistico, a seconda della loro localizzazione produttiva; avremo, così, agenzie di viaggio e tour operator, ad esempio, nelle regioni di origine; industria ricettiva e delle attrazioni nelle regioni di destinazione ed il settore dei trasporti localizzato principalmente nelle aree di transito. Il modello proposto da Leiper, dunque, considera in maniera puntuale l’attività dei turisti, individua la localizzazione dei vari settori produttivi e definisce l’elemento geografico comune ad ogni viaggio. Ognuno di questi fattori interagisce con gli altri non solo in termini di erogazione del servizio finale, ma anche per quanto riguarda relazioni, transazioni ed impatti. Infatti, ad esempio, ad una domanda volatile, stagionale ed imprevedibile, proveniente dalle regioni di origine, corrisponde spesso un’offerta frammentata e rigida da parte delle regioni di destinazione, evidenziando l’alto livello di instabilità che caratterizza il fenomeno turistico. In ogni caso, i punti di forza attribuibili al modello proposto da Leiper risiedono senza dubbio nella sua semplicità e nella sua applicabilità a contesti anche molto ampi poiché, non essendo strutturato secondo una particolare disciplina, costituisce un apparato idoneo all’inserimento di approcci diversi; inoltre, tale modello è applicabile a qualsiasi tipologia di scala, dalla singola destinazione al contesto globale, e si rivela particolarmente flessibile nel permettere la relazione e l’interazione tra tutti gli elementi. Ciascuno degli elementi interagisce con gli altri non solo in termini di fornitura del servizio, ma anche in termini di transazione ed impatto. Il turismo costituisce un mercato ricco di contrasti: la domanda, nelle regioni di origine, è volatile, stagionale, imprevedibile e viene spesso soddisfatta, nelle regioni di destinazione, da un’offerta frammentata e poco elastica, provocando instabilità nel sistema. 3. Il ruolo delle figure istituzionali nel Sistema Turistico In un’ottica di politica pubblica, il turismo entra perfettamente nelle due dimensioni tipiche di un processo di policy: • nella dimensione top-down gli attori del turismo a livello centrale concorrono alla formulazione dei provvedimenti legislativi che permettono la realizzazione di politiche “turistiche”; • nella dimensione bottom-up gli attori del turismo, ai vari livelli locali, concorrono alla messa in opera delle politiche stesse, realizzando processi di implementazione che consentono il successo o l’insuccesso di un determinato sistema turistico. Il turismo è un fenomeno strettamente legato al contesto istituzionale, non solo perché oggetto di interventi specifici da parte dello Stato, ma anche perché, data la sua stretta relazione con il territorio, spesso è influenzato da scelte politiche sebbene non ne costituisca l’oggetto specifico. 45 Alla base dei nuovi modelli di governance territoriale, sempre più spesso, sembrano esservi negoziazione ed accordi pubblico – privato, pur nell’incertezza di riuscire ad integrare le azioni di enti e soggetti che non sono abituati a cooperare. La produzione di valore di un territorio è strettamente connessa con la capacità degli stakeholders di: farne un valido argomento di offerta laddove ve ne siano i presupposti; creare sinergie e cooperazione; offrire al fruitore un’immagine appealing; diversificare l’offerta dei servizi in modo tale da lasciare il fruitore libero di scegliere; garantire servizi qualitativamente validi e sviluppare il sistema tecnologico di rete, non solo per i fruitori esterni ma anche, e soprattutto, per la popolazione residente. Tra i processi di trasformazione territoriale più rilevanti, lo sviluppo turistico di un territorio è, senza dubbio, la sfida più ardua che gli amministratori locali si trovano a dover affrontare. Fare di un territorio una destinazione turistica richiede in primis il coinvolgimento della comunità locale, poiché solo un’attiva partecipazione di questa ultima può costituire la legittimazione degli interventi e delle politiche di sviluppo. La centralità del ruolo svolto dalle comunità locali nell’ambito dei processi decisionali in materia di turismo, evidenzia la stretta interazione che esiste tra turismo e territorio: la comunità locale è la vera “destinazione” di molti viaggiatori, sia per i valori culturali che da essa traspaiono, sia per l’effettiva importanza del ruolo che essa svolge all’interno delle dinamiche del fenomeno turistico. Tuttavia, va considerato che le notevoli trasformazioni subite dall’economia dei territori interessati (incremento del reddito e dell’occupazione – anche se prevalentemente in misura stagionale – ad esempio) determinano spesso l’alterazione di secolari rapporti economicoterritoriali, andando a modificare l’assetto del territorio ed il paesaggio stesso. Il turismo, nel suo essere un fenomeno poliedrico e multisfaccettato, determina profonde modifiche nell’asset sociale e territoriale originario provocando tensioni e costi sociali ed ambientali; affinché il turismo abbia successo, esso deve essere sostenibile (a livello economico, a livello sociale e a livello ambientale) e, per essere tale, esso richiede un’attenta programmazione ed un’accurata gestione. Accade molto spesso, infatti, che un’amministrazione pubblica locale, con l’accordo degli stakeholders, decida di lanciare il territorio di sua competenza amministrativa sul business turistico, contando su una vocazione territoriale che solo trasversalmente può considerarsi turistica (produzioni tipiche, artigianato, specializzazione produttiva di un bene…); la destinazione turistica è il risultato di un insieme di attrattive e di servizi le une imprescindibili dagli altri, ma all’interno del quale un fattore di primaria rilevanza, nell’ottenere successo, è dato dalla condivisione popolare. Molte amministrazioni fanno fatica ad ammettere che il proprio territorio, pur bellissimo e ricco di risorse, non ottiene il successo turistico auspicato in origine, a causa dell’assoluta indifferenza delle comunità residenti nei confronti di tale fenomeno; gli enti locali mostrano una spiccata tendenza a valutare l’ipotesi di uno sviluppo turistico solo sulla base della disponibilità, sul territorio, di attori in grado di investire in attività turistiche, ma considerando solo superficialmente il probabile ostacolo rappresentato da quella fascia di popolazione che, non essendo coinvolta direttamente in tale sviluppo, si mostra ostile: “Una destinazione nella quale i cittadini residenti assumono un atteggiamento scostante o addirittura ostile non può avere futuro”11. 11 J. Ejarque “La destinazione turistica di successo” – Hoepli, 2003. 46 L’espansione turistica a tutti i costi è solo portatrice di tensioni all’interno delle aree nelle quali si produce; occorre cogliere, interpretare e rispettare la vocazione turistica di un territorio e bisogna convogliare le energie e le risorse verso altre forme di sviluppo economico laddove tale vocazione sia assente; non si può più dare per scontato che le popolazioni locali accettino di buon grado azioni concertative imponenti dei cui effetti esse non sentono di beneficiare. Una collettività non abituata ad accogliere visitatori può, tuttavia, essere educata a farlo, a condizione che le vengano forniti gli strumenti e le informazioni necessarie; essa può, nel tempo, imparare “la politica del sorriso” e la difficile cultura dell’ospitalità se vengono attivati, sul territorio, adeguati contesti formativi che non prevedano apprendimento solo per chi nel turismo già opera, ma che garantiscano ad ogni cittadino, qualunque attività esso svolga, di divenire un operatore della comunicazione del proprio territorio e della propria cultura. Una strategia di sviluppo turistico deve prevedere la partecipazione attiva della popolazione residente, le istanze della quale devono essere ascoltate ed interiorizzate dagli operatori economici e politici, per ridurre al minimo il rischio di uno sviluppo di matrice esogena del territorio, degli effetti del quale la comunità residente non beneficia. In molti casi, infatti, gli abitanti locali sembrano essere i grandi esclusi dalle politiche di espansione del fenomeno turistico, nonostante le recenti tendenze inverse siano sempre più orientate al coinvolgimento delle popolazioni locali sia per i nuovi interessi della domanda nei confronti di rapporti più genuini con le comunità ospitanti, sia perché, da parte di queste ultime, appare forte la spinta verso una rivendicazione identitaria che coinvolge la loro quotidianità ma anche le risorse paesaggistiche e culturali delle aree esposte al fenomeno turistico. Il momento della pianificazione normativa richiede grande e attenta riflessione; si tratta di implementare una “sostenibilità competitiva” o, se si preferisce, una “competizione sostenibile”; tuttavia, se le grandi questioni non vengono incluse nelle agende e nei processi di policy making, il termine tanto utilizzato di “competitività” è privo di senso. Nel complesso gioco di interdipendenze tra i vari elementi in gioco, l’ottimizzazione del grado organizzativo del sistema turistico diventa l’obiettivo da centrare; è necessario che il turismo assuma la dimensione di valore, soprattutto riguardo ai nuovi ambiti di applicazione delle policy turistiche, quali il turismo sostenibile, etico e responsabile; occorre un salto culturale che porti a considerare tutta l’arena politica del turismo come un sistema complesso di interazioni, facendo uscire il “gigante nascosto”, come lo definisce giustamente Michael Elliot, giornalista dell’ Economist, da quella marginalità che per decenni ha dato luogo a scelte politiche sbagliate. Per decenni, infatti, il dibattito politico si è limitato al conflitto di competenze tra Stato e Regioni, tra centro e periferia, sottovalutando la portata, in termini sociali, economici, culturali di questo fenomeno che, proprio perché estremamente complesso, necessita di un ‘organica ma complessa organizzazione. Probabilmente non esiste nessun altro settore altrettanto trasversale, legato a così tanti e diversificati prodotti e servizi come l’industria del turismo; è per questo che la funzione amministrativa nel comparto che più merita attenzione, è proprio il coordinamento tra parti in gioco e decisioni, che dovranno risultare coerenti con le finalità prefissate. Ancora oggi, in tal senso, il meccanismo dell’amministrazione che si occupa di turismo, mostra grandi difficoltà ad uscire dalla logica di operare per “comparti stagni” e ad attuare un meccanismo collaborativo che arrivi a considerare la diversità degli attori e degli interessi, non come un punto di debolezza, ma come una risorsa qualificante, generatrice di nuove idee e strategie ed aperta ad un’arena di attori sempre più ampia e non solo a specifiche élites interessate. Sempre più, tuttavia, si assiste allo sforzo enorme di attuare opere di integrazione e collaborazione tra pubblico e privato, in una logica di programmazione comune, che sta permettendo nuove alleanze progettuali, soprattutto a livello di sviluppo locale. 47 In questo contesto, la precisa identificazione di ruoli e responsabilità sta velocemente conducendo a mirate attività di promozione e valorizzazione, da parte delle autorità pubbliche, di attività di commercializzazione poste in essere da operatori privati. E’ chiaro, tuttavia, che la complessità del fenomeno turistico, non permette al settore pubblico di cedere ambiti decisionali al privato, dal momento che le scelte strategiche volte ad espandere l’economia del settore possono qualificare o dequalificare l’attività pubblica agli occhi dell’elettorato, costituendo una condizione necessaria allo sviluppo di singole imprese, ma anche di sistemi turistici locali. Attualmente, molte amministrazioni hanno scelto di investire parte delle proprie risorse, nel processo di modernizzazione del comparto. Tra le varie strategie programmatiche, le più sostenute riguardano: l’attenzione rivolta all’ambiente ed ai beni culturali, in termini di valorizzazione e tutela del territorio e del patrimonio artistico -culturale ; l’estensione del sostegno finanziario, a beneficio della modernizzazione, a tutte le attività di interesse turistico e non più solo all’attività ricettiva; le politiche di formazione professionale, per aggiornare le professionalità già esistenti alle nuove tipologie di turismo e per creare nuove figure professionali in grado di elaborare nuovi mercati nel settore; le azioni di promozione e valorizzazione; l’incentivazione finanziaria, sotto forma di sostegno economico, contribuzione, esenzioni fiscali, per la realizzazione di attività qualificate e qualificanti nell’imprenditoria turistica. 4. Turismo e occupazione: l’importanza di una adeguata formazione “L’occupazione è, e rimarrà ancora a lungo, il problema base dell’economia europea”12. Gli economisti europei ritengono intollerabile un tasso di disoccupazione superiore al 10%, così come catastrofico, un tasso di inflazione a due cifre. Secondo Eurostat, l’ufficio centrale di statistica dell’Unione Europea, i motivi di una disoccupazione generalizzata si possono ricercare: nella continua evoluzione della società; nelle costanti accelerazioni dell’innovazione tecnologica; nelle dinamiche di mercato che portano verso la globalizzazione, spostando gli assetti produttivi in paesi remoti, in cui il costo del lavoro è sicuramente inferiore. Particolarmente rilevante è il tasso di disoccupazione in Spagna, con livelli molto al di sopra della media europea e all’interno del quale pesa enormemente il tasso di disoccupazione della componente femminile. Il problema della disoccupazione riguarda, a parte la Finlandia, anche i paesi a industrializzazione avanzata, come la Francia e la Germania che si attestano, rispettivamente a ridosso della media europea, ma con equilibri percentuali tra uomo e donna di minore rilievo. In Francia, il problema della disoccupazione risente del notevole calo del settore agricolo, mentre la Germania paga, ancora oggi, il prezzo dell’unificazione; diverso è il discorso Finlandese, dove le ragioni dell’alto tasso di disoccupazione vanno ricercate nelle condizioni climatiche del Paese. Anche in Italia la situazione è preoccupante e bisognosa di interventi massicci. Sono ovvie, dunque, le dinamiche socio-economiche che spingono le autorità decisionali di qualunque settore a porsi il problema della creazione di nuovi posti di lavoro. Può sembrare anacronistico parlare di occupazione per “settori”, ma la verità è che ci sono ambiti che più di altri, se ben gestiti, possono diventare fertili terreni di sviluppo occupazionale. 12 A. Mucci in “Il turismo e il problema dell’occupazione” – Politica del Turismo n°. 3 48 Il turismo, nell’accezione più ampia del termine, è certamente considerato dalla Comunità europea e dagli Stati membri, una delle chiavi di svolta per diminuire il grave problema occupazionale che affligge le economie del continente. La complessità dei cambiamenti socioeconomici che coinvolge tutte le strutture produttive e sociali di un Paese, provoca profonde trasformazioni anche nel modo di essere operatori e cittadini, quindi anche creatori e fruitori del fenomeno turistico. Una buona parte della diffusione del turismo è dovuta allo sviluppo di hotels e pensioni, di attrezzature pubbliche, di servizi, così come – in maniera piuttosto caotica – alla costruzione di seconde case, condomini, multiproprietà, residences, ed altre tipologie di immobili a cui fantasia e speculazione sono ricorse disordinatamente nel ventennio ‘60/’80. Ora, ci si ritrova con queste “cattedrali nel deserto” e con l’arduo compito di farne buon uso, dal momento che non possono essere cancellate. Su queste “macerie” ci si trova a dover costruire il nuovo turismo, all’interno di una società che profila cambiamenti marcati e, soprattutto, valori diversi rispetto al passato. Oggi si guarda ad altri contenuti, più specifici e concreti; si fanno conti più attenti; si prospettano esigenze diverse, mentre il tema della gestione diventa il perno su cui far ruotare un intero sistema. In Italia le iniziative che nascono sono molteplici e diversificate, legate a idee, innovazioni, spunti individuali, con incentivi finanziari che giungono da Enti locali, Stato e Comunità Europea, segni tangibili di una grande tendenza volontaria alla cooperazione. E’ una società complessa ed articolata, quella che abbiamo di fronte e con la quale ci confrontiamo quotidianamente; una società che, proprio perché complessa ed articolata, richiede migliori capacità, esperienze e preparazione. Il fattore unificante e fondamentale è da individuare nella formazione e qualificazione professionale, sempre più intersettoriale e trasversale ai diversi ambiti operativi, dal momento che la società dell’informazione esige proprio questo: la conoscenza di tutte le problematiche che condizionano le nostre azioni, la conoscenza specifica degli strumenti da utilizzare, di volta in volta, per ottenere risultati di successo. Il discorso sull’occupazione diventa, quindi, un discorso di preparazione professionale, della conoscenza della realtà nella quale viviamo, della nuova cultura; cultura che non è fatta tutta di cifre, di indicatori, di statistiche, quanto di conoscenza dei problemi, di capacità di affrontarli e di gestirli in chiave moderna e propositiva. Alla Formazione, in questa ottica, può essere ascrivibile una compresenza di valenze, sia come luogo ed occasione di “adattamento” alle nuove esigenze, ai nuovi ritmi sociali, in un contesto di competizione e trasformazione, sia come necessità di sviluppo, di autonomia creativa, a partire dalla sfida delle tecnologie, della complessità e del politeismo dei valori. La società del sapere muta di continuo, cambia incessantemente prospettive; essa richiede, giorno per giorno, la ricerca di nuovi sbocchi e nuove occasioni e, di conseguenza, di nuove figure professionali in grado di assecondare il fabbisogno qualitativo dell’offerta. Si tratta di una società dove il turismo ha ed avrà sempre più spazio, quindi anche crescente occupazione, essendo essa estremamente dinamica anche nel chiederci di affrontare e superare sfide sempre più difficili ma, senza dubbio, più gratificanti. Il turismo è destinato a divenire uno dei principali motori propulsivi dell’economia mondiale. Da questo consegue che le attività e le professioni, nell’immediato futuro, saranno sempre più orientate verso questo ambito e che, aumentando la competitività del mercato, crescerà anche la domanda di professionalità ed efficacia lavorativa da parte di addetti ed imprenditori del settore. Il fattore di rischio maggiore, per il nostro Paese, in questo senso, sembra essere rappresentato da una forte carenza di competenze13, che minaccia continuamente la riuscita economica in campo turistico14. Secondo L. e S. Spencer (1993), la competenza è “una caratteristica sottostante dell’individuo che è causalmente correlata a prestazioni efficaci o superiori in un ruolo o situazione”. La competenza è pertanto una componente della personalità che consente di perseguire ed ottenere risultati, una caratteristica al cui completamento concorrono elementi di esperienza lavorativa mirata, di conoscenza (sapere) e di capacità (saper fare) applicativa delle conoscenze stesse. 13 49 Ammettere che esiste un reale bisogno di formazione per gli operatori del settore, non vuol dire semplicemente riconoscere che le risorse umane che operano nel comparto sono quantitativamente insufficienti a realizzare obiettivi, ma va inteso, soprattutto, come una possibilità di cambiamento che mira all’aumento del potenziale qualitativo di conoscenze e capacità. La formazione, in questa ottica, tende sempre più a ridurre la sua valenza tradizionale (integrativa della formazione iniziale), per assumere una più ampia richiesta di sostegno e partecipazione alla transazione sociale in atto, secondo modalità di innesco sempre più specifiche ed individualizzate; essa supera il concetto strettamente connesso al dislivello qualitativo delle risorse umane, ma diviene strumento determinante di cambiamento culturale. Si rende necessaria la strutturazione di un sistema formativo adatto sia per chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro, sia per chi è già da tempo operante nel settore e sente l’esigenza di riqualificarsi. Va detto che le aziende, in genere, si rivolgono mal volentieri al mercato scolastico “tradizionale”, in quanto non fornisce adeguata esperienza lavorativa, costringendo le aziende ad assumere personale, già con la consapevolezza di dover andare a svolgere la funzione di un primo orientamento formativo. I criteri di selezione delle nuove professionalità da inserire, non seguono tanto la logica dell’eccellenza contenutistica e specialistica, quanto piuttosto valutano la capacità di sapersi muovere velocemente in un contesto organizzativo, che muta proporzionalmente al settore in cui opera. Per vincere in competitività, un Paese deve tendere a proporsi nel mercato globale, con un’offerta dei servizi e competenze qualitativamente alta e deve mirare ad attuare un sistema formativo che abbia come peculiarità la continuità e prevedere, tra i suoi obiettivi, una formazione, sia essa primaria o complementare, che accompagni gli operatori del settore lungo l’intero arco della carriera, cosa che permetterebbe loro di confrontarsi continuamente e rimanere al passo con le evoluzioni e le dinamiche che il “Sistema Turismo” porta con sé. Per l’attuazione di percorsi formativi tali da rendere gli operatori sempre più qualificati, occorre che le aziende, le imprese e gli Enti del comparto si rendano abili nello sfruttare le proficue opportunità di finanziamento che l’UE mette a disposizione per le attività formative. Da parte delle Pubbliche Amministrazioni, è necessaria la diffusione delle dinamiche di accesso ai finanziamenti in tema di formazione e, soprattutto, la stretta collaborazione tra i soggetti che all’interno dell’Amministrazione stessa, pur operando in settori diversi, hanno autorità decisionale in tema di corsi di formazione, analisi dei fabbisogni formativi nei vari ambiti, dati occupazionali ecc… Le politiche di formazione, così come quelle del turismo, sono trasversali alla maggior parte delle politiche di intervento connesse ad altri ambiti; pertanto, è necessaria una fitta collaborazione tra il sistema formativo e ogni singolo sistema di settore. In ambito turistico, parlare di formazione significa parlare soprattutto di: - formazione nell’ambito di nuove tecnologie; - miglioramento della conoscenza delle lingue straniere; Occorre sottolineare che, tuttavia, conoscenza, capacità ed esperienza rappresentano una condizione necessaria della competenza, ma non sufficiente, dal momento che la competenza richiede anche la presenza del fattore motivazione, che costituisce l’innesco grazie al quale esperienze, conoscenze e capacità si trasformano in competenze applicate e finalizzate ad un obiettivo di prestazione. 14 Il capitale umano, che può essere definito come l’insieme di risorse individuali e sociali, tangibili ed intangibili, e di conoscenze, cioè della somma di saperi acquisiti nel corso della vita, si basa sul miglioramento costante delle capacità di analisi, progettazione, gestione, realizzazione, valutazione. Tali capacità rappresentano le identità culturali e le potenzialità delle comunità in un contesto locale, ed è pertanto evidente che il capitale umano non solo ricopre il ruolo di impulso e sostegno per qualsiasi processo di innovazione e sviluppo, ma la sua articolazione all’interno di un tessuto sociale e la coerenza con le esigenze poste dalle direttrici economico-sociali, costituiscono un elemento strategico di competitività (o di criticità) per i programmi di sviluppo. 50 - formazione in ambito comunicativo, pubblico e relazionale. Tale tipo di approccio deve necessariamente esplicitarsi attraverso: a) realizzazione di attività formative post-laurea; b) attuazione di percorsi formativi personalizzati per chi già opera nel settore; c) realizzazione di attività di stage; d) sviluppo di moduli universitari professionalizzanti; e) realizzazione di percorsi formativi per inoccupati, favorendo, così, il rientro dei lavoratori nel sistema dell’istruzione e della formazione. Nella società moderna, lo spazio assegnato alla formazione, si è progressivamente dilatato, sia a livello di domanda di nuovi saperi, sia a livello istituzionale e politico, data la rilevanza potenziale della formazione nelle politiche di lavoro e sviluppo. Le ragioni di questo fenomeno sono individuabili soprattutto in tre fattori: 1) nell’evoluzione degli strumenti di innovazione tecnologico-scientifica, che rende inadeguata la formazione iniziale e le forme tradizionali di trasmissione di saperi, causando una riforma continua del livello medio di conoscenze socialmente necessarie; 2) nel progressivo allontanamento tra trasformazione organizzativo - professionale (il cosiddetto “calendario economico”) e l’evoluzione dei profili personali all’interno di cicli di vita individuali (“calendario sociale”); 3) nell’aumento di complessità dei ruoli sociali, impegnati sempre più ad adeguarsi alla pluralità di culture e valori ed al conseguente sovraccarico di responsabilità, di competenze, di relazioni, in un quadro di incertezza talvolta destabilizzante. Nella società industriale, la Formazione era un diritto sociale da conquistare; in quella postindustriale, formare e formarsi diventa un qualcosa di inevitabile, una necessità socialmente riconosciuta, anche se non ancora garantita del tutto. Se negli anni ’70 l’ottica prevalente era quella di una Formazione intesa come semplice variabile del sistema economico-produttivo, annoverata come un costo (anche se utile) più che come un investimento, le attuali sfide tecnologiche mettono in crisi il sistema di addestramento professionale tradizionale, obbligando a scegliere nuovi sistemi di formazione. La formazione è chiamata a svolgere un ruolo di “compensazione”, rispetto alle accelerazioni del progresso dei saperi e dell’industrializzazione. Questa domanda compensatoria, a sua volta, condiziona profondamente l’offerta formativa, al punto da richiedere il ridisegno continuo dei sistemi formativi. Nonostante i ritardi, anche in Italia si stanno creando i presupposti per configurare un sistema di “formazione continua”, in grado di superare la visione puramente compensatoria o professionalizzante delle opportunità formative extrascolastiche e si sta tendendo sempre più verso un sistema formativo “integrato”. Si è consapevoli del fatto che la Formazione non può e non deve essere ridotta al mero riciclaggio professionale, ma deve essere inclusa in progetti di “sviluppo organizzativo”, anche se questa consapevolezza si scontra molto spesso, all’interno delle organizzazioni, con la dinamica istituzionale legata a dimensioni non sempre ottimizzabili della vita organizzativa. La formazione è “luogo-sorgente” della differenza e, dunque, della competitività ed ha tra i suoi obiettivi quello di costruire per/nell’individuo quel patrimonio di competenze che appare oggi necessario per la sua occupabilità. Tale patrimonio è acquisibile in contesti diversi, in forme progressive, in età anagrafiche differenti e può, dunque, caratterizzarsi per risultati plurimi. Il punto è che, nella società attuale, nessuno dei sistemi di istruzione/formazione è, da solo, in grado di accreditare quel patrimonio di competenze; ad ognuno dei tre sistemi, istruzione, formazione e lavoro, manca la certezza di provvedere efficacemente alla formazione e all’inserimento, o reinserimento, degli individui nel mondo del lavoro. 51 E’ per questo che necessariamente si deve elaborare una strategia di integrazione di questi tre sistemi; essi sono chiamati ad interagire per salvaguardare i patrimoni culturali ed esperienziali e creare figure professionali legate alla progettazione, in assenza delle quali ogni sistema risulta privo di una vera capacità di innovazione. Ma non si tratta di sommare gli interventi dei vari sistemi, quanto piuttosto di arrivare ad elaborare dei co-progetti, delle co-gestioni, sulla base dei principi di cooperazione, concertazione e sinergia insostituibili nelle attività di programmazione e progettazione. Istituzioni, Parti sociali, amministrazione scolastica, formazione, università, oltre che i singoli settori, pur tra mille difficoltà, devono arrivare a collaborare per costruire un “sistema integrato” che possa offrire una pluralità di opportunità tra loro collegate e percorribili “lungo tutto l’arco della vita”. 