120330 Chesterton - Centro Culturale di Milano

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G. K. Chesterton.
L’enigma e la chiave
In occasione della presentazione del libro
di Ubaldo Casotto, prefazione di Stefano Alberto, (Ed. Lindau, 2012)
incontro con
Paolo Cevoli, imprenditore, attore e comico
Ubaldo Casotto, giornalista
coordina
Paolo Gulisano, medico, saggista e scrittore
Sala Verri di via Zebedia 2, Milano
Venerdì 30 marzo 2012

Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
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G. K. Chesterton. L’enigma e la chiave
PAOLO GULISANO: Buonasera, benvenuti a questo incontro su Gilbert Keith Chesterton.
Abbiamo come ospiti Ubaldo Casotto, giornalista nonché autore di questo testo dell’editrice Lindau,
dal titolo «G. K. Chesterton. L’enigma e la chiave», uscito da poco per i tipi di Lindau. Alla mia
destra, forse lo devo dire perché è dimagrito cospicuamente e magari non lo si riconosce, Paolo
Cevoli - stavamo prima valutando la sua diminuzione ponderale - appassionato di Chesterton, che,
tra le altre cose, era anche un grande umorista. Ma cosa non è stato Chesterton? Giornalista, perfino
disegnatore, illustratore, fondatore di un movimento economico e culturale (il distributismo),
apologeta del cristianesimo; l’unico torto che potremmo imputare a Chesterton è di essere vissuto
troppo poco, morì 75 anni fa, nel 1936, a poco più di sessanta anni, lasciandoci veramente privi di
una delle menti più lucide del Novecento. Una mente che aveva intravisto con grande lucidità una
serie di mali del XX secolo, persino l’eugenetica, aveva denunciato agli inizi degli anni Trenta il
crescere di un pensiero eugenetico, ma aveva visto molto di più, cioè che il grande male della
modernità era una sorta di impazzimento della ragione, con tutte le pretese in realtà poi della
ragione. Chesterton scrisse molto, ciò che scrive nei suoi saggi può essere espunto quasi come una
serie di aforismi e ce n’è uno secondo me molto azzeccato che dice: «Il mondo moderno, ancora
prima di avere un tracollo morale, ha avuto un tracollo mentale», cioè il mondo è impazzito, ha
perso il senno, e Chesterton si impegnò a recuperare tutto questo nelle sue opere, che sono
innumerevoli. È davvero provvidenziale che negli ultimi anni si stiano recuperando tutta una serie
di opere anche di Chesterton, oltre che a scrivere su Chesterton, come ha fatto Ubaldo Casotto con
questo libro, e finalmente si torna a pubblicare Chesterton. Su questo devo dire un piccolo aneddoto
personale: una decina di anni fa, dopo che ebbi a pubblicare una delle prime biografie italiane di
Chesterton, andai anche da un editore, un editore grosso, che aveva un direttore di collana che era
un amico, una persona in gamba, con belle idee, non era insomma quello che Paolo definirebbe un
patacca, eppure alla mia richiesta di ripubblicare Chesterton mi disse con desolata sicurezza che
Chesterton non interessa più a nessuno. Dopo dieci anni, per fortuna, stiamo assistendo a uno
straordinario revival di Chesterton, si torna a pubblicarlo, si torna a parlare di lui, si torna a fare
convegni su di lui; addirittura in Inghilterra si sta aprendo la causa di beatificazione, perché
quest’uomo buono, quest’uomo intelligente, quest’uomo saggio, quest’uomo che esplodeva di buon
umore, pur avendo conosciuto il male, il dolore, pur avendo attraversato anche una sorta di
depressione, quando aveva l’età di molti di voi, quand’era agli inizi dell’università andò incontro a
una sorta di grande depressione per due motivi: uno perché il suo corpo cambiò, da giovane era
magrissimo, era molto alto, era più di un metro e novanta, e in pochi anni iniziò a pesare 150 chili.
Quindi faceva anche fatica a portare in giro questo suo corpo così cambiato. Secondo andò incontro
anche a una sorta di fallimento personale, all’università dove, pur non essendo per niente stupido,
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per vari motivi non riusciva a superare gli esami. Quindi a un certo punto abbandonò anche
l’università, era entrato in questa sorta di tunnel del fallimento e della depressione, da cui uscì
grazie a una lettura, dopo aver letto il libro di Giobbe, che è il libro che parla del dolore innocente, e
poi ne uscì definitivamente da lì a poco conoscendo alcune persone che avrebbero segnato la sua
vita, alcuni amici, a partire da il più grande amico di Chesterton, Hilaire Belloc, e poi tanti altri
incontri che lo portarono a cambiare la sua vita e a uscire definitivamente da quella depressione e
addirittura a diventare una sorta di grande cantore della gioia. Chesterton definì il cristianesimo
come quella religione che ha come straordinario segreto la gioia. Questa frase, una sorta di
aforisma, colpì qualche anno dopo un giovane studioso scettico, ateo che si chiamava Clive Staples
Lewis che rimase stupefatto davanti a questa affermazione: nessuno aveva mai presentato a lui, che
era nato calvinista, il cristianesimo come qualcosa che ha come suo segreto la gioia. Nel libro di
Ubaldo Casotto viene presentato tutto questo, viene presentato Chesterton soprattutto a partire da
uno dei suoi libri più intriganti, più importanti, che è Ortodossia, un libro scritto nel 1908, un libro
scritto quando era ancora ben di là dal divenire cattolico. Chesterton era nato vagamente anglicano,
poi si era allontanato da qualunque pratica religiosa e poi, grazie all’incontro con alcune persone,
come Belloc e padre John O’Connor (che sarebbe poi diventato per lui la figura ispiratrice di padre
