CaPitOLO 1 i fatti e gli atti giuridici

Parte III
L’attività giuridica
Capitolo 1
I fatti e gli atti giuridici
Sommario: 1. Generalità. - 2. La prescrizione (artt. 2934 e ss.). - 3. La decadenza (artt. 2964 e ss.).
1. Generalità
Sono qualificati giuridici quei fatti, cioè quei comportamenti o accadimenti (umani, naturali etc.), al cui verificarsi l’ordinamento ricollega il prodursi di effetti giuridici quali la costituzione, la modificazione o l’estinzione di rapporti giuridici.
Distinguiamo, pertanto:
1) fatti giuridici in senso stretto: sono quei fatti in cui manca del tutto la volontà umana (es.:
fulmine) o tale volontà, secondo la considerazione fatta dall’ordinamento giuridico, gioca un
ruolo indifferente (es.: seminagione);
2) atti giuridici (o atti umani): sono, invece, quei fatti caratterizzati da un’attività umana consapevole e voluta, posta in essere da un soggetto capace d’intendere e di volere, cui l’ordinamento attribuisce il potere di modificare la realtà esterna.
In relazione al rapporto intercorrente tra la volontà dei soggetti agenti e le conseguenze giuridiche che l’atto produce, gli atti giuridici leciti possono ancora suddividersi in:
— atti giuridici in senso stretto (o meri atti giuridici): sono quei comportamenti consapevoli
e volontari i cui effetti sono determinati dalla legge anche se il loro autore non li abbia voluti
(es.: intimazione ad adempiere, che produce la costituzione in mora del debitore anche se il
creditore lo ignorava);
— negozi giuridici: sono, invece, quegli atti (consapevoli e volontari) le cui conseguenze giuridiche sono determinate, nei limiti del rispetto delle norme imperative, dai soggetti agenti
(es.: compravendita). In tali atti, cioè, la volontà del soggetto è volta non solo al compimento dell’atto, ma anche alla determinazione degli effetti.
Differenze
La distinzione tra atti giuridici in senso stretto e atti negoziali non è puramente teorica, in quanto è rilevante ai fini della disciplina applicabile ad una data fattispecie.
Invero, la disciplina degli atti giuridici in senso stretto è completamente tipizzata, cioè è la legge che ne
individua le tipologie e ne stabilisce le conseguenze giuridiche; al contrario, per gli atti negoziali è consentito ai privati creare nuove figure non previste dalla legge e determinarne liberamente il contenuto nella misura in cui gli interessi perseguiti dalle parti siano meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322).
Un’ulteriore differenza nella disciplina tra le due categorie sopra descritte è da rinvenirsi in materia di vizi
della volontà (errore, violenza e dolo); essi, in materia di atti giuridici in senso stretto non hanno rilevanza generalizzata, come accade invece per i negozi giuridici, in quanto è la legge che predetermina specifiche regole: così, ad esempio, il riconoscimento del figlio naturale può essere impugnato solo per violenza; la confessione, invece, è impugnabile solo per errore di fatto o violenza.
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Libro I: Diritto civile - Parte III: L’attività giuridica
2. La prescrizione (artt. 2934 e ss.)
La prescrizione può esser definita come la perdita del diritto soggettivo per effetto dell’inerzia o
del non uso, da parte del titolare di esso, protrattosi per un periodo di tempo determinato dalla legge.
Dalla definizione emergono i presupposti dell’istituto che sono:
— un diritto soggettivo che può essere esercitato;
— il mancato esercizio di tale diritto;
— il decorso del tempo previsto dalla legge.
Il fondamento dell’istituto della prescrizione è solitamente ravvisato nella esigenza di certezza
dei rapporti giuridici ed, in generale, del diritto.
La prescrizione è un istituto di ordine pubblico e la sua disciplina è inderogabile.
Di conseguenza è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione
(art. 2936) e le parti non possono rinunciare alla prescrizione prima che questa si compia (art.
2937): è, invece, ammissibile la rinunzia (espressa o tacita) dopo il compimento della prescrizione. La prescrizione non opera automaticamente, ma solo in quanto sia opposta dalla parte interessata e pertanto il giudice non potrà rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta (art. 2938).
Non tutti i diritti sono soggetti a prescrizione; sono infatti imprescrittibili i diritti indisponibili (i diritti della personalità, gli status etc.); il diritto di proprietà, che non si perde per non uso,
ma si può perdere per usucapione altrui; l’azione giudiziale di nullità dei negozi giuridici (art.
1422); l’azione giudiziale di rivendica della proprietà (art. 948 comma 3); il diritto di esercitare l’azione di petizione dell’eredità; le potestà di diritto familiare (es. potestà parentale); le facoltà.
La prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui un diritto, che potrebbe essere legittimamente esercitato, non viene esercitato (art. 2935).
Quanto alla durata (cioè al termine necessario perché la prescrizione maturi) occorre distinguere tra le ipotesi di:
— prescrizione ordinaria che si realizza col decorso di dieci anni, ed è applicabile in tutti i
casi in cui la legge non dispone diversamente (art. 2946);
— prescrizione dei diritti reali su cosa altrui (es.: superficie, enfiteusi, usufrutto, servitù prediali) che si realizza col decorso di venti anni;
— prescrizioni brevi che si realizzano col decorso di un periodo di tempo più breve dei dieci
anni (così, ad esempio, il diritto al risarcimento dei danni prodotti dalla circolazione dei veicoli si prescrive in due anni, mentre si prescrive in cinque anni il diritto al risarcimento del
danno derivante da atto illecito);
— prescrizioni presuntive: in esse il decorso del tempo determina la nascita, a favore del debitore, di una presunzione legale di pagamento e, quindi, di estinzione dell’obbligazione. Esse
agiscono però sul piano processuale — non direttamente su quello sostanziale — comportando in pratica un’inversione dell’onere della prova (non l’estinzione del diritto).
La prescrizione presuppone un’inerzia ingiustificata del titolare del diritto: pertanto, se l’inerzia è giustificata, perché è impossibile o difficile l’esercizio del diritto, si ha sospensione della
prescrizione (art. 2941); se, invece, l’inerzia viene a mancare in quanto il titolare compie un atto
di esercizio del diritto si ha interruzione della prescrizione (art. 2943).