5. Il sistema occupazionale del turismo La natura complessa del fenomeno turismo rende estremamente difficoltoso il compito di analizzare e disporre di dati affidabili circa il suo potenziale per l’occupazione; la lettura integrata di variabili relative a domini diversi, (economico, sociale, demografico, ambientale), ma comunque riferibili ad un medesimo fenomeno, è, infatti, minacciata continuamente dal rischio dell’incoerenza e della disomogeneità. Ma il grande tema dell’occupazione nel turismo non può essere affrontato solo in termini di trend e di indicatori economici; sono molti altri gli aspetti che lo animano e la formazione è sicuramente uno di questi. I dati ufficiali sull’ occupazione nel turismo ci parlano di circa 300.000 imprese e due milioni di occupati nel comparto, ma qualsiasi analisi del settore deve fare i conti con le criticità peculiari del turismo: la stagionalità della domanda, la frammentazione del tessuto produttivo, il ritardo tecnologico, e talvolta culturale degli operatori, l’inadeguatezza dell’organizzazione formativa, l’insensibilità della politica; tutti elementi, questi, che evidenziano le ragioni di uno sviluppo del turismo inferiore alla sua reale potenzialità. Il sistema delle occupazioni del turismo è costituito da un nucleo centrale, il core business, in cui sono incluse tutte le attività alberghiere, campeggi, villaggi, agenzie di viaggio e ristorazione; intorno al core business abbiamo una cornice all’interno della quale si muovono tutte le attività di sostegno al comparto, come ad esempio, il sistema dei trasporti, il sistema museale, gli eventi culturali, sportivi, di spettacolo e altre attività di leisure; infine, troviamo tutta una serie di attività che non hanno un contenuto propriamente turistico, ma si sviluppano grazie ad esso (attività dei negozianti e degli artigiani, che ampliano il loro volume di affari in presenza di turisti). La maggior parte delle stime relative all’occupazione, riguarda il core business, escludendo l’analisi delle altre attività ad esso collegate, o inserendole in dati statistici relativi ad altri settori, rendendo ancor più difficile la creazione di una banca dati efficiente. Nel caso del turismo, a differenza di altri settori la cui produzione è riconducibile a categorie ben identificabili, ci si trova davanti ad una molteplicità di produttori, alcuni dei quali svolgono un’attività destinata esclusivamente al consumo turistico, mentre altri producono beni o servizi che hanno a che fare con il turismo solo in parte, o soltanto in alcuni periodi dell’anno. E’ dunque estremamente complicato quantificare la componente di consumo esclusivamente turistico rispetto a quella destinata alla popolazione residente. Nel turismo è rilevante anche l’elemento temporale, dal momento che in località turistiche ad alta stagionalità, quasi tutte le attività sono orientate al consumo del turista; non solo i negozi, le banche, i trasporti, l’artigianato, ma anche le aziende che servono gli alberghi, le agenzie di pubblicità, la stessa attività della Pubblica Amministrazione. Il turismo è un settore ad alta incidenza occupazionale (labour intensive) e, pertanto, un aumento della domanda turistica produce un incremento dell’occupazione. L’Italia è tra i Paesi a bassa produttività turistica; il ritardo tecnologico del settore si ripercuote sui suoi livelli di produttività, più bassi di quelli della media di altri settori economici. Le cause sono da cercare essenzialmente nella frammentarietà dell’offerta, tendenzialmente di piccole 52 dimensioni, poco integrata, carente nei servizi di rete e meno competitiva nel rapporto qualità/prezzo. Le attività riconducibili alla struttura del sistema occupazionale del turismo, sono, al momento, individuabili in tre gruppi: 1) il Core Business, inteso come l’insieme delle attività che producono prevalentemente per il turista: attività ricettive, ristorative15 e di intermediazione (agenzie di viaggio e Tour Operator); 2) le attività di leisure, attività ricreative e culturali riconducibili ai movimenti turistici: sale di spettacolo, parchi divertimento, musei, monumenti, giardini, riserve naturali e parchi, stabilimenti balneari e termali; 3) i trasporti, che costituiscono la rete di innervamento dei flussi turistici, anche se una buona parte della loro attività, è estranea alla funzione turistica. L’insieme delle attività di core business è la componente maggiore del sistema; all’interno di essa, l’attività ricettiva è quella che assorbe il maggior numero di occupati16. Le attività di leisure trovano negli stabilimenti balneari la componente di maggior consistenza, con circa il 34% del totale di occupati del gruppo. Di difficile definizione è, invece, il tasso di occupazione dell’attività museale, caratterizzata da una gamma non censibile su basi statistiche. Un dato certamente che dovrebbe far riflettere è quello secondo cui il classico “mito” del lavoro stagionale sta pian piano scomparendo: l’occupazione stagionale tende a farsi più stabile, con le basse qualifiche coperte dalla manodopera immigrata e quelle medio-alte appetibili anche per i nostri giovani. Negli ultimi anni sono cambiate le abitudini degli italiani, che vanno meno in vacanza e per periodi più brevi, causando una crisi congiunturale nel comparto turistico, che assorbe oltre un terzo dell’occupazione estiva e che ha subito, dopo l’attentato terroristico negli Stati Uniti d’America dell’11 settembre 2001, una serie continua di crisi. La mancanza di un sistema stabile di definizione delle professioni e di rilevazione dei fabbisogni impedisce la raccolta di informazioni necessaria ad una completa ed aggiornata programmazione delle politiche occupazionali e formative. Non esiste, al momento, una lista organica e completa di professioni ascrivibili al turismo, nonostante vari tentativi di stilarla ci siano stati, in anni passati, ad opera dell’Isfol stesso, del Centro Europeo per lo sviluppo della formazione professionale (CEDEFOP) e della Regione Emilia Romagna. Si è comunque soliti ripartire le professioni turistiche in tre ambiti: a) Professioni tradizionali, legate all’erogazione del core (alloggio, ristorazione, agenzie di viaggio) che costituiscono la componente maggiore delle professionalità del comparto e quelle più richieste dal mercato; b) Professionalità nuove, legate alle tipologie di turismo emergenti, che richiedono grande varietà di servizi, soprattutto culturali (basti pensare alle nuove politiche di gestione e valorizzazione delle risorse naturali, ambientali e territoriali). Si tratta di figure professionali cui si richiedono prestazioni qualitativamente molto elevate e la cui richiesta, nei prossimi anni, aumenterà proporzionalmente alla crescita dei flussi del turismo culturale e del turismo – natura; c) Professionalità di frontiera, che includono profili specifici quali, ad esempio, consulenti, osservatori di mercato, imprenditori di turismo alternativo e di nicchia. Si tratta di figure generalmente a proprio agio di fronte alla complessità e la varietà dei fenomeni e che spesso 15 Le attività di ristorazione si considerano principalmente turistiche, anche se una parte di tali attività non necessariamente è destinata al consumo turistico. 16 Bisogna considerare che lo stimato 50% delle attività ristorative è comprensibile solo se i tiene conto del fatto che, come già detto, la ristorazione può non essere rivolta esclusivamente al consumo turistico; le attività alberghiere coprono circa il 33% degli addetti; mentre le agenzie di viaggio sono da qualche anno attestate intorno al 30%. 53 arrivano al turismo da altri settori. Le professionalità di frontiera sono ancora quantitativamente marginali nel comparto, ma proprio grazie alla capacità di sapersi muovere con disinvoltura tra diversi settori, sono forse le figure che più di altre fanno al caso della diversificazione dei servizi e alla trasversalità del turismo. Un’ulteriore suddivisione, che di solito si effettua quando si parla di professioni nel turismo, riguarda l’orientamento di attività, distinguendo tra indirizzo al prodotto, indirizzo all’impresa e indirizzo al sistema. Gli operatori di prodotto si occupano, nello specifico, di erogare il servizio turistico; è da intendersi specialista di prodotto il cuoco che cura la buona riuscita di suoi piatti, il cameriere professionista che offre qualità nel servizio, il receptionist attento all’accoglienza dei propri clienti, ma anche il curatore di mostre che si preoccupa della riuscita di un evento, ecc. I manager d’impresa sono coloro che presiedono ai processi produttivi e si preoccupano che, nel suo complesso, il sistema-azienda abbia un buon funzionamento. Infine, i manager di sistema sono coloro che hanno l’arduo compito di gestire i fenomeni che favoriscono lo sviluppo del turismo; essi si occupano più di facilitare rapporti che non di organizzare eventi; sono garanti di standard di qualità affidabili e delegano ai manager di prodotto e di impresa il compito di realizzare l’eccellenza dei servizi fruibili. Abbiamo già evidenziato quanto la complessità del fenomeno turistico, da un punto di vista economico, culturale e sociale, renda difficoltoso il compito di definire le aree relazionali, esperienziali ed operative in esso coinvolte, senza che si corra il rischio di trascurarne aspetti determinanti che potrebbero dare origine a consistenti opportunità occupazionali. Da un punto di vista concettuale, dunque, l’idea del turismo inteso come sistema si è sviluppata nel tentativo di considerare l’insieme di fattori e persone che contribuiscono ad alimentare l’offerta turistica in funzione del soddisfacimento della domanda; non importa più così tanto – dopo svariati decenni di devastante “turismo di massa” e la più recente tendenza ad articolare il fenomeno in tipologie diversificate di fruizione turistica – sapere se viaggiare sia, o meno, un bisogno primario, oppure stabilire se il turismo sia da considerare esclusivamente come una mera conseguenza di reazione agli stimoli che lo alimentano. La verità è che il fenomeno è in continua evoluzione e sembra ben tollerare le improvvise accelerazioni provocate dall’ingresso di “nuovi prodotti”, i cosiddetti “turismo alternativi”, che induce ad elaborare segmenti di utenza sempre nuovi. Dietro alla scelta di un’esperienza di viaggio compiuta dal turista, si muove il mondo delle professioni del turismo, un mondo di attività, persone, relazioni, molte delle quali esplicite e facilmente individuabili, ma molte altre delle quali, assai meno scontate, che costituiscono le relazioni professionali in back-stage del sistema. Negli ultimi decenni, l’esperienza turistica è divenuta una consuetudine accessibile alla maggior parte delle persone e, con essa, è diventata consueta anche la tendenza ad analizzare il fenomeno turistico dal punto di vista del viaggiatore; sono state sviluppate ricerche sulle destinazioni maggiormente richieste, sui flussi nazionali e internazionali, sulle presenze registrate dalle strutture ricettive, sui comportamenti di acquisto del viaggio, sulle motivazioni che inducono all’ acquisto e su molto altro ancora connesso con la figura del “turista”, enfatizzando a volte informazioni irrilevanti ai fini dell’ottimizzazione del sistema o anche, al contrario, banalizzandone aspetti importanti. L’analisi dell’esperienza turistica dal punto di vista di coloro che la rendono fattibile è, invece, tutt’altro che banale. 54 La scelta di viaggio nasce quando motivazioni assolutamente soggettive dell’individuo (“push factors”) lo spingono a cercare un luogo diverso da quello della sua abituale residenza, oppure quando un luogo riesce, grazie a particolari caratteristiche (“pull factors”), ad attrarlo. Da un punto di vista delle professioni, se è vero, come è vero, che è il viaggio a mettere in moto il sistema turistico, è anche vero che la sola condizione del viaggio non è sufficiente a sostenerlo, ad alimentarlo e ad ottimizzarlo; il sistema turistico globale ha bisogno necessariamente di una serie di relazioni funzionali tra viaggiatore, canali commerciali e distributivi, mezzi di trasporto e relative infrastrutture, regioni di origine, transito e destinazione, popolazioni ospitanti e di tutti gli operatori che a vario titolo concorrono al buon funzionamento del “viaggiare”. La destinazione, in quanto luogo ricettivo, è l’elemento chiave del sistema turistico e rappresenta il punto focale dell’attività turistica e dello studio del turismo, essendo un punto di osservazione adeguato per l’analisi del movimento turistico, del suo impatto e della sua rilevanza. Le destinazioni e la loro immagine attraggono i turisti, motivano la visita e, di conseguenza, danno vigore all’intero sistema dell’offerta, dal momento che tutte le destinazioni hanno in comune alcune caratteristiche: - esse possono essere considerate come “amalgami” composti da attrazioni (cioè la causa prima che motiva la visita; ad esempio il bel mare), attrattive (confort e servizi), accessibilità e infrastrutture; - tutte devono essere considerate interessanti e meritevoli degli investimenti di tempo e denaro spesi per visitarla e, in questo senso, possiamo considerare le destinazioni come “valori culturali”; - le destinazioni sono deperibili (non c’è la possibilità di “immagazzinare” posti letto o biglietti per spettacoli nella stagione morta per poi venderli in alta stagione), nel senso che il turismo si consuma dove si produce ed è, per sua essenza, attratto da parti del mondo deteriorabili che possono essere sensibili alla pressione turistica e subire alterazioni; ciò è aggravato dal fatto che tale pressione si concentra spesso in determinate stagioni; - esse hanno un uso multiplo, nel senso che molte delle strutture in esse presenti vengono utilizzate sia dai residenti sia dai visitatori. Alla luce di quanto appena esposto, tutte le professioni afferenti alla gestione dei patrimoni artistici, culturali e naturali, all’ offerta di servizi diversificati e alla manutenzione di infrastrutture di vario genere partecipano al sistema turistico in quanto concorrono a determinarne l’offerta. Riconducibili all’industria turistica sono, invece, tutte quelle occupazioni che facilitano l’attivazione delle dinamiche di accoglienza (accomodation); si tratta generalmente di professioni che traducono il viaggio e le risorse in un’economia coerente e mirano alla soddisfazione della domanda. A questo comparto, dunque, appartengono la maggior parte delle professioni ufficialmente riconosciute e che costituiscono lo zoccolo duro delle professioni del turismo, in virtù della loro numerosità, del loro essere indispensabili per il sistema turistico e, soprattutto, perché hanno avuto il tempo necessario per essere collaudate e raggiungere buoni livelli di “specializzazione”17. Alla filiera dell’intermediazione (o distribuzione) è affidato il compito di coordinare i vari comparti del sistema turistico e ad essa sono riconducibili tutte le professioni che producono e/o commercializzano, prodotti che potremmo definire semilavorati (ad esempio: l’Agenzia di Viaggi che vende un pacchetto turistico dal catalogo di un Tour Operator). 17 Va comunque sottolineato che anche i comparti del ricettivo e della ristorazione hanno un uso multiplo e vengono attivati sia dalla domanda esterna (turisti) sia da quella interna, costituita dalla cosiddetta “popolazione diurna” delle località, ovvero dagli utenti di servizi ed amministrazioni (ad esempio, cibo da asporto per lavoratori o studenti pendolari). 55 Le attività svolte da tali professioni vanno dalla vendita pura di singoli servizi (biglietti aerei, pernottamenti in hotel ecc…) alla vendita di componenti essenziali per la definizione di un pacchetto turistico, ma anche dalla promozione alla mediazione informativa di riviste specializzate e network informatici, strumenti caratterizzati da un’elevata capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo. Una delle aree di maggiore compromissione tra popolazioni ospitanti e turisti, riguarda quelle professioni connesse con la produzione di componenti di servizio di quei servizi, cioè, dei quali l’ospite usufruisce in maniera consistente durante la sua permanenza, ma che non sono forniti a suo utilizzo esclusivo. La numerosità e il livello qualitativo di tali figure professionali dipendono, molto spesso, dalle criticità insite nel fenomeno turistico: maggiore o minore stagionalità nella destinazione, alto grado di imprevedibilità della domanda o, ancora, le politiche territoriali implementate nelle regioni di destinazione a favore dell’incontro tra turisti e residenti. Va evidenziato che i fruitori percepiscono questa parte di offerta come una naturale componente del “fare turismo” e non la considerano come un elemento disgiunto dall’offerta globale; per gli “addetti ai lavori”, invece, coloro che operano professionalmente nel settore e che si pongono l’obiettivo di giungere ad un risultato unico, l’integrazione tra la produzione di componenti di servizio e il sistema nella sua interezza, spesso, non è così scontata. Questa frequente ed errata percezione della complessità del fenomeno turistico, da parte di molti operatori, costituisce un limite per il buon funzionamento del sistema poiché genera mancanza di coordinamento tra gli attori e carenza di sinergia e comunicazione tra le parti, che vengono vissute dal visitatore e fanno sì che egli proietti una percezione negativa sull’intero prodottodestinazione. Parlare in termini di sistema turistico implica l’esatta consapevolezza dei ruoli assegnati a ciascun attore e dell’apporto che egli può fornire al sistema nella sua interezza; ciò richiede un forte orientamento al sistema che si basi sul superamento delle logiche di sviluppo connesse con la singola impresa o con il singolo ruolo, orientamento del quale i programmi di formazione professionale devono farsi portavoce nel preparare gli attori del futuro. 6. Le figure professionali emergenti Esiste un’ampia gamma di figure professionali, che potremmo definire “primizie”, sempre meno rare, e per le quali ancora non esiste una vera e propria letteratura di riferimento. Tuttavia, tali figure sembrano essere le più promettenti, da un punto di vista di qualità del sistema, dal momento che sono caratterizzate da un alto grado di adattabilità alla complessità del sistema stesso e “si inventano” nel tentativo di ottimizzarne il funzionamento globale, apportando nuovi impulsi e energie in grado di rivitalizzare spesso anche le componenti più tradizionali. L’orizzonte di questa tipologia di professioni è molto ampio, poiché la costante evoluzione – in termini di espansione e diversificazione - della domanda turistica tende a conferire concretezza alle opportunità di sviluppo di nuove attrattive e di produzione di servizi ospitali di eccellenza. Tra le figure professionali emergenti troviamo, ad esempio: • Destination Manager: focalizza la sua attività su progetti ed iniziative di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio naturale, paesaggistico e culturale della destinazione. E’ una figura assai richiesta anche dai T.O. per cercare nuove destinazioni appetibili per il mercato; 56 • Gestore di nuove forme di ricettività: imprenditore dedito all’attività di B.& B., agriturismo e self-catering; • Programmatore ed organizzatore di eventi che coniuga la creatività allo spirito organizzativo. Pur non essendo una figura professionale del tutto nuova, è certo che nei prossimi anni, nella logica di differenziazione dell’offerta, occorrerà sempre più orientarsi verso attrazioni legate al territorio, alla natura e alla cultura, piuttosto che al mero divertimento, nel senso più frivolo del termine; • Ecomanager, all’interno di Parchi Nazionali, Regionali e nelle riserve naturali; si occupa di orientare gli Enti verso modelli di turismo sostenibile, mirati alla valorizzazione delle potenzialità inespresse – anche a livello occupazionale – delle aree protette; • Facilitatore dei processi di qualità, che controlla e indirizza le attività formative ed operative al fine di migliorare la performance del personale e la gestione di impresa; • Consulente turistico per le imprese e le Pubbliche Amministrazioni, sulla scia del già collaudato consulente aziendale, egli è però uno specialista nel turismo in termini di organizzazione, ricerca e formazione; • Formatore per il turismo che coniuga la tradizionale vocazione educativa con la competenza in un settore in costante cambiamento; • Market Observer: si dedica prevalentemente all’osservazione costante, valutativa ed operativa della domanda e dell’offerta turistica, prevedendo anche i potenziali andamenti. La richiesta di questa tipologia di professionalità proviene essenzialmente da T.O., catene di alberghi e ristoranti, ma ultimamente si assiste al ricorso al Market Observer anche da parte di quelle pubbliche amministrazioni di regioni, province e comuni che cercano il rilancio turistico. • Esperto di Customer Relationship Management: parte dal presupposto che “il cliente è per sempre” e che desideri che ci si occupi di lui quasi a livello personale, perché sa di essere diventato il centro dell’attenzione. Si occupa non tanto di trovare nuovi clienti, quanto piuttosto di mantenere la clientela esistente. Un’ ulteriore vasta gamma di professioni emergenti ruota attorno al mondo della green economy18. L’Occupational Information Network19 in una recente indagine ha esaminato l’impatto delle attività di green economy e delle tecnologie sui requisiti professionali e lo sviluppo di professioni emergenti in questo settore. I risultati della ricerca hanno condotto all’identificazione dei settori di green economy, alla definizione dell’aumento di domanda occupazionale nei vari settori e alle competenze richieste, oltre che all’identificazione di una serie di “professioni verdi” emergenti. Al fine di determinare in maniera efficiente le potenziali implicazioni occupazionali delle tecnologie verdi, le attività di lavoro sono state classificate in diversi settori di economia verde: 18 Al giorno d'oggi si definisce economia verde o, più propriamente, economia ecologica, un tipo di “analisi econometria” che, oltre ai benefici economici (aumento del Prodotto Interno Lordo), prende in considerazione i danni ambientali (che spesso diminuiscono anche il PIL, dal momento che riducono le rese della pesca, dell'agricoltura e la qualità dell'ambiente, danneggiando pesantemente anche il turismo) prodotti dall'estrazione delle materie prime, dal loro trasporto e trasformazione in energia, della loro manifattura in prodotti finiti ed infine del possibile riciclaggio o danno ambientale che produce la loro eliminazione definitiva. Questa analisi propone misure economiche, legislative, tecnologiche e di educazione pubblica in grado di ridurre il consumo di energia e di risorse naturali (acqua, cibo, combustibili, metalli, ecc.); diminuire la dipendenza dall'estero; abbattere le emissioni di gas serra; ridurre l'inquinamento locale e globale ed infine cercare di istituire un' economia sostenibile per molti millenni, servendosi prevalentemente di risorse rinnovabili (come le biomasse, l'eolico, il solare, l'energia idraulica) e procedendo al più profondo riciclaggio di ogni tipo di scarto domestico o industriale. 19 O*Net Resource Center è la fonte nazionale primaria di dati sull’occupazione sponsorizzata del Dipartimento del Lavoro statunitense, il data base della quale contiene dati su centinaia di descrittori delle occupazioni sia standard sia specifici. Per approfondimenti consultare il sito: www.onetcenter.org 57 Produzione di energia rinnovabile: tale sezione comprende le attività connesse allo sviluppo e all’utilizzo di fonti di energia alternativa (solare, eolica, geotermica e da biomasse). Tale settore include anche le fonti tradizionali non rinnovabili di energia in fase di cambiamenti significativi (petrolio, carbone, gas e nucleare); Trasporti: in questa sezione sono comprese quelle attività implementate per aumentare l’efficienza e/o ridurre l’impatto ambientale dei diversi mezzi di trasporto compreso l’autotrasporto, il transito di massa e il trasporto merci su ferrovia; Efficienza energetica: comprende quelle attività finalizzate a rispondere più efficientemente alla domanda energetica, costruendo soprattutto “reti intelligenti” nei territori; Edilizia verde: tale sezione comprende le attività connesse alla costruzione di nuovi edifici sulla base di progetti ad alta tutela ambientale e paesaggistica, alla ristrutturazione di edifici residenziali e commerciali poco impattanti Energy trading: tale sezione comprende le attività connesse ai servizi finanziari relativi alla compravendita di energia come bene economico; Cattura e stoccaggio del carbonio: in questa sezione sono comprese le attività relative alla cattura e allo stoccaggio di energia e/o all’emissione di carbonio, così come le nuove tecnologie correlate alle centrali elettriche; Ricerca, design e servizi di consulenza: questo settore ingloba “posti di lavoro indiretti” per l’economia verde che comprendono attività quali la consulenza energetica o di ricerca e altri servizi per le imprese; Protezione ambientale: tale sezione comprende le attività relative alla bonifica ambientale, all’adattamento al cambiamento climatico e volte a garantire una migliore qualità dell’aria; Agricoltura e foreste: in questa sezione sono comprese le attività connesse all’ utilizzo di pesticidi naturali, oltre che alla gestione efficiente del territorio, all’allevamento e all’idrocoltura; Produzione: in questa sezione sono comprese quelle attività connesse alla produzione industriale di tecnologie verdi e alla loro diffusione, nonché i processi efficienti di produzione energetica; Riciclo e riduzione dei rifiuti: comprende le attività relative alla gestione dei rifiuti solidi e delle acque reflue, al trattamento, alla riduzione e alla lavorazione dei materiali riciclabili; Amministrazione governativa e regolamentazione: tale sezione comprende le attività delle organizzazioni pubbliche e private impegnate nella conservazione e nella prevenzione dell’inquinamento; tali attività includono anche il controllo sull’applicazione delle regolamentazioni, l ‘implementazione di processi di policy e la sensibilizzazione verso modelli di patrocinio per la sostenibilità. Dal momento che le attività di green economy e le tecnologie possono avere effetti diversi sulle diverse occupazioni, l’indagine O*Net si è concentrata sulle “occupazioni verdi”, delineando tre categorie generali del lavoro, ciascuna delle quali descrive le diverse conseguenze delle attività di green economy e delle tecnologie sulle prestazioni professionali. Tali categorie risultano essere: 58 Green Increased Demand Occupations: l’impatto delle tecnologie e delle attività relative alla green economy costituisce un aumento della domanda di impiego per professionalità già esistenti. Tuttavia, tale impatto non comporta significative modifiche nel lavoro e nei requisiti dei lavoratori in tali attività. Il contesto lavorativo può cambiare, ma le mansioni richieste restano le stesse. Tra le professioni incluse in questa categoria troviamo: il Rappresentante del Servizio Clienti – cod. O*Net-SOC 2009: 43-4.051,00 - (che interagisce con il cliente per fornire informazioni su prodotti e servizi e per gestire e risolvere i reclami) e il Consulente di Agriturismo e Management Home – cod. O*Net-SOC 2009: 25-9021,00 - il quale informa, istruisce e fa consulenza a coloro i quali gestiscono attività agricole o agrituristiche in materia di procedure, certificazioni, tecniche di sviluppo e vendita del prodotto; Green Enhanced Skills Occupations: l’impatto delle tecnologie e delle attività relative alla green economy comporta un cambiamento significativo del lavoro e dei requisiti dei lavoratori. Tale impatto non necessariamente porta ad un aumento della domanda di lavoro. Gli scopi essenziali della professione restano gli stessi, ma le mansioni, le competenze richieste e gli elementi esterni, quali ad esempio le credenziali, sono modificati. Tra le professioni incluse in questa categoria troviamo: il Marketing Manager – cod. O*Net-SOC 2009: 11-2021,00 - che opera al fine di determinare la domanda di prodotti e servizi offerti da un’impresa e dai suoi concorrenti e di identificare i potenziali clienti; questa figura sviluppa strategie di prezzo con l’obiettivo di massimizzare i profitti aziendali o le quote di mercato, garantendo al contempo la soddisfazione del cliente; essa sovrintende, inoltre, al monitoraggio delle tendenze di acquisto per prevedere nuovi prodotti e servizi. Fra le altre figure professionali comprese in questa categoria citiamo: lo Specialista di Relazioni con il Pubblico - cod. O*Net-SOC 2009: 27-3.031,00 -, il Formatore e Specialista dello Sviluppo - cod. O*Net-SOC 2009: 13-1073,00 -, il Manager dei Trasporti - cod. O*Net-SOC 2009: 11-3.071,01 -; Green New and Emerging Occupations: l’impatto delle tecnologie e delle attività relative alla green economy è sufficientemente rilevante da creare la necessità di figure professionali esclusive con requisiti specifici rispetto alla tassonomia O*Net già esistente. Tali nuove professioni possono essere interamente nuove o derivare da profili professionali già riconosciuti. Tra le professioni incluse in questa categoria troviamo: il Chief Sustainability Officer – cod. O*Net-SOC 2009: 11-1.011,03 – il quale comunica e si relaziona con i dirigenti, gli azionisti, i clienti e i dipendenti per affrontare le questioni relative alla sostenibilità e per emanare, controllare e diffondere una strategia aziendale sostenibile; l’ Analista di Cambiamenti Climatici – cod. O*Net-SOC 2009: 11-1.011,03 – che, oltre a sviluppare politiche di ricerca e analisi relativi ai cambiamenti climatici, assume anche il compito di formulare raccomandazioni per interventi legislativi, per campagne di sensibilizzazione e di raccolta fondi; il Compliance Manager – cod. O*Net-SOC 2009: 11-9199,02 – che ha il compito di coordinare le attività di un’organizzazione al fine di garantire il rispetto delle norme etiche e comportamentali; lo Specialista di Certificazione Ambientale – cod. O*Net-SOC 2009: non disponibile – che funge da guida per clienti quali i produttori, le aziende biologiche e anche le compagnie di legname durante i processi di “certificazione verde”; l’Economista Ambientale – cod. O*Net-SOC 2009: 19-3.011,01 – il quale valuta e quantifica i benefici ambientali delle alternative, come l’uso di risorse energetiche rinnovabili; il Green Marketing Manager – cod. O*Net-SOC 2009: 112011,01 – che si preoccupa di creare e applicare metodi di commercializzazione di prodotti e servizi verdi (ivi incluso il commercio equo e solidale); lo Specialista di Gestione del Rischio – cod. O*Net-SOC 2009: 13-2099,02 – il quale analizza e prende decisioni su questioni di gestione 59 del rischio attraverso l’individuazione, la misurazione e la risoluzione dei rischi operativi e aziendali di un’organizzazione. Le nuove opportunità di lavoro e la nascita di nuove professionalità derivate dagli investimenti nella green economy sono, inoltre, evidenziate da una ricerca dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) la quale conferma l’incremento dei cosiddetti green jobs, anche sul fronte dell’offerta formativa. Dal 1993 al 2008, infatti, il numero di occupati nelle professioni ecologiche è aumentato del 41%, passando da 263.900 a 372.100 unità con un contratto che, nel 73,5% dei casi, risulta essere a tempo indeterminato. Con questi numeri, la green economy si candida seriamente ad essere la nuova frontiera della crescita economica del XXI secolo. Tali prospettive fanno lievitare anche i master ambientali (passati da 60 corsi attivi nell’ anno accademico 1999 – 2000 ai circa 300 nell’ anno accademico 2007 – 2008, ma destinati a crescere ulteriormente) che hanno garantito lavoro all’80,6% degli intervistati entro l’anno successivo al loro completamento. Secondo circa il 58% del campione, il lavoro trovato corrisponde alle aspirazioni professionali e il 68% degli occupati ha trovato una collocazione lavorativa conforme al livello del titolo di studio acquisito. Di questi, il 31% svolge un’attività nell’ambito delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione; il 31,7% svolge mansioni di tipo tecnico, mentre il 5,2% è collocato nelle posizioni di legislatore, dirigente o imprenditore. I master ambientali di II livello procedono ancora più speditamente, con una percentuale annua di occupati dell’85%. Il tallone di Achille del sistema dei master formativi è rappresentato dal fatto che tali corsi sono organizzati quasi esclusivamente dalle università e sembra mancare un raccordo con il territorio che limita le opportunità di creare figure professionali innovative in grado di rispondere tempestivamente alla velocità di espansione dei mercati cosiddetti “verdi”. 