I ta l i a
c
D
a vari anni opera a Milano il gruppo interconfessionale Teshuvah. La
parola in ebraico significa «ritorno, pentimento» (nell’ebraico contemporaneo anche «risposta»). La denominazione
prospetta, accanto all’ascolto della tradizione ebraica, l’esigenza di un cammino di conversione inteso come «ritorno» a Dio, alle fonti bibliche e alle
origini della tradizione cristiana. Questa prospettiva ha una propria peculiarità che caratterizza gli obiettivi del
Gerusalemme.
Recita delle preghiere
penitenziali Slichot.
Dialogo ebraico-cristiano
hiesa e Israele
Gli interrogativi teologici
p o s t i d a l g r u p p o Te s h u v a h
gruppo in modo differente da quelli
delle esperienze di amicizia o di dialogo tra ebrei e cristiani.
Nata sulla scia del magistero del
card. C.M. Martini, Teshuvah è composta da cristiani di varie appartenenze
ecclesiali accomunati dalla convinzione che il confronto con il popolo d’Israele costituisca un punto fondamentale
per la vita e la comprensione della fede
cristiana. Il gruppo ha avuto a lungo
come esponenti di riferimento mons.
Gianfranco Bottoni (per molti anni responsabile dell’Ufficio per l’ecumeni-
smo e il dialogo della diocesi ambrosiana), Paolo De Benedetti e il valdese
Gioachino Pistone. Nella sua attività di
incontri e proposte alle comunità ecclesiali, Teshuvah ha inteso privilegiare
l’attenzione alla necessaria e urgente
revisione dell’autocoscienza cristiana
nei confronti dell’ebraismo.
Impegnato su vari fronti,1 il gruppo interconfessionale ha, verso la fine
del 2013, prodotto un documento di
un certo rilievo. Si tratta del testo Chiesa e Israele. Punti fermi e interrogativi
aperti. Frutto della riflessione compiuta nella specifica prospettiva di Teshuvah, il documento è destinato ai cristiani che cercano di meglio comprendere la relazione cristiano-ebraica.
Come si legge nella Premessa, il testo
«non si rivolge (...) in modo diretto a
ebrei, né si prospetta in primo luogo
come contributo al dialogo con essi.
Nasce invece dalla convinzione che l’istanza di una teshuvah cristiana nei
confronti del popolo ebraico sia e debba diventare previa allo stesso dialogo
bilaterale».
Il documento consta di 14 punti.
Essi sono stati redatti con il semplice
scopo di suscitare una libera discussione intra-cristiana. Si aggiunge, però,
che sarà valutato in modo molto positivo «anche l’eventuale contributo di
correzioni e suggerimenti da parte di
ebrei sensibili al cammino che alcuni
cristiani cercano di compiere per rettificare la coscienza della propria relazione con la realtà storica del popolo
ebraico». Diffuso per canali legati al
mondo ecumenico e in parte accademico, il documento, a quanto finora ci
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L.A. SCHÖKEL - J.M. BRAVO ARAGÓN
Appunti di
ermeneutica
risulta, non ha ricevuto significativi riscontri.
La bozza da discutere rischia, quindi, di trasformarsi nel testo definitivo.
Del resto lo stesso gruppo Teshuvah,
anche a motivo del nuovo corso e dei
nuovi organigrammi della diocesi milanese, risulta avere una vita sempre
più labile. Rispetto all’ambito interconfessionale che l’ha prodotto, il documento rischia di trovarsi nella stessa
condizione del fiore dell’agave.
Comprendere e interpretare
i testi biblici e letterari
L
a Bibbia non è stata scritta per i bi« blisti, né il Don Chisciotte per gli
studiosi di Cervantes, né la Divina Commedia per gli esperti di Dante». Dagli
«appunti», raccolti in quasi quarant’anni di insegnamento di p. Schökel al
Pontificio Istituto Biblico, emergono
la natura, il significato e l’originalità
dell’ermeneutica.