Brown), si era avvicinato progressivamente al cattolicesimo. Ortodossia, questo libro che è stato poi
davvero il faro anche per l’amico Ubaldo, è stato scritto molto prima, è stato scritto semplicemente,
da uno che non era un filosofo, non era un teologo, sebbene Ubaldo ne metta in evidenza tutto lo
spessore filosofico. Tutto questo è anche sulla scia di un altro punto di riferimento per il
cattolicesimo di quegli anni: Newman, l’uomo che scelse come motto «Cor ad cor loquitor» (il
cuore parla al cuore). Chesterton a sua volta cominciò a parlare così, al cuore dei suoi lettori. Ci
sono altri aspetti straordinari di Chesterton, ancora da sottolineare, forse per troppo tempo lo si è
visto solo come l’autore di padre Brown, il prete detective. Non è poco che letti ancora oggi, a
distanza di settant’anni, quei gialli colpiscano, affascinino, ma c’è ancora tutto un altro Chesterton
da riscoprire. Questa è stata la sfida che Ubaldo Casotto ha colto nel suo libro, in cui ci fa vedere
come una persona, magari presa poco sul serio, possa non fare una brutta fine ma levarsi in alto:
infatti non è che Chesterton in vita godesse di una grande considerazione da parte dell’Intellighentia
britannica - era considerato una specie di clown che scriveva libri -. Lui per primo si prendeva poco
sul serio, forse perché questo è anche uno dei metodi migliori per librarsi in aria; c’è una battuta di
Chesterton fulminante, uno dei suoi paradossi che dice: «Sapete perché gli angeli volano? Perché si
prendono alla leggera!». Noi invece ci diamo troppa importanza, ci appesantiamo di tutta la nostra
presunzione, di tutto quanto e, con tutta questa zavorra, non ci alziamo da terra. Lui, che pesava al
massimo del suo splendore di centocinquanta chili, fu capace di volare davvero come un angelo e di
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percorrere alcuni tragitti di pensiero che ancora oggi ci lasciano a bocca aperta. Il suo paradosso è
proprio questo: usare il paradosso come arma, metodo, sistema per farci tenere gli occhi aperti sulla
realtà. Chesterton è un sognatore, perché diceva di aver imparato la sua filosofia dalle fiabe, da
bambino. In realtà la fiaba, la fantasia - lo dimostrarono nel XX secolo i grandi autori di fantasia, di
fantastico come Lewis e Tolkien - non è affatto qualcosa che distrae la mente; semmai la fantasia,
che deriva dal un verbo greco phaino (mostrare), è qualcosa che ci aiuta a tenere ancora di più gli
occhi aperti. Detto questo, mi rendo conto di averla fatta anche troppo lunga come introduzione,
cedo la parola a Ubaldo Casotto che cominci a raccontarsi e a raccontare del suo incontro con
Chesterton, che è poi diventato questo agile, appassionante, piccolo e intenso libro.
UBALDO CASOTTO: Di solito l’autore parla per l’ultimo, ma io ho chiesto di parlare prima
perché non vorrei parlarvi di Chesterton quanto piuttosto di Cevoli. Sono veramente curioso di
capire che cosa ha visto in questo libro. Io so cosa c’è perché ci ho lavorato, l’ho scritto trent’anni
dopo la tesi, per cui è una roba di cui mi sono occupato a lungo. Cevoli l’ho conosciuto per caso:
quando una sera è venuto a fare uno spettacolo a Roma; al termine un amico comune mi ha detto:
«Vieni a cena», siamo andati a cena ed è stata lì una prima verifica chestertoniana, perché
Chesterton dice che incontrare un uomo, conoscere un uomo anche se lo incontri solo per un’ora o
due, è l’avventura più affascinante della vita. Ed è vero, se voi pensate agli incontri è così, con lui è
stato così. Perché quando incontri gli uomini di spettacolo o i grandi romanzieri c’è sempre il
rischio che sia più bello quello che scrivono di quello che sono; io ne ho conosciuti tanti che era
meglio non conoscere, era meglio continuare a conoscerli con gli scritti. Con Paolo questo non è
accaduto - che poi, come dice lui, abbiamo parlato di cavolate -. Ci siamo conosciuti, ci siamo
rivisti un mese dopo a pranzo e io gli ho portato il mio libro. Lui il giorno dopo mi manda un
messaggino e mi dice: «Bellissimo, sto iniziando a leggerlo per la seconda volta». Ho pensato:
«Chissà cosa avrà visto!». E mi ha anche detto lui stesso: «Vediamo se riusciamo a presentarlo
insieme, se vieni a Bologna». Io non sono andato a Bologna, lui è venuto a Milano, io sono venuto a
Milano e l’abbiamo organizzata così. Mi hanno colpito due cose: voi conoscete lo sketch
dell’assessore alle “varie ed eventuali”. Se Chesterton, l’ho detto anche a Paolo, avesse fatto
politica in modo diretto, nell’amministrazione, avrebbe fatto l’assessore alle “varie ed eventuali”,
perchè le “varie ed eventuali” sono la vita; non sono i progetti, le pianificazioni, ma la vita che
capita con i suoi imprevisti e le sue cose, sono le cose più normali, più quotidiane e Chesterton ha
fatto metà dei suoi libri per difendere la bellezza della banalità delle cose quotidiane. Diceva che
una delle cose più poetiche del mondo è l’orario ferroviario: andava in stazione e se lo guardava
perché esprimeva l’ordine del mondo. Chesterton ha fatto il difensore del senso comune, quella cosa
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che rende ragionevole l’uomo contro la pazzia dei filosofi. Chesterton dice che una delle cose più
poetiche più interessanti del mondo è un inventario, è l’inventario che Robinson Crusoe fa quando,
arrivato sull’isola, naufrago, apre la cassa e vede tutto quello che si è salvato dal naufragio: tutte
“varie ed eventuali”. L’elenco di quelle cose per Chesterton è la roba più poetica e importante del
mondo. Quindi, questa storia delle “varie ed eventuali” mi piaceva.