7. La formazione della cultura dell’ospitalità Si è già sottolineato l’enorme potenziale, in termini di generazione di opportunità di occupazione, di un sistema turistico fondato sulla “cultura dell’ospitalità”; ciò vale tanto per i Paesi ad economia più avanzata, quanto per quelli “in via di sviluppo”, come dimostra la costante attenzione dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (WTO) nei confronti delle risorse umane e dei loro percorsi educativi, o verso le procedure di standardizzazione, a livello internazionale, di figure professionali, dei loro requisiti e dei contratti. La previsione del turismo come traino dell’economia mondiale permette di ipotizzare un’enorme crescita dei posti di lavoro disponibili in futuro in questo ambito e che, per vincere le sfide imposte dalle dinamiche della “competizione” fra territori, il sistema turistico globale sarà obbligato ad esigere un alto livello di professionalità da parte degli addetti e di tutti gli attori in esso coinvolti. Nell’ attuale allarmante scenario di disoccupazione crescente, e di profonda ridefinizione delle dinamiche e della struttura del mercato del lavoro, il turismo sembra rappresentare l’“oasi” di un impiego, per quanto spesso stagionale e occasionale. Tuttavia, in termini qualitativi, il sistema sembra risentire di una carenza strutturale che spesso coincide con l’insoddisfazione delle risorse umane che in esso operano, non sempre gratificate dal cosiddetto “posto sicuro”, e che associano la propria precarietà ad una bassa qualità della vita. 60 Dall’attività permanente del WTO emergono alcune richieste di base della formazione nell’ospitalità20: • Un’educazione multiculturale (e, dunque, multilinguistica); • Un’educazione tecnologica; • Una cultura client-oriented, acquisibile attraverso programmi di formazione permanente; • L’obiettivo di “trattenere” presso le aziende i lavoratori qualificati. “La sfida coinvolge quindi tutte le parti sociali e chiama in prima linea educatori e formatori nel possibile disorientamento che accompagna le innovazioni”21. La maggiore area di possibilità di occupazione, prevista nei prossimi anni, è costituita dai sistemi territoriali, intesi come esperienze di gestione integrata dei servizi culturali legati ad un territorio. Un sistema turistico territoriale efficace è in grado di collegare tra loro realtà più o meno omogenee (musei di diverse specializzazioni, aree naturali, parchi archeologici) in un’unica struttura organizzativa, che generi varie forme di indotto, attivando circuiti turistici in grado di far emergere l’identità di singole realtà, attraverso un’offerta collettiva. E’ evidente la necessità di una cultura turistica che esca fuori dalla logica dell’interesse del singolo, per orientarsi verso forme di sinergia che vedano la collaborazione e l’entusiasmo di tutti gli addetti, siano essi pubblici o privati. Le attività legate alla conoscenza ed alla valorizzazione del patrimonio culturale (inteso come cultura del luogo, antropologia del territorio, modus vivendi ma anche come specificità di un territorio in termini di bellezze naturali, gastronomia, tradizioni, folklore ecc.), ci permettono di pensare ad uno sviluppo praticamente illimitato dell’offerta e, di conseguenza, alla crescita dell’occupazione che deve, per questo, essere qualificata e qualificante affinché possa costituire quel valore aggiunto in grado di sostenere e rigenerare la domanda di cultura. 8. I sistemi di classificazione delle professioni 8.1 Cos’è una classificazione delle professioni Una classificazione delle occupazioni è uno strumento utile per organizzare tutte le possibili occupazioni all’interno di un’azienda, un’industria o un Paese, in una serie di gruppi definiti con chiarezza secondo gli incarichi e i doveri relativi al lavoro di riferimento. Essa normalmente è costituita da due componenti: il sistema di classificazione stesso, che fornisce le linee-guida su come i lavori debbano essere classificati all’interno di gruppi quanto più dettagliati della classificazione e come tali gruppi debbano essere ulteriormente compresi in gruppi più ampi. Questa componente include i titoli e i codici relativi ad ogni singola occupazione e rappresenta un valore impostato per la variabile “occupazione”, la quale descrive i diversi incarichi e i diversi doveri delle varie professioni; una componente descrittiva che di solito è composta dalle descrizioni sia dei compiti e dei doveri relativi ad un’occupazione, sia di altri aspetti appartenenti a ciascuno dei gruppi definiti, includendo i beni e i servizi prodotti, il grado e il campo di competenza, le restrizioni di accesso al gruppo ecc… Queste descrizioni possono essere considerate come un dizionario delle occupazioni. Isabella Scaramuzzi in: R. Cappellari, A. Comacchio “I lavori nel turismo – Professioni, competenze, opportunità”pag. 11; F. Angeli, 2000. 21 Ibidem 20 61 Una classificazione professionale può essere paragonata al sistema di mappe stradali di un Paese dove, il massimo livello di aggregazione corrisponde ad una mappa stradale in piccola scala riportante le principali strade ed autostrade; il livello successivo corrisponde ad una serie di mappe in scala più grande, ad esempio ciascuna delle maggiori regioni, che mostrano le strade provinciali e locali, ecc… Al livello maggiormente dettagliato troviamo le mappe tecniche, usate dagli ingegneri comunali per pianificare marciapiedi, posizionamento dei semafori ecc… Tali mappe tecniche dettagliate possono essere paragonate alle descrizioni delle occupazioni, che sono usate dalle imprese per la gestione del personale e dei sistemi di retribuzione, attività che, in molti Paesi, non sono a carico delle autorità statali, eccezion fatta per la gestione degli impiegati del settore pubblico. Qualsiasi classificazione delle occupazioni si basa su alcuni principi fondamentali quali: a) le unità di classificazione; b) le variabili di classificazione; c) i criteri di similarità. In merito al primo principio, generalmente le classificazioni delle professioni suddividono i lavori in: occupazioni del passato, del presente o del futuro; lavoro dipendente; lavoro autonomo; occupazioni disponibili per le quali non si trovano lavoratori; lavori ripartiti su più soggetti (job sharing). Per lavoro dipendente si intende quella occupazione per lo svolgimento della quale il lavoratore ha un contratto di lavoro esplicito (scritto o orale) o implicito che gli assicura una remunerazione di base non direttamente connessa con l’entrata economica dell’unità per la quale egli lavora (questa unità può essere una società, un’associazione senza scopo di lucro, un ente governativo o una famiglia). La totalità, o anche solo una parte, degli attrezzi, dei beni strumentali, dei sistemi informativi e/o dei locali utilizzati dal lavoratore possono essere proprietà di altri ed egli può lavorare sotto diretta sorveglianza o essere tenuto a rispettare le severe direttive stabilite dal proprietario o da persone da questo ultimo delegate (i lavoratori dipendenti ricevono generalmente un salario ma possono essere retribuiti anche per commissioni sulle vendite e bonus, a cottimo o essere pagati in natura sotto forma di vitto, alloggio o formazione). I lavori autonomi sono quelle occupazioni per le quali la remunerazione è direttamente dipendente dai benefici (o dai benefici potenziali) provenienti dai beni prodotti e dai servizi resi (laddove l’auto-consumo è considerato come facente parte dei benefici). I titolari prendono le decisioni operative relative all’azienda, o le delegano pur conservando la propria responsabilità circa il benessere dell’impresa (in questo contesto il termine “impresa” ingloba le attività di una sola persona). I lavori che implicano lo stesso insieme di compiti e doveri sono raggruppati nelle professioni; esse sono articolate all’interno di gruppi professionali definiti in modo preciso o generale sulla base della similarità del tipo di lavoro svolto, vale a dire della similarità dei compiti e delle competenze necessari. Le unità descritte in un “dizionario delle professioni” sono professioni e gruppi professionali. (A livello aziendale, il regime di salari e del trattamento economico può descrivere i lavori individuali). Quando le occupazioni sono l’oggetto primario di una classificazione, un lavoratore non può essere classificato sulla base di un’occupazione o di un gruppo professionale se non in funzione della sua relazione con quella occupazione. Può trattarsi di un lavoro svolto in passato, di un occupazione corrente o di un lavoro del quale si è alla ricerca. In tale contesto “avere un lavoro” è da intendersi in senso ampio, così che la classificazione possa essere applicabile a tutte le situazioni 62 d’impiego: impiegati, lavoratori autonomi e i membri di una famiglia che contribuiscono all’esercizio di una professione, vale a dire tutte le persone che lavorano per una paga, un profitto o un guadagno familiare. Da ciò deriva che, a seconda delle circostanze, un lavoratore può essere classificato secondo diverse professioni se egli svolge (ha svolto o si aspetta di svolgere) più di un lavoro. Gli utenti che necessitano di lavorare con una sola professione per ogni persona devono formulare le regole prioritarie per selezionare un lavoro che deve essere classificato. Tali regole sono di solito formulate in funzione del maggior numero di ore lavorate o redditi percepiti durante un periodo di riferimento. In merito al secondo principio, le variabili di una classificazione delle professioni riguardano generalmente il tipo di lavoro svolto o i compiti e i doveri assolti. Il terzo principio, invece, riguarda i criteri di similarità, fondamentali per una classificazione delle professioni. Questi criteri, infatti, determinano il quadro concettuale della composizione e del posizionamento delle categorie e fungono da guida sul modo in cui le professioni nuove, o mancanti, devono essere classificate, sul modo di stabilire gli eventuali punti di somiglianza degli attributi principali e sul come organizzare le professioni nella classificazione. Questi criteri devono essere riferiti agli attributi noti di una professione e devono essere definiti in modo chiaro ed esaustivo e misurati secondo una metodologia condivisa. L’ideale sarebbe che essi fossero determinati dall’utilizzo che ne viene fatto nella pratica e, dunque, per essere utili al piazzamento di posti di lavoro, al bilancio previsionale delle risorse umane, alla pianificazione dell’educazione, la “competenza” (skill) ne dovrebbe costituire il criterio primario; tuttavia, se la classificazione deve risultare utile per l’analisi della stratificazione sociale o della mobilità, allora il prestigio professionale sarebbe un criterio più appropriato. I criteri di similarità dovrebbero rispondere ai bisogni di tutti gli utenti. Sfortunatamente, utenti diversi hanno esigenze diverse per quanto concerne non solo un livello appropriato di aggregazione ma anche appropriati criteri di similarità. Per alcuni utenti (ad esempio, le compagnie assicurative), criteri importanti potrebbero essere rappresentati dal fatto se il lavoro viene svolto all’interno o all’aperto oppure se richiede dei viaggi o meno. Per altri utenti, può essere più importante lo status sociale del lavoro, o potrebbero voler focalizzare la propria attenzione sugli strumenti di lavoro, i beni e i servizi prodotti o sul fatto che il lavoro richieda o meno un contatto diretto con i clienti e i consumatori. Decidendo i criteri di somiglianza da utilizzare nella classificazione delle professioni, coloro che la realizzano, implicitamente o esplicitamente, danno priorità ai bisogni di alcuni utenti rispetto ad altri. Le implicazioni di queste decisioni, ai fini di un utilizzo globale di una qualsiasi classificazione, devono essere di conseguenza attentamente considerate. 8.2 L’utilizzo di una classificazione delle professioni e gli utilizzatori dei dati sulle occupazioni. Le classificazioni nazionali delle professioni e i dizionari sono in genere concepiti in modo tale da assecondare scopi diversi. Sebbene le dettagliate descrizioni delle professioni e la struttura della classificazione debbano essere considerate come due parti di un intero integrato, le diverse aeree di utenza hanno livelli diversi di interesse nei confronti dei vari elementi: 63 le descrizioni professionali dettagliate sono utilizzate da coloro i quali necessitano di conoscere i compiti, i doveri e le condizioni di lavoro delle occupazioni. Si tratta principalmente di un’utenza client–oriented, il cui approccio è orientato verso i bisogni del cliente, (ad esempio i responsabili del collocamento, della formazione e l’orientamento professionali, della gestione delle migrazioni). Le descrizioni delle professioni dovrebbero essere concepite principalmente allo scopo di incontrare le esigenze di tali utenti, ma anche includere gli elementi descrittivi necessari per l’applicazione di idonei sistemi di aggregazione; la struttura della classificazione ovvero, il raggruppare dettagliate occupazioni in gruppi progressivamente più aggregati dovrebbe essere concepito principalmente per facilitare la ripartizione di lavori e persone in gruppi, ad esempio per stabilire una correlazione tra la domanda di occupazione e le occupazioni disponibili, o per analisi e descrizioni statistiche del mercato del lavoro e della struttura sociale ed economica della società. A seconda della finalità dello studio, la variabile dell’occupazione può essere considerata come la variabile principale dell’analisi empirica, o può essere utilizzata come variabile di sfondo, nel qual caso essa può essere utilizzata come una variabile proxy22 per altre variabili quali gruppi socio-economici p condizioni di lavoro, oppure può essere utilizzata come elemento per la costruzione di altre variabili, quali la classe sociale o lo status socio-economico. La risoluzione necessaria affinché l’insieme di valori soddisfi i diversi contesti d’uso, cioè il grado di dettaglio della classificazione, varierà notevolmente tra la distinzione tra due soli gruppi (ad esempio lavori manuali e lavori intellettuali) e le oltre 10.000 occupazioni descritte nel Dizionario delle Professioni degli Stati Uniti (U.S. Dictionary of Occupational Titles). Gli utilizzatori di dati sulle occupazioni sono principalmente: i servizi statistici che selezionano/classificano i lavori e le persone in occupazioni, per produrre statistiche sulla distribuzione di lavoratori e disoccupati, sui regimi di retribuzione, sulle condizioni lavorative, sui danni sul lavoro, ecc… le autorità di migrazione che selezionano le persone per prendere decisioni circa i permessi di lavoro e i visti; gli uffici per l’impiego che selezionano persone da collocare e lavorano per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; i manager di impresa o di organizzazioni che selezionano lavori e persone per pianificare e decidere il sistema retributivo e altre politiche sul personale, e monitorano le condizioni lavorative a livello di azienda e nel contesto dell’industria e dei mercati del lavoro di riferimento; i consulenti degli uffici di collocamento che utilizzano i dati sulle occupazioni per orientare i giovani in uscita dai percorsi di istruzione e tutti coloro i quali sono alla ricerca di un’occupazione, circa le tipologie di lavoro, i requisiti formativi necessari, le prospettive di carriera, le condizioni di lavoro, ecc… di diverse tipologie di professioni; gli specialisti della formazione professionale che utilizzano i dati sull’occupazione come base di pianificazione e progettazione dei propri programmi formativi; i legislatori e gli amministratori del settore pubblico che utilizzano le statistiche sulle professioni a supporto della formulazione e dell’implementazione di politiche economiche e sociali e per monitorare il progresso relativo alla loro applicazione, ivi incluse quelle riguardanti la pianificazione di manodopera e la pianificazione di educazione e formazione professionale; i manager d’impresa o di organizzazioni che usano i dati statistici per selezionare lavori e persone che pianifichino e prendano decisioni sui sistemi di retribuzione e su altre politiche 22 In statistica, una variabile proxy è una variabile che di per sé può non essere di grande interesse, ma dalla quale variabili di interesse possono essere ottenute. Perché ciò avvenga, la variabile proxy deve avere una stretta correlazione, non necessariamente lineare e positiva, con i valori dedotti. 64 riguardanti il personale e che monitorino le condizioni lavorative a livello di singola azienda e nel contesto generale dell’industria e dei mercati del lavoro di riferimento; gli psicologi che studiano le relazioni tra le professioni e le personalità e gli interessi dei lavoratori; gli epidemiologisti che usano le professioni nelle loro ricerche sulle percentuali di casi di malattie e morti connesse con il lavoro; i sociologi che usano le professioni come una variabile importante nello studio delle differenze degli stili di vita, dei comportamenti e delle posizioni sociali; gli economisti che utilizzano le statistiche sulle occupazioni nelle analisi delle differenze nella distribuzione della ricchezza e dei redditi nel tempo e tra gruppi, così come nelle analisi degli squilibri tra l’offerta e la domanda sui vari mercati del lavoro; il grande pubblico che usa le statistiche sulle professioni per analizzare, descrivere e apprendere ciò che succede nel proprio Paese. 8.3 Aspetti metodologici riguardanti lo sviluppo, l’uso, la manutenzione e la revisione delle classificazioni statistiche Gli obiettivi principali dei responsabili di una classificazione statistica nazionale sono strettamente legati al suo sviluppo, al suo uso, alla sua gestione e alla sua revisione. Le classificazioni statistiche non sono necessariamente effettuate da statistici ma da persone incaricate di amministrare le politiche pubbliche (ad esempio, i regolamenti doganali, la legislazione penale), di fornire servizi pubblici (quali collocamento, educazione, servizi sanitari) o di analizzare fenomeni sociali, economici o naturali. Nel momento in cui i realizzatori di una classificazione adottano e adattano un tale set di valori alle indagini statistiche, devono comprendere se e come siano stati affrontati i diversi aspetti metodologici e devono contribuire alla ricerca di soluzioni avanzate quando ciò risulti necessario e possibile. Allo scopo di meglio comprendere alcuni aspetti metodologici della realizzazione di una classificazione, ci sembra opportuno precisare quanto segue: una classificazione statistica può essere definita come un set di valori discreti che possono essere assegnati a variabili specifiche da misurare in un’indagine o registrate in file amministrativi da usare come base per ulteriori indagini; lo sviluppo di una classificazione coinvolge tutte le attività necessarie alla sua creazione; l’utilizzo di una classificazione implica la registrazione di valori consoni ad una particolare unità; la gestione di una classificazione implica la correzione degli eventuali errori commessi nella fase di elaborazione della stessa (soprattutto per quanto riguarda l’insieme di valori) e dei relativi strumenti di codifica; inoltre, richiede l’aggiornamento delle descrizioni dei set di valori, la definizione di linee di demarcazione tra gruppi e la scelta di eventuali nuovi strumenti di codifica, nel caso vengano scoperti nuovi gruppi o si acquisiscano nuove informazioni sui gruppi esistenti; la revisione di una classificazione richiede un totale riesame delle esigenze dell’utenza, così come della base concettuale e degli strumenti degli utilizzatori. Tali riesami dovrebbero avvenire ad intervalli temporali piuttosto lunghi (10 – 15 anni) o allorquando prove evidenti dimostrino che siano necessari. 65 Nella fase di elaborazione della classificazione, i soggetti responsabili del suo sviluppo, dovrebbero tener conto dei seguenti elementi: a) i bisogni dell’utenza, definendo chi sono i principali utilizzatori, le loro aspettative sulla classificazione e cercando il modo migliore per stabilire un equilibrio tra le necessità dei diversi utenti o facendo una scelta tra queste laddove risultino contraddittorie; b) gli aspetti concettuali più importanti, risultanti dalle necessità degli utenti, definendo: quali sono le variabili principali alle quali l’insieme di valori scelto viene applicato23; quali sono le unità primarie per le quali possiamo misurare la variabile principale24; quali sono le regole per collegare le altre unità all’unità principale, in modo tale che i valori delle variabili di classificazione ad essa assegnati possano essere assegnati anche ad altre unità25; quali sono le regole concettuali per identificare il valore stesso della variabile26; quali sono i criteri di similarità utilizzati per definire le categorie di livello superiore (sulla base degli insiemi di valori aggregati) nelle classificazioni gerarchiche27; c) la raccolta dei dati che consiste nel definire in che modo raccogliere le informazioni che descrivono le categorie identificate e le linee di demarcazione tra una categoria e l’altra28. Nella fase di uso della classificazione, ai fini delle indagini statistiche e dei file amministrativi, sono importanti i seguenti aspetti: 1. se la codifica viene effettuata dall’intervistato, dall’intervistatore o dall’esperto; nel primo caso, all’intervistato viene presentato un insieme di valori e gli viene chiesto di indicare i valori che meglio si adattano al suo caso; nel caso di codifica da parte dell’intervistatore, è egli stesso a determinare il valore corretto sulla base delle informazioni fornite dall’intervistato; nel caso di codifica da parte dell’esperto, l’intervistato e l’intervistatore scrivono le informazioni che permetteranno, in seguito, ad un’altra persona (l’esperto) di determinare il valore corretto; 2. le domande da porre dipendono dal codificatore: se è l’intervistato a codificare, vale a dire a selezionare una categoria, egli deve essere informato su quale base effettuare la selezione; quando è l’intervistatore a codificare, egli necessita di avere le adeguate informazioni per effettuare tale codifica da solo o attraverso gli esperti. Ad esempio, nel caso di codifica da parte dell’intervistatore o dell’esperto, la base migliore per determinare il codice dell’occupazione è porre domande circa il titolo occupazionale e circa i principali compiti e doveri richiesti; 3. le istruzioni circa quali elementi delle risposte prendere in considerazione, e come utilizzarli, permettono di garantire che gli intervistatori rilevino solo i dati più importanti e che i codificatori possano farne un uso consistente. Il processo di codifica dovrebbe riguardare il maggior numero di informazioni possibile fornite dagli intervistati. Ad esempio, l’International Labour Organization (ILO) raccomanda che per quanto riguarda le “professioni”, la codifica avvenga al Ad esempio, la principale variabile della classificazione ISCO-88 è “compiti principali” della professione svolta e non viene preso in considerazione nessun altro aspetto del lavoro, come l’esposizione a sostanze pericolose o la precarietà delle condizioni di lavoro. Si può dunque affermare che la variabile “professione”, in questo caso, sia definita come “il compito principale del lavoro svolto”. 24 Ad esempio, le “occupazioni” sono l’unità primaria della classificazione ISCO-88, all’interno della quale una “occupazione” è definita come una serie di compiti e doveri progettati per essere eseguiti da una persona. 25 Ad esempio, le “persone” possono essere associate ad un “gruppo professionale” solo in virtù del loro rapporto temporale con un’occupazione (passata, in corso o futura). Ad esse può essere associato un codice professionale di “settore” solo a seguito dell’eventuale impiego presso un’organizzazione. 26 Nella classificazione ISCO-88, per esempio, la regola è: “un insieme di lavori i cui compiti e doveri principali siano caratterizzati da un alto grado di similarità, costituisce una professione”, che rappresenta l’elemento più dettagliato all’interno dell’insieme dei valori di una classificazione professionale; 27 Ad esempio, nella classificazione ISCO-88, i principali criteri di similarità sono lo “skill level” (grado di competenza) e lo “skill specialization” (campo di competenza) necessari per svolgere compiti e doveri di un’occupazione. 28 In una classificazione professionale è necessario raccogliere dati sui principali compiti del lavoro nelle diverse occupazioni possibili all’interno della vasta gamma di situazioni relative all’impiego in organizzazioni che possono essere di dimensioni diverse e operare in diversi settori. Se si vuole essere capaci di applicare diversi criteri di similarità per definire insiemi di valori aggregati alternativi, allora occorre raccogliere tutte le informazioni pertinenti. 