Presupposto della sospensione è, dunque, il verificarsi di una particolare situazione espressamente e tassativamente prevista dalla legge. Il periodo in cui perdura la causa di sospensione non viene calcolato ai fini della determinazione del periodo necessario per il compiersi della prescrizione; perciò si somma il tempo di inerzia precedente la sospensione e quello decorso successivamente ad essa. Invece dal momento dell’interruzione decorre un nuovo periodo di prescrizione, a prescindere dal periodo trascorso prima.
Secondo il disposto dell’art. 2940 non è ammessa la ripetizione di quanto è stato pagato spontaneamente in adempimento di un debito prescritto.
Dottrina e giurisprudenza dominanti, infatti, ritengono che il pagamento del debito prescritto, non costituisce adempimento di un’obbligazione naturale, ma adempimento di un’obbligazione civile, caratterizzata dalla rinuncia presunta ex
lege a valersi della prescrizione già compiuta.
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Capitolo 1: I fatti e gli atti giuridici
Giurisprudenza
Negli ultimi due anni la questione della decorrenza della prescrizione ha formato oggetto di interventi di
segno opposto da parte della giurisprudenza e del legislatore in materia di contratti bancari. Le Sezioni
Unite, con la sentenza n. 244/8/10, hanno affermato che, qualora, dopo la cessazione di un contratto di
apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista chieda alla banca la restituzione di
quanto pagato indebitamente a causa dell’anatocismo, il termine di prescrizione decennale, cui tale azione di ripetizione è soggetta, decorre dalla data di estinzione del conto (Cass. S.U. 24418/2010).
A stretto giro di posta è arrivata la risposta del legislatore, che ha neutralizzato gli effetti di questa sentenza con l’art. 2, co. 61, D.L. 225/10, convertito in L. 10/11, secondo cui «in ordine alle operazioni bancarie
regolate in conto corrente, l’art. 2935 c.c. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso, non si fa
luogo alla restituzione degli importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto». Questa disposizione, scritta dal legislatore sotto dettatura delle banche, è attualmente al
vaglio della Corte costituzionale, in quanto, tra l’altro, fa decorrere il termine iniziale della prescrizione da
una circostanza di fatto (l’annotazione in conto) che esula dalla sfera conoscitiva del cliente, il quale è reso
edotto delle movimentazioni del proprio conto solo con la ricezione dell’estratto conto. Pertanto, chi non
ha avuto conoscenza dell’esistenza di addebiti in proprio sfavore, perché semplicemente annotati in conto e non anche comunicati, non è nelle condizioni giuridiche di esercitare qualunque pretesa restitutoria.
3. La decadenza (artt. 2964 e ss.)
Anche la decadenza, come la prescrizione, è un istituto collegato al decorso del tempo: essa,
infatti, si sostanzia nella perdita della possibilità di esercitare un diritto per il mancato compimento di una determinata attività, o di un dato atto, nel termine perentorio previsto dalla legge.
Nella decadenza è implicito un onere: infatti un diritto può essere acquistato, o un potere esercitato, soltanto nel periodo di tempo stabilito dalla legge o dai soggetti interessati (TRABUCCHI).
Il fondamento della decadenza, a differenza della prescrizione, non risiede nel fatto soggettivo
dell’inerzia del titolare, ma nel fatto oggettivo del mancato esercizio del diritto nel tempo stabilito e
con le modalità previste dalla legge.
Da ciò deriva che:
— non trovano applicazione, in materia di decadenza, la sospensione e la interruzione;
— l’unico modo per evitarla è il compimento dell’atto nel termine e con le modalità previste dalla
legge.
Vari sono i tipi di decadenza:
a) decadenza legale: è prevista dalla legge ed è sempre istituto eccezionale, perché deroga al principio secondo cui l’esercizio dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti di tempo;
b) decadenza convenzionale o negoziale: anche la volontà privata può stabilire casi e termini di decadenza nei modi stabiliti dall’art. 2965.
Sono condizioni indispensabili a tal fine:
— che la decadenza sia prevista per l’esercizio di diritti disponibili;
— che il termine stabilito non renda troppo gravoso l’esercizio del diritto stesso.
Decadenza
Legale (prevista dalla legge): è un istituto eccezionale e può essere stabilita:
Convenzionale:
Può essere prevista dalla volontà privata purché:
Nell’interesse generale
(è inderogabile, irrinunziabile, rilevabile di ufficio)
Nell’interesse individuale di
una delle parti (è derogabile,
rinunziabile, va eccepita)
I diritti siano
disponibili
I termini non siano
eccessivamente gravosi
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Libro I: Diritto civile - Parte III: L’attività giuridica
Differenze
Prescrizione e decadenza hanno un sostrato comune: in entrambe, l’azione del tempo determina la perdita
di un diritto. Essendo diversa la funzione e la disciplina, la dottrina ha identificato le seguenti differenze:
a) nella prescrizione si ha riguardo alle condizioni soggettive del titolare del diritto mentre nella decadenza si ha riguardo solo al fatto obiettivo del mancato esercizio del diritto;
b) nella prescrizione il tempo è considerato come durata (si parla, cioè, di mancato esercizio del diritto
per un certo periodo), mentre nella decadenza il tempo è considerato come distanza (mancato esercizio del diritto entro un certo periodo);
c) la prescrizione, data la sua funzione, ha sempre un fondamento di ordine pubblico, mentre la decadenza può tutelare anche un interesse privato;
d) la prescrizione ha la sua unica fonte nella legge, le cui norme sono inderogabili, mentre la decadenza
può anche essere stabilita dalla volontà dei privati;
e) nella prescrizione vi è un’intenzione sanzionatoria da parte dell’ordinamento a carico dei negligenti,
mentre nella decadenza l’effetto preclusivo è previsto anche se al soggetto non può addebitarsi un contegno negligente;
f) la prescrizione è sempre correlata ad un diritto soggettivo, mentre la decadenza (secondo la recente dottrina) può essere correlata anche a diritti potestativi;
g) mentre la prescrizione comporta la perdita di un diritto che era già nella sfera del soggetto, la decadenza impedisce, invece, l’acquisto di un nuovo diritto (cioè comporta la perdita della possibilità di acquistarlo).
Capitolo 1
Lo Stato
Sommario: 1. Premessa: lo Stato. - 2. Elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorio e sovranità. - 3.
Funzioni dello Stato. - 4. Forme di Stato. - 5. Forme di governo.
1. Premessa: lo Stato
Lo Stato costituisce la forma di organizzazione del potere politico, cui spetta l’uso legittimo della forza, su una comunità di persone all’interno di un determinato territorio.