L’altra cosa è che a cena chiesi a Paolo: «Tu perche hai fatto “La penultima cena”?». Lui mi ha
detto: «Io mi sono messo lì a pensare a me e ho pensato che ci sarà stato un patacca come me tra
quelli che hanno seguito Gesù Cristo, perché io sono così, io sono fatto per far ridere la gente, io
sono capace di far ridere la gente, io sono questa roba qui, non ho pretese filosofiche, non ho
pretese di grandi disegni sul mondo. Uno così magari è esistito anche duemila anni fa e magari ha
seguito Gesù Cristo ed ho immaginato che cosa gli è successo». E’ venuto fuori questo spettacolo
che se non l’avete visto dovete andarlo a vedere. Detto questo lui dice: «Io ho questo ruolo, nella
compagnia di Gesù ho il ruolo del patacca». Chesterton non sarà riuscito a finire l’università questo consolerà molti di voi – ma era un vero genio: alla fine ha trovato saggio entrare nella
Chiesa, anche se il posto riservatogli - a suo dire - non era sull’altare; lui si accontentava infatti di
costruire mostri destinati alle grondaie di una ben definita cattedrale: « A me tocca scolpire le figure
grottesche perché altro non so fare e devo lasciare ad altri gli angeli, gli archi e le guglie, ma non ho
dubbi intorno allo stile di questa architettura e alla santità della cattedrale». Questi erano i motivi
per cui adesso io sono curioso di capire che cosa hai visto nel mio libro.
PAOLO CEVOLI: L’avete letto voi? Innanzitutto il mio è un invito a leggerlo, perché parlare di un
libro riassunto non si può. Io sono grato a Ubaldo perché mi ha fatto rincontrare Chesterton e mi ha
stupito per ciò che ho letto e mi ha fatto rincontrare una persona che per molte cose era vicina a me,
nonostante l’humor inglese sia diverso. Mi ha colpito molto, a partire dal finale del libro, quando
Ubaldo dice: “non ho scritto, in questo lungo invito alla lettura del Chesterton, del suo umorismo,
mi sono astenuto dal farlo perché le barzellette si raccontano non si spiegano, a riguardo basti la sua
convinzione che l’uomo, solo fra tutti gli animali, è scosso dalla benefica follia del riso quasi egli
avesse afferrato qualche segreto di una più vera forma dell’universo e lo volesse celare all’universo
stesso. L’uomo ride perché il segreto del mondo lo mette di buon umore”. E’ il mio mestiere, me lo
sono trovato addosso, mi hanno buttato sul palco a dire delle pataccate. Tra l’altro, come dice lo
stesso Chesterton, l’uomo è fatto per essere in comunione, per comunicare con gli altri. Spiega la
trinità in questo modo, così come probabilmente Dio ha fatto il mondo perché si era rotto di stare da
solo. Come quello che ha la bella ragazza e ha più gusto ad andare a raccontare che sta con lei,
come le barzellette, quale gioia più grande di quello che arriva al bar con la barzelletta nuova ed è
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tutto contento e poi gli dicono che la sanno già: la delusione più grande per un uomo; più del venire
a sapere che la tua donna ti tradisce! É una cattiveria, una vigliaccata! Dico io: fammela raccontare!
Dire “la conosco già” è una cavolata, puoi esserne sicuro? Ora, le barzellette sono sempre una
volgarità. Se dico “cacca” tutti ridono. Penso che la comicità nasca prima della parola. Credo che i
cavernicoli stessero sempre zitti nella caverna senza dir niente. Erano gente come te che, se gli togli
la parola, cosa gli rimane? La giacca della Upim! All’epoca non c’era il riscaldamento, c’era
l’umidità e di cacca ce ne era… e tutti ridevano. Lì è nato Zelig! Ai bambini se tu dici “cacca”
ridono sempre, ogni volta, ai grandi dopo due o tre volte basta. Per i bambini, dice Chesterton, è
sempre tutto nuovo, perché si stupiscono naturalmente. Quante volte i figli ti chiedono di ripetergli
una storia, anche se è sempre quella, fino allo sfinimento. Chesterton fa un esempio molto bello,
quello di Dio che tutte le mattine, quando sorge il sole, batte le mani. Ne “La penultima cena”,
storia del catering dell’Ultima Cena, ho approfondito la figura di Gesù, ho letto qualche Vangelo
qua e là e ho scoperto che Gesù, come diceva Chesterton, fa molte cose in pubblico. Si arrabbia,
non aveva paura che la gente pensasse che fosse inadeguato rispetto al suo ruolo, lui si arrabbiava,
buttava fuori i mercanti, era “incazzereccio”. Anche la sua mamma, non è che la trattasse tanto
bene, la chiamava sempre “donna”! Gesù però sapeva che, arrabbiandosi, la gente intorno avrebbe
capito, avrebbe avuto gli strumenti per capire. Gesù piangeva, non aveva paura che la gente
pensasse che non era così “sborone” come ci si aspetterebbe dal figlio di Dio. Un uomo che piange
non si può vedere e invece Gesù piange, si commuove e lo fa in pubblico, davanti a tutti, non è
comune! C’è una cosa che Gesù non fa davanti agli altri, ogni tanto, prendeva e andava via, in
disparte. “Cosa faceva?” si chiede Chesterton, e risponde che probabilmente faceva la capriole dalla
felicità, probabilmente faceva dei lavori per cui non poteva farsi vedere perché sapeva che i suoi
discepoli l’avrebbero considerato un matto. La chiama l’allegrezza, felicità. Questo libro ti fa
compagnia.