23 66 livello più dettagliato della classificazione che è supportabile dalle informazioni disponibile. Il titolo, i compiti, ecc… dovrebbero essere utilizzati sulla base di regole ben precise; 4. definire gli strumenti di codifica più appropriati che consiste nello sviluppo di indicatori codificati che riflettano le risposte ottenute e le regole di codifica. L’elaborazione automatizzata o computerizzata delle procedure di codifica dovrebbe riflettere le regole da usare per una codifica accurata ed effettiva; 5. sono necessarie delle procedure di controllo di qualità per monitorare la qualità del processo di codifica e per fornire un feed-back sia ai codificatori sia ai responsabili della classificazione stessa e degli strumenti di codifica. La gestione di una classificazione dovrebbe essere un’attività portata avanti dai responsabili della classificazione stessa e dovrebbe andare di pari passo con la formazione ed il supporto agli utenti della classificazione o dei risultati statistici. Gli aspetti metodologici di tale attività sono prevalentemente tre: come organizzare al meglio le attività di gestione; come definire i criteri utili ad identificare effetti “significativi” delle attività di gestione della comparabilità dei dati; elaborazione di metodologie di correzione e controllo statistico sugli effetti della gestione. Le attività coinvolte, invece, nel processo di revisione di una classificazione sono essenzialmente le stesse che vengono implementate nella sua fase di elaborazione. Alcuni aspetti metodologici addizionali possono essere rappresentati dal: come stabilire se una revisione è necessaria; come stabilire se eventuali nuove soluzioni sono più efficaci di quelle utilizzate al momento; come implementare una classificazione revisionata attraverso procedure statistiche in evoluzione, dato il bisogno di comparabilità con i risultati delle statistiche effettuate in passato. 8.4 L’evoluzione dei sistemi di classificazione delle professioni in Italia La creazione e il potenziamento di maggiori e migliori posti di lavoro, obiettivo prioritario sancito dal Consiglio Europeo a Lisbona nel 200029, trova riscontro nelle politiche educative ed occupazionali tese al miglioramento della qualità dell’istruzione e della formazione in Italia. Per sostenere e rafforzare tali politiche, da alcuni anni si assiste a tentativi di integrazione tra i vari sistemi informativi, centrali e locali, per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tali tentativi, avviati nel quadro dei processi di sviluppo e di gestione del mercato del lavoro e delle risorse umane, hanno avuto inizio con l'Accordo di concertazione tra Governo e Parti sociali, 29 Il Consiglio Europeo, nella sessione straordinaria del 23 e 24 marzo 2000 a Lisbona, ha concordato un nuovo obiettivo strategico per l’Unione per il decennio 2000 – 2010, al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza; in questa sede ci si è prefissati di “diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale”. Nel 2005, preso atto che gli obiettivi erano assai lontani dall’essere raggiunti, gli Stati membri dell’UE hanno deciso di rilanciare la strategia di Lisbona, concentrando gli sforzi verso i due obiettivi principali: la crescita economica e l’occupazione. E’ stata inoltre stabilita una programmazione triennale della strategia, alla scadenza della quale il Consiglio Europeo ha dovuto rifocalizzare gli obiettivi strategici in coerenza con i risultati raggiunti. Per ogni ciclo triennale (il primo dal 2005 al 2008, mentre il secondo è stato avviato nella primavera del 2008) sono stati definiti gli indirizzi di massima per le politiche economiche da attuarsi a livello nazionale. Nel 2010, a completamento del decennio, si è avviato il dibattito per la definizione di una strategia post 2010, attraverso la verifica dei risultati e l’individuazione dei limiti registrati. La nuova strategia “UE 2020” dovrà rafforzare la dimensione sociale, coniugare in maniera efficace e coerente la strategia di ripresa economica, quella per la crescita e per l’occupazione, lo sviluppo sostenibile e l’attenzione per i cambiamenti climatici. 67 siglato nel luglio 1993, e con la legge 236/93 in materia di interventi urgenti a sostegno della occupazione. Sulla scia di questi provvedimenti, ha trovato spazio la Convenzione Quadro tra Ministero del Lavoro, Regioni e Parti sociali (1996) per la realizzazione di un sistema di rilevazione permanente e aggiornabile dei fabbisogni professionali che ha facilitato anche la realizzazione di due prime indagini sperimentali volte a effettuare una ricognizione finalizzata ad anticipare i fabbisogni di formazione delle risorse umane, attraverso una analisi dei fabbisogni professionali e dei fabbisogni di competenza dei giovani e dei lavoratori (EBNA30) e ad individuare le figure professionali-tipo sulle quali si concentrano gli interessi delle imprese (OBNF31). A queste due prime rilevazioni, si è aggiunto nel 1999 il progetto Excelsior, realizzato da Unioncamere, che si è posto, ed ha raggiunto mediante indagini periodiche, l'obiettivo di misurare la domanda effettiva e potenziale di professioni da parte delle imprese nei diversi bacini territoriali provinciali, producendo informazioni utili a quanti hanno il compito di orientare l'offerta di lavoro verso le esigenze espresse dalla domanda e nel facilitarne l'incontro. Dopo queste prime esperienze pilota, anche altri Organismi Bilaterali32 si sono attivati per condurre ulteriori indagini nazionali, che hanno contribuito ad alimentare un complesso di informazioni sui fabbisogni professionali e di formazione del sistema nazionale delle imprese. Nei documenti di programmazione 2000 - 2006, sono già evidenti le linee-guida per la messa a punto di interventi che, attraverso l’eventuale riforma della formazione e l’ osservazione permanente dei fabbisogni professionali, possano conferire il carattere di sistema ad un settore ancora troppo caratterizzato da iniziative disomogenee che ne definiscono più gli aspetti di prodotto (filiere di intervento) che non di processo (aspetti di regolazione del sistema). L’ analisi dei fabbisogni professionali e formativi diventa così l’ elemento fondamentale della formazione, in quanto pre-requisito per la definizione delle competenze, e funge da raccordo tra sistema formativo e sistema produttivo, in quanto capace di assicurare un contributo costante per il rinnovamento dell'offerta formativa. In tale scenario è stato progettato e avviato il sistema di osservazione permanente dei fabbisogni professionali, un collettore di flussi di informazione quali-quantitativa e previsiva sulle professioni connesse ai settori di attività economica che caratterizzano la struttura produttiva del nostro paese. I potenziali utilizzatori del sistema di osservazione permanente dei fabbisogni professionali e formativi vengono individuati nei sistemi di: – istruzione/formazione (programmazione, progettazione, certificazione, ecc.) – orientamento (giovani, lavoratori) – mercato del lavoro (politiche attive, formazione continua, ecc.). Il concetto sistemico di base ha fatto sì che, nel 2004, fosse istituita una Cabina di regia33 con compiti di indirizzo, coordinamento e valutazione delle iniziative finalizzate allo sviluppo del Ente Bilaterale Nazionale per l’Artigianato costituito, pariteticamente, da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali. 31 Organismo Bilaterale Nazionale per la Formazione costituito, pariteticamente, da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali. 32 Tra i quali: Ente Bilaterale Nazionale Turismo, Agriform, Coop-form che hanno realizzato indagini settoriali e multisettoriali finanziate con i fondi della L. 236/93. 33 Istituita con D.M. 13/I/04 del 28.01.04 ha il compito di indirizzare, coordinare e valutare le iniziative da attuarsi per la completa realizzazione del sistema nazionale dei fabbisogni professionali. In particolare: sistemi di classificazione delle attività economiche e delle professioni, standard nazionali di rappresentazione, coordinamento delle indagini sui 30 68 sistema di rilevazione dei fabbisogni professionali e che ha sviluppato un sistema informativo on line che rilascia informazioni sugli andamenti dei settori economici dei quali sono rilevati i fabbisogni professionali, sulle caratteristiche dei fabbisogni e sulle previsioni di occupazione a breve e medio termine (per settori di attività economica e per professioni) in relazione ai fabbisogni rilevati. La collegabilità dei dati e delle informazioni nel sistema informativo è ottenuta mediante sistemi di codifica legati alla classificazione statistica delle professioni e alla classificazione delle attività economiche. Per assicurare un migliore collegamento tra le diverse tipologie di informazione, l’Isfol, su input della Cabina di Regia, ha proceduto ad ottimizzare la struttura del sistema attraverso la creazione di una nuova classificazione delle professioni derivata dalla CP 2001 (Classificazione delle Professioni del 2001) dell’Istat che disaggrega ulteriormente le professioni creando le 811 Unità Professionali contenute nell’ attuale “Nomenclatura delle Unità Professionali” (NUP). La CP 2001, per quanto attendibile e sistematica, soffriva della mancanza di un “…vocabolario, di un elenco specificato di nomi, di un lessico comune, esaustivo ed aggiornato…”, con cui il mercato del lavoro potesse rivolgersi alle professioni e fosse organizzato dalla classificazione. Tale lacuna era probabilmente dovuta al fatto che, all’epoca, non esistevano in Italia soggetti preposti istituzionalmente alla raccolta sistematica delle informazioni sulle professioni operanti nel mondo del lavoro. Dagli anni ’60 alla fine degli anni ’80, il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, in collaborazione con l’ Istat, ha prodotto un Elenco delle Qualifiche Professionali, aggiornato ed utilizzato efficacemente da più attori per decenni, che ancora oggi rappresenta il punto di riferimento delle tipologie di professioni che corredano l’ attuale classificazione dell’Istat. Tuttavia, in realtà, si trattava di un mero elenco di qualifiche, soprattutto operaie, utilizzato per identificare l’offerta di lavoro dipendente che arrivava presso gli uffici di collocamento e non ha mai potuto costituire una soluzione alla problematica del lessico comune posta dalla Classificazione. La produzione di strumenti con finalità di progettazione curricolare e formativa vede nell’attività dell’Isfol degli anni ’80 un momento assai rilevante: la ricerca sulle fasce di professionalità e di qualificazione e il progetto di identificazione di due repertori di professioni34 rappresentano produzioni di ottimo livello che, però, non sono state sufficienti a colmare il vuoto informativo dal momento che risultano realizzate in modo parziale, riguardando un numero ridotto di lavoratori35. Il limite di tutti questi progetti, che hanno comunque il merito di aver prodotto un’ampia attività di ricerca, è stato quello di non affrontare in modo sistematico e approfondito la questione di un lessico per le professioni. fabbisogni, raccordo con altri sistemi operanti nella formazione/istruzione e nel mercato del lavoro, raccordo tra livello nazionale e locale. 34 ISFOL, Fasce di Professionalità, vari volumi; ISFOL, Fasce di Qualificazione, Quaderni di Formazione, vari volumi; ISFOL, Repertorio delle Professioni, IPZS, 1987; ISFOL, Repertorio delle Professioni, ISFOL, 11 volumi, 1999. 35 Va inoltre sottolineato che, mancando un comune riferimento descrittivo del lavoro e trattandosi di indagini svolte con approcci diversi tra loro, la comparabilità degli esiti di tali ricerche ed il loro utilizzo integrato risultavano estremamente limitati. Il tentativo dell’Isfol di ricondurre tutti i risultati alla classificazione delle professioni Istat ha rivelato tutti i limiti propri di uno strumento nato per fini statistici e, dunque, distante dalle necessità d’uso delle politiche del lavoro e della formazione. 69 E’ proprio da questa riflessione che è nata la collaborazione tra Ministero del Lavoro, Isfol e Istat che si è posta il problema di affrontare il limite della mancanza di informazioni sulle professioni circolanti sul mercato del lavoro nazionale. L’Isfol è stato incaricato dal Ministero del Lavoro di definire e di allestire un sistema nazionale di osservazione permanente dei fabbisogni professionali, per compattare e ricondurre ad unità i risultati delle indagini e delle ricerche precedenti e, nel corso della sua attività, l’ Istituto ha sentito l’esigenza di ripensare la struttura dell’intero sistema, partendo da una puntuale definizione dei protocolli, degli apparati concettuali e classificatori che le ricerche precedenti avevano trascurato di condividere nel rilevare i fabbisogni professionali e formativi delle imprese. Dal lato della statistica ufficiale, dunque, l’ Istat, con la pubblicazione della Classificazione delle Professioni, rilevava che la mancanza di informazioni sistemiche sulle professioni circolanti costituiva il limite con cui gli analisti del settore dovevano confrontarsi; dal alto della costruzione sistematica di informazioni per la formazione e il mercato del lavoro, l’ Isfol arrivava alla conclusione che sarebbe stato complicato definire un sistema di monitoraggio dei fabbisogni formativi, senza un corredo appropriato di standard funzionali e condivisi di rappresentazione e classificazione del lavoro. Proprio partendo dai risultati delle indagini nazionali sui fabbisogni e dalla classificazione statistica delle professioni si è arrivati a definire la prima versione dell’ attuale NUP che dovrà necessariamente essere aggiornata periodicamente per rimanere coerente con i cambiamenti e le evoluzioni del lavoro. Il nuovo strumento di classificazione assolve una duplice funzione: da un lato, grazie al maggior grado di disaggregazione, consente di codificare in modo più adeguato i fabbisogni professionali espressi dal mercato del lavoro; dall’altro permette di collegare queste informazioni, di natura qualitativa, con i dati di natura quantitativa e previsiva rispetto ai fabbisogni occupazionali di breve e medio termine. L’insieme delle descrizioni delle 805 professioni ospitate fornisce la rappresentazione media della struttura delle professioni in Italia. Tale rappresentazione, inoltre, costituisce lo strumento utile per leggere lo scarto tra ciò che c’è e ciò che manca in termini di capacità professionali nel sistema produttivo del paese. La Nomenclatura delle Unità professionali (NUP) costituisce, quindi, il primo degli strumenti messi a punto per far fronte all’esigenza di dotarsi di solide modalità di classificazione e di rappresentazione delle professioni condivise, efficaci e non ridondanti rispetto ad altre già da tempo strutturate per acquisire e rilasciare informazioni istituzionali sul mercato del lavoro. Un sistema di rappresentazione del lavoro, dinamicamente aggiornabile, costituisce inoltre un utile punto di riferimento per il sistema delle qualifiche e quello delle competenze su cui si fonda la certificazione degli apprendimenti. 8.5 La necessità di un valido sistema di rappresentazione del lavoro L’attività di classificazione delle professioni o, più genericamente, di rappresentazione del lavoro è strettamente connessa al corredo valoriale che viene attribuito al lavoro dall’ economia e dalla società. Le innovazioni tecnologiche e l’evoluzione dei modelli produttivi tendono sempre più a modificare i contenuti del lavoro così come si modificano continuamente le esigenze di comunicazione tra domanda e offerta, il posizionamento economico e l’identità sociale dei lavoratori. 70 Tutti questi aspetti richiedono un “linguaggio del lavoro” che sia condiviso da tutti gli attori interessati e tempestivamente aggiornato in coerenza con i cambiamenti sociali ed economici, nonostante la difficoltà di coniare un linguaggio adatto ai diversi usi che richiede una struttura descrittiva comune, per non inciampare nel rischio di cadere in una “babele” di denominazioni. La scelta delle modalità di rappresentazione del lavoro può fortemente condizionare il momento di incontro tra domanda e offerta, o la lettura dei fabbisogni formativi e professionali, o la definizione di criteri di offerte educative e di orientamento e, più in generale, il buon funzionamento del mercato del lavoro. Le indagini sui fabbisogni citate nel paragrafo precedente hanno avuto, a questo proposito, il merito di evidenziare alcuni aspetti critici che non possono essere omessi: 1. la problematica definizione della relazione fra “figure” e “competenze” quale manifestazione della pluralità di chiavi di lettura del lavoro; 2. la rilevanza dei singoli contesti produttivi territoriali e l’incidenza di struttura, dimensioni e organizzazione dell’impresa ai fini di una definizione puntuale delle caratteristiche specifiche del lavoro; 3. il diffuso orientamento a superare la classica divisione del lavoro e la conseguente riduzione del numero delle figure effettive parallela all’aumento di figure di più ampio respiro basate su saperi plurimi ma di difficile definizione; 4. il peso dei meccanismi di specializzazione implementati al fine di costruire nuove figure adattabili alle dinamiche evolutive delle tecnologie e delle organizzazioni. Da queste problematiche deriva la necessità di predisporre un sistema di rappresentazione del lavoro che contempli al suo interno il rispetto delle relazioni fra diversi “settori”, (tipici indici di un cambiamento strutturale connesso con le dimensioni spaziali di riferimento e la sua evoluzione nel tempo) e il rispetto delle relazioni “codificate” dal linguaggio industriale. Un tale sistema di rappresentazione del lavoro, dinamicamente aggiornabile, permette: a. la disponibilità di una serie di standard minimi condivisi sul territorio nazionale e, coerentemente in raccordo con quelli definiti dagli altri paesi europei, posti a garanzia di un’univoca interpretazione delle qualifiche e delle caratteristiche professionali nei mercati del lavoro; b. la disponibilità continua di una serie di informazioni sul lavoro che facilita il monitoraggio dei cambiamenti in atto e permette, unitamente ad altre informazioni di natura economica, di effettuare previsioni di medio termine; c. un’articolazione del sistema basata sulle reali peculiarità di ogni singolo contesto produttivo locale dove avviene la definizione operativa delle politiche del lavoro, anche per supportare le dinamiche di deregulation avviate con la riforma del Titolo V della Costituzione. Il concetto di “sistema” di rappresentazione del lavoro, dunque, sottintende non solo la presenza di diverse chiavi di lettura, ma anche quella di un loro riferimento comune che possa consentire un agevole raccordo tra la pluralità di esigenze e modalità d’uso. L’ esigenza di trovare questo punto di riferimento è alla base del progetto di creazione e aggiornamento costante della “Nomenclatura delle Unità Professionali”36 (NUP) che, lungi dall’essere un prodotto completo e definitivo, oggi si presenta come uno standard continuamente soggetto a verifica empirica, rigoroso nel metodo e nel rispettare il limite del raccordo con le classificazioni statistiche e facilmente adattabile alle molteplici esigenze d’uso degli attori interessati. Ricordiamo che il progetto è stato sviluppato dall’ Isfol nell’ambito della definizione del sistema nazionale di osservazione permanente dei fabbisogni professionali, condiviso,nella sua logica, dalle istituzioni e dai soggetti di rappresentanza dell’impresa e del lavoro e realizzato in collaborazione con l’Istat. 36 71 8.6 Il raccordo tra “Classificazione delle Professioni” (Istat 2001) e “Nomenclatura e Classificazione delle Unità Professionali”37 (NUP06) L’insieme delle Unità Professionali tipo che costituiscono la “Nomenclatura e Classificazione delle Unità Professionali” (da qui NUP) è composto da unità già presenti nella Classificazione delle Professioni dell’Istat ma ne costituisce un maggior livello di dettaglio. La classificazione si articola in categorie, ciascuna delle quali suddivisa in una o più Unità, da intendere come insieme di professioni omogenee rispetto a conoscenze, competenze, abilità e mansioni svolte, che vanno a costituire un ulteriore modello classificatorio teso a rappresentare qualitativamente i contenuti e le specificità del lavoro38. All’interno della struttura classificatoria attuale, la NUP costituisce un livello intermedio fra un modello di rappresentazione di tipo prettamente statistico (CP 2001) e la varietà di denominazioni e descrizioni del lavoro strettamente connesse con i singoli contesti e le esigenze degli attori interessati, svolgendo una funzione di raccordo; essa, dunque, risulta essere una modalità univoca e generale di riferimento che può essere facilmente personalizzabile, a seconda dell’ uso, attraverso l’aggiunta di caratteri che ne accrescerebbero la specificità senza andare a modificarne l’architettura di base. Le Unità, dunque, sono da considerarsi come la “semantica” di un peculiare linguaggio del lavoro che, per non risultare ambiguo, necessita di essere: a) naturale: le denominazioni delle singole Unità devono necessariamente basarsi su termini di uso corrente; b) referenziato: deve emergere una chiara relazione fra la denominazione di una Unità e gli aspetti connotativi ad essa relativi quali contenuto e significato, resi mediante la descrizione sistematica delle caratteristiche minime del lavoro di riferimento; c) ottimizzato: pur basandosi su un numero di unità ridotto, esso deve ottimizzare l’ equilibrio fra le opposte esigenze di massimizzazione dell’espressività (la conseguenza della quale sarebbe il ricorso a continue distinzioni che esalterebbero le differenze fra le singole figure) e di compattezza d’uso (che orienterebbe verso l’uso di pochi termini, esaltando ciò che le figure hanno in comune). Dal punto di vista metodologico, la caratteristica della NUP di essere uno strumento intermedio e la necessità di renderlo sostenibile nel tempo hanno fatto emergere almeno due criticità. La prima si manifesta con l’esigenza di un forte impatto sui gradi di libertà della rappresentazione del lavoro e il rispetto della relazione fra NUP e Classificazione delle Professioni all’interno della quale la prima è da intendersi come una derivazione più analitica della seconda. La CP 2001 era stata realizzata dall’Istat attraverso la consultazione di fonti descrittive conformi ai vincoli della classificazione internazionale delle professioni e dal suo adattamento alle esigenze dei paesi europei richiesto dall’Eurostat (organismo ufficiale di statistica dell’Unione europea)39. 37 Preme sottolineare che nel presente lavoro si è cercato di fornire un quadro di insieme del sistema classificatorio delle professioni, pertanto non si è provveduto a esaminare la classificazione analitica per Unità professionali né la Nomenclatura delle Unità professionali. Per una descrizione dettagliata delle singole Unità si rimanda al sito: www.fabbisogni.isfol.it 38 Per eventuali chiarimenti si rimanda alla Figura 1. 39 Si fa qui espresso riferimento alle classificazioni standard internazionali delle professioni ISCO 88 e ISCO 88-Com curate dall‘ International Labour Office (ILO) pubblicata a Ginevra nel 1990. Isco 88 è la classificazione vera e propria; Isco 88-Com riguarda i suoi possibili adattamenti alle esigenze europee. 72 Figura 1. – La posizione della NUP fra esigenze classificatorie e varietà di contesti di lavoro Rispetto allo spazio Globale Locale Rispetto al tempo Medio termine Breve termine Classificazione ISTAT CP 2001 Nomenclatura Unità Professionali Denominazioni specifiche, descrittori aggiuntivi, informazioni di dettaglio o contestuali dotate di valore d’uso 2.1.1.1.1 – Fisici Fisico nucleare Fisico sanitario Cosmologo ------------Biochimico Chimico farmaceutico ------------------------Attuario ------------- 2 – PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE 2.1 – Specialisti in scienze matematiche, fisiche, naturali ed assimilati 2.1.1 – Specialisti in scienze matematiche, fisiche e naturali 2.1.1.1 – Fisici e astronomi 2.1.1.1.2 – Astronomi ed astrofisici 2.1.1.2 – Chimici 2.1.1.2.1 2.1.1.2.2 - Chimici ricercatori Chimici informatori e divulgatori 2.1.1.3 – Matematici, statistici e professioni correlate 2.1.1.3.1 2.1.1.3.2 - Matematici Statistici 2.1.1.4 – Informatici e telematici 2.1.1.4.1 2.1.1.4.2 2.1.1.4.3 2.1.1.4.4 2.1.1.5.1 2.1.1.5.2 2.1.1.5.3 2.1.1.5.4 2.1.1.5.5 - Specialisti nella ricerca informatica di base Analisti e progettisti di software applicativi Specialisti in sicurezza informatica Specialisti in reti e comunicazioni informatiche Geologi Paleontologi Geofisici Meteorologi Idrologi 2.1.1.5 – Geologi, meteorologi, geofisici e Professioni correlate Raccordo con le classificazioni internazionali e con i dati sul mercato del lavoro Riferimento minimo comune di rappresentazione del lavoro, rivolto all’osservazione dei fabbisogni professionali e formativi ------------------------------------------------------------------------- Specificazione contestuale del lavoro in essere/in divenire attraverso aggiunta/diversa declinazione di indicatori Fonte: NUP06 73 74 Tali classificazioni sono tutte basate sul criterio della “competenza” (skill) da intendersi, per definizione, come la capacità di svolgere i compiti di una data professione, vista nella duplice dimensione del grado di competenza (skill level) e del campo di competenza (skill specialization)40. La distinzione tra queste due dimensioni è cruciale per l’intero impianto della classificazione. Un Ingegnere elettrotecnico ed un Perito elettrotecnico svolgono i loro compiti nel medesimo ambito dell’elettrotecnica, che certamente li accomuna rispetto al campo delle competenze necessarie per svolgere la professione ma che da solo non è sufficiente a cogliere le forti differenze esistenti tra le due professioni. Ciò che le distingue l’una dall’altra, infatti, è il livello di competenza messo in atto, la complessità e l’ampiezza dei compiti richiesti da ciascuna singola professione. Il criterio alla base della prima dimensione ha portato a strutturare la Classificazione italiana in 9 Grandi Gruppi articolati, eccetto il primo e l’ultimo, in ordine decrescente di complessità e ampiezza dei compiti richiesti per lo svolgimento di ciascuna professione, dando origine ad una differenza verticale fra le professioni, una gerarchia approssimata al livello di istruzione formale necessario per svolgere la professione o, se si vuole, al titolo di studio necessario per svolgerla, non escludendo però che tale professione possa essere raggiunta anche attraverso l’acquisizione delle conoscenze necessarie mediante percorsi diversi da quelli dell’istruzione formale, nel qual caso è l’esercizio legittimo ed accettato della professione a garantire l’esistenza dei prerequisiti di conoscenza. Il criterio alla base della seconda dimensione, relativa al campo di competenza, tende ad identificare la professione sulla base delle conoscenze specifiche imprescindibili per lo svolgimento della professione, dell’utilizzo di attrezzature, macchine e materiali e della natura dei beni e dei servizi prodotti; tale dimensione, dunque, non crea una distinzione gerarchica fra professioni e, all’interno della Classificazione, risulta utile per individuare le differenze interne a ciascun Grande gruppo, articolandolo sempre più dettagliatamente in Gruppi, Classi e Categorie professionali. Tavola 1. – Grandi Gruppi per numero di gruppi, classi, categorie e voci professionali Grandi Gruppi I - Legislatori, dirigenti e imprenditori II - Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione III - Professioni tecniche IV - Impiegati V - Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi VI - Artigiani, operai specializzati e agricoltori VII - Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili VIII - Professioni non qualificate IX - Forze Armate Totale Gruppi Classi Categorie Voci professionali 3 8 48 319 6 4 2 17 17 6 69 92 37 679 901 185 5 6 11 24 47 108 478 1778 4 22 89 1431 6 1 37 15 1 121 28 1 519 440 89 6300 Fonte: ISTAT, Classificazione delle Professioni, Roma 2001. La codifica dei Grandi Gruppi, dei Gruppi, delle Classi e delle Categorie professionali avviene attraverso una numerazione decimale articolata progressivamente su quattro cifre (digit), la 40 International Labour Office, “International Standard Classification of Occupation”, 1990. 