Scuola di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario LABORATORIO DI SVILUPPO CURRICOLARE PER LA FISICA corso del professor GIOVANNI BATTIMELLI La relatività a scuola: dalla meccanica classica alla relatività speciale specializzando STEFANO CAROSELLI 1 - Il problema della relatività Normalmente quando si parla di relatività, ci si riferisce ad Albert Einstein e la sua bicicletta, al fatto che tutto è relativo, e a qualcosa che in qualche modo spiega la “formula magica”: E = mc². Se ci si chiede però da dove deriva questa formula, e soprattutto a cosa serve, la maggior parte della gente non sa dare una risposta; alcuni si arrampicano in ipotesi filosofiche del tipo “siamo fatti di energia” o “possiamo trasformare materia in energia”, senza sapere di preciso cosa comportino tali affermazioni. Come si può insegnare a scuola argomenti che la gente comune ignora, o comunque conosce a livello molto superficiale? Il problema fondamentale è il fatto che, al contrario di ogni altro argomento fisico, i ragazzi non possono fare esperienza quotidiana di fenomeni relativistici: mentre ogni giorno si imbattono in problemi di meccanica classica (basta giocare a pallone...) di termologia (una merendina sigillata, dentro il forno a microonde...) o di elettromagnetismo (un bel temporale con i fulmini...) è impossibile trovare qualche fenomeno che coinvolga le trasformazioni di Lorentz e necessiti quindi di correzioni relativistiche (giusto in questi ultimi anni possiamo trovare qualche esempio “quotidiano” come il funzionamento del GPS delle automobili). In genere inoltre i libri di testo partono dal formulario relativistico, proponendolo come una sorta di “decalogo” da rispettare, facendo credere ai ragazzi che la roba studiata prima è inutile (...finora abbiamo scherzato, ora si fa sul serio!); a mio parere questo approccio non è molto produttivo, in quanto è visto dagli studenti come la solita poesia da imparare a memoria, anche se non si sa di cosa parli. Occorre trovare quindi un approccio più stimolante, che coinvolga gli studenti, rendendoli partecipi degli argomenti affrontati, facendo loro scoprire, quando possibile, alcuni risultati interessanti, ripercorrendo ad esempio la storia della fisica, con le motivazioni che spinsero i fisici a seguire alcune teorie e a scartarne di altre. 2 - Come nasce la relatività? C'è a volte chi, sentendo parlare di relatività, si ricorda della relatività classica, e riesce a arricchire la frase “tutto è relativo”, riprendendo il principio di Galileo Galilei per cui non si può discriminare un sistema in quiete da uno in moto rettilineo uniforme, o meglio, più in generale i principi fisici sono invarianti in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Come conseguenza si ha che senza fissare dei riferimenti esterni, è impossibile stabilire se un corpo è in quiete o in moto rettilineo uniforme: ad esempio se stiamo su un treno in partenza, abbiamo spesso la sensazione che sia il treno accanto a muoversi, non il nostro. Furono introdotte quindi le trasformazioni galileiane, che permettevano di collegare esperimenti un 1 fenomeni studiato in sistemi diversi, di cui si conosceva il moto relativo; Newton riprese questa teoria, ma postulò l'esistenza di un sistema assoluto, fissò il Sole come centro di tale sistema, come base per tutte le osservazioni. Nel XIX secolo alcuni studi su fenomeni elettromagnetici produssero risultati in contraddizione con la struttura galileiana, e si iniziò a dubitare della validità del principio di relatività. Già nell'equazione delle onde compare un termine che ha le dimensioni di una velocità e tale velocità fu considerata relativa al sistema di riferimento in cui l'onda si propaga. Nell'equazione d'onda che si ricava dalle equazioni di Maxwell, il termine ε∙μ è il quadrato di una velocità, c²: essendo tale valore una costante universale (le equazioni di Maxwell sono invarianti per cambiamenti di riferimento) si ipotizzò che tale velocità fosse quella di un'onda elettromagnetica, come la luce, nel riferimento assoluto, quindi nell'etere, un mezzo ideale presente nello spazio esterno; si calcolò che c doveva essere molto elevata, circa 3∙108 m/s, quindi l'etere doveva esser dotato di estrema rigidità e molto rarefatto. 