P. GULISANO: La felicità di cui parla Chesterton ha una sua misura, Ubaldo lo ricorda nel libro,
una delle più belle espressioni di Chesterton dice: “la misura di ogni felicità è la gratitudine” e tra
l’altro per spiegare che cos’è la gratitudine Chesterton ricorse ad una sorte di barzelletta: sapete che
disse il primo ranocchio a Dio, nel Paradiso, dopo essere stato appena creato? Dio aveva creato tutte
le cose belle, tutti gli animaletti, gli uccellini del cielo, gli scoiattoli e poi aveva creato il rospo che
non era proprio il massimo della bellezza. Il rospo si era visto nell’acqua, si era confrontato con
quello che c’era intorno (scoiattolini, uccellini, leprotti ecc..) e poteva a quel punto arrabbiarsi e
chiedere a Dio perché lo aveva fatto così. Invece il rospo, dice Chesterton, disse a Dio: “grazie di
avermi fatto capace di saltare”. Per Chesterton è la gratitudine la misura della felicità, non
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recriminare ma essere felici per quello che si è anche se magari uno non è quello che vorrebbe.
Questo è l’umorismo di Chesterton, l’umorismo che fa pensare. Io volevo chiedere una cosa a Paolo
rispetto al fatto che prima diceva: “a me Chesterton è piaciuto ma che cosa abbiamo in comune con
l’umorismo inglese?” perché a me il suo umorismo ricorda quello di un grande scrittore italiano,
anzi emiliano, Guareschi. A volte mi chiedo se sia Guareschi il Chesterton italiano o il contrario
anche se Chesterton viene un po’ prima. Secondo te, che sei romagnolo, e sei più vicino a Guareschi
e don Camillo, come vedi don Camillo e padre Brown? Se si fossero incontrati che cosa avrebbero
fatto, birra e lambrusco in un pub o in un’osteria della bassa?
P. CEVOLI: Io a parlare di letteratura non sono bravissimo, se mi fai una domanda specifica magari
sragiono, come al liceo, quando avevo qualche idea confusa e l’adoperavo. Hanno tratti comuni.
Una cosa che mi piace molto di Guareschi, che è un po’ la stessa cosa che faccio quando scrivo, e
così, secondo me, anche Chesterton, è fare come i bambini che hanno i loro soldatini, bamboline
che si fanno giocare, interagire e da lì nascono delle storie e poi loro prendono e vanno per la loro
strada. Secondo me questa è la cosa in comune: farsi da megafonisti di una cosa che uno ha e
quando la scrive e la racconta gli piace talmente tanto che anche la gente se la gusta. Secondo me
quando avevano le idee e si inventavano le storie, ad esempio per padre Brown, o avevano le
intuizioni fulminanti è come se ti portassero dentro un mondo che è il loro ma di cui loro sono solo
dei megafonatori. Io faccio questo. La storia de “La penultima cena”, le battute che faccio, questo
spettacolo nuovo che sto scrivendo e che è la storia del sosia di Mussolini dato che una nonnina mi
ha detto: “sei uguale però lui era più grosso e più bello di te, scusa!”. Devo dire che la cosa che mi
appassiona è che le storie vogliono raccontare. Io potrei fondare un movimento “antispiegativismo”:
come quando uno ti dice “faccio il cuoco, faccio la lasagna” e si mette lì e te la spiega. Ma fammela
mangiare! Le storie sono così, vogliono raccontare, come le persone. Il mio scopo è far ridere, come
le lasagne sono fatte per essere mangiate. La storia passa attraverso di me, le loro storie passavano
attraverso di loro, la loro grandezza era dire cose che prendevano da sé.
U. CASOTTO: Nella cosa che ha detto c’è una cosa molto chestertoniana: le cose hanno senso,
valore non perché ci aggiungiamo qualcosa, un senso, un valore o lo spieghiamo ma per il fatto
stesso che ci sono. Questa è la cosa pazzesca che mi ha colpito per come l’afferma Chesterton. A
parte che era un po’ strano. Uno dei suoi libri più belli è il san Tommaso d’Aquino un libro molto
agile, comprensibile per chiunque, che spiega san Tommaso ai bambini. Gilson, uno dei più grandi
storici della filosofia medievale del secolo scorso, diciamo il più grande conoscitore di San
Tommaso d’Aquino, quando ha letto il libro di Chesterton su San Tommaso ha detto: «Avrei voluto
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scriverlo io!» per dire che genio era quest’uomo. Sapete come lo scriveva? Si è documentato, ha
preso libri, leggeva e negli intervalli di tempo chiamava la sua segretaria Dorothy e diceva:
«Dorothy vieni che ci occupiamo un po’ del nostro Tommy!» e dettava a braccio. Dettava a braccio
e quella scriveva ed è venuta fuori questa cosa che se la leggete anche sotto l’aspetto filosofico è
una perla. Ho fatto un inciso che mi porta via dalla cosa che volevo dire. Chesterton di lui che è in
prima fila – scusa, ormai ti abbiamo preso – dice (non proprio di lui): «Di certi ragazzi si dice:
“Quello sarebbe potuto essere un grande!”». È la classica frase che si dice di fronte a una delusione:
tuo figlio è andato all’università e non c’è riuscito, era una promessa del calcio…. “Avrebbe potuto
essere un grande!”. Invece Chesterton dice: «No! Quello è un grande perché avrebbe potuto non
essere! Avrebbe potuto non esserci!». Pensate questa cosa per esempio nei confronti dell’aborto.