Lo Stato rappresenta una istituzione:
— politica, perché diretta a fini generali: i fini, cioè, non sono rigidamente predeterminati, ma sono
determinabili secondo scelte «politiche» effettuate in relazione al particolare momento storico.
Questo importante requisito dell’ordinamento italiano è stato messo in discussione con la comparsa delle leggi ad personam e aggiusta processi. Durante i governi Berlusconi, infatti, sono state approvate ben 42 leggi a favore del Premier
e altre 70 a favore dei membri della «casta». Questo diffuso malcostume ha cancellato il concetto di universalità e generalità del potere legislativo favorendo, al contrario, interessi personali e particolari con grave danno per la democrazia e l’uguaglianza dei cittadini;
— giuridica, perché trova il suo fondamento nel diritto che ne costituisce elemento essenziale
e indefettibile;
— originaria, in quanto trova in sé il fondamento della sua validità;
— sovrana, in quanto non riconosce nell’ambito del proprio territorio alcuna autorità superiore (superiorem non recognoscens);
— indipendente, in quanto non riconosce alcun potere esterno che possa condizionarne l’attività (ius excludendi alios);
— effettiva, cioè idonea ad imporre in concreto, a tutti i soggetti stanziati nel suo territorio, il
proprio «ordinamento» e le proprie leggi.
2. Elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorio e sovranità
Lo Stato si compone di tre elementi costitutivi essenziali, tra di loro strettamente correlati:
un elemento personale (popolo), un elemento spaziale (territorio) e un elemento organizzativo (sovranità).
A) Il popolo e la cittadinanza
Il termine popolo indica la comunità di individui ai quali l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di cittadino (Martines). La cittadinanza, conseguentemente, è la
condizione dei soggetti cui l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di cittadino, cioè
la titolarità di un insieme di situazioni giuridiche attive e passive nei confronti dello Stato. Il riconoscimento della cittadinanza ha segnato il passaggio da un mero stato di soggezione al potere pubblico (sudditanza) a uno stato di libertà che ha comportato anche il diritto di partecipare alla vita politica del proprio paese. Il cittadino italiano, ad esempio, è tenuto ad adempiere ad alcuni doveri come quello di essere fedele alla Repubblica (art. 54 Cost.) o di concorrere
alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), ma allo stesso tempo gode del diritto al voto (art. 48 Cost.) e
all’eleggibilità (art. 51 Cost.).
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Libro VI: Diritto costituzionale
Acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza italiana
La L. 5 febbraio 1992, n. 91 stabilisce che è cittadino:
1) per nascita (art. 1):
— il figlio di padre o di madre cittadini;
— chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il
figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono;
— il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga trovato il possesso di altra
cittadinanza;
2) per estensione:
— il figlio riconosciuto o dichiarato giudizialmente durante la minore età. Se il figlio riconosciuto o
dichiarato è maggiorenne conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un
anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale, ovvero dalla dichiarazione di efficacia
del provvedimento straniero, di eleggere la cittadinanza determinata dalla filiazione. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai figli per i quali la paternità o maternità non può
essere dichiarata, purché sia stato riconosciuto giudizialmente il loro diritto al mantenimento o
agli alimenti (art. 2);
— il minore straniero adottato da cittadino italiano (art. 3);
— il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente
da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. I termini sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi (art. 5 così come sostituito dalla L. 15 luglio 2009, n. 94);
3) per beneficio di legge (art. 4):
— lo straniero o l’apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita:
a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana;
b) se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero, e dichiara di voler
acquistare la cittadinanza italiana;
c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana;
— lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana
entro un anno dalla suddetta data;
4) per naturalizzazione (art. 9):
— lo straniero quando abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale
interesse dello Stato.
Inoltre, il diritto alla cittadinanza italiana è riconosciuto ai soggetti che siano stati cittadini italiani
(e ai loro figli e discendenti in linea retta di lingua e cultura italiana), già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla Repubblica Jugoslava in forza del Trattato di
Parigi del 10 febbraio 1947 ovvero in forza del Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 (art. 17bis inserito dalla L. 8 marzo 2006, n. 124).
La cittadinanza italiana si perde:
— per assunzione di impiego pubblico o carica pubblica presso uno Stato estero o un ente internazionale
cui non partecipi l’Italia o per prestazione di servizio militare per uno Stato estero, sempreché non si
ottemperi all’intimazione che il Governo italiano rivolge di abbandonare l’impiego, la carica o il servizio militare (art. 12);
— quando si accetti o non si abbandoni un impiego o una carica pubblica, si presti servizio militare senza esservi obbligato o si acquisti volontariamente la cittadinanza di uno Stato estero che si trovi in
stato di guerra con l’Italia (art. 12);
Capitolo 1: Lo Stato
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— per rinunzia, qualora il cittadino italiano risieda o stabilisca la residenza all’estero (art. 11) oppure,
essendo figlio di persona che ha acquistato o riacquistato la cittadinanza, abbia raggiunto la maggiore età e sia in possesso di altra cittadinanza (art. 14).
La cittadinanza italiana si può riacquistare:
a) per prestazione del servizio militare o assunzione di un impiego pubblico alle dipendenze dello Stato italiano (anche all’estero) e previa dichiarazione di volerla riacquistare;
b) per rinuncia da parte di un ex cittadino all’impiego o servizio militare presso uno Stato estero con
trasferimento, per almeno due anni, della propria residenza in Italia;
c) per dichiarazione di riacquisto con stabilimento, entro un anno, della residenza nella Repubblica,
ovvero dopo un anno dalla data in cui l’ex cittadino ha stabilito la propria residenza nel territorio italiano, salvo espressa rinuncia.
B) La cittadinanza europea
Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993,
riconosceva ai cittadini degli Stati membri, oltre la cittadinanza nazionale, anche quella europea.
Con la riforma dei trattati operata dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre
2009, la cittadinanza europea viene ribadita in modo più netto, prevedendosi all’art. 9 TUE e
all’art. 20 TFUE che «è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato
membro». Pertanto, la cittadinanza europea si affianca e non sostituisce la cittadinanza nazionale. Sono cittadini europei anche coloro che hanno una doppia cittadinanza, di cui una di uno
Stato membro e l’altra di uno Stato terzo.