3 - Un importante primo passo Per poter verificare la validità di queste ipotesi, si cercò di misurare c in condizioni diverse: se T = 2L è il tempo di percorrenza (andata e ritorno) della luce per una distanza L in un sistema di c riferimento “fermo”, allora T ' = 2Lc 2L = k = kT dovrebbe essere il tempo se il mezzo di 2 2 c c −v propagazione fosse in moto con velocità v rispetto a prima, essendo k = 1 il rapporto tra i tempi 1−v 2 /c 2 di percorrenza. Ad esempio si poteva considerare il moto della terra relativo al sole, e studiare il raggio luminoso a seconda di come si componeva con la velocità della terra. C'era da tenere in considerazione però che il moto della terra relativo al sole era di circa 3∙104 m/s, e si può osservare che il rapporto tra le velocità v/c è di 1 : 104, e quindi v²/c² ≈ 1 : 108, errore impossibile da misurare all'epoca! Nel 1887 Michelson e Morley effettuarono le misurazioni in due momenti in cui la terra si trovava in posizioni opposte rispetto al sole (quindi con velocità opposte); componendo la velocità della terra con quella della luce, si sarebbero potute verificare le proprietà dell'etere e delle onde elettromagnetiche, misurando i tempi di percorrenza del raggio luminoso. Per aggirare il problema delle piccolissime differenze di velocità, montarono un sistema di specchi per aumentare il più possibile il percorso della luce; sdoppiarono il raggio con una riflessione e una rifrazione, e fecero compiere tragitti di lunghezza diversa ai due raggi prima di farli convergere entrambi nello stesso punto; tale operazione consentì di generare fenomeni di interferenza (erano raggi di uguale frequenza ma diversa fase). 2 I tempi di percorrenza sarebbero dovuti B dipendere dalla composizione con lo spostamento della terra, e facendo ruotare il sistema, ottenendo composizioni diverse tra le velocità, sarebbero variati i tempi di percorrenza e quindi si sarebbero variate le interferenze riscontrate. Tuttavia, A nonostante numerosi tentativi, non si riscontrò C alcuna variazione nelle interferenze, e ciò andava contro le leggi di trasformazione galileiane. Si iniziarono quindi a proporre teorie e ipotesi che spiegassero il perché dell'assenza di variazioni nelle interferenze; una prima ipotesi supponeva che l'etere non fosse immobile, ma che ruotasse intorno al Sole con la stessa velocità della terra, ma tale ipotesi fu scartata in quanto contraddiceva alcune osservazioni astronomiche. Fitzgerard ipotizzò che sebbene la luce variasse di velocità inclinando il raggio, era presente un effetto di “contrazione delle lunghezze”, anch'esso in relazione con la luce, che compensasse tale variazione e facesse sì che non risultassero variazioni di interferenza. Sebbene l'ipotesi di Fitzgerard fosse una teoria creata ad hoc per giustificare il comportamento dei raggi luminosi, fu ripresa da Lorentz, che analizzò la questione da un punto di vista elettromagnetico; in sintesi la teoria di Lorentz era: in riferimento all'etere fisso, una carica con una qualunque velocità influisce sui campi magnetici, (secondo l'omonima legge F =q v ∧ B ) e quindi sulle interazioni tra le molecole: aumentando la velocità aumenta la forza elettromagnetica e quindi la forza di legame tra le molecole, e si può ottenere di fatto una contrazione delle lunghezze. Sulla base delle sue convinzioni, Lorentz cercò di applicare le ipotesi precedenti alle trasformazioni galileiane, ottenendo per l'appunto le fondamentali trasformazioni di Lorentz. La teoria di Lorentz giustificò i risultati degli esperimenti di Michelson e Morley, e molti fisici, tra cui Poincaré e lo stesso Lorentz, si convinsero che “esisteva uno spazio assoluto (etere), ma non si avevano strumenti fisici per osservarlo e analizzarlo”, e il principio di relatività di galilei fu modificato: i principi fisici sono invarianti in tutti i sistemi di riferimento inerziali rispetto all'etere: l'etere costituiva un sistema di riferimento privilegiato. 