Pensatela in sé come roba. Chesterton ha iniziato a convertirsi perché dice: «Io in quella fase di
depressione nella fase giovanile mi arrabattavo – era praticamente diventato nichilista – poi c’era
uno spettacolo teatrale che diceva: “Dove non c’è nulla c’è Dio”. Era una cosa che mi intrigava.
Però io gemevo e capivo che in me nasceva una filosofia che era più vera di quella frase lì: “Dove
c’è qualcosa c’è Dio”. Perché l’esserci è comunque sempre meglio del nulla. La mia frase non è
assolutamente filosoficamente fondata, ma solo più tardi scoprii quanto questa mia frase descriveva
il concetto di ens in San Tommaso, dove il mio “qualcosa” riprendeva il concetto di ens in San
Tommaso d’Aquino». Detto questo, Chesterton ha una profondità filosofica che io ho scoperto
grazie a un professore, che è il padre di un professore di filosofia della Cattolica, Emanuele Samek
Lodovici, che quando andai a chiedergli la tesi – per dire che è un grandissimo umorista; non ha
mai preteso di fare filosofia ma c’è un filo rosso filosofico non solo nei saggi, ma anche nei suoi
romanzi, nei suoi articoli, in “Padre Brown” tantissimo, che è stato divertente da scoprire; io qui
faccio un’introduzione alla lettura di Chesterton cercando di tirare fuori questo filo rosso –
dicendogli: «Io vorrei fare una tesi su Dostoevskij» lui mi guarda e mi dice: «Casotto, lei pensa di
poter dire qualcosa di nuovo su Dostoevskij?» - mi ha incoraggiato subito – e io gli ho detto: «Devo
ancora iniziare!» e lui mi dice: «No, lasci perdere! Perché non fa una tesi su Chesterton?». Ora
calcolate, era il 1980, Chesterton non veniva più letto, pubblicato dagli anni ’40 in Italia, più letto e
studiato nelle università e neanche nel mondo cattolico; veniva considerato uno di quei cattolici tipo
Peguy dai quali tenersi lontani, perché era troppo certo. Io lo conoscevo perché avevo letto L’uomo
che fu giovedì e non ci avevo capito niente e avevo letto Padre Brown. Dico: «Chesterton non è un
filosofo, è un umorista inglese!» e mi fa: «Sì sì, è un umorista inglese ma qui dentro – e con il
braccio ha circondato col gesto tutta la facoltà di filosofia di Torino – ma qui dentro – calcolate che
allora a Torino c’era Vattilo, Parison, Buzzo, Riconda, Rossi,…c’erano dei bei nomi della filosofia
italiana – qui dentro quanto a filosofia gliela mette nel culo a tutti!». Questa è stata la mia tesi. Vi
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ho detto questa cosa sull’essere perché la sua lettura – e poi gli incontri che ho avuto nella vita – è
stata la conferma di questa grande idea della positività, che io ho capito di più mentre scrivevo il
libro un giorno a Roma mentre ero in coda al semaforo. Arrivo, mi fermo al semaforo rosso e passa
una mamma con in braccio un bambino – per dire la cosa del bambino che si stupisce sempre della
realtà comunque si presenti. Il bambino, con un sorriso che non dimenticherò mai più, fa: «Mamma
guarda che bello! È rosso!». Ora, ditemi voi chi è contento di un semaforo rosso! Lì ho ripercorso
un’esperienza giovanile, quando si era contenti di un semaforo rosso, che si era con la morosa e si
approfittava per baciarsi. Però ci sono due condizioni per essere contenti della realtà (anche quando
è contro di te come un semaforo rosso): o sei un bambino, o sei innamorato. Chesterton era tutte e
due le cose. È stato un grandissimo bambino e un grandissimo innamorato; oppure sei vergine. Lui
ha ne L’uomo eterno tutta una riflessione sul concetto di verginità, che è guardare le cose come le
guardavano i bambini, come le guardava Gesù e come le guardava Dio, così come sono venute fuori
dalla mano di Dio, che è il modo di stupirsi sempre della realtà, perché noi conosciamo bene una
cosa solo quando la vediamo per la prima volta e c’è la possibilità di vederla tutte le volte come la
prima volta.
P. CEVOLI: …come le barzellette! Questa cosa qui succede anche a me, voglio leggere questo
pezzo di Chesterton che dice: “Un bambino di sette anni si entusiasma a sentire dire che : «Tommy
aprì una porta e vide un dragone». Un bimbo di tre anni si entusiasma solo a sentire che «Tommy
aprì una porta». È bellissima questa cosa. Questo meccanismo per cui tu da grande le sai già tutte le
barzellette, la storia, la realtà. Sai già tutto, tu hai tutto: hai quei casellari dove ci sono tutte le cosine
che tu sai bene o male che tu qualsiasi persona la prendi e la metti lì. Il mio lavoro invece mi
costringe al contrario, perché andare sul palco c’ha una malattia professionale che è quella che tu
tutte le sere ti spogli. Emotivamente divento sempre più debole, apparentemente. Io vengo da una
carriera di manager e il manager è quello che le emozioni lo “rimbalzano”. Invece sono sempre più
frastornato, mi colpisce questa cosa dello stupore: di fronte a ogni cosa ti fai colpire e torni
“evangelicamente” come bambino, è proprio questo.
U. CASOTTO: Questa cosa che lui dice dello stupore, che è forse filosoficamente ed
esistenzialmente la cosa più importante di Chesterton, è la questione della ragione. Cerco di essere
il più sintetico possibile perché se inizio a parlare di questo in Chesterton vi tengo qui troppo tempo.