Il secondo comma dell’art. 20 TFUE precisa che i cittadini dell’Unione godono dei diritti e
sono soggetti ai doveri previsti dai trattati.
Sono, quindi, precisati alcuni dei diritti che spettano al cittadino europeo e che sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi:
— il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (cfr. art. 21
TFUE);
— il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (cfr.
art. 22 TFUE);
— il diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (cfr. art. 23 TFUE);
— il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di
ricevere una risposta nella stessa lingua (cfr. art. 24 TFUE).
C) Il territorio
Il territorio è la sede su cui è stabilmente organizzata la comunità statale e sulla quale si estende la sovranità dello Stato.
Esso comprende:
— la terraferma, delimitata da confini naturali o artificiali;
— il mare territoriale, la cui estensione raggiunge, normalmente, le 12 miglia dalla costa (art.
2 del Codice della navigazione);
— la piattaforma continentale, vale a dire i fondi marini ed il loro sottosuolo al di là del mare
territoriale, che si estende fino al limite esterno del margine continentale o fino a 200 miglia
marine dalle linee-base a partire dalle quali è misurata l’ampiezza del mare territoriale (art.
76 della Convenzione di Montego Bay del 1982);
— lo spazio aereo sovrastante la terraferma ed il mare territoriale (con l’esclusione dello spazio extratmosferico) ed il sottosuolo, nei limiti della loro effettiva utilizzabilità;
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Libro VI: Diritto costituzionale
— il territorio fluttuante, ossia le navi e gli aerei mercantili in viaggio in alto mare e sul cielo
sovrastante, nonché le navi e gli aerei militari ovunque si trovino.
Le convenzioni internazionali disciplinano inoltre due situazioni particolari riguardo al territorio statale:
— l’extraterritorialità (le sedi diplomatiche straniere sono sottratte al potere di imperio statale);
— l’ultraterritorialità (la potestà statale è esercitata su edifici siti fuori dal proprio territorio: ad esempio, le sedi diplomatiche italiane all’estero).
D)La sovranità
La sovranità consiste nel potere supremo dello Stato in un determinato territorio rispetto
a tutti gli altri poteri all’interno dell’ordinamento (sovranità interna) e nell’indipendenza dello
Stato rispetto a qualsiasi altro Stato (sovranità esterna).
Così inteso il concetto di sovranità presenta due aspetti fondamentali:
— la sovranità esterna, che riguarda i rapporti dello Stato con gli altri Stati e si concreta nella
posizione di indipendenza dello Stato da qualsiasi autorità statale straniera;
— la sovranità interna, che riguarda i rapporti dello Stato con gli individui che risiedono sul suo
territorio e si oggettiva nella posizione di supremazia del primo nei confronti dei secondi.
La sovranità presenta i seguenti caratteri:
— è originaria: nasce con l’ordinamento dello Stato e solo con esso viene meno;
— è esclusiva: spetta, cioè, solo allo Stato;
— è incondizionata: non può cioè essere limitata da enti esterni allo Stato senza il consenso di quest’ultimo.
Il nostro Stato accoglie la teoria della «sovranità popolare», vale a dire che lascia che sia il popolo ad operare le scelte
determinanti per l’azione statale. La Costituzione detta disposizioni in materia agli artt. 1 (la sovranità appartiene al popolo), 7 (si afferma la sovranità dello Stato nei confronti della Chiesa Cattolica), 11 (consenso alle limitazioni di sovranità derivanti dall’ordinamento internazionale).
3. Funzioni dello Stato
Ogni organizzazione, per definizione, è diretta al raggiungimento di particolari fini, ha cioè
una o più funzioni.
Le funzioni di ogni Stato possono così sintetizzarsi:
— funzione costituente. Rappresenta la funzione primaria mediante la quale lo Stato organizza se stesso. È attraverso
la Costituzione, infatti, che lo Stato predispone i principi e le regole generali del suo funzionamento (SANDULLI, BARILE);
— funzione legislativa. Consiste nell’emanazione delle norme necessarie al mantenimento della compagine statale e
al suo sviluppo, cioè, nella creazione delle norme generali che regolano in maniera astratta la vita di tutta la collettività;
— funzione giurisdizionale. Consiste nell’attuazione e nel mantenimento dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione giudiziaria delle norme (sostanziali e processuali) ai singoli rapporti tra cittadini e tra gli stessi e lo Stato;
— funzione amministrativa. Consiste nella realizzazione concreta dei fini istituzionali stabiliti dall’ordinamento da parte della struttura esecutiva (governativa), della sua organizzazione periferica e dei soggetti autonomi (enti pubblici) che
perseguono gli stessi fini dello Stato;
— funzione politica. Consiste nella determinazione delle scelte contingenti relative allo sviluppo della comunità statale.
4. Forme di Stato
A) Introduzione
L’espressione «forma di Stato» indica il rapporto che intercorre tra chi detiene il potere e coloro che ne sono assoggettati, e quindi il rapporto che si realizza fra autorità e libertà (MORTATI).
Nel corso dei secoli si è assistito ad una graduale evoluzione dalle forme di Stato con il passaggio dallo Stato assoluto
a quello liberale per giungere infine, dopo le esperienze particolari dello Stato totalitario e dello Stato socialista che hanno
caratterizzato gran parte del XX secolo, allo Stato democratico e sociale.
Capitolo 1: Lo Stato
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B) Lo Stato assoluto
Lo Stato assoluto, è il regime politico in cui il potere è esercitato dal sovrano senza restrizioni e limitazioni.
Lo Stato assoluto si caratterizza per l’assenza di divisione dei poteri, tutti riconducibili alla persona del Sovrano. Questi, nella cui persona si incarna lo Stato stesso (si attribuisce a Luigi XIV l’espressione «l’État c’est moi», ovvero «lo Stato
sono io»), ha poteri illimitati ed è libero da qualunque vincolo legislativo (legibus solutus), ponendosi al di sopra del diritto in qualità di fiduciario di Dio in terra.
Non esiste ancora un sistema di tutela dei sudditi, né si può parlare di diritti, ma solo di pretese spettanti a chi dispone di titoli di proprietà.
La società civile è rigidamente frazionata in ceti, ai quali si appartiene per diritto di nascita, dal momento che la mobilità sociale è molto limitata.
Il monarca resta comunque dipendente dal ceto nobiliare, di cui è espressione e dal quale drena le risorse necessarie a
sostenere le sue ingenti spese, riconoscendo in cambio privilegi e forme di autonomia.