75 prima delle quali indica il Grande Gruppo di riferimento; la seconda indica la posizione occupata dal Gruppo all’interno del Grande Gruppo; la terza è relativa alla posizione della Classe nel Gruppo e la quarta la posizione della Categoria nella Classe. Come si evince dalla Tavola 1, ogni Grande Gruppo assembla diverse voci professionali, intese come i principali nomi d’uso comune per indicare alcune delle possibili professioni in esso incluse. Tuttavia, “a scorrere le voci professionali di volta in volta classificate ci si rende conto che esse talvolta descrivono con semplici perifrasi complessi di attività lavorative ritenute omogenee, talaltra richiamano mansioni lavorative denotando con una parte l’insieme delle attività svolte ancora, altre volte, qualifiche che identificano la professione con la parte più specializzata del lavoro che essa comporta. Non è detto che questo sia il modo migliore per identificare una professione, né che quelle voci siano in grado di cogliere con precisione quanto gli individui dichiarano […]. Di conseguenza, le voci professionali riportate nella classificazione non hanno un valore normativo e non costituiscono l’elenco esaustivo ed aggiornato delle professioni circolanti. In tal senso, esse non fanno parte dell’impianto della classificazione ma sono riportate a titolo di esempio per facilitarne l’uso e l’interpretazione”41 costituendo solo una parziale rappresentazione dell’oggetto della classificazione. Nel tentativo di colmare questi limiti, la NUP è intervenuta in due ambiti: 1. dal punto di vista del dettaglio classificatorio, si è cercato di ampliare la gamma delle professioni classificabili mediante l’inserimento di un quinto digit più analitico e maggiormente strutturato rispetto al lungo elenco aperto di voci professionali; ciò ha portato alla suddivisione delle Categorie in Unità (definibili come “cluster” di voci professionali) secondo criteri rispondenti ad un doppio vincolo: l’omogeneità al loro interno e, contemporaneamente, la maggior distanza possibile dagli altri quinti digit rappresentati. 2. dal punto di vista dei contenuti, per ogni livello, dal Grande Gruppo alle Unità, si è cercato di approfondire la descrizione dei criteri di classificazione e dei contenuti del lavoro ad esso relativi, creando una sorta di “dizionario” del lavoro all’interno del quale viene associata ad ogni voce una propria specifica definizione. La seconda criticità metodologica emersa con la NUP è dovuta alla difficoltà di disporre di un esaustivo bagaglio informativo, soprattutto in termini di aspetti qualitativi, sul lavoro in Italia che permetta la realizzazione di un dizionario delle professioni e competenze. I punti critici sono connessi sia con la difficoltà di poter comparare gli approcci praticati dai diversi attori dell’osservazione, sia la ridotta dimensione del campo su cui le informazioni sono disponibili (sottorappresentazione di alcuni settori economici e di specifici ambiti professionali). Una classificazione ad ampio raggio richiede degli standard di base che seguano criteri di sostenibilità statistica delle caratteristiche del lavoro e che sappiano di queste fornire possibilmente anche indicazioni sui possibili fattori di cambiamento nel tempo, in modo tale da meglio coadiuvare e supportare gli esiti di interventi di rilevazione specifici quali l’osservazione dei fabbisogni professionali e formativi, la loro rilevazione e la loro previsione. A questo scopo, dal punto di vista teorico, la logica seguita è la seguente: definizione, sulla base delle informazioni disponibili42, di un’ipotesi motivata di Nomenclatura delle Unità; Fonte: ISTAT, Classificazione delle Professioni – Introduzione – Paragrafo 5 - , Roma 2001. Le Unità Professionali sono definite sulla base della vigente Classificazione delle professioni, utilizzando i repertori delle figure professionali risultanti dalle indagini sui fabbisogni prodotte dagli Organismi Bilaterali negli ultimi anni. 41 42 76 sulla base di questa ipotesi e del bagaglio di informazioni quantitative sul mondo del lavoro disponibile, creazione di un campione di osservazione con caratteristiche di rappresentatività professionale ed economica; rilevazione diretta delle caratteristiche del lavoro mediante indagini di campo che permetta di individuare le specificità delle Unità Professionali ed una loro più corretta articolazione; rielaborazione dei dati raccolti, al fine di ricostruire le effettive caratteristiche di ciascuna Unità. Dal punto di vista pratico, la logica ha seguito le seguenti fasi: articolazione delle Categorie in Unità Professionali, in base ad una vasta gamma di criteri fondati su una logica generale, ma assai puntuali nella declinazione applicativa. Se da un lato le singole professioni associate ad una Categoria sono state differenziate sulla base di elementi comuni, quali la natura del contesto in cui operano, i mezzi utilizzati, la posizione rispetto all’intero processo produttivo di riferimento, dall’altro sono stati introdotti criteri specifici laddove si ritenevano necessari in virtù della natura e delle caratteristiche delle singole Categorie e delle singole classi. Tali criteri sono stati definiti ed applicati sulla base dei risultati delle indagini nazionali già svolte e la loro definizione non ha trascurato di considerare l’incidenza delle normative in materia di professioni laddove siano avvenute modifiche alle disposizioni o ai contenuti del lavoro. scelta di denominare del singole Unità Professionali nel modo più coerente possibile rispetto al “linguaggio d’uso” del lavoro, pur mantenendo da un lato la coerenza logica con la Categoria da cui discendono (quest’ultima non modificabile per ragioni di coerenza con il sistema classificatorio nel suo insieme) e, dall’altro, la possibilità di modificare tali denominazioni laddove gli esiti delle indagini empiriche lo facciano ritenere opportuno; descrizione sintetica dei Grandi Gruppi, Gruppi, Classi e Categorie della Classificazione per renderne disponibile la logica cui la NUP fa riferimento e renderne più funzionale l’uso nei contesti all’interno dei quali la Classificazione è necessaria. 8.6.1 Alcune caratteristiche della NUP La NUP, dunque, si presenta come un’ipotesi argomentata di Unità Professionali derivata da un’effettiva verifica empirica delle limitazioni e dei contenuti di ogni singola Unità. Volendo rilevare alcune caratteristiche del documento, non si può trascurare il rapporto fra Unità Professionali e la struttura della Classificazione delle Professioni, che si può evincere dalla Tavola 2: Tavola 2. – Grandi Gruppi per numero di gruppi, classi, categorie e unità professionali Grandi Gruppi Gruppi Classi Categorie I II - III IV V VI VII - Legislatori, dirigenti e imprenditori Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione Professioni tecniche Impiegati Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi Artigiani, operai specializzati e agricoltori Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili Professioni non qualificate Forze Armate VIII IX Totale Fonte: ISTAT, Classificazione delle Professioni, Roma 2001 Unità professionali 3 8 48 56 6 4 2 17 17 6 69 92 37 157 161 43 5 6 11 24 47 108 61 182 4 6 1 37 22 15 1 121 89 28 1 519 116 28 1 805 77 Osservando la Tavola, il numero totale delle Unità (805) è notevolmente ridotto rispetto alle “voci professionali” originarie (6.300)43 e non eccessivamente articolato rispetto alle 519 Categorie; ciò, coerentemente con l’obiettivo di disporre di un riferimento “compatto” ed effettivamente verificabile mediante le indagine di campo. A tale dimensione si giunge attraverso un esercizio di aggregazione delle voci molto più marcato per alcuni Grandi Gruppi, in risposta all'esigenza di avvicinare la rappresentazione statistica alla diminuita rilevanza dei modelli organizzativi basati sulla divisione orizzontale del lavoro, dei quali non va peraltro banalizzata l'effettiva presenza nell'economia del Paese. Di seguito si presentano in sintesi le caratteristiche dei diversi gruppi riprendendone, per maggior chiarezza, la descrizione testuale già oggetto di pubblicazione sia nella Classificazione delle Professioni del 2001 sia nella NUP06. Il Grande Gruppo I – Legislatori, dirigenti ed imprenditori comprende le professioni che richiedono esperienza e particolari capacità decisionali ed organizzative. I loro compiti consistono nel definire la politica del governo, le leggi e i regolamenti a livello nazionale e locale; nel sovrintendere alla loro applicazione; nel rappresentare lo Stato e nel dirigere, nel gestire, nel definire gli obiettivi e nell’orientare le attività di imprese, organizzazioni e strutture gestionali complesse. E' importante osservare come il concetto di Imprenditore si riferisca a chi esercita attività di direzione dell'impresa (indipendentemente dalla sua dimensione) senza essere direttamente impegnato nel processo materiale di produzione. Chi invece si trova in quest'ultima fattispecie va ricondotto ai Grandi Gruppi 5, 6 e 7, a seconda del contenuto professionale44. Il Grande Gruppo II – Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione comprende tutte quelle professioni per le quali è richiesto un rilevante livello di conoscenze – in genere acquisito attraverso il completamento di un percorso di istruzione tipo universitario o postuniversitario – e di esperienza in ambito scientifico, umanistico o artistico. I loro compiti consistono nell’arricchire le conoscenze esistenti promuovendo e conducendo la ricerca scientifica; nell’interpretare concetti, teorie scientifiche e norme; nell’insegnarli in modo sistematico; nell’applicarli alla soluzione di problemi concreti e, a seconda del caso, nell’eseguire performance artistiche di livello elevato. La logica di individuazione delle Unità (157, oltre il doppio del numero delle Categorie) ha cercato di rispondere alle dinamiche professionali proprie delle figure ad elevata specializzazione (i cosiddetti knowledge workers), centrali nella nuova “economia della conoscenza”, ma nondimeno non rappresentati dalle preesistenti classificazioni originate dalla ISCO 88. E' ad esempio il caso della Categoria 2.1.1.4 – Informatici e telematici, per la quale sono state individuate, sulla base delle differenze di ambito applicativo, cinque distinte Unità, a cui appaiono riconducibili le diverse figure professionali “di dettaglio” messe in evidenza dalla letteratura nazionale ed europea in materia. L'esempio rende forse più chiaro il significato di Unità professionale, “insieme di professioni omogenee rispetto a conoscenze, competenze, abilità ed attività lavorative svolte”, che costituisce il riferimento classificatorio rivolto a rappresentare contenuti e caratteristiche del lavoro. Analoghe operazioni di specificazione sono state compiute in tutti i casi in cui la Categoria si presenta come aggregato di professioni differenziabili sulla base di ambito applicativo, percorso di istruzione formale o posizione rispetto al mercato del lavoro. L'introduzione per ogni Categoria (ma anche Classe e Gruppo) di una breve descrizione ha inoltre permesso di mettere in evidenza alcuni mutamenti nelle professioni derivanti dall'evoluzione della normativa di riferimento. E' ad esempio il caso delle professioni divenute oggetto di offerta educativa di III ciclo, come i 2.6.4.1 – Professori di scuola primaria e i 2.6.4.2 – Professori di scuola pre–primaria, che costituiscono l'“analogo con laurea” dei tradizionali insegnanti elementari e di scuole materne, anch'essi compresi nel terzo Grande Gruppo. In diversi casi, la preesistente logica di divisione in Categorie è apparsa già sufficientemente dettagliata, non rendendo utile ed opportuna l'introduzione di ulteriori suddivisioni. 43 44 Per una ulteriore comparazione si rimanda alla Tavola 1. Per una descrizione più dettagliata si rimanda allo specifico paragrafo “La posizione nella professione” della CP2001. 78 Il Grande Gruppo III – Professioni tecniche raccoglie le professioni che richiedono, per essere esercitate, le conoscenze operative e l’esperienza necessarie a svolgere attività di supporto tecnico-applicativo in ambito scientifico, umanistico ed economico-sociale, sportivo e artistico. Si tratta di saperi in genere acquisibili completando un ciclo di istruzione secondaria superiore o un corso universitario di studi di primo livello. Al di là del grado di istruzione, ciò che caratterizza questo Grande Gruppo rispetto al precedente è l'applicazione di protocolli predeterminati e di conoscenze consolidate afferenti a discipline tecnico-scientifiche, mancando – pur in presenza di una significativa autonomia dei comportamenti – l'aspetto di creazione e di produzione “originale” di nuova conoscenza. Anche in questo caso la logica di individuazione delle Unità (161, poco meno del doppio del numero delle Categorie) ha cercato di mettere in evidenza le dinamiche professionali in divenire, nello spirito di disporre di una classificazione che sia funzionale all'osservazione dei fabbisogni professionali e formativi. Sono p.e. indicative in questo senso le disaggregazioni al 5° digit delle Categorie 3.1.1.3 – Tecnici informatici e 3.2.2.3 – Tecnici biochimici ed assimilati, oltre alla creazione di alcune Unità rivolte ad ambiti emergenti quali la gestione del processo produttivo ed il risparmio energetico. Per molte altre professioni apparentemente meno interessate da mutamenti dei contenuti del lavoro, il livello di dettaglio classificatorio già fornito dalle Categorie è apparso sufficiente, restando compito della successiva indagine di campo la verifica della sua adeguatezza. Il Grande Gruppo IV – Impiegati comprende le professioni di ufficio con funzioni non direttive, espressione di un lavoro non manuale a carattere esecutivo (data workers), a cui in genere corrispondono livelli di istruzione formale non superiori all’obbligo scolastico. Come l'originaria Classificazione delle Professioni 2001 ricorda, il lavoro impiegatizio “non va identificato con il posto stabile e garantito in un ufficio di una organizzazione più o meno grande ma definito in rapporto ai compiti particolari che vi sono connessi. L’addetto all’archivio e l’addetto alla segretaria di uno studio professionale vanno certamente considerati impiegati (nelle rispettive classi e categorie), ma non è tale un ragioniere contabile che, indipendentemente dalla dimensione dello studio e dal tipo di contratto, va sempre classificato fra i tecnici”. La significativa divisione del lavoro già introdotta a livello di Categorie ha portato ad una modesta articolazione in Unità professionali (43, rispetto a 37 iniziali), rivolta essenzialmente a chiarire i confini fra alcune tipologie di impiegati, relativamente al contesto di lavoro. Il Grande Gruppo V - Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, classifica le professioni che svolgono funzioni gestionali e di assistenza alla clientela negli esercizi commerciali, forniscono servizi di ricezione e di ristorazione, servizi ricreativi e di supporto alle famiglie e di cura alla persona; di mantenimento dell’ordine pubblico, di protezione delle persone e della proprietà. Si tratta di professioni che richiedono conoscenze di base, in genere acquisibili completando l’obbligo scolastico, frequentando corsi di qualifica o attraverso esperienza pratica. Anche in questo caso il numero delle Unità Professionali non è molto lontano da quello delle originarie Categorie (61 rispetto a 47), rispondendo ad esigenze di maggior specificazione derivanti dalle caratteristiche dei ruoli e delle attività svolte. Il Grande Gruppo VI - Artigiani, operai specializzati e agricoltori raccoglie le professioni operaie e manuali specializzate in tutti i settori di attività economica. Il loro esercizio richiede l'esperienza, la conoscenza dei materiali, degli utensili, dei macchinari, dei processi produttivi e delle caratteristiche e possibilità d'uso del prodotto finito. Artigiani, Operai specializzati e Agricoltori possono utilizzare macchine o macchinari non automatici o semiautomatici per l'esecuzione del lavoro: tale uso – differentemente dal successivo Grande Gruppo VII – comporta la regolazione della macchina ed il controllo continuo sulla lavorazione. Oltre alla costruzione di oggetti e beni strumentali, le professioni classificate in questo gruppo esercitano anche attività di servizio legate a funzioni di installazione, manutenzione ed eventuale riparazione. La definizione delle Unità professionali (meno del doppio delle Categorie da cui discendono) è stata guidata dall'esigenza di disporre di un articolato insieme di riferimento per lo svolgimento della successiva osservazione diretta delle caratteristiche del lavoro reale. Ciò a fronte di indicazioni di letteratura che mostrano sia 79 tendenze all'accorpamento di più “mestieri” in un'unica figura “a banda larga”, sia – al contrario – l'importanza di mantenere distinzioni precise fra figure, in ragione della diversa dotazione di competenze, derivante dalla diversità dei contesti di esercizio. Una ragione che induce cautele metodologiche, evitando di assumere a priori ipotesi riduttive, è inoltre la presenza nel Grande Gruppo di situazioni professionali riferibili sia a contesti industriali che a contesti artigianali. Dove la diversa organizzazione del lavoro gioca – a parità di posizione nella classificazione – un ruolo potenzialmente rilevante nella definizione dei contenuti di sapere. I principali criteri adottati per definire il 5° digit sono la specificità delle attività svolte, delle tecnologie utilizzate, della posizione nel processo produttivo, dei contesti di lavoro e delle componente funzionali oggetto di intervento. E' peraltro importante osservare come la numerosità delle Unità professionali derivante dalla logica ora esposta si accompagni ad una rilevante riduzione della lista di voci professionali esposte nella originaria C.P. 2001 (ben 1.778), chiaramente esplicativa della logica di costruzione di un “linguaggio” minimo di rappresentazione del lavoro proprio della NUP. Il Grande Gruppo VII - Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili comprende gli addetti all’avviamento, mantenimento e controllo di macchine, impianti industriali automatizzati, linee automatiche di assemblaggio in grande serie di prodotti, macchine o parti di macchine; conduzione di veicoli o macchinari mobili per il movimento terra ed il sollevamento. Anche in questo caso, la definizione delle Unità professionali (116, non molte più delle 89 Categorie da cui discendono) ha seguìto i criteri esposti per il precedente Grande Gruppo, con esiti quantitativamente meno rilevanti in ragione della già forte articolazione in Categorie. Infine, il Grande Gruppo VIII - Professioni non qualificate comprende le professioni che richiedono un livello di conoscenza ed un grado di esperienza sufficienti a svolgere attività molto semplici e ripetitive, che comportano l’impiego di utensili a mano, spesso l’uso della forza fisica e limitata autonomia di giudizio e di iniziativa. Le professioni che rientrano in questo raggruppamento svolgono compiti di manovalanza non qualificata nelle attività agricole, industriali o di servizio, di guardiania e di portierato; di pulizia; di supporto esecutivo nelle attività di ufficio e compiti connessi all’esercizio di piccole attività ambulanti. La natura del lavoro compresa nel Grande Gruppo non ne giustifica l'ulteriore suddivisione in Unità professionali, queste ultime coincidendo dunque esattamente con le Categorie. Ai fini di un corretto uso dello strumento, vale la pena evidenziare ancora tre aspetti rilevanti45: - come intuibile, l'ordinamento dei Grandi Gruppi dell'originaria C.P. 2001 è dato da una “miscela di manualità, di responsabilità, di autonomia, di complessità del lavoro e del livello di competenze necessario per svolgerlo” esprimendo in parte – anche se non in modo deterministico – la posizione del lavoro nella società. L'ordinamento non è però applicabile in modo rigido e strettamente gerarchico. Un esempio è dato dal concetto di “attribuzione di responsabilità”. E' sempre più diffuso l'uso nelle aziende di delegare ruoli micro manageriali ad una parte consistente delle risorse umane, in una logica diffusa di responsabilizzazione e miglioramento delle capacità di governo dei fattori produttivi, legata ad obiettivi di garanzia della qualità. Anche le principali indagini sui fabbisogni svolte dalle parti sociali evidenziano la crescita del peso delle competenze “gestionali orizzontali” diffuse, che entrano in molti casi a far parte in modo organico di figure a carattere impiegatizio ed operaio. Ne discende che la sola variabile “responsabilità” non può essere letta in modo strettamente discendente passando dal primo all'ottavo Grande Gruppo. Ai fini della Nomenclatura, ciò significa che la responsabilizzazione diffusa non si accompagna all'evoluzione della posizione dei lavoratori interessati nell'ambito della Classificazione: cioè, a qualsiasi livello di Grande Gruppo, l'esercizio di una professione può prevedere l'esercizio del coordinamento di risorse 45 Fonte: Isfol/Istat, Nomenclatura e classificazione delle Unità Professionali – Introduzione - ultimo paragrafo. 80 o della supervisione di gruppi di lavoro, senza che ciò implichi il passaggio ad una professione diversa o superiore; - un altro aspetto della C.P. 2001 è il forte ruolo giocato, nella definizione della logica classificatoria, dalle caratteristiche del processo produttivo a cui le professioni si riferiscono. Il contesto industriale (ed in generale manifatturiero) determina una maggiore segmentazione del lavoro, in ragione della varietà delle tecnologie e della sua articolazione interna, quanto in relazione ai modelli originari di natura tayloristafordista, o comunque basata sul prevalere della “specializzazione” sull'“integrazione”. Ciò determina una discontinuità nella classificazione con le professioni che non sono legate ai processi industriali, visibile nella diversa numerosità delle relative Categorie ed Unità; - un'ultima considerazione, collegata alla precedente, è come la necessità della NUP di rispettare la preesistente struttura della C.P. 2001 non abbia consentito di ridurre ulteriormente il numero delle Unità Professionali, stante la regola di presenza di almeno un 5° digit per ogni Categoria, anche quando verosimilmente la stessa è considerata poco rilevante nell'attuale mercato del lavoro. Sarà compito dell'indagine di campo fornire le informazioni necessarie per una eventuale ulteriore riduzione delle Unità, in coerenza con il riferimento delle “figure a banda larga”, di sempre maggior rilievo metodologico nell'analisi dei fabbisogni, nella programmazione e nella progettazione dell'offerta formativa. 8.7 Cenni su alcuni sistemi internazionali di classificazione: ISCO e O*Net. La “International Standard Classification of Occupations”46 (ISCO), realizzata periodicamente dall’ International Labour Organization (ILO), è una delle maggiori classificazioni internazionali e appartiene alla famiglia di classificazioni internazionali economiche e sociali. Tale classificazione rappresenta uno strumento per organizzare le occupazioni in un insieme di gruppi chiaramente definiti, sulla base dei compiti e dei doveri richiesti da una professione. I suoi obiettivi principali sono: - fornire una base di riferimento per le documentazioni internazionali, un confronto ed uno scambio di dati statistici ed amministrativi riguardanti le professioni; - fornire un modello di elaborazione per le classificazioni delle professioni nazionali e regionali; - fornire un sistema che possa essere usato direttamente nei Paesi nei quali non si è ancora provveduto ad elaborare delle proprie classificazioni nazionali. Essa è concepita per essere usata nelle applicazioni statistiche e nella varietà delle applicazioni orientate al cliente; questa ultima tipologia applicativa include: l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, la gestione delle migrazioni tra Paesi dei lavoratori a breve e lungo termine e lo sviluppo di programmi di formazione e orientamento professionale. La prima versione dell’ISCO fu adottata nel 1957 dalla “IX Conferenza Nazionale degli Statistici del Lavoro” (ICLS); tale classificazione, conosciuta come ISCO-58, fu superata da ISCO68, adottata dall’ “XI Conferenza Nazionale degli Statistici del Lavoro”, e da una terza versione, ISCO-88 adottata dalla “XIV Conferenza Nazionale degli Statistici del Lavoro”. ISCO è stata recentemente aggiornata in considerazione degli sviluppi intervenuti nel mondo del lavoro rispetto al 1988 e per apportare delle modifiche alla luce dell’esperienza ottenuta dall’utilizzo di ISCO-88. L’aggiornamento non ha portato cambiamenti ai principi di base e alla struttura generale di ISCO-88, ma sono state apportate modifiche rilevanti in alcune aree. 46 Classificazione Standard Internazionale delle Occupazioni 81 La classificazione aggiornata è stata adottata nel dicembre 2007 ed è conosciuta come ISCO08. Alcuni Paesi hanno usato, o usano, una o più versioni di ISCO come modello per le proprie classificazioni nazionali, mentre altri hanno mantenuto o sviluppato la propria struttura nazionale; anche alcune classificazioni regionali sono state realizzate sulla base di ISCO. Molti dei Paesi che hanno adottato il modello ISCO hanno definito la struttura delle proprie classificazioni nazionali in termini di un insieme di titoli e titoli alternativi delle occupazioni ma non hanno necessariamente sviluppato una serie di descrizioni e definizioni da associare a tale insieme. Al momento, in molti Paesi, si sta provvedendo all’aggiornamento delle classificazioni nazionali sulla base di ISCO-08 o adattando queste ultime ai nuovi standard statistici internazionali47. Il modello concettuale di riferimento alla base della “Nomenclatura delle Unità Professionali” frutto della collaborazione tra Isfol e Istat, è stato mutuato dall’Occupational Information Network (O*Net)48 realizzato con la sponsorizzazione del Dipartimento del Lavoro, Impiego e Formazione statunitense. Il programma O*Net è la prima fonte americana di dati sull’ occupazione e vede al centro del progetto la cura di un database contenente i dati su centinaia di descrittori standard e specifici delle occupazioni. Il database è costantemente aggiornato con i risultati di continui sondaggi effettuati su ampi campioni di lavoratori per ciascuna occupazione e le informazioni in esso contenute formano il cuore di “O*Net online”, un’applicazione interattiva per esplorare e cercare un’occupazione che fornisce anche la base per una sezione denominata “Strumenti di Esplorazione di una Carriera” 49 all’interno della quale sono visionabili una serie di preziosi strumenti valutativi per i lavoratori che desiderino cambiare carriera o per gli studenti in cerca di occupazione. Secondo il modello O*Net, l’anatomia di un’occupazione è composta da un mix di conoscenze, competenze e abilità ed è svolta eseguendo una certa varietà di attività e compiti. Tali caratteristiche distintive di una professione sono descritte nell’ “O*Net Content Model” che definisce i tratti principali di un’occupazione come un insieme misurabile e standard di variabili chiamate “descrittori”. Il modello fornisce un contesto che identifica le tipologie di informazioni sul lavoro più rilevanti e le integra in un sistema teorico ed empirico che rappresenta il risultato di ricerche sul lavoro e di analisi delle organizzazioni; esso incarna una visione che riflette il carattere delle occupazioni (attraverso dei descrittori job-oriented) e delle persone (attraverso dei descrittori workeroriented) e permette, inoltre, un utilizzo trasversale dei dati tra occupazioni, settori o aziende (descrittori cross-occupation) e all’interno delle singole occupazioni (descrittori occupation specific); tali descrittori sono organizzati in sei campi principali che permettono all’utente di focalizzare la propria attenzione sulle aree di informazioni che specificano gli attributi chiave e le caratteristiche dei lavoratori e delle professioni: 47 La risoluzione che ha adottato ISCO-08, la sua struttura di classificazione, le definizioni finali dei gruppi professionali e le tabelle di raccordo con ISCO-88 sono consultabili sul sito: www.ilo.org . 48 Per maggiori informazioni su O*NET Resource Center, consultare il sito: www.online.onetcenetr.org. 49 In lingua originale: “Career Exploration Tools”. 