Quelli che sanno tutto «la so già, la so già, la so già», i "capiscioni", per Chesterton sono i pazzi. Il
capitolo iniziale di Ortodossia che è il libro più bello in assoluto di Chesterton, scritto vent'anni
prima di convertirsi al Cattolicesimo, dove c'è anche una bestemmia di Gesù - che è la pagina più
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drammatica di Ortodossia – lui lo inizia dicendo: «questo libro risponde ad una sfida». La grande
idea metodologica di Chesterton oltre al paradosso - il paradosso è come un cazzotto, come
spiegava lui prima, il paradosso in Chesterton è sia un metodo che un contenuto perchè lui dice: «la
realtà al suo fondo è un paradosso e quindi la puoi esprimere solo dicendola così come è». Però è
anche un metodo, cioè io ti dico una cosa "paradosso", cioè contro la mentalità di tutti, come ti dessi
un cazzotto sullo stomaco o sulla testa, e obbligo la tua testa a mettersi in moto, la tua intelligenza a
mettersi in moto - l'altro metodo che lui ha è quello del duello, dice: «Per uno che sappia appena
appena tenere in mano una spada», quindi che abbia un minimo di certezza nella vita, quindi per
«uno che sa che è vivo per il semplice fatto che muove le mani e le gambe», come dice nelle
Avventure di un uomo vivo, «è sempre un onore sostenere un duello», quindi sfidare il mondo.
Sfidare il mondo per capirlo, per comprenderlo, per abbracciarlo, non per dannarlo. Come la croce,
la croce è un paradosso che ha al suo centro un conflitto, uno scontro (sono due rette che si
scontrano), ma le cui braccia si possono allargare in tutte le direzioni fino ad abbracciare il mondo,
a comprendere nel doppio senso, di "comprendere" e di "abbracciare il mondo". Risponde ad una
sfida perché lui dice: “Io stavo passeggiando con un mio amico editore e mi diceva questa solita
frase che è la frase più frusta: «Sono importanti gli uomini che credono in se stessi. Quello
è...perché è un uomo che crede in se stesso». In quel momento passa un pullman con sopra una
scritta e Chesterton ha un'illuminazione e dice: «Ti dico io dove sono gli uomini che credono in se
stessi: sono tutti al manicomio. Sono tutti pazzi»”. E parte qui un'analisi del pensiero
contemporaneo, e quindi dell'ideologia, un'analisi molto stringente ma anche molto divertente, in
cui Chesterton mostra come il male e l'irrazionalità dell'uomo contemporaneo sia appunto la pazzia.
La pazzia consiste nell'avere un'idea fissa, una "monomania", dentro la quale mettere tutto il
mondo. Dice che see tu ti metti a parlare con un pazzo non ne esci, perché il pazzo è perfettamente
logico. È un ragionatore pazzesco. Il problema tuo non è spiegargli che sbaglia dei passaggi, perché
ti frega. Avete mai provato a parlare con dei pazzi veri? Non esci. Il problema tuo è spiegargli che il
mondo è più grande della sua testa. “Perché una pallottola di piombo è perfettamente sferica come il
mondo, ma non è il mondo”. Il problema quindi è allargargli la mente, e dice Chesterton, io ve la
faccio breve, «Io sono diventato cristiano perché il cristianesimo ha una filosofia più larga. Il
cristianesimo mi ha allargato la ragione». Io non so se il Papa legga Chesterton però al Bundestag e
prima ancora a Regensburg disse che il problema dell'uomo contemporaneo è allargare la ragione,
ha detto ad un certo punto al Bundestag: «Usciamo da questo bunker, apriamo le finestre, creiamo
delle fessure per ritornare a guardare il mondo», Chesterton dice appunto che il problema del pazzo
è che è pazzo e non è "fesso", che non ha fessure attraverso cui entra l'aria ed entra il mondo.
Quindi ha un concetto di ragione esattamente come quello di Giussani: una finestra spalancata sulla
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realtà, il cui strumento principale non è il ragionamento, ma gli occhi. Dice: «La grande differenza
tra il Cristianesimo e quel buddhismo mistico orientale, nel quale lui identificava alla fine l'ultima
origine di tutte le perversioni anche del pensiero contemporaneo, è nelle immagini dei rispettivi
santi. Se voi vedete il quadro del mistico orientale è lì chiuso, il Buddha, con gli occhi chiusi che
deve rientrare in se stesso. Se voi vedete i quadri dei santi cattolici, cristiani, sono lì con gli occhi
ben spalancati sulla realtà, aperti e spalancati sulla realtà perché il primo strumento della nostra
ragione» - e poi aggiunge «Io sono pronto a dimostrare tutta la teologia, tutti i dogmi, se mi lasciate
partire dal valore sommo di due cose: la ragione e la libertà» - il primo strumento della mostra
ragione sono i nostri occhi. Il problema di quelli che sanno già tutto è fargli capire che c’è qualche
cosa di più».