«CONIFERE»
pp. 200 - € 18,00
T3_Garcia:Layout 1
28-07-2014
11:08
E.H. GARCÍA - P. SELVADAGI
S. FERDINANDI - A. BRIGNOLI
La parrocchia
ai tempi di
Papa Francesco
Prefazione di Domenico Sigalini
Q
uale parrocchia ha in mente papa
Francesco e come desidera che si
ristrutturi? Come si può rimettere in discussione la «quiete parrocchiale» per
privilegiare le periferie sull’organizzazione? Un’autentica conversione pastorale
richiede di passare da una pastorale conservativa a una pastorale profetica e aperta al dialogo, alla modernità, ai «lontani».
«CAMMINI DI CHIESA»
pp. 64 - € 5,00
Pagina
Un legame permanente
I 14 punti sono formulati come tesi
seguite da alcune domande volte a favorire il dibattito. I titoli che li contraddistinguono sono i seguenti: «1. L’elezione di Israele è irrevocabile»; «2. Gesù è ebreo e lo è per sempre»; «3. I primi seguaci di Gesù erano ebrei e il loro
movimento nasce come intraebraico»;
«4. Il movimento dei credenti in Gesù
Cristo ha una propria specificità che lo
distingue dalle altre correnti giudaiche»; «5. Gli scritti neotestamentari so1
no incomprensibili senza fare riferimento alle Scritture d’Israele»; «6. La
Chiesa, in virtù della sua origine, ha un
legame permanente con il popolo d’Israele»; «7. È illegittimo definire la
Chiesa nuovo Israele. La teologia della
sostituzione prospetta un’immagine di
Chiesa non conforme al Nuovo Testamento»; «8. L’ebraismo, in tutta la sua
storia, è stato ed è una realtà viva e
multiforme»; «9. Nel corso della sua
storia il cristianesimo non ha ignorato
la perdurante esistenza del popolo
ebraico, ma lo ha definito in base a categorie quasi sempre autoreferenziali e
ostili»; «10. È inammissibile la missione verso gli ebrei da parte delle Chiese
cristiane»; «11. Il dialogo cristianoebraico è condizione necessaria di ogni
ecumenismo tra cristiani e premessa di
un corretto rapporto con le religioni»;
«12. Nel dialogo cristiano-ebraico non
può essere ignorato il rapporto del popolo ebraico con la sua terra»; «13. Nel
dialogo cristiano-ebraico oggi è irrinunciabile la riflessione sull’evento
Shoah»; «14. L’attesa delle “cose ultime” accomuna e distingue ebrei e cristiani nella speranza».
La semplice lettura dei titoli evidenzia un impegno di riflessione di alto
profilo. Ciò è vero specie per i punti più
orientati sul versante teologico, spesso
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non molto considerati nell’ambito del
dialogo ebraico-cristiano. Non sembra,
dunque, lontano dal vero sostenere che
il fulcro principale delle 14 tesi sia costituito dalla sesta.
Vista la particolare prospettiva del
gruppo Teshuvah, è dato affermare
che da essa prendono le mosse tutte le
altre considerazioni. Va da sé, per
esempio, che l’affermazione secondo
cui la Chiesa ha un legame permanente con il popolo d’Israele comporta
tanto la permanenza dell’elezione
ebraica quanto l’attenzione riservata
alla storia degli ebrei.
Ne riportiamo ampi stralci: «... Le
Chiese residenti nelle varie città (“La
Chiesa di Dio che è in…”) erano consapevoli di costituire una forma di comunità profondamente nuova e diversa rispetto al modo di essere di Israele
come popolo, ma non per questo estranea o alternativa a Israele. Ciò può essere detto sia per le comunità composte
da ebrei, a iniziare dalla “Chiesa madre” di Gerusalemme, sia per le comunità “miste” (prima fra tutte quella di
Antiochia), vale a dire costituite sia da
ebrei sia da gentili. (...) La presenza a
un tempo di questa differenza e di questo legame nei confronti di Israele è un
presupposto per comprendere i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, la più
articolata riflessione neotestamentaria
dedicata al rapporto tra le comunità
formate dai credenti in Gesù Cristo e il
popolo ebraico. Anche in strati più recenti del Nuovo Testamento, dove si
iniziò a impiegare la parola “Chiesa” al
singolare, sarebbe restata ferma la prospettiva che attesta l’esistenza di un insostituibile rapporto di ogni credente
con Israele. In questa luce particolare
rilievo va assegnato al brano della Lettera agli Efesini in cui, rivolgendosi ai
credenti di origine gentilica, l’autore
afferma che quando essi erano senza
Cristo erano estranei alla cittadinanza
d’Israele, mentre ora in Cristo chi un
tempo era lontano è diventato vicino
(cf. Ef 2,11-13)».