Nella sua forma illuminata lo Stato assoluto si presenta come Stato di polizia (dal greco polis = città), orientato ad accrescere il benessere dei sudditi attraverso una compiuta direzione e regolamentazione delle attività sociali.
C) Lo Stato liberale e lo Stato di diritto
La trasformazione dell’economia da sistema prevalentemente agricolo a sistema industrializzato segna il periodo che
va dalla fine del XVIII alla metà del XIX secolo e favorisce l’ascesa della borghesia imprenditoriale le cui richieste di partecipare alla gestione del potere si fanno sempre più pressanti.
Elementi caratterizzanti dello Stato liberale sono:
— la natura rappresentativa dei sistemi costituzionali, per cui la legittimazione del potere politico è ravvisata nella volontà
dei consociati che eleggono i componenti delle assemblee rappresentative;
— l’introduzione di nuove regole di gestione del potere secondo il modello della tripartizione delle funzioni statali (legislativa, esecutiva, giurisdizionale);
— il ridimensionamento dei compiti dello Stato, destinato solo a garantire l’ordine e la sicurezza;
— la soggezione dei pubblici poteri alla legge (Stato di diritto).
Il cittadino inizia ad essere tutelato, come individuo, contro lo strapotere del Re e dell’apparato amministrativo.
D)Lo Stato autoritario e lo Stato totalitario
È autoritario lo Stato che si contrappone ideologicamente allo Stato democratico e si ispira ai principi dell’autorità e della gerarchia, in dispregio dei valori ed ideali di libertà e
di uguaglianza.
Lo Stato autoritario è una forma contemporanea di Stato che tutela e privilegia i poteri dei
governanti, allo scopo di consentire ai cittadini politicamente più fedeli al sistema di ergersi a classe di governo sotto l’egida dello Stato-apparato.
Secondo LINZ, il «regime autoritario» è un sistema a pluralismo politico limitato in cui la
classe politica non rende conto del proprio operato agli elettori (cioè al popolo), che a differenza
del totalitarismo non si avvale di un’ideologia ufficiale e della mobilità capillare.
La presenza del pluralismo politico limitato costituisce una delle chiavi per differenziare autoritarismo e totalitarismo, nel quale pluralismo politico e democrazia sono del tutto assenti.
LINZ identifica nei regimi autoritari una particolare mentalità di gestione del potere: la mobilitazione delle masse è debole, salvo in momenti particolari (minacce interne o esterne).
I regimi autoritari si distinguono da quelli totalitari proprio perché ideologicamente
ed organizzativamente incapaci di mobilitare in maniera permanente le masse.
Mentre i regimi autoritari richiedono una partecipazione discontinua e agnostica, i regimi totalitari pretendono una partecipazione quotidiana: allorquando i primi si accontentano di eliminare il dissenso pubblico, i secondi tentano di comprimere anche la sfera privata dei singoli.
In effetti lo Stato totalitario si distingue da quello autoritario perché prospetta una ideologia
ufficiale dello Stato, indiscutibile, che viene imposta a tutti mediante l’uso massiccio e distorto dei
mezzi di comunicazione (si pensi, ad esempio, alla propaganda fatta durante il nazismo da Goebbels e dal suo apparato), rivolti al coinvolgimento della coscienza delle masse.
Il totalitarismo, inoltre, si fonda su una mobilitazione permanente delle masse, delle quali
cerca il consenso espresso attraverso metodi plebiscitari: si parla, dunque, di totalitarismo perché il
momento «politico» viene inteso in senso totale, tendente, cioè, ad investire l’intera vita della società.
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Libro VI: Diritto costituzionale
E) Lo Stato sociale
Caratteristica precipua dello Stato sociale è l’azione politica finalizzata alla rimozione delle diseguaglianze di fatto esistenti nella società, al fine di realizzare i presupposti per conseguire l’eguaglianza sostanziale fra tutti i cittadini e la concreta partecipazione dei consociati alla vita pubblica e alla gestione del potere.
Tale tipo di Stato si distingue per i seguenti caratteri:
1. tutela della libera, sicura e dignitosa esistenza di tutti i cittadini;
2. impegno statale per raggiungere la piena occupazione;
3. intervento statale nel sistema economico e svolgimento di attività di istruzione, assistenza, previdenza, a favore di tutti i
cittadini.
Dal punto di vista istituzionale lo Stato sociale si presenta come un’integrazione dello Stato di diritto, nel rispetto della
tradizionale ripartizione dei poteri, dell’assolutezza dei diritti di libertà e del valore primario della legge.
F) Stato unitario, Stato federale, Stato regionale
Un altro criterio di classificazione delle forme di Stato è quello della dislocazione del potere sul territorio, alla luce
del quale si distingue:
— lo Stato unitario, in cui tutte le istituzioni politiche e le strutture amministrative si collocano ad un solo livello, quello
centrale;
— lo Stato federale, in cui i membri della federazione hanno una competenza generale, fatta eccezione per le materie che
sono espressamente attribuite agli organismi federali. In pratica, al Governo centrale si contrappongono i Governi dei
vari Stati membri della federazione;
— lo Stato regionale, che, pur mantenendo ferma l’unità e indivisibilità dello Stato, riconosce la più ampia autonomia territoriale, riservando alcune materie alla competenza, anche legislativa, delle Regioni.
5. Forme di governo
A) La forma di governo e il principio della separazione dei poteri
Il concetto di «forma di governo» rimanda alla modalità di articolazione delle funzioni
politiche tra i diversi organi dello Stato e, in particolare, i rapporti fra potere esecutivo e potere legislativo, i differenti sistemi di elezione e i criteri di legittimità e rappresentanza che assumono in ambito democratico (MEZZETTI).
Non si può capire veramente il concetto di forma di governo senza accennare brevemente al principio della separazione dei poteri. In virtù di tale principio ciascun organo deve esercitare una sola funzione statale, senza interferenze reciproche. In pratica:
— alla funzione legislativa (esercitata dal Parlamento) spetta il compito di creare la norma giuridica, vale a dire quella regola generale ed astratta che si rivolge a tutti i componenti una determinata collettività;
— alla funzione esecutiva (esercitata dal Governo) spetta il compito di dare concreta attuazione alla norma emanata;
— alla funzione giudiziaria (esercitata dalla magistratura) spetta il compito di interpretare e applicare la norma, utilizzandola per risolvere le controversie che insorgono.