P. CEVOLI: A parte che la mia mamma ha sempre detto che c'è solo una cosa che non si combatte,
ed è l' “ignorantezza”. Che non è l' “ignorantezza” di quello che non sa ma è di quello che sa già
tutto, a lui è inutile che stai lì, vai via. Lo diceva anche Gesù: «Scuotete la polvere dei vostri
calzari», ma mica perché non aderisce e non prende la tessera del “gesuanesimo”, ma perché che
cazzo stai a perdere del tempo? Un' altra cosa da noi si dice a proposito dello stupore, tipica poi tra
l'altro del mio babbo e della mia mamma. Loro, qualsiasi cosa, dicevano «Eh abbiamo
mangiato…!»; «Abbiamo comprato dei pomodori, vini…!»; mia mamma fa: «Ho comprato una
cassetta di seraghina - pesce azzurro piccolo - devi sentire che roba!». Quella tipologia lì, che è una
caratteristica dell'essere patacca, da noi si chiama "fare i miracoli". Perché è quello che di fronte ad
una cosa - ad un semaforo rosso, fa «Uuh!». Dopo un po' dici: «Vabbè, ho capito, non è che…sei
proprio un patacca che fa tutti questi miracoli». Per qualsiasi cosa io dico: «Uuh!», e mia moglie si
incazza ogni volta: «Non è che tutto può essere bello, bellissimo!», mia moglie è quella che mi tiene
un po' i piedi per terra. Questa definizione però è bella: "fare i miracoli", cioè che ogni cosa è un
miracolo, ogni cosa è un miracolo. Il romagnolo non è particolarmente intriso di senso religioso
perché il romagnolo, diciamolo, avendo gli stormi di tedesche, era orientato verso un discorso più
“pratico”. Però questa cosa è bella, non ci avevo mai pensato, "fare i miracoli".
P. GULISANO: Faccio una domanda a tutti e due. A Paolo che ha il dono della sintesi, a modo suo,
e naturalmente anche a Ubaldo. Una domanda perché sono venute fuori diverse parole significative
che descrivono Chesterton: lo stupore, il paradosso, l'umorismo, la gioia. Ma ce ne è un'altra a mio
avviso molto significativa: l'innocenza. Tra l'altro quando Chesterton era andato in quella crisi
giovanile di cui si è già detto, alla fine il motivo vero per cui era andato in crisi non era tanto perché
non riusciva, sì, c'era quello, c'era il disagio con se stesso, ma alla fine Chesterton avvertiva dentro
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di sé anche una sofferenza: diventare grandi vuol dire cambiare e rinunciare anche ad avere sula
realtà degli occhi da bambino. Gli sembrava che fosse un prezzo da pagare troppo alto, e questo lo
aveva abbattuto. Poi si accorge che invece puoi diventare grande, puoi diventare persino vecchio,
questo lo disse quando si convertì: «Sono entrato nella Chiesa Cattolica perché è l'unica che è in
grado di perdonare i miei peccati. E una volta che il peccato è confessato e perdonato uno può
essere anche vecchio, grigio e gottoso, ma è come se fosse ancora quel bambino che era da
piccolo». Ecco, l'innocenza è una delle cosa che ritorna più spesso anche come parola: l'innocenza
di Padre Brown, Innocenzo Smith e così via. Poi Ubaldo ce la contestualizzerà anche nell'ambito
del suo libro. Invece adesso, Paolo, con una battuta fulminante, cos'é l'innocenza?
P. CEVOLI: Quando tu nasci respiri e hai fisicamente una postura aperta. Fai il respiro e non hai
paura. Naturalmente nasci aperto: fisicamente, di spalle, di bacino, di petto, e il respiro, se voi
vedete un bambino, si muove come un'onda, un bambino di pochi mesi. Lui nasce aperto, non ha
paura di niente. Naturalmente. Mano a mano ti irrigidisci, la postura si fa ingobbita, il respiro si fa
contratto. È una forma di difesa, naturalmente tendi a prendere meno aria, perché noi campiamo
d'aria prima ancora che di lasagne e di lambrusco. Il bambino nasce innocente: di fronte alla realtà
non ha paura di niente. E non si deve difendere. Io, facendo il mestiere dell'attore, ho visto che se
faccio questo respiro istintivo e questa postura, mi rovino, faccio male il mio lavoro. Per fare questo
da adulto, a cinquantatré anni, devo ragionare, devo fare un lavoro fisico e mentale per ritornare a
non avere paura di tutto. Perché tu non puoi avere paura del pubblico, anzi, tu al pubblico gli devi
volere bene. Perché se non gli vuoi bene dai fastidio, a te stesso prima di tutto, ma anche alla gente.
L'innocenza è una roba che noi abbiamo alla nostra nascita, mano a mano poi per rimanere in essa
la dobbiamo riconquistare.
CASOTTO: La roba che dice lui in Chesterton c’è tantissimo. Ciò che è caratteristica naturale e
strutturale del bambino nell’adulto è frutto di una conquista, cioè di un lavoro.
CEVOLI: La scelta di un lavoro.
CASOTTO: Cristianamente si chiama ascesi. Però a me piace poco usare le parole cristiane con
Chesterton perché, spero anch’io che lo facciano santo, ma non vorrei che me lo trasformassero in
un santino, lui che invece era quanto di più laico e prorompente c’era.
GULISANO:Veniva definito “un cattolico alla birra” da certi cattolici più seri.
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CASOTTO: Esatto. Lui ha fatto un romanzo per difendere la possibilità delle osterie. Però
Innocenzo Smith, il protagonista de L’uomo vivo, spiega questa cosa, che si è innocenti perché si è
vivi e si ridiventa innocenti se si attraversa il mondo. Innocenzo Smith cosa fa? Esce da casa sua un
giorno e gira il mondo per poter tornare a casa sua, perché lui dice che la cosa più normale per
tornare a casa propria è uscire dalla porta, fare il giro del mondo, e tornando ruivederla in un altro
modo. Lui fa questo e in questo giro gliene succedono di tutti i colori e la scena finale di tutto il
romanzo è un processo in cui lui viene accusato di divorzio, di effrazione, di tentato omicidio, di
tutti i colori. Leggetelo perché è divertentissimo! E l’innocenza con lui centra con l’insoddisfazione
e la nostalgia, perché a un certo punto nel suo giro, vi leggo solo questo e finisco, incontra un
meticcio americano il quale gli dice: «Mia nonna avrebbe detto che tutti siamo in esilio e che
nessuna cosa terrena potrà mai guarirci dalla santa nostalgia che ci tormenta». «Credo» gli rispose
«che vostra nonna avesse ragione. Credo debba essere codesto il segreto, il mistero della nostra vita
così piena di incanto e di insoddisfazione». Essere vivi, cioè essere innocenti, è questa roba qui.