4 - Arriva Einstein Albert Einstein era un brillante giovane, la cui occupazione era lavorare all'ufficio brevetti; si trovava quindi a discutere spesso con i suoi colleghi delle innovazioni del tempo, come le scoperte in campo 3 elettromagnetico; egli riteneva che non vi fosse alcun sistema di riferimento privilegiato, ma che il principio di relatività valesse nella sua forma originaria. Un problema che suscitò la sua curiosità fu quello della sincronizzazione del tempo: per sincronizzare due orologi in due luoghi differenti, era necessario sfruttare un segnale la cui velocità non dipendesse dal sistema di riferimento usato; tale segnale è quello che compare nelle equazioni di Maxwell (essendo queste delle leggi universali), la velocità c= . Contrariamente a Lorentz e a Poincaré, Einstein ipotizzò che la velocità della luce fosse costante in tutti i sistemi di riferimento, e che quindi la teoria dell'etere fosse superflua: era convinto che il principio di Galileo dovevano esser valido senza eccezioni, e altrettanto valide dovevano esser le equazioni di Maxwell: questo portava a concludere che la velocità della luce fosse un'invariante, e che era necessario rivedere le trasformazioni Galileiane. Einstein basava la sua teoria su due postulati: I. tutte le leggi fisiche sono invarianti in tutti i sistemi di riferimento inerziali; II. la velocità della luce nel vuoto ha lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento inerziali. 5 - Le nuove trasformazioni Osserviamo che partendo dalla nuova ipotesi che c sia costante, con un ragionamento piuttosto semplice è possibile ottenere le trasformazioni di Lorentz. Partiamo dalle trasformazioni di Galileo tra due sistemi in moto relativo di velocità u: x '=x−ut t ' =t v '=v −u Il primo passo è porre v = c e v' = c' osservando che per il II principio c' = c. Il secondo passo è modificare la prima equazione: per le osservazioni fatte da Lorentz dovrà essere x '=x −ut essendo γ un parametro che: 1. deve dipendere dal valore di u e c (non dal verso) γ = f (u², c²) 2. deve essere adimensionale γ = f (u² / c²) 3. se u << c, γ ≈ 1 4. deve rispettare l'ipotesi che c' = c dall'ultimo punto osserviamo che se un corpo viaggia con velocità c in un sistema, deve viaggiare a velocità c anche nell'altro: x = ct ⇒ x' = ct'; sostituendo queste due relazioni nella ottiene ct ' =ct−ut da cui: = x ' =x −ut si ct ' ct−ut Si capisce allora che per ottenere γ = f (u² / c²), dobbiamo modificare anche il tempo; partiamo quindi 4 ponendo: x '= x−ut t ' =t− x c '=c dove: 1. α è l'inverso di una velocità e dipenderà anch'essa da u e c 2. se u << c, allora α ≈ 0 3. per δ valgono le stesse ipotesi di γ quindi per le prime due ipotesi non potrà essere altro che α = u / c², quindi: x '= x−ut u t ' = t− 2 x c c '=c d'altra parte deve esserci simmetria tra i due sistemi di riferimento, e le trasformazioni inverse saranno: x=x 'ut u t= t ' 2 x c c '=c sostituendo nella x ' =x −ut queste relazioni otteniamo: x '=[ x 'ut −u t ' = u x ' ] e svolgendo i calcoli otteniamo finalmente: c2 1 che rispetta tutte le ipotesi iniziali. 1−u 2 /c2 Infine la trasformazione per una generica velocità è: v' = x−ut x' v−u = = t' t− x 1− v Possiamo quindi scrivere le trasformazioni di Lorentz: x '= x−ut 1 t ' = t− x con α = u / c² e = v −u 1−u 2 /c2 v '= 1− v Da osservare a lato il grafico che rappresenta il valore di γ in funzione della velocità u: sull'asse x i valori di u da 0 a 300'000 km/s sull'asse y i valori di γ: inizialmente è quasi uguale a 1, ma ha un asintoto verticale per u ≈ 300'000 km/s, segno che questo valore di velocità è impossibile da raggiungere. 5 6 - Alcune conseguenze La prima conseguenza che si ottiene dalle trasformazioni di Lorentz è la conferma della contrazione delle lunghezze: per un osservatore in un sistema (x, t), un evento in un sistema (x', t') subirà una contrazione: x=−1 x ' ipotizzata dallo stesso Lorentz. Ma un'altra importante conseguenza, scoperta da Einstein, è la dilatazione dei tempi: per un osservatore in un sistema (x, t), la durata di un evento solidale con un sistema (x', t') subirà una dilatazione: t= t ' Da osservare che queste trasformazioni valgono se l'osservatore è fermo nel sistema (x, t) e se l'evento è fermo rispetto al sistema (x' t'). A volte c'è una differenza notevole nel considerare un sistema di riferimento piuttosto che un altro. Ad esempio un mesone μ è una particella prodotta dal contatto di un protone con l'atmosfera, viaggia a velocità prossime a c (γ ≈ 100) e nel suo sistema