Scopo ultimo di tale separazione è quello di garantire che all’occorrenza un potere possa arrestare l’altro, evitando che
uno di essi possa prevaricare e degenerare nell’assolutismo o in atteggiamenti tirannici; in pratica esso costituisce la migliore garanzia affinché sia assicurata la libertà politica dei cittadini.
La teoria della separazione dei poteri era sconosciuta agli ordinamenti antichi e medievali, né aveva alcuna ragione di
esistere nello Stato assoluto; come si è avuto modo di sottolineare, tutto il potere era concentrato nella figura del sovrano,
che non conosceva alcuna limitazione nello svolgimento della sua attività.
La teoria della separazione dei poteri, intesa come criterio per la organizzazione interna dello Stato, fu compiutamente elaborata da Montesquieu nel suo De l’Esprit des Lois (1748).
Quasi tutti gli Stati contemporanei hanno accolto il principio della separazione dei poteri, anche se in concreto le soluzioni adottate sono diverse, soprattutto con riferimento ai rapporti tra chi esercita la funzione legislativa (il Parlamento) e chi esercita la funzione esecutiva (il Governo). In alcuni Paesi la separazione è netta, mentre in altri esiste un rapporto di fiducia tra il Parlamento ed il Governo; in alcuni Stati al vertice dell’esecutivo è posto un Presidente, mentre in altri la figura del Capo dello Stato è puramente simbolica e il Governo è controllato dal Primo ministro. Questi elementi di differenziazione hanno portato ad individuare
nella realtà contemporanea diverse forme di governo: parlamentare, presidenziale, semi-presidenziale e direttoriale.
Capitolo 1: Lo Stato
791
B) La forma di governo parlamentare
Si tratta della forma di governo adottata dalla maggioranza degli Stati contemporanei ed è caratterizzata dal fatto che
il Governo formula un indirizzo politico che si impegna a seguire e di cui è responsabile solo dinanzi al Parlamento il quale, a sua volta, può in ogni momento revocarlo, togliendogli la cd. fiducia. La carica di Capo dello Stato può essere assunta
da un monarca o da un Presidente eletto, ma in genere gode di limitati poteri e non partecipa alla determinazione dell’indirizzo politico.
La principale caratteristica della forma di governo parlamentare è, quindi, costituita dalla commistione tra la funzione legislativa e quella esecutiva; tra i due organi si instaurano complessi rapporti caratterizzati da una serie di pesi e
contrappesi (il cd. balance of powers) per cui il Governo, titolare della funzione esecutiva, è sottoposto al controllo del Parlamento, unico organo eletto direttamente dal corpo elettorale.
C) La forma di governo presidenziale
Con il termine presidenzialismo si indica una forma di governo in cui il principio della separazione dei poteri è applicato in maniera rigida, ed in particolare viene accentuata la distinzione tra legislativo ed esecutivo.
Le caratteristiche principali della forma di governo presidenziale sono tre: l’esistenza di un Capo dello Stato (Presidente) eletto direttamente dal popolo, l’assunzione da parte del Presidente della Repubblica del doppio ruolo di Capo dello Stato e di Capo del Governo e l’impossibilità per il Parlamento di approvare una mozione di sfiducia che imponga le
dimissioni dell’esecutivo.
D)La forma di governo semi-presidenziale
Costituisce una soluzione intermedia tra la forma di governo presidenziale e quella parlamentare. La sua caratteristica principale, infatti, è data dal doppio rapporto di fiducia che lega il Governo; da un lato quest’organo è nominato dal Presidente della Repubblica, ma dall’altro deve comunque godere della fiducia del Parlamento. La carica di Capo dello Stato è assunta da un Presidente eletto direttamente dal popolo, al quale sono attribuiti rilevanti poteri nella determinazione
dell’indirizzo politico.
Il sistema semi-presidenziale è stato adottato in Francia con la Costituzione del 1958 ed è cosi denominato perché assume contemporaneamente delle caratteristiche proprie del parlamentarismo e del presidenzialismo.
E) La forma di governo direttoriale
È caratterizzata dal fatto che il Governo (che, in questo caso, assume la denominazione di direttorio) viene nominato
dal Parlamento ad inizio legislatura, ma non può essere successivamente revocato attraverso un voto di sfiducia, con la garanzia quindi di poter operare in completa autonomia fino alle successive elezioni. Lo stesso direttorio elegge, al suo interno, il Capo dello Stato.
Si tratta di una forma di governo attualmente prevista solo nell’ordinamento svizzero.
Capitolo 8
La Corte dei Conti
e il bilancio dell’Unione europea
Sommario: 1. La Corte dei Conti. - 2. Il bilancio dell’Unione. - 3. La lotta alle frodi.
1. La Corte dei Conti
A) Composizione
La Corte dei Conti è l’istituzione che si occupa del controllo sulla gestione finanziaria
dell’Unione, istituita con il Trattato di Bruxelles del 1975 e insediata a Lussemburgo nel 1977.
Con il Trattato di Lisbona la disciplina giuridica ad essa relativa è stata ripartita tra il TUE (art.
13) e — per quanto riguarda la sua composizione e le sue competenze — il TFUE (artt. 285-287).
La Corte è un organo di individui ed è composta da un cittadino per ciascuno Stato membro,
scelto tra personalità che presentano i requisiti di professionalità e indipendenza; in particolare,
i membri devono far o aver fatto parte di istituzioni di controllo esterno o possedere una qualifica specifica per tale funzione. La nomina avviene da parte del Consiglio che a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo, adotta un apposito elenco di candidati presentato dagli Stati membri. Il mandato ha una durata di 6 anni ed è rinnovabile.
B) Competenze
La Corte ha il compito di assistere Parlamento e Consiglio nell’esercizio del controllo sull’esecuzione del bilancio e di assicurare il controllo sulla gestione finanziaria dell’Unione; a tal fine
ad essa spettano, ex art. 287 TFUE:
— un controllo formale di legittimità diretto a verificare la correttezza e la regolarità di tutte le
entrate e le spese dell’Unione;
— un controllo di merito, diretto ad accertare la sana gestione finanziaria, ossia:
a) l’efficacia, intesa come capacità dell’amministrazione di fissare e raggiungere determinati obiettivi;
b) l’economicità, cioè la gestione razionale del personale e dei materiali;
c) l’efficienza, intesa come capacità di massimizzare i risultati con il minimo impiego di risorse.