82 Fonte: www.online.onetcenter.org WORKER CHARACTERISTICS: considera quelle “caratteristiche del lavoratore” che possono influenzare sia l’esecuzione del lavoro, sia la capacità di acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per una performance ottimale. Tali caratteristiche comprendono le qualità durature dell’individuo che possono influire sul come egli affronta i propri compiti e sul come egli acquisisce conoscenze e competenze pertinenti ad una data professione. Tradizionalmente, l’analisi delle abilità è stata la tecnica più comune per il confronto tra lavori in termini di caratteristiche dei lavoratori. Tuttavia, recenti ricerche supportano l’inclusione di altre tipologie di caratteristiche quali gli interessi occupazionali e i valori del lavoro dell’ individuo che sembrano ben riflettere le preferenze del lavoratore circa l’ambiente lavorativo e i risultati attesi. Un’altra caratteristica sempre più considerata è lo stile di lavoro che rappresenta le tipiche differenze procedurali nel modo in cui il lavoro viene eseguito. Le abilità, cioè attributi duraturi dell’individuo che influenzano la sua esecuzione, possono essere: cognitive, se incidono sull’acquisizione e l’applicazione di conoscenze nella risoluzione dei problemi; verbali, se incidono sull’acquisizione e l’applicazione di informazioni verbali nella risoluzione dei problemi (comprensione orale e scritta o espressione orale e scritta); di ragionamento e di generazione di idee, che incidono sull’applicazione e la manipolazione delle informazioni nella risoluzione dei problemi (fluidità delle idee, originalità, sensibilità ai problemi, ragionamento deduttivo, ragionamento induttivo, organizzazione delle informazioni, flessibilità organizzativa); quantitative, se incidono sulla risoluzione dei problemi coinvolgendo relazioni matematiche (ragionamento matematico, buon rapporto con i numeri); mnemoniche, connesse con il richiamo tempestivo delle informazioni disponibili (memorizzazione di parole, numeri, immagini e procedure); percettive, connesse con l’acquisizione e l’organizzazione di informazioni visive (velocità nel tradurre, combinare ed organizzare le informazioni in contenuti di senso; flessibilità 83 nell’ identificare un contenuto conosciuto, nascosto tra altri materiali forvianti; velocità percettiva nel paragonare somiglianze e differenze tra insiemi di lettere, numeri, immagini o cose); spaziali, connesse con la manipolazione e l’organizzazione delle informazioni relative allo spazio (orientamento spaziale e conseguenti relazioni tra il sé e il resto; visualizzazione del come sarà un luogo dopo aver apportato delle modifiche); di concentrazione (concentrazione selettiva su un compito per un periodo di tempo più o meno lungo; suddivisione della propria concentrazione fra due o più attività o fra diverse fonti di informazione); psicomotorie, che possono incidere sulla capacità di manipolare e controllare gli oggetti nello spazio e nel tempo; di velocità di reazione ai segnali; fisiche che incidono su forza fisica, durata (la capacità di esporsi fisicamente per un lungo periodo, flessibilità, equilibrio e coordinazione; sensoriali, che incidono sulla percezione visiva, auditiva e del linguaggio. Gli interessi occupazionali rappresentano le preferenze del lavoratore circa il contesto lavorativo. Tali contesti possono distinguersi in: realistici: coinvolgono frequentemente attività manuali e pratiche; sono spesso connessi con piante, animali e materiali propri del mondo-reale come legno, attrezzi e macchinari. Molte delle occupazioni richiedono di svolgere la propria attività all’aperto e non richiedono burocrazia o il lavorare necessariamente a contatto con altri; investigativi: coinvolgono il lavorare con le idee e richiedono un’ elevata capacità di riflessione; artistici: si basano sul lavoro con forme, disegni e contenuti. Spesso richiedono l’ auto-espressione e l’ attività può essere svolta senza seguire un dato insieme di regole; sociali: coinvolgono le attività di lavoro con altri, di comunicazione e di insegnamento, oltre quelle di sostegno e fornitura dei servizi alla comunità; aziendali: coinvolgono lo start-up e la gestione di progetti. Tali occupazioni solitamente coinvolgono soggetti predisposti alla leadership e a prendere decisioni in quanto, spesso, tali attività richiedono la valutazione del rischio e sono connesse con il business; convenzionali: si tratta di contesti lavorativi caratterizzati da procedure e routine; al loro interno, spesso si lavora più con i dati e i dettagli che con le idee e prevedono una linea da seguire definita dai vertici. I valori del lavoro rappresentano gli aspetti globali di un’occupazione, composta dai bisogni specifici di un individuo per il raggiungimento della sua soddisfazione. Le variabili che possono essere prese in considerazione sono: - realizzazione: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro sono orientate al risultato e permettono al lavoratore di utilizzare le sue migliori abilità, dandogli un senso di realizzazione; - le condizioni di lavoro: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro offrono sicurezza e buone condizioni lavorative. Ad esse corrispondono i bisogni di attività (il lavoratore è sempre impegnato), indipendenza (il lavoratore opera da solo), varietà (il lavoratore svolge spesso attività diverse), compensazione (il lavoratore è ben pagato in rapporto ad altri), sicurezza (il lavoratore ha un solido impiego) e di buone condizioni lavorative; - riconoscimento: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro offrono la possibilità di avanzamenti di carriera e sono considerate prestigiose. Ad esse corrispondono i bisogni di avanzamento di carriera, riconoscimento (il lavoratore riceve gratificazioni per il suo operato), autorità (il lavoratore dirige ed istruisce gli altri), status sociale (il lavoratore è positivamente considerato all’interno del suo contesto lavorativo e nella comunità); - le relazioni: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro permettono al lavoratore di fornire servizi agli altri e di co-operare in un clima lavorativo non competitivo. Ad esse 84 corrispondono i bisogni di collaborazione, di utilità sociale e di moralità (il lavoratore non è pressato dal fare qualcosa che vada contro il suo senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato); - il supporto: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro offrono una dirigenza di supporto che mette in primo piano l’operato dei lavoratori. Ad esse corrispondono i bisogni di sviluppare una politica aziendale (che tenga in giusto conto il lavoratore), di esercitare una supervisione delle Risorse Umane (che guidi l’operato dei lavoratori) e una supervisione tecnica (che provveda agli aggiornamenti formativi dei lavoratori); - l’indipendenza: le occupazioni che soddisfano tale valore del lavoro permettono al lavoratore di operare da solo e di prendere decisioni. Ad esse corrispondono i bisogni di creatività (il lavoratore non teme di esporre le proprie idee), responsabilità (il lavoratore prende decisioni da solo), autonomia (il lavoratore pianifica il proprio lavoro senza la necessità di essere frequentemente supervisionato). Gli stili di lavoro sono connessi con le caratteristiche personali di un lavoratore che possono incidere sulla qualità della sua esecuzione. Questa variabile deve considerare: l’orientamento alla realizzazione: l’occupazione necessita della definizione degli obiettivi da raggiungere, cercando di essere competenti nella propria attività e accettando le sfide poste da eventuali ostacoli; l’influenza sociale: l’occupazione richiede di produrre un impatto sugli altri e fa emergere energia e propensione alla leadership; l’orientamento interpersonale: l’attività richiede di essere piacevoli, cooperativi, sensibili agli altri e preferire l’associazionismo con i membri di altre organizzazioni; l’adattabilità: l’occupazione richiede maturità, flessibilità, self-control, tolleranza dello stress e apertura al cambiamento; la coscienziosità: la professione richiede propensione al corretto e attento svolgimento del lavoro e che il lavoratore sia attendibile, affidabile, eticamente integro e attento ai dettagli; intelligenza pratica: l’occupazione richiede la generazione di idee utili e l’uso della logica; essa, inoltre, è aperta all’ innovazione (in termini di creatività e di ragionamento alternativo per sviluppare nuove idee e risolvere i problemi relativi al lavoro). WORKER REQUIREMENTS: il secondo campo considera i descrittori relativi alle caratteristiche proprie di un’occupazione che siano acquisite e/o sviluppate attraverso l’esperienza e l’educazione e che sono richiesti ad un lavoratore per svolgere una determinata attività. Tali caratteristiche possono essere associate alla prestazione sotto forma di “conoscenze” e “competenze”. Le conoscenze rappresentano l’acquisizione di informazioni su fatti e principi relativi ad una determinata area; l’esperienza è il fondamento per stabilire le procedure di lavoro con le conoscenze a disposizione. Tali procedure sono più comunemente chiamate “competenze” e possono essere ulteriormente suddivise in: “competenze di base” intese come le capacità che facilitano l’apprendimento o una più rapida acquisizione delle conoscenze; esse possono riguardare i contenuti (strutture di background necessarie per il lavoro quali, ad esempio, il saper leggere o il saper scrivere) o i processi (procedure che contribuiscono ad una più rapida acquisizione delle conoscenze quali, ad esempio, il ragionamento critico che aiuta ad identificare i punti di forza e i punti di debolezza di eventuali soluzioni alternative, di conclusioni o di approcci ai problemi); “competenze trasversali” intese come capacità che facilitano la performance di attività interdisciplinari. Tra queste distinguiamo tra: 1. “competenze sociali” necessarie per il raggiungimento degli obiettivi per quelle professioni in cui il lavoratore deve interfacciarsi con altre persone (tra le caratteristiche di tali competenze troviamo: spirito di collaborazione, percezione sociale, persuasione, negoziazione, istruzione); 85 2. “competenze di risoluzione dei problemi” (problem solving); 3. “competenze tecniche” che richiedono capacità di progettare, installare, operare e correggere malfunzionamenti nel caso di utilizzo di macchinari e di sistemi informatici; 4. “competenze sui sistemi” utili per capire, monitorare e migliorare i sistemi socio-tecnici (tra le caratteristiche di tali competenze troviamo: capacità di valutazione delle azioni e di decisione, capacità di analisi dei sistemi e loro valutazione sulle performance in relazione agli obiettivi attesi dal sistema); 5. “competenze di gestione delle risorse” che permettono un’efficiente allocazione delle stesse (gestione dei tempi, delle risorse finanziarie, delle risorse materiali e delle risorse umane); “conoscenze” intese come insiemi di principi e fatti afferenti a settori generici (per fare qualche esempio: amministrazione e gestione, contabilità, vendita e marketing, servizio clienti, materie scientifiche, servizi sanitari, educazione e formazione, sociologia e antropologia, legge e pubblica sicurezza, comunicazioni, trasporti, ecc…). EXPERIENCE REQUIREMENTS: il terzo campo del modello considera i requisiti connessi con occupazioni precedenti e esplicitamente collegati con alcune tipologie di attività lavorative. Questo campo include le informazioni relative al tipico background esperienziale dei lavoratori in una data occupazione, o in un dato gruppo di occupazioni, comprendendo anche le certificazioni, le licenze e i dati sulla formazione. Per esempio, le informazioni circa le certificazioni professionali o organizzative richieste per l’ingresso e per l’avanzamento in una professione, le modalità educative o di formazione preferite e, ancora, eventuali apprendistati saranno documentati in questa parte del modello. OCCUPATION – SPECIFIC INFORMATION: questo campo contempla il dettaglio di un insieme complessivo di elementi afferenti ad una singola occupazione o ad una ristretta famiglia di professioni definita. Questo campo è parallelo agli altri campi del modello O*Net perché include requisiti come le conoscenze specifiche necessarie per lo svolgimento di una professione, le competenze e i compiti in aggiunta ai macchinari, alle attrezzature, agli strumenti, ai software che gli operatori dell’information technology possono utilizzare per i propri lavori; esso, inoltre, fornisce dati sul mercato del lavoro definiti dal settore industriale. Questo campo è particolarmente importante nel caso si vogliano sviluppare specifiche applicazioni di O*Net. Ad esempio, è necessario fare riferimento alle informazioni descrittive su occupazioni specifiche per specificare la formazione, per sviluppare descrizioni delle posizioni o per ripensare le occupazioni. WORKFORCE CHARACTERISTICS: in questo campo sono considerate le variabili che definiscono e descrivono le caratteristiche generali delle occupazioni che possono incidere sui requisiti professionali. Le organizzazioni non esistono in isolamento; esse devono necessariamente operare all’ interno di una più ampia struttura sociale ed economica. Per essere utile, un sistema di classificazione professionale deve incorporare le caratteristiche contestuali globali. Il modello O*Net fornisce tali informazioni compattando le informazioni descrittive sull’ occupazione e i dati statistici sul mercato del lavoro, non trascurando i dati sui sistemi di retribuzione e compensazione, sulle prospettive occupazionali e sulle dimensioni delle aziende50. OCCUPATIONAL REQUIREMENTS: questo ultimo campo prende in considerazione un insieme di variabili o di elementi dettagliati che descrivono i requisiti necessari per lo svolgimento delle varie professioni. Questo campo include le informazioni circa le tipiche attività richieste dalle 50 Molte di queste informazioni sono raccolte al di fuori della portata del programma O*Net e, dunque, per eventuali approfondimenti, si rimanda ai siti dei seguenti organismi: U.S. Department of Labour - Bureau of Labour Statistics, Apprenticeship Training, Employer and Labor Services, America’s Career InfoNet; U.S. Department of Education – Classification of Instructional Programs. 86 occupazioni; le informazioni circa i compiti sono spesso troppe specifiche per descrivere una professione o un gruppo professionale. L’approccio di O*Net consiste nell’ identificare sia le attività generalizzate, sia quelle dettagliate del lavoro per riassumere le più ampie e le più specifiche tipologie di comportamenti del lavoro e i compiti che possono essere eseguiti all’ interno di varie occupazioni. L’ uso di un siffatto approccio consente di utilizzare un insieme singolo di descrittori per descrivere molte professioni. In questa sezione sono, inoltre, incluse le variabili di contesto, quali il contesto fisico, sociale o strutturale del lavoro, che possono imporre richieste specifiche al lavoratore o alle attività. Per quanto concerne le attività generalizzate, cioè comportamenti lavorativi comuni a molte professioni, il modello indica, tra le altre, le seguenti variabili: le modalità di reperimento delle informazioni utili per l’esecuzione del lavoro; i processi mentali di pianificazione, di risoluzione dei problemi, di decisione scaturiti dall’ ottenimento di tali informazioni; il prodotto del lavoro (inteso sia come risultato di attività fisiche o manuali, sia come risultato di attività tecniche quali l’interazione con i computer o l’organizzazione delle informazioni); il grado di interazione con altri, siano essi interni o esterni al contesto lavorativo di riferimento; A questo proposito, una sezione importante di questo campo è rappresentata dalle variabili relative all’ analisi del contesto organizzativo le cui caratteristiche influenzano il modo di operare dei lavoratori. Tra le numerose variabili relative a tale contesto citiamo: - le caratteristiche strutturali di un sub-sistema funzionale della struttura dell’organizzazione che include lo schema organizzativo e i sistemi delle risorse umane e delle pratiche aziendali; - l’architettura dell’organizzazione (gerarchia dell’organizzazione, grado di accentramento, ecc…) che può condizionare il comportamento dei suoi membri così come la loro capacità di adattarsi al contesto; - il sistema decisionale e il grado di coinvolgimento dei lavoratori al decision making dell’organizzazione; - le politiche dell’organizzazione in merito al decentramento delle funzioni e a favore di un potenziamento dei lavoratori; - l’attribuzione di un significato e di un’identità a ciascun compito in modo tale che il lavoratore abbia la percezione di contribuire al prodotto finale; - stabilità del lavoro e rotazione (numero dei supervisori avuti dal lavoratore nell’ultimo periodo, numero dei gruppi di lavoro nei quali è stato coinvolto, o il numero di volte che la natura dei suoi compiti è stata modificata); - i sistemi delle risorse umane e delle pratiche che garantiscano politiche organizzative implementate per far incontrare gli obiettivi dell’organizzazione con quelli del lavoratore oltre che politiche dei processi di recrutamento e selezione all’ interno dei quali l’organizzazione dimostra le proprie capacità di prendere decisioni riguardanti il personale; - le politiche di formazione e sviluppo dell’organizzazione; - i processi sociali che costituiscono un sub-sistema organizzativo che ha lo scopo di motivare il lavoratore nei confronti del proprio lavoro e nei confronti degli altri e include elementi come i valori, gli obiettivi, la leadership e i la definizione dei ruoli; - il grado di condivisione della cultura dell’organizzazione in merito a valori (tradizione, stabilità, innovazione e collaborazione) e principi guida (cogliere le opportunità, precisione, giustizia, cura dei dipendenti, enfasi sul servizio clienti, qualità dei prodotti, apertura mentale, onestà, flessibilità, propensione al cambiamento) dell’organizzazione; - la natura della leadership manageriale (se amichevole e collaborativa, se svolge un ruolo attivo nel definire obiettivi e nel pianificare e organizzare il lavoro, se ha una chiara visione delle azioni da svolgere e se ha un’effettiva capacità di risoluzione dei problemi). 87 Un’ altra sezione importante è quella che prende in considerazione il contesto lavorativo e tutti i fattori fisici e sociali che influenzano la natura del lavoro. Tra le variabili ad esso relative citiamo: - le relazioni interpersonali, categoria che descrive il contesto lavorativo in termini di processi umani di interazione; - la comunicazione (tipo e frequenza delle interazioni con altre persone che sono richieste per l’attività); - le relazioni tra ruoli, gli eventuali rapporti conflittuali e la relativa frequenza, il livello e la natura della competizione; - il contesto ambientale all’ interno del quale il lavoratore opera e la misurazione della frequenza con il quale viene esposto a particolari condizioni ambientali del lavoro (al rumore, al caldo eccessivo, al freddo intenso, ad un’eccessiva luce, a sostanze contaminanti, ecc…); - i rischi che un lavoratore corre svolgendo un determinato lavoro ed anche la posizione del corpo durante la sua attività; - le caratteristiche strutturali del lavoro che comprendono le relazioni e le interazioni tra il lavoratore e le caratteristiche della sua attività (incidenza dell’operato del lavoratore sul prodotto finale, conseguenze di un suo errore, frequenza e natura di una sua decisione sull’ organizzazione, l’importanza della precisione nel suo operato, grado di automazione della sua mansione, ecc…). 9 Le professioni nel turismo Per molti anni si è dibattuto, in Italia, intorno ad una definizione di turismo culturale, di turismo e cultura, di cultura e turismo. Oggi non si hanno dubbi nell’affermare che il turismo è cultura e che le nuove professionalità emergenti nel comparto richiedono una solida cultura interdisciplinare ed una grande motivazione. Progettare, coordinare, realizzare una cultura del turismo: è ciò che si chiede ai soggetti che già operano nel settore, ma anche a coloro che si affacciano, per la prima volta, alle attività ad esso connesse. Se pensiamo alle diverse figure professionali che si nascondono sotto il termine generico di “operatore turistico”, comprendiamo immediatamente che, per occuparsi di turismo, è necessario avvalersi di una competenza interdisciplinare (culturale, umana, psicologica, sociale, legislativa, organizzativa, ecc.) e polispecialistica, tanto che, negli ultimi quindici anni, le “Scienze del Turismo” sono state inserite nell’ambito di facoltà di Economia, Scienze dell’Educazione, Geografia, Architettura, Scienze Politiche, Sociologia, nonché in corsi di laurea in Storia dell’arte e dei beni culturali. Le Scienze del Turismo, dunque, riguardano più aspetti ed impongono una cultura multidisciplinare, che va ricercata, impostata, perseguita anche se fra mille difficoltà e resistenze. Ai fini del presente lavoro, l’attenzione viene posta non tanto su quelle figure professionali cosiddette “tradizionali” e già ampiamente considerate da indagini, ricerche e studi che pur costituiscono lo zoccolo duro dei lavori nel turismo (agente di viaggio, cameriere, barman, cuoco, receptionist, ecc…), quanto piuttosto su quelle figure professionali collocabili a livello di middlemanagement nel sistema occupazionale del turismo e che possono essere costituite da professionalità emergenti, ma anche da figure tradizionali che hanno dovuto, nel tempo, reinventarsi per meglio adattarsi alla complessità del sistema, generando anche nuove modalità di espletamento di ruoli canonici. Per preparare al meglio tali figure professionali, il sistema deve necessariamente predisporre o affidarsi a validi organismi di ricerca e formazione, basandosi sulla consapevolezza che il turismo, essendo un fenomeno estremamente complesso e dinamico, spinge il mercato del 88 lavoro ad una continua evoluzione e, soprattutto, a cercare di anticipare le tendenze del mercato occupazionale e produttivo, programmando e pianificando una formazione che sia sempre un passo avanti rispetto alle dinamiche evolutive del fenomeno. Formazione, motivazione, coinvolgimento sono dimensioni nevralgiche per gli esiti delle performance professionali in materia turistica e il capitale umano, nonché la sua valorizzazione, sono strettamente connessi con la capacità produttiva dell’intero sistema. L’ancora troppo elevata diffusione di un approccio top-down ai cambiamenti organizzativi, mette in evidenza l’esigenza di diffondere, nei contesti pubblici, e soprattutto nei confronti di chi ha autorità decisionale, sollecitazioni continue verso una maggiore sensibilità alle strategie di gestione organizzativa e, in primo luogo, delle risorse umane. Un contesto organizzativo efficiente è solo quello che mette a disposizione degli individui tutti gli strumenti necessari per accrescere le proprie prestazioni professionali, senza dimenticare il proprio ruolo di guida, ma anche di compartecipazione, all’interno di processi di decisione politica che diventano sempre più ampi, perché la società attuale è una società destinata al continuo cambiamento. In materia di occupazione, alla base del sistema turistico restano saldamente posizionate le professioni afferenti al “core business” anche se, il sempre più frequente ricorso, da parte di singoli, aziende e settore pubblico a figure caratterizzate da elementi di “frontiera” fa ipotizzare lo sviluppo di nuovi spazi e nuove modalità di gestione del fenomeno turistico anche nei comparti professionali più tradizionali. Tra il nucleo di professioni già consolidate e le professioni connesse con altre sfere di attività si determina un’area di interferenze, più o meno rilevanti, che comunque garantiscono il proprio apporto all’intero sistema. Le professioni appartenenti a questa area si fondano su dinamiche relazionali tali da consentire ad alcune professioni di essere considerate come già ufficialmente “turistiche” e, di conseguenza, sempre più riconducibili al “core”, ad altre professioni, al contrario, gravitando a più distanza dal centro, di far fatica ad essere riconosciute. “Mentre il tour operator per eccellenza produce relazioni di sistema e tra i sistemi, componendo offerte semplici (viaggio – alloggio - visite), l’operatore museale compone relazioni multiple tra offerte dentro e fuori il sistema turistico e perciò anima l’alone attorno al centro: con maggiore densità e stabilità in alcune destinazioni e siti (ad esempio i centri d’arte), scomparendo invece in altri (le destinazioni balneari) anche se non necessariamente per l’assenza di Istituti d’arte (e di lavori di cura del patrimonio), ma per una loro estraneità alla fruizione turistica esplicita”51 . Allontanandosi via via dal cuore delle professioni turistiche, nell’alone attorno al centro intervengono soggetti professionali provenienti da altre sfere di attività e fanno sì che l’intero sistema si diradi trascurando quei settori apparentemente ancora estranei al turismo; un esempio concreto può essere rappresentato da tutte le professioni che ruotano attorno alla tutela di ecosistemi che, indipendentemente dalla presenza di fruitori, sembra estranea al turismo in quanto si pone l’obiettivo di mantenere saldo l’equilibrio naturale o riproduttivo; tuttavia va considerato che le attività implementate ora, potranno permettere in futuro di ampliare il patrimonio di risorse da offrire ai visitatori. E’ proprio la costante espansione dell’area di interazioni tra le professioni del “core” e le sfere di attività esterne che offre il giusto spazio a famiglie di figure professionali già in parte collaudate, ma all’interno delle quali emergono continuamente profili professionali più dinamici verso i quali orientarsi in futuro. Alcuni esempi di queste famiglie possono essere rappresentati da: 51 R. Cappellari, A. Comacchio: “I lavori nel turismo – Professioni, competenze, opportunità” – F. Angeli, 2000. 89 i curatori di patrimoni culturali, ambientali, naturali e di heritage52; gli esperti di sviluppo territoriale per determinate aree; i facilitatori del coordinamento tra settore pubblico e settore privato in materia di sviluppo turistico; i promotori di logiche di sistema per i territori a vocazione turistica; i formatori per il turismo; Si tratta di famiglie professionali non ancora analizzate in profondità e, per molti aspetti, considerate “rischiose” dal momento che non è ancora possibile garantirne la portata innovativa né la diffusione; la loro evoluzione sarà comunque condizionata dalla policy turistica che ogni singolo territorio deciderà di implementare oltre che dagli orientamenti nazionali e comunitari del settore. 9.1 I criteri che guidano la scelta di una professione Come già accennato precedentemente, il fenomeno turistico permette un’ampia possibilità di scelta di professioni. Nell’immaginario collettivo, chi opera nel turismo deve possedere notevoli capacità relazionali e metabolizzare, oltre che trasmettere, la “politica del sorriso”; secondo molte persone questo universo professionale non dovrebbe essere accessibile ad individui timidi o con difficoltà relazionali. In realtà, sono molteplici le professioni turistiche la performance delle quali non dipende necessariamente dal contatto diretto con il cliente (basti pensare all’ampia gamma di professioni offerta dal comparto della programmazione) e che, pertanto, possono essere efficientemente svolte anche da individui caratterizzati da una certa chiusura caratteriale. Inoltre, comunemente si crede che lavorare nel turismo implichi il fatto di essere sempre in viaggio, all’estero, vivere negli aeroporti; in realtà, la maggior parte delle professioni che cercheremo di declinare in questa sede, non richiedono eccessivi spostamenti, ma sono piuttosto concentrate sullo sviluppo territoriale di aree definite. In ogni caso, prima di indirizzarsi verso una qualsiasi professione, sarebbe opportuno interrogarsi circa le caratteristiche e le aspettative di un’attività professionale. Tra i vari criteri che potrebbero guidare la scelta di una professione nel turismo, in questa sede si propongono i seguenti: comparto di attività in cui si desidera operare: ricettivo (incoming), distributivo, outgoing, congressuale, consulenza, ecc…; la scelta del comparto spesso sottintende anche le caratteristiche della professione da svolgere; per esempio, alcuni comparti sono caratterizzati dalla forte presenza di imprese a conduzione familiare, altri richiedono un’ottima conoscenza delle nuove tecnologie; tipo di rapporto di lavoro: la varietà delle attività effettuabili nei vari comparti del sistema turistico, si ripercuote anche sul piano delle modalità di rapporto lavorativo; come pochi altri settori, il turismo offre opportunità di scelta tra: privato, pubblico, dipendente, autonomo, imprenditoria; va comunque evidenziato che, anche da questo punto di vista, il sistema sembra soffrire di notevoli ritardi nell’adeguare la contrattualistica alle esigenze dei lavoratori; area di attività: si tratta di una scelta fondamentale ai fini di crescita professionale, dal momento che scegliere un’unità organizzativa piuttosto che un’altra (all’interno di un Tour Nella nostra lingua, la definizione di turismo culturale include anche un turismo delle “eredità”, delle tradizioni e dei patrimoni storici, artistici, naturalistici ecc…; tuttavia tale definizione risulta assai generica e, in qualche modo, sembra circoscrivere il concetto ad aspetti puramente folkloristici tralasciando sfumature che, al contrario, il termine inglese considera. 