La difficile eredità
della sostituzione
Per logica e importanza questa tesi
è seguita immediatamente da quella
dedicata alla cosiddetta «teologia della
sostituzione», essa «è fondata su tre
convincimenti di base: a) fino alla ve-
nuta di Gesù Cristo, il popolo d’Israele
è stato titolare dell’elezione; b) questo
popolo ha perduto l’elezione a causa
del suo rifiuto di Gesù Cristo; c) l’elezione è passata alla Chiesa la quale si
presenta, quindi, come nuovo (o vero)
Israele.
Questa visione, predominante nelle
tradizioni cristiane già a partire dal II
secolo, ha influito in maniera massiccia
soprattutto nell’elaborazione delle visioni “tipiche del «regime di cristianità”. (...) Nel Nuovo Testamento è assente la teologia della sostituzione in
quanto vi si afferma tanto l’irrevocabilità della chiamata di Dio rivolta al popolo d’Israele, quanto la peculiarità
della novità evangelica. La visione teologica sostituzionista, oltre ad alimentare l’antigiudaismo cristiano, ha infatti influito in modo globale sulla costruzione di una ecclesiologia incapace di
salvaguardare appieno la novità dell’Evangelo.
Letta in chiave teologica, la distinzione Israele-genti consegue dall’elezione. L’alleanza non revocata comporta, quindi, la permanente validità
teologica ed ecclesiologica di questa distinzione. Secondo il Nuovo Testamento, il proprium della Chiesa è di essere costituita dai chiamati provenienti
sia da Israele sia dalle genti (cf. Rm
9,24). Questa caratteristica, legata alla
chiamata alla fede, fa sì che la Chiesa
non sostituisca né Israele né le genti».
La teologia della sostituzione rappresenta sicuramente una sistema «ben
formato». Essa è molto coerente ed è
arduo, movendosi al suo interno, trovare delle crepe. Occorre perciò porsi
alcune domande: tutti gli elementi del
sistema sono da respingere? Si è nelle
condizioni di accoglierne alcuni e di rifiutarne altri formando un sistema di
uguale coerenza?
La situazione attuale è descrivibile
in termini di un rifiuto parziale e di un
accoglimento altrettanto parziale nell’ambito di visioni al proprio interno
incoerenti e quindi incapaci di raggiungere il livello di sistema. Ma si è in
grado di operare diversamente? Di certo nella visione sostitutiva ci sono alcuni punti fermi irrinunciabili per la fede
cristiana. Essi sono almeno tre: a) il popolo d’Israele è stato eletto da Dio; b) il
Dio dell’Antico Testamento è il padre
del nostro Signore Gesù Cristo; c) in
Gesù Cristo l’opera di salvezza di Dio
ha raggiunto il proprio compimento e
la stessa attesa della pienezza ultima dipende da quanto è già avvenuto (il
«non ancora» si dispiega solo in ragione del «già»).
Quanto ora è comunemente affermato in base alla Scrittura dell’uno e
dell’altro Testamento è che l’alleanza
tra Dio e il popolo d’Israele non è mai
stata revocata. Altri due punti si trovano invece tuttora nella condizione di
essere ripensati senza sapere bene né
quale linea seguire, né il modo di articolare il discorso: l’elezione del popolo
ebraico, avvenuta in vista del compimento dell’opera di salvezza in Gesù
Cristo e il ruolo svolto dalla tipologia,
dalla prefigurazione e dalla realizzazione delle profezie nell’affermare l’unità dei due Testamenti.