di riferimento ha una vita media di 10-6 s dal contatto con l'atmosfera. Se tale durata fosse anche quella nel nostro sistema di riferimento, riuscirebbe a percorrere circa 300m nell'atmosfera, e non si potrebbe studiare; al contrario poiché il suo γ ≈ 100, la vita media nel nostro sistema è dell'ordine di 10-4 s, e riesce a percorrere circa 30km, una distanza molto maggiore! La simultaneità di due eventi dipende dal sistema di riferimento dell'osservatore. Infatti se due eventi A (xA, tA) e B (xB, tB) sono simultanei in un riferimento, allora t = t B−t A = 0 ; ma in un altro sistema di riferimento si ha t ' = t− x = 0− x ≠ 0 in quanto influisce il fatto che si trovino in luoghi diversi. Cosa accade al principio di causa-effetto? È possibile che un effetto si manifesti prima della sua causa (come accadeva nella miniserie televisiva “The Triangle”)? Intuitivamente un evento A (xA, tA) è causa di un evento B (xB, tB) se il verificarsi dell'evento A produce una serie di eventi a catena che portano al verificarsi di B; due eventi contemporanei non possono essere causa l'uno dell'altro, occorre che, almeno nel nostro sistema di riferimento, l'evento “causa” preceda l'evento “effetto”, ossia: Δt = tB – tA > 0 Ma ciò non è sufficiente, perché se A e B sono in luoghi lontanissimi tra loro, occorre che Δt sia sufficientemente grande. Quanto? Almeno quanto impiegherebbe un segnale luminoso a collegare A e B, ossia Δt > Δx / c, dove Δx = xB – xA . Ma è possibile che cambiando il sistema di riferimento con uno, per esempio, a velocità prossima a c, si inverta la relazione, e diventi B causa di A? In altre parole: supposto che valga c Δt > Δx in un sistema di riferimento, tale relazione è conservata 6 dalle trasformazioni di Lorentz? Per semplicità riscriviamo Δx² – c² Δt² < 0 e studiamo cosa accade in un altro sistema: 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 x ' – c t ' = x u t −2u x t − c t x −2 x t = = ... = 2 1−u 2 /c2 x 2 – c2 t 2 = x 2 – c 2 t 2 ossia le relazioni di causa effetto si mantengono inalterate in ogni sistema di riferimento, e non è possibile che un effetto si manifesti prima della sua causa. La scoperta che esiste una velocità limite c è incompatibile con il secondo principio della dinamica (o meglio, con la sua formulazione più nota...) F =ma poiché una forza costante implicherebbe un'accelerazione costante, quindi una velocità che aumenta indefinitamente. Di conseguenza dobbiamo riadattare il II principio considerando anche queste grandezze come relativistiche, in quanto dipenderanno fortemente dalla velocità. 7 - La dinamica relativistica In maniera analoga a quanto si può fare in dinamica classica, introduciamo la quantità di moto relativistica, p=m v dove m è la massa “a riposo”, ovvero la massa misurata in un sistema di riferimento solidale con il corpo, mentre v è un vettore velocità il cui valore dipende dal sistema di riferimento. La quantità di moto così ridefinita si conserva per urti elastici, come accadeva nel caso classico. Introduciamo quindi la forza relativistica come variazione della quantità di moto nel tempo: d F = p = m am ̇ v e si osserva come per le regole di derivazione, la forza possieda due dt componenti e questo comporta che la forza non sia più parallela all'accelerazione (cosa che in meccanica classica al contrario è data per scontata). In genere passando dalla cinematica alla dinamica abbiamo un collegamento tra le seguenti grandezze: x ⇒ p che sono dette coppie di grandezze coniugate. t ⇒ E Di conseguenza anche l'energia risente degli effetti relativistici; possiamo ottenere una relazione in cui compare l'energia partendo dall'identità: 2 1−v 2 /c 2=1 e moltiplicando tutto per m2 c 4 : m2 2 c 4 −m2 2 v 2 c 2=m2 c 4 il primo termine è il quadrato di un'energia, 2 2 m c ≈ mc −1 mc 2 e per basse velocità (v << 1 2 2 2 c) possiamo approssimare come: m c ≈ mc mv ovvero la somma tra un'energia “di riposo” 2 7 e la normale energia cinetica: possiamo porre quindi E=m c 2 ; nel secondo termine compare una quantità di moto e a secondo membro c'è un termine costante; possiamo quindi riscrivere: E2− p 2 c 2=m2 c 4 che rappresenta un'equazione fondamentale per la dinamica relativistica. Anche la quantità di moto e l'energia cambiano, cambiando