Questa istituzione, organo di controllo per eccellenza, svolge un ruolo determinante nei riguardi di quello che è il maggiore documento contabile: il bilancio. A tal fine essa effettua il controllo esterno sulla relativa gestione e il controllo sugli atti dell’Unione che impegnano le risorse di quest’ultima, quando si chiude l’esercizio finanziario oppure in un momento precedente,
quello dell’impegnativa.
L’attività di controllo si esplica attraverso:
— l’elaborazione di una relazione annuale sull’esercizio finanziario divisa in due parti, una
relativa all’esecuzione del bilancio generale dell’Unione e l’altra relativa ai fondi europei di
sviluppo;
— il controllo sui documenti e le ispezioni da effettuare sul posto presso le istituzioni
dell’Unione e gli Stati membri, tenuti a collaborare.
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Libro XII: Diritto dell’Unione europea
L’art. 287, comma 2 TFUE fa obbligo alla Corte dei Conti di presentare al Consiglio e al Parlamento europeo una dichiarazione in cui si attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità di tutte le operazioni relative alle voci di entrata e di spesa. Questa relazione è poi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
La Corte dispone anche di un potere consultivo che può essere di due tipi:
— obbligatorio nei casi previsti dall’art. 322 TFUE (adozione dei regolamenti finanziari e fissazione delle modalità e delle procedure relative alla fomazione e all’ esecuzione del bilancio,
al rendiconto e alla verifica dei conti);
— facoltativo, ogni volta che una delle istituzioni dell’Unione fa richiesta di parere alla Corte.
2. Il bilancio dell’Unione
A) Il principio di autonomia finanziaria
Il bilancio dell’Unione «è finanziato integralmente tramite risorse proprie», come recita il secondo comma dell’art. 311 TFUE.
Tale sistema, entrato ufficialmente in vigore il 1° gennaio 1971, ma pienamente operativo solo
a partire dal 1979, è coinciso:
— con l’istituzione della tariffa doganale comune - TDC;
— con una maggiore partecipazione del Parlamento europeo alla procedura di approvazione del
bilancio.
L’attuale sistema sancisce il principio di autonomia finanziaria, in quanto l’Unione, a differenza delle altre organizzazioni internazionali, non dipendono dai contributi degli Stati membri, ma dispongono di finanze autonome.
L’autonomia finanziaria presenta due aspetti:
— il diritto dell’Unione di disporre di risorse proprie (principio dell’autonomia di finanziamento);
— il diritto della stessa di regolarne il gettito per finanziare integralmente il suo bilancio (principio dell’autonomia di bilancio).
La ratio di questo sistema consiste nel rendere l’Unione indipendente dai contributi versati dagli Stati membri, a differenza di quanto accadeva in precedenza. In passato era adottato il sistema tipico di finanziamento delle organizzazioni internazionali: ciascuno Stato versava un contributo che, in percentuale, teneva conto di alcuni fattori, come la capacità contributiva, il vantaggio ricavato dalla partecipazione all’Unione ed il peso politico.
B) Le risorse proprie
Costituiscono risorse proprie, iscritte nel bilancio generale dell’Unione europea, le entrate
provenienti:
— da prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni sugli scambi con paesi terzi, dazi
doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del trattato CECA, ormai scaduto, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero;
— da i proventi dell’imposta sul valore aggiunto, ottenuti mediante un applicazione del tasso attualmente pari allo 0,30%;
— dall’applicazione di un’aliquota uniforme — che sarà fissata secondo la procedura di bilancio, tenuto conto del totale di tutte le altre entrate — alla somma dei redditi nazionali lordi
(RNL) di tutti gli Stati membri.
L’importo totale delle risorse proprie attribuito all’Unione per gli stanziamenti annuali per
pagamenti non può superare l’1,24 % del totale degli RNL degli Stati membri.
L’importo totale degli stanziamenti annuali per impegni, iscritti nel bilancio generale dell’Unione europea, non può superare l’1,31 % della somma degli RNL degli Stati membri.
Capitolo 8: La Corte dei Conti e il bilancio dell’Unione europea
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Affermare che l’Unione si finanzia mediante risorse proprie non significa che la riscossione dei dazi, dei prelievi e delle altre entrate sia affidata alle istituzioni dell’Unione: essa rimane prerogativa degli Stati membri (dazi doganali e risorse di origine agricola), i quali provvederanno a versare le somme percepite all’Unione, ottenendo un rimborso a titolo di spese di riscossione del 25%.
Giurisprudenza
Il fatto che l’esazione delle risorse dell’unione sia affidata agli Stati, ha indotto a negare l’esistenza di un
potere autonomo dell’unione relativamente al recupero di dazi e prelievi evasi.
Tale è stata anche l’opinione della Corte di giustizia (sent. 178-180/73, Regno del Belgio e Granducato del
Lussemburgo c. Mertens), basata sulla considerazione che la decisione n. 243/70 del 1970 nonché il tenore
di alcuni regolamenti successivi nulla dicono circa «gli eventuali poteri degli organi comunitari in ordine
alla riscossione di detti prelievi, e all’attribuzione o pagamento di dette restituzioni». Pertanto gli Stati membri restano «competenti ad esercitare le azioni giurisdizionali e a compiere ogni atto utile per la gestione dei
prelievi e delle restituzioni, e continuano ad intervenire a tal fine nei confronti dei singoli».
Quanto detto, però, non è sufficiente a cancellare la portata della decisione del 1970 che costituisce un
deciso passo avanti sulla via dell’integrazione in modo che l’Unione non dipenda più dai contributi degli Stati membri.
C) Principi fondamentali
I principi fondamentali che riguardano il bilancio sono contenuti nell’art. 310 del TFUE e
nel regolamento finanziario, Reg. (UE) 966/2012 del 25 ottobre 2012 che va ad abrogare e a sostituire il reg. n. 1605/2002 pur continuando a garantire gli stessi principi, il concetto, la struttura e le regole di base.
Tali principi possono così schematizzarsi:
— unità e verità di bilancio: il bilancio è l’atto che prevede ed autorizza tutte le entrate e le spese
dell’Unione, comprese le spese amministrative nel settore della PESC nonché quelle dell’EURATOM. Nessuna spesa, che eccede gli stanziamenti autorizzati, può essere impegnata;
— annualità: tutte le operazioni si devono rapportare ad un arco temporale determinato, l’esercizio finanziario. Inizia il 1° gennaio e termina il 31 dicembre.