L’ultima cosa che vi dico è che io ho avuto veramente un sussulto, perché sono quei colpi che ti
fanno capire che cos’è il genio, quando alla mostra del Meeting dell’anno passato su Pasternak,
Anna Pallavicini ce la spiegava, e poi alla fine ci chiede: «Voi sapete cosa vuol dire Zivago in
russo? Zivago in russo vuol dire uomo vivo». L’uomo vivo è il romanzo di Chesterton. Due persone
lontanissime come sensibilità, lontanissime geograficamente, lontanissime come cultura, come
storia, come esperienza, hanno capito che la risposta culturale ed esistenziale al disastro del
pensiero contemporaneo, all’eresia (direbbe Chesterton) del pensiero contemporaneo, alla riduzione
che il pensiero contemporaneo fa dell’uomo, era essere uomini vivi. Grazie.
GULISANO: Bene, ci lascia la nostra guest star della serata. Però visto che Ubaldo Casotto non
deve scappare se c’è qualcuno che ha qualche domanda, se vuole può farla.
DOMANDA: Ho iniziato a leggere l’autobiografia di Chesterton e lui viene colpito dal papà che gli
fa quel gioco del cavaliere con un teatrino di cartone, e da lì parte tutto. Può aiutarci a capire che
valore ha questo?
CASOTTO: In quel passaggio dell’autobiografia c’è l’idea che per essere vivi, per essere
“democratici”, dice lui, per essere uomini, bisogna essere tradizionali. E la figura della tradizione
lui la riassume in questo passo, se riesco a trovarlo al volo, proprio nell’inizio dell’autobiografia,
perché in questa frase c’è tutto Chesterton: «Piegandomi con cieca credulità, come sono solito fare,
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alla mera autorità e alla tradizione dei miei maggiori, ingoiando superstiziosamente una storia che
non mi fu possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale, io sono d’opinione
certissima di essere nato il 29 maggio 1874 a Campden Hill, Kensington». Ed è vero, è così, qui c’è
tutto il metodo di conoscenza di Chesterton. Perché la cosa più importante della vita è nascere, non
è sposarsi, la cosa più importante della vita è nascere. È anche il momento in cui siamo
paradossalmente più vicini alla morte, è scientificamente provato che il momento della nascita è il
momento in cui il bambino è più vicino fisicamente, come possibilità, alla morte. La cosa più
importante è che noi c’eravamo però noi ne siamo certi perché ce l’ha detto qualcuno.
L’affermazione certa della nostra data di nascita è un atto di fede, è un metodo di conoscenza che si
fida della testimonianza di qualcuno, che afferma come vero per sé, tanto da scriverlo in un
documento dello stato, ciò che altri gli hanno detto. Perché io non posso conoscere nulla della realtà
se non passando attraverso queste figure che sono i miei maggiori, cioè le autorità della tradizione.
E quando mio padre mi diceva di stare attento alle api perché le api pungono e poi io andando in
giardino sono stato punto da un ape, non ho pensato che mio padre avesse sviluppato una
particolare filosofia, ho pensato che mio padre avesse ragione, perché era più conoscente e più
saggio di me. Questa cosa normalissima c’è nel bambino, come dicevamo prima, ed è quella di
fidarsi del genitore. Mi ricorderò sempre una cosa pazzesca. Un giorno ho intervistato un’attrice che
era un po’ schizzata e infatti mi ha raccontato che sua madre una volta l’ha messa sopra un
armadietto, poi le ha detto: «Vieni, vieni!». Lei fa quello che avremmo fatto tutti noi, si è buttata.
La madre si è spostata e l’ha fatta cadere per terra, a due anni, e le ha detto: «Così impari a non
fidarti di nessuno». Capite? È più ragionevole la fede o questo tipo di scetticismo indotto? Perché è
indotto, non è naturale, perché uno deve farsi violenza per fare una cosa del genere. Ciò che da
bambino è naturale, tranne alcuni casi “pazzotici” come quello di questa madre, è poi il metodo di
conoscenza che noi abbiamo, ad esempio nei confronti della Chiesa, anche da adulti e che
dovremmo avere sempre nei confronti della tradizione, perché la tradizione è la “democrazia dei
morti”, cioè dare la parola a quelli spesso più saggi di noi che sono venuti prima di noi e che noi
non vogliamo ascoltare più per il semplice fatto che sono venuti prima. E’ un insulsaggine, un fatto
non ragionevole. Credo di aver spiegato.
GULISANO: Chesterton dice: «Incontrare un uomo è un’esperienza unica, anche se lo si incontra
solo per un’ora». Quindi ne avete incontrati tre più Chesterton, a cui Ubaldo Casotto ci introduce
con questo libro che ci prospetta questa dimensione di mistero, di enigma, e ci dà anche la chiave
però per entrare. Non abbiamo detto qual è la chiave ma penso che si sia capito, come in ogni buon
giallo che si rispetti la soluzione va trovata da ogni lettore, da ogni cuore che si avvicinerà davvero
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alla vicenda umana oltre che culturale, artistica, al patrimonio e all’eredità di Chesterton. Quindi
ringrazio ancora Ubaldo Casotto e ringrazio in contumacia Paolo Cevoli che ha dovuto lasciarci per
altri impegni e buona lettura di Chesterton a tutti.
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