sistema di riferimento, con trasformazioni simili a x e t: p '= p− E E ' = E−u p Nelle formule precedenti si osserva che m non dipende dalla velocità, ma è il parametro γ che aumenta con l'aumentare della velocità. Spesso però si tende a semplificare in modo eccessivo le formule relativistiche, nascondendo il parametro γ nelle equazioni, e distinguendo la massa inerziale “m 0” ( m quando γ ≈ 1, a velocità classiche) dalla massa relativistica “m” ( m quando γ è elevato, a velocità paragonabili con c). Tuttavia questa semplificazione può portare a errori concettuali e a problemi di comprensione delle formule. Nella seguente tabella possiamo fare un paragone tra la meccanica classica, quella relativistica in un linguaggio preciso (A) e in un linguaggio “popolare”(B) Meccanica classica Meccanica relativistica (A) Meccanica relativistica (B) p=mv p=m v p=mv con m=m0 d F = p =ma dt d F = p =m a m ̇ v dt d F = p =ma dt 1 E= mv 2 2 E=m c E= p2 2m E= p 2 , E0=mc 2 c2 v E=mc E= p 2 , E0=m0 c 2 c2 v Classicamente è impensabile parlare di quantità di moto e di energia per oggetti aventi massa nulla, in quanto sarebbero entrambi nulli; al contrario in relatività posso considerare tale situazione, purché tali oggetti viaggino a velocità c. Utilizziamo quest'osservazione per descrivere una situazione che porta a considerazioni diverse a seconda che si utilizzi il linguaggio A oppure il linguaggio B. Consideriamo un sistema di due fotoni f1 e f2 (ciascuno di massa 0, velocità c, energia ε) aventi stessa direzione e verso; il sistema ha velocità c, energia totale 2ε, quantità di moto totale 2ε/c; nel linguaggio A 8 risulta che la massa è 0, nel linguaggio B la massa inerziale m0 è 0, la massa relativistica m è 2ε/c². f2 f1 Consideriamo un sistema in cui i due fotoni viaggiano in verso opposto: il sistema ha velocità 0, energia totale 2ε e quantità di moto totale 0; nel linguaggio A la massa è 2ε/c², mentre nel linguaggio B la massa inerziale è 0, la massa relativistica è 2ε/c², come nel caso precedente! f2 f1 8 - Osservazioni L'effetto doppler è l'effetto che si produce quando la sorgente di un segnale elettromagnetico è in moto rispetto a chi riceve il segnale (o viceversa...); il segnale arriva con una frequenza diversa da quella con cui arriverebbe se la sorgente e il ricevitore fossero fermi l'uno rispetto all'altro. Generalmente questa differenza di frequenza si spiega con il fatto che la velocità del segnale si compone con la velocità del sistema, e una variazione di velocità produce una variazione di frequenza. In astronomia gli scienziati parlano spesso di effetto doppler per la luce, associando (com'è naturale) la frequenza di un raggio di luce con il colore che emette: un raggio “rosso” ha frequenza minore di un raggio “blu”. Ma come si può parlare di variazione di frequenza, se la luce ha sempre la stessa velocità? Come già accennato, un fotone è una particella di massa nulla, velocità c, energia ε e quantità di moto ε/c; l'equazione energetica diventa quindi: ε 2 −p 2 c 2=0 ; ricordiamo inoltre che vale ε =h dove h è la costante di Plank, e ν proprio la frequenza del fotone. Dalle trasformazioni quantità di moto – energia introdotte prima ricaviamo: h ' =h −u h u 1 e quindi: '= 1− = con β = u / c. c c 1 A seconda che avvenga un avvicinamento o un allontanamento del segno di β è positivo (ν' > ν) o negativo (ν' < ν), in accordo con l'effetto doppler in un generico segnale elettromagnetico. Un'ultima osservazione. In meccanica classica, durante un esperimento è possibile convertire tutta l'energia disponibile in laboratorio in energia utile all'esperimento: ad esempio in un crush test di automobili tutta l'energia cinetica è convertita in energia in grado di deformare l'automobile o in calore prodotto da eventuali attriti, e tale energia è proporzionale al quadrato della velocità (EK = ½ mv²). Si ha una situazione per cui: Elab = Eprod. Ma in un esperimento a velocità relativistiche, si ha una situazione diversa: nell'urto tra due particelle ad esempio si osserva che: Eprod = Eleb / 2mc², ossia una parte dell'energia viene “assorbita dal sistema” ed occorre fornire molta più energia di quanta se ne vuole ottenere. Ad esempio per ottenere 100GeV occorre fornire 104 GeV. 9