52 90 Operator si può, ad esempio, decidere di lavorare nel back-office piuttosto che al booking) implica la scelta del tipo di specializzazione al quale si vuole arrivare; contenuto della mansione: si tratta di considerare i compiti assegnati, il loro livello di difficoltà da un punto di vista fisico (ad esempio il numero di ore) e da un punto di vista mentale (il livello di concentrazione richiesta). Inoltre, va attentamente valutata la discrezionalità tecnica che una mansione implica, gli effettivi contenuti richiesti per il suo svolgimento e i tempi di apprendimento necessari ad eseguirla. Tutte le mansioni richiedono lo svolgimento di più compiti; diventa allora fondamentale non valutare i singoli compiti che la compongono, ma considerare la mansione nella sua complessità. Tra gli aspetti che possono facilitare tale valutazione possiamo indicare: - il livello di autonomia concesso nello svolgimento della mansione: dal grado di discrezionalità che viene concessa per lo svolgimento dei compiti, dipende spesso il grado di soddisfazione del lavoratore; infatti, ad una certa autonomia, corrisponde il più delle volte un ottimo utilizzo delle proprie competenze, anche se è necessario verificare la presenza di eventuali referenti (ad esempio un responsabile) ai quali rivolgersi per ulteriori apprendimenti o per la soluzione di problemi; - il livello di varietà della mansione: un lavoro monotono, il più delle volte, provoca insoddisfazione in chi lo svolge; se, al contrario, la mansione richiede compiti diversificati, il lavoratore generalmente sente di crescere professionalmente, di potenziare la sua capacità di problem solving e acquisisce autostima. Va comunque precisato che anche un’eccessiva varietà può essere controproducente dal momento che può dare origine a stress e senso di inadeguatezza soprattutto in quei lavoratori che hanno bisogno di certezze e non amano gli imprevisti; - tipologia di relazioni interpersonali: molte professioni turistiche si fondano sulla capacità di relazionarsi con altri soggetti. Tali relazioni possono essere o meno fonte di soddisfazione oppure richiedere self-control, pazienza e capacità di problem solving. Alcune mansioni richiedono un’elevata numerosità di contatti interpersonali (in genere si tratta di professioni del front-office), mentre altre richiedono una rete di contatti più ridotta che spesso è limitata alla sola unità organizzativa di riferimento (ad esempio, la contabilità in un’agenzia di viaggi); - possibilità di crescita professionale: la mansione dovrebbe permettere al lavoratore di sviluppare le proprie capacità e, dunque, di crescere professionalmente; - grado di contribuzione: uno degli aspetti di gratificazione del lavoro è rappresentato dal grado di contribuzione che il lavoratore percepisce; egli, infatti, necessita di sapere il risultato globale che si è ottenuto grazie al suo operato. Il giudizio di un cliente su un pacchetto turistico acquistato, ad esempio, consente al lavoratore di valutare il suo lavoro e se questo ha contribuito a soddisfare le esigenze del cliente. Per meglio comprendere le caratteristiche di una professione si potrebbero considerare le seguenti coordinate: 1. l’organizzazione di riferimento; 2. principali compiti richiesti; 3. responsabilità assegnate e risorse gestite; 4. competenze e abilità richieste; 5. requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti. Nel paragrafo che segue, cercheremo di descrivere alcune figure professionali, di livello medio-alto, sulla base di queste coordinate. 91 9.1.1 Il funzionario di un’Azienda di promozione turistica - L’organizzazione di riferimento Le Aziende di promozione turistica (Apt) sono enti strumentali delle regioni l’organizzazioni delle quali è disciplinata da leggi regionali. Pur avendo, in alcuni casi, subito delle trasformazioni a seguito della Legge n. 135/2001, i compiti ad esse assegnate perseguono i seguenti macro-obiettivi: • la promozione, cioè un insieme di attività finalizzate a far conoscere e ad incrementare il turismo nell’area territoriale di competenza; • l’accoglienza, cioè la predisposizione di spazi e l’erogazione di servizi di informazione turistica di vario genere connesse con il territorio di riferimento. Generalmente, l’organizzazione delle Apt vede una sede centrale alla quale sono delegate le attività di promozione dell’intero territorio regionale e una serie di sedi secondarie (uffici di informazione), dislocate sul territorio regionale, in località a maggiore vocazione turistica. Organi istituzionali di un’ Apt sono: il presidente, il consiglio di amministrazione, nominato dal Consiglio regionale, e l’organo di revisione. Al vertice della struttura burocratica si trova poi un direttore assunto con contratto su base fiduciaria mediante una selezione per titoli. L’azienda si articola in due settori, uno dedicato agli aspetti amministrativi e contabili e uno (quantitativamente più rilevante) dedicato alle attività tipiche di promozione. Il funzionario responsabile dei servizi di promozione funge di solito anche da vicedirettore (anche se la figura non è prevista istituzionalmente) affiancando il direttore e sostituendolo nella definizione di strategie e nel coordinamento delle risorse dell’ente. - Compiti del funzionario di un’Azienda di promozione turistica Il compito principale di un funzionario di Apt è quello di coordinare l’insieme delle attività di promozione , in collaborazione con il direttore. Egli, nell’ambito di tale attività: • verifica il funzionamento degli uffici - informazione risolvendo eventuali problemi; • interagisce con gli operatori del settore nel caso di partecipazione congiunta a Borse e Fiere del Turismo o per altri eventi promozionali; • cura il coordinamento e le relazioni con gli altri enti che si occupano di promozione turistica e in particolare con gli enti locali; • cura la realizzazione del materiale informativo e pubblicitario sul territorio di riferimento e gli eventi organizzati, cercando anche eventuali sponsorizzazioni da parte di aziende private interessate a pubblicizzare il proprio marchio sulle pubblicazioni dell’ente. L’Apt realizza infatti guide tematiche, cartine, opuscoli, manifesti ed altro materiale; • organizza la partecipazione alle varie fiere di settore nazionali ed internazionali. - Responsabilità assegnate e risorse gestite L’obiettivo assegnato al responsabile della promozione turistica è quello di incrementare la notorietà delle località, promuovendone l’immagine e attraendo nuovi flussi turistici. Sui risultati in termini di arrivi e pernottamenti negli alberghi, l’azienda ha un feedback continuo attraverso il monitoraggio mensile dei dati forniti dagli alberghi. Le risorse gestite sono soprattutto risorse umane e finanziarie e variano di anno in anno in funzione delle attività programmate. - Competenze e abilità richieste Per lavorare nella promozione turistica è indispensabile la conoscenza dettagliata delle risorse a disposizione, oltre alla capacità di essere innovativi per fare un efficace marketing del territorio di riferimento e differenziarsi dalla concorrenza. Occorre, inoltre, saper esser flessibili nei tempi e nelle modalità di lavoro e avere la capacità di organizzare il proprio lavoro e quello degli altri. Trattandosi di un ente pubblico, per ricoprire il ruolo di funzionario è indispensabile una conoscenza di base del diritto amministrativo, che permette di velocizzare l’iter burocratico necessario per tradurre in pratica le idee progettuali. 92 - Requisiti minimi di accesso: formazione ed esperienze precedenti Ad eccezione del direttore, che viene assunto su base fiduciaria, requisito di accesso per l’assunzione in un’Apt è il superamento di un concorso pubblico. I requisiti variano in funzione del livello del posto messo a concorso (per svolgere le funzioni di vicedirettore con inquadramento all’ottavo livello è, ad esempio, indispensabile il possesso della laurea). Non sono invece indispensabili esperienze precedenti nel settore, dal momento che la professionalità può essere costruita anche “on the job”. 9.1.2 L’organizzatore di attività congressuali - L’organizzazione di riferimento Il turismo congressuale costituisce un interessante segmento di mercato nel nostro paese che ha visto una rapida accelerazione connessa alla crescente domanda di eventi congressuali da parte di un’utenza assai diversificata: enti pubblici, aziende private, istituzioni sindacali, associazioni culturali, sportive, politiche, medico-scientifiche, ecc…Il congresso come evento può diventare, soprattutto per le destinazioni mature, un utile strumento per rivitalizzare aree in declino, in quanto esso coinvolge diversi operatori del sistema turistico: coloro che organizzano l’evento in sé, le strutture ricettive e ristorative per l’accoglienza dei partecipanti, le aziende di trasporto, le stesse organizzazioni di intermediazione e agenzie di viaggio che forniscono un supporto non solo al viaggio richiesto dal convegno, ma anche alle attività di tipo turistico che sono associate a questo evento (visite alla località, educational per i partecipanti …). Allo stesso tempo, tale servizio risulta utile alla destagionalizzazione dell’offerta permettendo flussi, più o meno consistenti, di visitatori nel fuori stagione. Al rapido ampliarsi della domanda, ha fatto seguito un altrettanto rapido sviluppo di realtà aziendali specializzate: centri congressi, enti di organizzazione congressi, alberghi con apposite sale, modulabili in funzione delle esigenze. Le organizzazioni specializzate in questa tipologia di turismo sono generalmente di due tipi: i centri/palazzi congressi (o centri fieristici) e le società di organizzazione di congressi; i primi sono aziende che offrono la propria sede ed i servizi ad essa connessi per l’organizzazione di un convegno, mentre le seconde sono organizzazioni che offrono un servizio di predisposizione di un evento congressuale scegliendo la sede di volta in volta. L’ organizzatore di convegni, può operare nell’ambito di ambedue le tipologie di azienda o anche all’ interno di un hotel che voglia rendersi competitivo predisponendo il comparto congressuale o operare come libero professionista. - Compiti dell’organizzatore di convegni L’organizzatore di congressi è la figura professionale che confeziona una manifestazione congressuale “all inclusive” e che ne segue, spesso, lo svolgimento fino alla chiusura. Il suo compito primario è quello di predisporre l’evento rispettando le esigenze della committenza. Il budget è generalmente di complessa articolazione poiché deve prevedere: il programma dei lavori, la sede del convegno e le strumentazioni tecnologiche necessarie, il catering, il personale di assistenza, eventuali sponsor, eventuali traduttori, materiale da consegnare ai partecipanti, oltre che tutti i servizi di trasporto e ricettivi necessari alla partecipazione all’evento. L’evento congressuale spesso può includere anche momenti di socializzazione come cene di gala o visite guidate delle località vicine per gli eventuali accompagnatori dei partecipanti; tali attività richiedono un’attenta organizzazione complementare dalla quale può, in parte, dipendere il successo dell’evento e, di conseguenza, la percezione dell’efficienza della figura dell’organizzatore. Si tratta, dunque, di un servizio molto complesso che richiede un complesso coordinamento dei fornitori che vanno scrupolosamente selezionati e controllati; l’organizzatore è presente in tutti i momenti critici dell’evento, come ad esempio l’arrivo dei partecipanti, l’avvio del convegno, l’apertura della cena di gala … A congresso 93 concluso, egli generalmente si preoccupa di redigere un resoconto amministrativo e verifica la conformità tra progetto e bilancio; potrà anche essere chiamato a coordinare le fasi di traduzione, trascrizione e stampa degli atti del congresso. - Responsabilità assegnate e risorse gestite L’organizzatore di congressi è responsabile dell’evento nella sua interezza dal momento che egli è tenuto a fornire un risultato finale coerente con le richieste del committente. Sempre più di frequente, all’organizzatore vengono delegate anche le attività di promozione e di ricerca degli sponsors. Per la realizzazione dell’attività di budgeting e di coordinamento utilizza tradizionali strumenti di comunicazione e supporti informatici, ma deve tenersi costantemente aggiornato sulle innovazioni tecnologiche a supporto dell’attività e proporre ai committenti gli strumenti di comunicazione più idonei in funzione delle esigenze. Infine, egli è responsabile dell’efficienza dello staff organizzativo e delle procedure di selezione, direzione e coordinamento di tutti i soggetti che a lui fanno riferimento (hostess, traduttori, segreteria, ecc…). - Competenze ed abilità richieste Le conoscenze di base di questa figura professionale sono la conoscenza delle lingue, necessaria per gestire le relazioni con strutture, committenze e partecipanti internazionali e conoscenze in campo amministrativo indispensabili per la predisposizione di un budget. Fondamentale, per l’organizzatore di convegni, risulta la capacità di interloquire in maniera professionalmente qualificata con gli operatori turistici che sono coinvolti nell’organizzazione e, dunque, le conoscenze dei vari comparti del turismo possono concorrere ad una eccellente prestazione. Le competenze di maggior rilievo attribuibili a questo tipo di professionalità sono indubbiamente la capacità di pianificazione e organizzazione e l’attenzione al dettaglio, necessaria per tenere sotto controllo un servizio così complesso e garantirne la qualità in tutte le fasi. E’ superfluo sottolineare la necessità di possedere anche competenze di comunicazione verbale, necessaria per spiegare e descrivere l’evento al committente, e capacità relazionali per gestire l’ampia gamma di rapporti che la professione comporta. Questa attività consente di lavorare in notevole autonomia, a stretto contatto con le persone, ma al tempo stesso richiede di essere pronti di fronte agli imprevisti e, dunque, flessibilità nell’adattarsi al mutare degli eventi, e autocontrollo nelle fasi di tensione risultano essere un valore aggiunto notevole. - Requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti Per chi si affaccia alla professione, il titolo di studio richiesto è generalmente il diploma di scuola superiore (preferibilmente conseguito presso un istituto tecnico specialistico ad indirizzo turistico o di tipo linguistico). Tuttavia, la complessità delle attività da svolgere, richiederebbe un’istruzione di livello medio-alto e un diploma universitario o laurea sono considerati titoli di studio preferenziali se di taglio turistico, economico-aziendale o linguistico. Essendo considerata una figura professionale “emergente” è sempre più al centro dell’attenzione dei programmi di formazione di associazioni di categoria che propongono continuamente corsi professionali post-diploma o post-laurea. 9.1.3 L’esperto di sviluppo territoriale - L’organizzazione di riferimento L’esperto di sviluppo territoriale presta il suo servizio per Enti Pubblici o privati che intendono sviluppare le potenzialità del loro territorio di riferimento. In ambito pubblico, opera spesso per conto di soggetti istituzionali, di Aziende di turismo locale, Agenzie di sviluppo o anche di Uffici di Informazione Turistica regionali e comunali; in ambito privato i suoi committenti sono, generalmente, Consorzi e associazioni di vario genere. Questa figura opera per lo più in qualità di 94 collaboratore a tempo determinato o come libero professionista e risponde del suo operato direttamente al vertice dell’organizzazione che gli ha affidato l’incarico. E’, sostanzialmente, un esperto di marketing territoriale, specializzato nelle strategie di valorizzazione di aree definite. - Compiti dell’esperto di sviluppo territoriale Il suo compito primario è quello di elaborare e gestire progetti di sviluppo turistico locale, che promuovano l’immagine e le attrazioni di una determinata area geografica, individuando le modalità più idonee per un loro sfruttamento ottimale; valuta i fattori economici, ambientali, sociali e culturali dell’area di riferimento nel tentativo di integrarli efficacemente nell’offerta turistica; si relaziona con le imprese attive nel turismo e ne stimola l’innovazione e lo sviluppo; inoltre, promuove la partnership tra enti pubblici e settore privato; cura gli aspetti relativi alla commercializzazione dell’offerta turistica dell’area, valutando la domanda potenziale (attraverso indagini economiche e statistiche, sondaggi, interviste) e analizza le possibili forme di concorrenza per poi elaborare strategie pubblicitarie. - Responsabilità assegnate e risorse gestite Il compito assegnato all’esperto di sviluppo territoriale è quello di rendere competitivo il territorio di riferimento in termini di innovazione e sensibilizzazione degli abitanti verso la condivisione di politiche di turismo sostenibile. Egli può essere responsabile della gestione di progetti molto complessi che, a causa di possibili coinvolgimenti di stakeholders in fasi successive a quella iniziale, spesso si ampliano ulteriormente in corso d’opera. Se lavora in proprio, è generalmente responsabile dell’operato dei collaboratori che egli stesso seleziona e coordina. Le risorse finanziarie che si trova a gestire sono sempre preventivate con grande anticipo e concordate con il committente. - Competenze ed abilità richieste Questa figura professionale deve essere in grado di analizzare dettagliatamente il territorio di riferimento e le sue risorse; deve conoscere l’organizzazione del sistema turistico locale per poter interloquire efficacemente con i soggetti di volta in volta coinvolti; deve possedere buone conoscenze in materia di legislazione turistica, storia, geografia e folklore dell’area in cui si trova ad operare; deve conoscere a fondo le tecniche di marketing e le strategie di comunicazione di massa, oltre che saper redigere studi di fattibilità relativi all’implementazione dei vari progetti. Egli si trova spesso nella posizione di “mediatore” tra numerosi soggetti portatori di interessi assai diversi, pertanto è necessario che tale figura abbia buone capacità relazionali che vanno dal saper proporre e persuadere, al risolvere eventuali conflitti e al saper integrare i diversi punti di vista. Un valore aggiunto per questa professione è sicuramente la conoscenza delle tecniche di rilevazione della soddisfazione dei clienti e il tempismo nell’apportare eventuali correttivi. Indispensabile la conoscenza di almeno due lingue straniere e una conoscenza base dei sistemi informatici. Inoltre, l’attività richiede un ampio grado di autonomia decisionale nell’ elaborazione e gestione di progetti di sviluppo assai complessi. - Requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti E’ richiesta un’alta scolarità ed una certa esperienza nel settore, acquisita attraverso esperienze lavorative precedenti in ambito turistico o attraverso corsi di formazione specifici. Si tratta di un lavoro che richiede esperienza e maturità pertanto raramente può costituire un primo impiego nel comparto. I titoli di studio preferenziali per accedere a questa professione sono una laurea in scienze economiche o turistiche. 95 9.1.4 Il programmatore turistico - L’organizzazione di riferimento L’unità di produzione e programmazione è particolarmente importante nella struttura organizzativa di un T.O; essa si affianca al booking, risponde generalmente alla direzione generale e si occupa di ideare e sviluppare nuovi “prodotti” (pacchetti). Sintetizzando il processo di intermediazione svolto da un T.O, tra fornitori di servizi e canali diretti di distribuzione al pubblico, ci sono alcune fasi essenziali all’interno delle quali la programmazione svolge un ruolo primario: 1. la prima fase consiste nella scelta delle destinazioni e della tipologia di viaggio in cui l’operatore intende specializzarsi e comprende anche la definizione dei segmenti di utenza ai quali rivolgersi; questa fase è svolta dal vertice o dall’unità di marketing; 2. a seguito dell’individuazione delle aree e dei segmenti di mercato, l’unità di programmazione si attiva per sviluppa dei pacchetti di viaggio su misura (nel caso dei Tour Organizer) o a catalogo (nel caso dei Tour Operator); 3. una volta confezionati, i pacchetti vengono presentati alle agenzie di viaggio o attraverso il promoter (è il corrispondente dell’informatore farmaceutico nel settore dei viaggi) o attraverso degli educational predisposti per gli agenti di viaggio nella nuova destinazione; 4. infine, il booking si occupa di gestire le prenotazioni che arrivano o da parte delle A.d.V o da parte di quei clienti che hanno acquistato il pacchetto direttamente sul web. A tal proposito è bene sottolineare che la possibilità di un T.O. di vendere direttamente al cliente finale sta rapidamente declassando l’attività delle agenzie di viaggio intermediarie; esse vedono diminuire la clientela e, di conseguenza, l’unica fonte di guadagno derivata dalla percentuale di commissione su ogni singolo viaggio venduto. Per molti operatori il web funge da mera vetrina, obbligando comunque il cliente a formalizzare l’acquisto presso un’agenzia di viaggi; molti altri, invece, stanno rapidamente escludendo il mondo agenziale dai propri canali distributivi, creando non pochi attriti relazionali tra le due attività. - Compiti del programmatore turistico Il programmatore turistico lavora a stretto contatto con i responsabili del marketing; con esso cerca di interpretare le esigenze della clientela e valuta le proposte della concorrenza al fine di costruire pacchetti di viaggio competitivi. E’ una delle poche professioni nel turismo che richiede spostamenti consistenti, dal momento che il programmatore è delegato spesso a gestire i rapporti economici con le compagnie di trasporto e con il sistema ricettivo della destinazione da lanciare e ad effettuare i sopralluoghi necessari prima di aprire la vendita del nuovo prodotto. Egli deve quindi anche negoziare la tariffa migliore con i fornitori di servizi. Nelle agenzie e nei T.O di piccole dimensioni, il programmatore può intrattenere rapporti con il pubblico e coadiuvare i banconisti nella vendita, risolvendo eventuali problemi tecnici che possono insorgere nell’organizzazione del viaggio. Nelle agenzie e nei T.O di grandi dimensioni, ai programmatori viene richiesto di specializzarsi in una specifica destinazione e/o in una specifica tipologia di viaggio (viaggi d’affari, viaggi su misura o da catalogo, viaggi a tema, incentive, ecc.). Questa specializzazione è necessaria per avere un’approfondita conoscenza dei luoghi, delle attrazioni di tipo paesaggistico, storico-culturale o folkloristico di una determinata località, ma anche del sistema delle istituzioni (se è estera) oltre che delle strutture da proporre e della durata ideale del viaggio. In questa attività il programmatore è generalmente supportato da un corrispondente del luogo che può fornire molte informazioni sulla destinazione e funge da punto di riferimento locale per i clienti in visita nella destinazione. In quest’ ottica, un altro compito del programmatore è quello di selezionare i corrispondenti adatti e di ottenere da loro i servizi richiesti secondo lo standard aziendale. - Responsabilità assegnate e risorse gestite 96 La maggiore responsabilità attribuita al programmatore turistico è quella di individuare sempre nuovi prodotti da immettere sul mercato e, soprattutto, garantire che le caratteristiche dei pacchetti offerti possano attivare una domanda costante o in crescita. Di conseguenza, il programmatore è spesso responsabilizzato in termini di fatturato per quanto riguarda la sua area. Egli deve inoltre garantire la qualità dei prodotti prima, durante e dopo lo svolgimento del viaggio. Al programmatore è affidato un obiettivo di redditività: egli non solo deve valutare tutti i costi in fase di programmazione e determinare il prezzo finale, ma deve decidere anche se togliere dal mercato un pacchetto che risulta essere poco competitivo. - Competenze ed abilità richieste Oltre alle lingue, il programmatore turistico deve conoscere molto bene la geografia delle aree oggetto della sua programmazione. Deve conoscere a fondo il funzionamento del sistema turistico e l’organizzazione di tour operator, agenzie di viaggio, compagnie di trasporti al fine di integrare al meglio le varie parti della sua attività. Indispensabile la competenza nel marketing, nella pubblicità e nella psicologia del turismo. Dovendo negoziare tariffe e definire prezzi finali da attribuire ai pacchetti, è bene che possegga conoscenze di amministrazione e gestione delle imprese turistiche. A questa figura è richiesto, inoltre, di saper consultare e confrontare diverse fonti informative (orari, tariffari, cataloghi, banche dati) utili all’espletamento della sua attività. Spirito di iniziativa, creatività, capacità di concentrazione, di relazione, di negoziazione e competenze di pianificazione caratterizzano questa professione. - Requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti Si tratta di una professione che richiede molta esperienza e alla quale si giunge, generalmente, dopo alcuni anni di impiego presso un T.O o un’agenzia di viaggi. Il titolo di studio richiesto per questa professione è generalmente il diploma di scuola superiore preferibilmente ad indirizzo turistico. Tuttavia, il livello culturale, il tipo di curiosità e di preparazione che sono richiesti a questa figura rendono questa professione sempre più appetibile anche per coloro che sono in possesso di una laurea o un master a indirizzo turistico o linguistico. 9.1.5 L’esperto in comunicazione territoriale - L’organizzazione di riferimento E’, generalmente, una figura professionale autonoma che presta la sua opera in proprio o all’interno di agenzie pubblicitarie, per grandi organizzazioni turistiche o per Enti pubblici, associazioni, aziende di servizi fieristici e congressuali. In ambito turistico può operare in svariati contesti professionali quali: agenzie di comunicazione, pubbliche relazioni, uffici stampa, enti del turismo, catene alberghiere, aziende di promozione turistica. - Compiti dell’esperto in comunicazione territoriale Si tratta di una figura professionale non ancora molto diffusa, ma della quale si sente sempre più la necessità. Ad essa sono delegate la cura dell’ideazione e la realizzazione di strategie, strumenti, materiali ed eventi di informazione e promozione del settore turistico. Il comunicatore territoriale collabora alla promozione commerciale del prodotto turistico, interagendo con il responsabile del marketing turistico, con i programmatori e gli agenti di sviluppo turistico, con i rappresentanti di enti pubblici e privati, con la stampa e con i media. E’ per questo che, tra i suoi compiti, figurano la stesura di comunicati stampa, la cura dei testi e della grafica di materiali divulgativi. Deve saper consultare banche dati e ogni tipo di fonte informativa ed essere in grado di utilizzare con disinvoltura le più diffuse tecnologie la servizio della comunicazione (word processing, computer 97 graphic, ecc…). Deve inoltre saper pianificare e realizzare una campagna promozionale e gestire la moltitudine di relazioni che la professione, per sua essenza, richiede. - Responsabilità assegnate e risorse gestite Il percorso evolutivo di questa figura professionale va dall’iniziale svolgimento di mansioni di tipo tecnico-operativo ad una graduale assunzione di maggiori responsabilità e di ruoli sempre più creativi. L’esperto di comunicazione può quindi arrivare a gestire un numero sempre più alto di progetti, contemporaneamente, facendosi coadiuvare da collaboratori dei quali è responsabile, in termini di prestazioni; egli può inoltre arrivare ad occupare posizioni dirigenziali nelle unità di marketing e comunicazione nelle aziende turistiche di grandi dimensioni. - Competenze ed abilità richieste L’abilità principale richiesta da questa professione consiste nel sapersi esprimere in maniera persuasiva ed efficace mediante la comunicazione scritta e grafica, anche in lingua inglese. A tal fine, risultano indispensabili la dimestichezza con le tecniche di scrittura e di grafica pubblicitaria, non solo a livello teorico, ma anche a livello di utilizzo degli strumenti informatici attualmente disponibili. Altre conoscenze necessarie riguardano la psicologia, il marketing, l’economia e i comportamenti d’acquisto e in maniera approfondita, egli deve conoscere il funzionamento del sistema turistico e i suoi aspetti economici. Essenziali sono le capacità di comunicare e di relazionarsi efficacemente che derivano dalla propensione all’empatia che facilita la comprensione delle esigenze altrui. Deve essere in grado di elaborare un piano di comunicazione ed implementarlo dopo aver rilevato le esigenze di comunicazione dell’immagine del territorio turistico di riferimento. - Requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti Se il comunicatore svolge le funzioni di “ufficio stampa” deve necessariamente essere iscritto all’albo dei giornalisti. Per accedere a questa professione occorre una formazione di tipo universitario, meglio se in una disciplina umanistica, artistica, grafica o della comunicazione o nel settore marketing e nel turismo. Consigliabile è anche il possesso di master in comunicazione turistica. 