Domande per l’azione
missionaria
Tra le due la questione decisiva è la
prima, la seconda infatti dipende dalla
precedente. Una svolta fondamentale
nel muovere il discorso sta nel porsi la
domanda rispetto a chi il popolo ebraico è «eletto» (o «scelto» come si preferisce affermare all’interno della tradizione giudaica). Si tratta non a caso del
tema a cui è dedicato il primo dei 14
punti di Teshuvah.
La considerazione di partenza che
si ritrova nel testo è che l’elezione esige
e attua la distinzione tra Israele e genti.
Non a caso la tradizione ebraica per
individuare le peculiarità del popolo
scelto si rifà, di preferenza, alle tre caratteristiche prospettate dal diciannovesimo capitolo del libro dell’Esodo: i
figli d’Israele sono una «proprietà particolare» per il Signore, un «regno di
sacerdoti» e un «popolo santo» (Es
19,5-6).
Da ciò consegue che la permanenza
dell’elezione comporta il valore perenne attribuito al mantenimento di questa articolazione. Essa è dotata di un significato esclusivamente teologico che
non intacca l’uguaglianza creaturale
tra tutti gli esseri umani, né interagisce
con la dimensione laica e accomunante
dei diritti umani. Priva del fondamento
costituito dal Dio biblico («il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di
Giacobbe», Es 3,15), l’idea stessa di
elezione viene a stravolgersi e dà corso
a degenerazioni non di rado aberranti.
In particolare gli usi storico-politici secolarizzati dell’idea di elezione sono
fonte inevitabile di violenza e sopraffazione.2
Pericolosi e violenti sono anche gli
usi teologico-politici dell’idea di elezione quando si pongono ancora nell’ambito della fede. Un simile presupposto
ha, per esempio, potentemente operato nello svolgimento dell’azione missionaria da parte delle Chiese cristiane. In
particolare, per quanto concerne il cattolicesimo, basti prestare mente a un
uso linguistico – del tutto recepito pure
nell’ambito del Vaticano II – in base al
quale l’azione missionaria è definita
missio ad gentes, dove risulta palese che
la qualifica di «genti» è attribuita ai
non cristiani e non già ai non ebrei.
Di contro, all’interno degli scritti
neotestamentari, il termine ta ethnē è
sempre rigorosamente applicato ai non
ebrei siano o non siano credenti in Cristo. Fa quindi parte dell’annuncio
evangelico alle genti rendere nota la loro condizione gentilica. Ciò equivale
ad affermare che rientra nella missio ad
gentes (inteso in senso proprio come
non ebrei) comunicare loro l’elezione
del popolo d’Israele. Per la mentalità
sostitutiva il compito invece si risolve
nel presentare ai non cristiani (gentes) il
vero Israele, vale a dire la Chiesa.
Queste e altre considerazioni sollevate da Chiesa e Israele. Punti fermi e
interrogativi aperti indicano piste rilevanti troppo a lungo trascurate all’interno della riflessione teologica ed ecclesiologica. Su di esse occorrerebbe
riflettere, tuttavia un’inerzia secolare
rende difficile farlo. Forse una piccola
spia in tal senso è ricavabile anche dallo scarso dibattito suscitato da questo
documento.
Il terreno dunque non sembra ancora predisposto ad accogliere un certo
numero di stimoli da esso lanciati.
Piero Stefani
1
Teshuvah ha anche progettato e diretto
per alcuni anni, presso le EDB, la collana «Cristiani ed ebrei» recentemente resasi automa dalla sua matrice originaria.
2
Ci si consenta di citare simbolicamente una
frase attribuita ad Adolf Hitler: «Non ci possono
essere due popoli eletti. Noi siamo il popolo di
Dio»: H. Rauschning, Hitler m’a dit, Ed. Livre
de poche, collana «Pluriel», Parigi 1979, 321.
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