9.1.6 Il responsabile didattico museale - L’organizzazione di riferimento E’ una figura professionale operante prevalentemente in ambito pubblico, sia in qualità di dipendente, sia in qualità di consulente. Risponde al responsabile del museo dal quale riceve l’incarico. Si tratta di una figura essenziale per la fruizione, o la rivitalizzazione, di spazi “culturali” nell’ottica di una totale ridefinizione del concetto di “museo”, non più inteso come luogo di sepoltura di cose antiche, ma come spazio vitale di patrimoni culturali senza tempo. - Compiti del responsabile didattico museale I compiti richiesti a questa figura professionale sono: la progettazione e la gestione di attività didattiche e formative mirate alla diffusione della conoscenza del patrimonio culturale, rivolte alle scuole, ma anche alle famiglie e ad ogni fascia di utenza; egli svolge un’intensa attività di ricerca di materiali e notizie riguardanti le collezioni della struttura per la quale opera al fine di esplicitarne il valore; elabora piani di attività da proporre ai potenziali utenti e cura il materiale informativo circa le iniziative che vengono attivate; cura le relazioni con gli istituti scolastici e con altri organismi coinvolte in attività educative. - Competenze e abilità richieste 98 L’attività richiede il possesso di buone conoscenze nel campo della pedagogia e della psicologia oltre che dei beni culturali, capacità di analisi, di studio e di elaborazione delle informazioni che deve prontamente saper tradurre nel linguaggio più idoneo all’utenza di riferimento del momento. Deve possedere capacità organizzative per poter elaborare e condurre le attività didattiche, tenendo in considerazione le differenti fasce di età e di istruzione alle quali tali attività sono rivolte. Inoltre, deve essere in grado di rilevare il grado di soddisfazione dell’utenza in modo da poter apportare tempestivamente gli opportuni correttivi. Deve provvedere ad implementare attività che siano perfettamente coerenti con la mission della struttura e definire obiettivi realistici in base alle risorse finanziarie, umane e logistiche disponibili. Infine, fondamentale per questa figura è la capacità di tessere relazioni costruttive con il territorio di riferimento, cercando collaborazioni con istituti di formazione, agenzie territoriali, altri musei e luoghi di cultura. - Requisiti minimi di accesso; formazione ed esperienze precedenti In base alla definizione dei criteri tecnico-scientifici e standard per i musei elaborati dalla commissione Stato-Regioni, in attuazione del D. Lgs. 112/98, il responsabile e l’operatore dei servizi educativi devono possedere una laurea in discipline attinenti la tipologia del museo ed una specializzazione in pedagogia, oppure una comprovata esperienza in campo educativo o aver seguito corsi di formazione specifica. 10 Considerazioni conclusive In termini di sviluppo locale, il dilagare dei processi di “flessibilizzazione” ha determinato in molti casi la perdita di identità e di competitività di diverse aree – basti pensare, ad esempio, al declino dei distretti industriali - oltre che un progressivo offuscamento del senso di appartenenza di molte comunità. Inoltre, la persistente tendenza ad attribuire al fattore tempo un mero valore economico ha velocizzato i ritmi di vita e di lavoro obbligando a superare continuamente la soglia di capacità di carico individuale dell’informazione, causata dall’eccessiva quantità di input - e dal loro celerissimo e continuo ricambio - alla quale si è sottoposti. La capacità di adattamento a tale complessità è diventata, in questo senso, un driver cruciale per poter ipotizzare e pianificare un qualsivoglia sostegno allo sviluppo spaziale e socioeconomico di un territorio tenendo ben presente che l’impatto di circostanze contestuali, e relativamente autonome (clima, economia, politiche, demografia e stili di vita) risulta in grado di alterare le modalità del suo utilizzo e di metterlo nella pericolosa condizione di vivere in un costante disequilibrio all’interno di un processo di eterno divenire. In tale contesto, all’interno del quale le traiettorie di sviluppo non sono necessariamente lineari e prevedibili, la non-linearità enfatizza la necessità di approcci alla pianificazione che abbraccino l’incertezza e mettano in campo strategie di anticipazione parallelamente a strategie finalizzate a ridurre il livello di incertezza già esistente; la pianificazione, dunque, dovrebbe tendere a coevolvere con i processi in atto e non limitarsi a cercare di controllarne e confinarne le dinamiche, promuovendo la capacità di governare la non-linearità degli eventi. Governare la non-linearità implica, dunque, la necessità di approcci alla pianificazione che stimolino la capacità adattiva degli attori mettendoli in grado di evitare e mitigare gli impatti potenzialmente negativi sulle traiettorie di sviluppo prefissate e di beneficiare del potenziale di sviluppo insito in nuove prospettive di apertura all’esterno dei territori di riferimento. Caratteristica fondamentale dei contesti territoriali rimane quella di costituire lo spazio di convivenza tra eventi, fenomeni e attori che, a vario titolo, interferiscono nel determinare i criteri di organizzazione dei processi, delle coalizioni, delle decisioni e della loro conseguente implementazione; tuttavia, la non linearità delle dinamiche relazionali, inter ed infra territoriali, 99 sembra aver reso necessaria una rivisitazione delle competenze professionali in materia di progettazione dei territori in virtù della considerazione che essi costituiscono, in maniera sempre crescente, sistemi geografici a geometria variabile. L’attività di pianificazione non è più ascrivibile ad una figura professionale unica ed omnicomprensiva, il planner, ma sono sempre più frequenti i casi in cui essa viene svolta da work group all’interno dei quali sono presenti individui con competenze diverse caratterizzate da un comune obiettivo valoriale e con una forte propensione al dialogo che, partendo dal gruppo di lavoro, si propaga anche ai tavoli di concertazione sociale. Si tratta, in definitiva, del passaggio da strategie di pianificazione unilaterali, connotative dell’approccio direttivo/verticistico del government, ad orientamenti basati su modalità di progettazione che vedono nella pluralità e nell’interattività insite nei processi di governance il loro punto di forza. I nuovi planners devono necessariamente essere dotati di alcune competenze specifiche quali, ad esempio, la capacità di confronto con altri attori e di ascolto di istanze diverse; la consapevolezza di fungere da anticipatori e, in quanto tali, responsabili di dover delineare lineeguida che non solo siano condivisibili nel presente ma che risultino vincenti anche sul lungo periodo; l’abilità di individuare le aree dotate delle risorse necessarie per una razionale trasformazione del territorio e capaci di attrarre ulteriori risorse dall’esterno; la profonda conoscenza dei valori e dell’anima dei luoghi di riferimento – in tal senso, il vantaggio di appartenere al milieu in cui opera, permetterebbe più facilmente al planner di fungere da elemento di connessione tra attori locali e contesti relazionali più ampi e di svolgere in maniera più efficace il proprio ruolo di facilitatore, di attivatore e di dinamizzatore dei percorsi partecipativi che richiedono, oggi, non soltanto una professionalità riflessiva (imparare dall’agire entro situazioni pratiche), ma anche una professionalità deliberativa, cioè in grado di imparare dall’agire con gli altri entro situazioni pratiche; la versatilità nel destreggiarsi tra l’attività di mediazione, promozione, co-progettazione, individuazione di opportunità e priorità, oltre che nella sua duplice funzione di starter, laddove esistono già le condizioni per poter svolgere tale funzione ma si necessita di un fattore di spinta e di animatore, laddove tali condizioni vanno prodotte artificialmente poiché non garantite dagli attori coinvolti. Tuttavia, in una realtà dove non solo i liberi professionisti, ma anche le istituzioni stesse (scuole, università, enti di formazione) ormai ricercano, attraverso le convenzioni, le possibilità di sopravvivenza non più garantite dagli ampi tagli dei fondi statali, c’è da chiedersi se esistano davvero soggetti che si propongano come fluidificanti dei processi partecipativi, professionisti e imprenditori senza scopo di lucro che mettano in campo risorse al fine di produrre nuove tipologie di profitto quali, ad esempio, una maggiore coesione sociale, un’equa distribuzione della ricchezza, l’intensificazione delle relazioni, l’aumento delle possibilità di accesso e di fruibilità delle risorse ed un miglior utilizzo delle opportunità. Le nuove sfide poste dinanzi ai pianificatori territoriali sono strettamente connesse con il cambiamento dei territori, non solo urbani ma anche – se non soprattutto – quelli rurali adiacenti alle aree urbane, sempre più tesi a divenire scenari orientati al leisure: in tali territori, infatti, la fruizione turistica, ricreativa e di leisure si affianca - in molti casi sostituendosi ad essa - alla più tradizionale funzione agricola, modificando gli asset culturali originari e imponendo di tarare continuamente le traiettorie di sviluppo. In un’epoca in cui la prospettiva di lungo periodo sembra essere la grande assente, l’individuo spesso percepisce un profondo senso di inadeguatezza di fronte ad una complessità sempre nuova e sempre diversa che impone il vertiginoso declino e ricambio di competenze tradizionali a favore di nuove competenze, spesso non ancora ben definite e, probabilmente, destinate a divenire rapidamente obsolete. Ai fini di un vero vantaggio competitivo, oggi, persino concetti quali efficacia ed efficienza appaiono ormai inadeguati: la loro pianificazione sembra richiedere temporalità eccessivamente 100 lunghe laddove l’organizzazione di tutti i settori produttivi, al contrario, richiede la capacità di agire, in tempi sempre più brevi, nei termini sia di eventuali modifiche da apportare agli assetti strutturali sia di linee strategiche di sviluppo che vanno di continuo ritarate. Ciò è ugualmente vero sia che si parli di settore pubblico o privato, sia che si tratti di singole aziende o di interi territori, anche se i tempi di reazione della sfera pubblica rispetto alla complessità sono notoriamente più lunghi; aspetto, questo, al quale si imputa spesso la responsabilità di molti dei dannosi ritardi accusati nel nostro Paese in tema di crescita. Tra i processi di trasformazione territoriale più rilevanti, lo sviluppo turistico di un territorio costituisce senza dubbio una leva economica sulla cui strategicità concordano attualmente studiosi, economisti e legislatori, nonostante l’intero comparto sia stato a lungo escluso dall’agenda politica nazionale e dall’attenzione giuridica. I vari comparti del turismo contribuiscono, infatti, in maniera assai rilevante alla definizione del PIL e al sistema occupazionale del Paese, anche se occorre rilevare che gli effetti della crisi economica hanno causato una progressiva diminuzione tale incidenza del settore negli ultimi anni e inducono a prevedere dati negativi anche per il quinquennio a venire. L’Italia del turismo, a differenza dei paesi concorrenti, sembra non aver provveduto ad investire sulla produzione di un’offerta ad alta tecnologia, ad elevata creatività, a forte impatto sui mercati ma piuttosto che abbia preferito adagiarsi sulla scontata titolarità di risorse e attrattive che costituiscono certamente un indiscusso patrimonio della nazione ma che, in mancanza di adeguate strategie di conservazione, valorizzazione, organizzazione e promozione, sono destinate ad esaurirsi sotto il peso dell’incuria, delle calamità naturali e della miopia delle amministrazioni. Ciò probabilmente comporterà che, una volta superata definitivamente la crisi, il Paese sia colto del tutto impreparato ad accettare le sfide che un contesto internazionale del tutto modificato imporrà, a causa della comparsa sul mercato turistico di Paesi ad economia emergente e delle relative modalità di fruizione turistica. Si tratta di Paesi che fino ad oggi sono stati considerati e valutati in termini di destinazioni turistiche ma che, d’ora in avanti, costituiranno le località di origine di un gran numero di viaggiatori le abitudini dei quali dovranno essere analizzate e comprese al fine di poter opportunamente predisporre un’offerta ad elevato grado di attrattività. I primi, anche se al momento ancora tiepidi, segnali di accelerazione nell’implementazione di strategie di sviluppo nel settore turistico arrivano dal Piano Strategico per lo Sviluppo del Turismo in Italia 53 all’interno del quale sono declinate le linee di intervento nel settore da attuarsi entro il 2020, con l’obiettivo di incrementare il PIL, creare nuovi posti di lavoro e coinvolgere il Sud nelle politiche di rilancio economico del Paese. Il documento può essere inteso come l’espressione della volontà istituzionale di tornare a considerare il turismo come leva strategica per la ripresa economica e, in quanto tale, di mettere la materia al centro dell’agenda di governo. Dal Piano si evince come molte delle criticità del settore derivino da fattori di matrice culturale: l’inerzia istituzionale che ha ostacolato la creazione di una regolamentazione unitaria del settore a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione che annovera il turismo tra le materie a esclusiva competenza regionale, dando vita ad un sistema turistico nazionale estremamente eterogeneo e frammentato; la riluttanza nell’implementare policies di marketing territoriale nella convinzione che fossero esclusivamente i privati a doverne sostenere i costi; il mancato sostegno da parte del governo centrale alle iniziative locali; l’enorme quantità di risorse finanziarie spese per sostenere l’ENIT nella sua attività di promozione del turismo italiano all’estero senza che ad essa corrispondessero risultati rilevanti; il mancato impegno ad impiegare cospicui investimenti nella creazione di un’offerta competitiva. Il riferimento è a Italia 2020, Leadership, Lavoro, Sud – Piano Strategico per lo Sviluppo del Turismo in Italia, a cura del Gruppo di Lavoro del Ministro per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport. Roma, 18 gennaio 2013. Il documento costituisce, al momento, esclusivamente una prima raccolta di interventi da implementare in vari ambiti del settore turistico e si è in attesa della sua stesura definitiva. 53 101 La verità è che il mondo del turismo ha ruotato troppo a lungo attorno alle attività di promozione piuttosto che a quelle connesse con la creazione e l’organizzazione dell’offerta. Il risultato di tale fenomeno è che l’offerta turistica del paese venga ora percepita dai visitatori come obsoleta e non adeguata alla domanda. Un’evidente omissione che emerge dall’analisi del Piano è che, pur riconoscendo al turismo il ruolo di asset maggiormente favorevole per il rilancio dell’economia nazionale, in esso i riferimenti a specifici interventi di sviluppo turistico in chiave sostenibile sono piuttosto esigui e riguardano essenzialmente la previsione di strategie finalizzate a decongestionare Roma, Venezia, Firenze e Milano e le modalità di creazione di alcuni Poli Turistici nel meridione che dovrebbero garantire il rispetto di criteri sostenibili. L’evidente scarsità di riferimenti ai principi della sostenibilità culturale, sociale, economica ed ambientale indurrebbe a ritenere che, nelle intenzioni del Piano, l’immagine di un’Italia turistica sostenibile non sia contemplata come variabile di vantaggio competitivo. Il Piano sembra trascurare quanto la questione ambientale non sia più una questione prettamente ambientalista e naturalistica: la questione ambientale è una questione sociale, che implica la consapevolezza delle responsabilità civili da parte di cittadini, operatori istituzionali e di quelli privati, nel tutelare ogni tipo di risorsa, compresa quella culturale. Fondare gli obiettivi di sviluppo turistico sui criteri della sostenibilità può garantire ad un contesto territoriale di competere sul livello globale, senza veder minacciati né la propria identità né il proprio equilibrio e può, al contrario, facilitare i processi di integrazione, di partecipazione attiva e di coesione sociale rendendo protagonisti i cittadini che, in tal modo, potrebbero fungere da veicoli di innesco di nuove dinamiche di diffusione di idee e strategie innovative e di trasmissione dei saperi e delle competenze, imparando a cooperare e superando l’ormai anacronistica riluttanza nei confronti dell’associazionismo e della creazione di reti di impresa. Per il turista postmoderno, il territorio strategico è un territorio ad alti contenuti di visionning, un territorio, cioè, dotato della capacità sia di ipotizzare un futuro realizzabile (vision) sia di utilizzare al meglio le risorse umane, culturali, finanziarie e paesaggistiche disponibili per delineare (planning) il percorso di trasformazione più idoneo. Ciò implica la considerazione che il visitatore cerca non più solo la qualità del servizio che gli viene direttamente erogato ma un sistema di accoglienza territorialmente integrato che gli permetta di confrontarsi sia con le caratteristiche tangibili sia con quelle intangibili dei luoghi che esplora. Ciò suggerisce, dunque, che la competitività di un’impresa turistica non si giochi più solo sulla capacità del singolo manager di implementare valide strategie di marketing quanto piuttosto sulla capacità dell’intero territorio di riferimento di porsi come un’unità sistemica di accoglienza, all’interno della quale tutti gli stakeholders concorrono a delineare le linee di sviluppo turistico per meglio rispondere ai processi di transizione che l’evoluzione del fenomeno turistico sta imponendo. Tale transizione vede nell’economia della conoscenza la variabile indispensabile per qualsiasi processo di sviluppo e, attualmente, deve necessariamente fondarsi sull’implementazione di policies a sostegno dell’industria culturale, della formazione (nella scuola primaria secondaria, nell’università e nel long life learning), della ricerca, dello sviluppo tecnologico: il turista postmoderno cerca un’esperienza ricca di significati culturali che rappresentino un’occasione di arricchimento - spesso nell’ottica di una dimensione “green” – alla quale non sempre corrisponde un’offerta organizzativa adeguata in termini di commercializzazione del prodotto, preparazione degli addetti, di valorizzazione del territorio. Nel tentativo di stimolare ed alimentare processi di costituzione di Reti d’impresa turistiche, in grado di elevare la capacità attrattiva del sistema turistico regionale sia in termini di presenze sia di investimenti internazionali, l’Assessorato al Turismo della Regione Abruzzo sostiene, da qualche anno, la creazione e l’attività delle cosiddette Destination Management Company (DMC) e delle Product Management Company (PMC). Esse possono essere intese come un nuovo modello di organizzazione territoriale turistica, nato a seguito del declino del modello incentrato 102 sui più ben noti Sistemi Turistici Locali sanciti dall’art. 5 della L.135/2001, il fallimento dei quali può essere imputabile in parte alle continue sovrapposizioni di competenze tra organismi pubblici e settore privato e, in parte, alla mancata implementazione di policies turistiche che facilitassero i processi di riconversione dell’offerta verso modelli maggiormente competitivi. Lo scopo di tali organismi è quello di rendere i territori protagonisti nelle scelte programmatiche regionali in materia turistica al fine di aumentare la capacità di aggregazione tra operatori e permettere alla “destinazione Abruzzo” di proporsi sul mercato come Sistema integrato di destinazioni e prodotti basato su una solida e duratura partnership tra settore pubblico e settore privato. Il successo (o il fallimento) di tali nuovi organismi sarà strettamente connesso con alcuni fattori che, in passato, si sono rivelati assai critici per il turismo regionale: la capacità degli attori di superare le tradizionali logiche di rivalità e di sostenersi vicendevolmente nel perseguire obiettivi condivisi; la disponibilità, da parte dei protagonisti tradizionali, ad accettare l’ingresso di nuovi soggetti con elevate competenze in materia turistica che possano portare energie ed idee innovative utili ad avviare progettualità alternative rispetto alla tradizionale offerta mare-monti, ancora molto presente; la convinzione che al sistema turistico afferiscono un gran numero di attività (e non solo l’attività alberghiera e di ristorazione) e che, pertanto, nei processi di sviluppo territoriale vadano prese in considerazione anche le istanze di attori riconducibili a filiere produttive differenti (associazioni culturali, commercianti ecc.); la concertazione costante con gli enti di istruzione e formazione per percorsi finalizzati ad accrescere il know-how esistente anche tra gli operatori stessi al fine di rivitalizzare continuamente l’offerta e di ribadire la necessità di operare in maniera sistemica per far fronte all’entrata sul mercato di destinazioni concorrenti. Delors sostiene che alla knowledge-based economy, all’istruzione e alla formazione, sia delegato il difficile compito di risolvere le problematiche connesse con la competitività delle imprese, con la crisi occupazionale e con il dramma dell’emarginazione sociale. Tuttavia, è forte la percezione che in Italia, per decenni, si sia alimentato un modello di sviluppo “senza conoscenza” che, in qualche modo, sembra aver ostacolato gli individui nei processi di apprendimento offuscando la loro capacità di diventare abili “navigatori”, con conoscenze e abilità sempre più connesse con i processi di transizione. Nel settore turistico, gli organismi preposti all’istruzione e formazione di risorse umane sembrano aver a lungo privilegiato figure professionali tradizionali di basso profilo a scapito di profili di middle-management in grado di apportare un adeguato livello di competenza progettuale all’intero settore. A tale criticità si è cercato di porre rimedio con l’introduzione di percorsi di studio scolastici ed universitari che hanno immesso sul mercato nuove figure professionali che, tuttavia, spesso risultano ancora in attesa di una legittimazione nelle Classificazioni delle Professioni. Nel Piano Strategico per lo Sviluppo del Turismo in Italia si afferma che i giovani non siano attratti dalle professioni nel settore in quanto considerate di basso livello. E’ auspicabile che tale considerazione derivi esclusivamente dall’analisi delle opinioni di soggetti molto giovani interessati a lavorare nel settore per brevissimi periodi di tempo e non di tutti coloro che risultano iscritti alle Facoltà Universitarie o agli Istituti Tecnico-Professionali ad indirizzo turistico i quali, al contrario, vorrebbero un futuro professionale all’interno del comparto. Il fatto di considerare una professione turistica poco attraente può certamente derivare da diversi fattori. In primo luogo, la caratteristica di stagionalità, che connota varie occupazioni nel settore, può facilmente demotivare un lavoratore in cerca di maggiori garanzie professionali. Un secondo aspetto da non sottovalutare è dato dal frequente ricorso, da parte degli imprenditori, al salario sommerso, come effetto dell’elevato costo del lavoro nel nostro Paese; tale fenomeno, per un professionista del settore, è di fatto umiliante e spesso motivo di trasferimento delle proprie competenze verso altri comparti. L’occupazione stagionale sembra tendere a privilegiare lavoratori inesperti, abbassando il livello di qualità del servizio offerto, oppure a sottopagare lavoratori esperti, dequalificando la prestazione. 103 Volgendo lo sguardo verso le nuove professioni turistiche è importante rilevare come esse non siano più tanto connesse con le competenze strumentali, organizzative e relazionali richieste dal management di singole attività imprenditoriali quanto piuttosto con la capacità di operare in contesti territoriali più ampi e di confrontarsi con soggetti pubblici e privati coinvolti, a vario titolo, nei processi di sviluppo delle destinazioni. In merito all’accesso a tali professioni, spesso di livello manageriale, va considerata la grande difficoltà dei nuovi professionisti del settore di inserirsi in dinamiche territoriali già precostituite; le posizioni di vertice di molti sistemi turistici risultano essere, in molti casi, saldamente occupate da soggetti che operano sul territorio da lungo tempo e non sempre disposti a cedere il passo alla novità. Il rischio di tali situazioni è che, all’innovazione introdotta dalle nuove formule di organizzazione turistica, non corrisponda un adeguato rinnovamento in termini di cultura dell’accoglienza, di qualità dell’offerta, di struttura valoriale del territorio di riferimento: cambiano le denominazioni dei sistemi turistico-territoriali ma non le dinamiche rispetto al passato né gli approcci nei confronti della sostenibilità. Il modello economico basato su una esasperata attività antropica che ha determinato il depauperamento di molte risorse ambientali, di valori sociali e della qualità della vita sta velocemente cedendo il passo a dinamiche di sensibilizzazione nei confronti della “green economy”, uno stile di vita che non va inteso come la parte meramente “naturalistica” dell’economia - e connesso esclusivamente con l’industria ambientale – ma che, al contrario, deve essere interiorizzato come un nuovo driver dell’economia che fa leva sull’uso sostenibile di tutte le risorse disponibili: da quelle finanziarie a quelle naturali, da quelle culturali a quelle sociali. Certo è che qualsiasi processo di green economy richiede pianificazioni a medio-lungo termine e che l’attenzione sia rivolta soprattutto ai fattori cruciali di sviluppo quali la conoscenza, l’innovazione e, soprattutto, l’efficienza ambientale, occupazionale e sociale. Da un punto di vista del sistema occupazionale, l’impatto che la green economy sarà in grado di provocare è difficilmente prevedibile sia in termini di numerosità di posti di lavoro sia in termini di definizione delle professioni54. E’ plausibile l’ipotesi che nel comparto turistico le professioni riconducibili alla green economy necessiteranno di una fase di riconversione o di adattamento e che saranno le professioni attualmente connesse con l’ingegneria ambientale a delinearne gli eventuali percorsi di evoluzione. Sicuramente si assisterà ad un notevole cambiamento nel mercato del lavoro poiché nuove professioni stanno già nascendo, altre scompaiono, altre ancora vanno modificandosi sia da un punto di vista delle competenze necessarie al loro svolgimento, sia da un punto di vista di modalità di esecuzione. Qualunque sia l’impatto è opportuno prevedere e predisporre tutti gli strumenti utili per facilitare gli inevitabili e rilevanti processi di mobilità, riconversione e riqualificazione dei lavoratori interessati; l’eventuale affermarsi di nuove professioni, inoltre, richiederebbe la revisione e l’integrazione dei curricula formativi, la definizioni di nuovi standard e l’introduzione di meccanismi di riconoscimento e legittimazione delle qualifiche acquisite e delle nuove figure professionali. Sul fronte delle professioni emergenti nel settore turistico, se l’obiettivo della green economy è il raggiungimento della sostenibilità, è facilmente prevedibile che il mondo delle professioni subirà processi di adattamento sia nei settori più tradizionali (alloggio e ristorazione ecc.) sia in quelli di frontiera (consulenza, imprenditoria di nicchia ecc.). E’ verosimile l’ipotesi che si assisterà alla nascita di nuove professioni maggiormente orientate dai principi della sostenibilità o, in molti casi, al restyling di professioni già esistenti e connotate da un maggior grado di adattabilità alla transizione in atto. 54 www.onetcenter.org 104 Tra tali figure professionali possiamo indicare, ad esempio, il Destination Manager sia nella sua veste di progettista e coordinatore di iniziative tese alla valorizzazione di un territorio sia di “cacciatore di destinazioni” per il Tour Operator. A questa figura si chiederà in misura sempre maggiore di creare opportunità di condivisione tra gli attori e di fungere da mediatore della comunicazione tra settore pubblico e settore privato, al fine di alleviare eventuali tensioni che potrebbero impedire l’evoluzione del sistema turistico. Al destination manager potrebbe essere delegato anche il compito di sensibilizzare i territori nei confronti di un uso razionale delle risorse, del ricorso a fonti energetiche rinnovabili e del rispetto per l’interculturalità. Un’altra figura professionale, già esistente ma alla quale si chiederanno competenze maggiori in tema di sostenibilità, è il Programmatore di eventi che necessariamente dovrà essere in grado di ridurre al massimo l’impatto ambientale, acustico ed energetico delle iniziative poste in essere. Trasversali al settore turistico ma, in ogni caso, meritevoli di attenzione risultano professioni emergenti legate all’edilizia verde (progettazione e ristrutturazione di edifici ad alta tutela ambientale e paesaggistica), alla consulenza energetica (servizi alle imprese), alla riduzione dell’impatto ambientale dei mezzi di trasporto. 105