— pareggio: nel bilancio entrate e stanziamenti di pagamento devono risultare in pareggio;
— unità di conto: il bilancio è formato e eseguito in euro. Per determinate esigenze della tesoreria, sono, tuttavia, autorizzate operazioni nelle monete nazionali;
— universalità: l’insieme delle entrate copre l’insieme degli stanziamenti di pagamento. Tutte le
entrate e le spese sono iscritte senza contrazione fra di esse.
Alcune eccezioni sono previste dall’art. 20 del regolamento finanziario applicabile al bilancio generale dell’Unione europea. Esso infatti, nel ribadire il principio generale dell’universalità, individua alcune entrate che mantengono la loro
destinazione specifica. Esse sono destinate a finanziare spese determinate;
— specializzazione: gli stanziamenti sono specificati per titoli e capitoli;
— sana gestione finanziaria: gli stanziamenti del bilancio devono essere utilizzati secondo i principi di economia, efficienza ed efficacia. Sono inoltre stabiliti obiettivi specifici per tutti i settori di attività. La realizzazione di tali obiettivi è verificata mediante appositi indicatori;
— trasparenza: il bilancio è oggetto di rendiconto nel rispetto del principio di trasparenza. È
inoltre pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea a cura del Presidente del Parlamento europeo.
Conformemente alla disciplina del bilancio, l’Unione, ai sensi dell’art. 310 par. 4 TFUE, non
può adottare alcun atto suscettibile di incidere in maniera considerevole sul bilancio senza assicurare la relativa copertura nei limiti delle risorse proprie dell’Unione e del rispetto del
quadro finanziario plutiennale (art. 312 TFUE).
L’attuale procedura di approvazione del documento vede affiancato al Consiglio, il Parlamento europeo che, avendo acquisito notevole peso a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Li-
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Libro XII: Diritto dell’Unione europea
sbona, approva congiuntamente al Consiglio il bilancio, sulla base di una procedura legislativa
speciale (vedi infra).
Ulteriore garanzia di legittimità è data, per l’appunto, dalla Corte dei conti, che ha il compito di effettuare il controllo delle entrate e delle spese dell’Unione.
3. La lotta alle frodi
A) La base giuridica
La base giuridica per l’azione dell’Unione in tema di lotta alle frodi è ora costituita dall’art. 325 TFUE. La disposizione cardine contenuta in questo articolo è quella in cui si impone agli Stati membri l’obbligo di combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione con gli stessi strumenti che vengono adottati per combattere le frodi a livello nazionale.
In pratica con questa disposizione è introdotto il cd. principio di assimilazione: gli interessi finanziari europei sono assimilati a quelli nazionali con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure in entrambi i casi. Inoltre con il Trattato di Amsterdam la tipologia di misure da adottare è stata meglio precisata laddove si afferma che tali misure devono essere «dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri».
Una seconda novità introdotta con il Trattato di Amsterdam è stata il maggior coinvolgimento delle istituzioni europee,
chiamate a svolgere una effettiva attività di impulso e coordinamento nel settore della lotta alle frodi.
Ancor oggi, a seguito della riforma di Lisbona, il par. 1 dell’art. 325 TFUE esplicitamente afferma che l’azione di repressione delle frodi e delle altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione devono essere attuate dagli Stati
membri e dalla stessa Unione. Un’ulteriore conferma di tale orientamento viene anche dal par. 3 dello stesso articolo, laddove è stabilito che la stretta e regolare cooperazione delle autorità nazionali competenti in materia di lotta alle frodi deve essere organizzata assieme alla Commissione (e non con l’aiuto della Commissione, come avveniva in passato).
B) Convenzioni
In tema di lotta alle frodi sono state adottate diverse Convenzioni.
La più importante è sicuramente la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (oggi dell’Unione europea) del 26 luglio 1995, entrata in vigore il 17 ottobre 2002. Essa definisce in primo luogo la portata dell’espressione frode europea, che va intesa come qualsiasi azione od omissione (in materia di spese o di entrate) relativa:
— all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni, documenti falsi o incompleti cui consegua, in materia di spese, il percepimento o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale e, in materia di entrate, la diminuzione illegittima di risorse di bilancio generale;
— alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo cui consegua lo stesso effetto;
— alla distrazione dei fondi (in materia di spese) per fini diversi da quelli per cui essi sono stati inizialmente concesse, alla
distrazione di un beneficio (in materia di entrate lecitamente ottenuto).
Nella stessa Convenzione è inoltre fatto obbligo ad ogni Stato di prendere tutte le misure necessarie affinché tali condotte siano passibili di sanzioni penali, proporzionate e dissuasive. In aggiunta ogni Stato deve adoperarsi per migliorare la cooperazione con gli altri Paesi membri nelle diverse fasi dell’inchiesta, dei procedimenti giudiziari e nell’esecuzione della pena.
C) Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF)
Uno degli strumenti organizzativi per intensificare la lotta contro gli atti fraudolenti è rappresentato dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), istituito con la decisione della Commissione n. 352 del 28 aprile 1999. Quest’ultimo subentra integralmente nelle attribuzioni dell’Unità di coordinamento per la lotta contro le frodi (UCLAF).
L’UCLAF era stata creata nel 1988; la sua principale missione operativa era quella di assistere gli Stati membri nel coordinare la loro azione con altri Stati membri e con i competenti uffici della Commissione. Alcuni europarlamentari avevano
criticato il fatto che gli ispettori, cui era affidato il compito di svolgere le indagini all’interno dei vari organismi e delle istituzioni, fossero alle dipendenze degli stessi organi che dovevano controllare. Messa, dunque, in discussione per lo scarso grado di autonomia, l’Unità di coordinamento è stata completamente sostituita dal nuovo Ufficio europeo per la lotta antifrode.
L’Ufficio europeo esercita le competenze della Commissione in materia di indagini amministrative esterne (negli Stati
membri) al fine di intensificare la lotta contro le frodi, la corruzione e qualsiasi attività illecita lesiva degli interessi finanziari dell’Unione europea.
Esso, inoltre, svolge indagini amministrative all’interno delle istituzioni e degli organismi, volte alla lotta contro la frode
e alla ricerca di fatti gravi connessi con l’esercizio di attività professionali che siano incompatibili con gli obblighi dei funzionari e degli agenti dell’Unione, nonché con gli obblighi incombenti sui membri delle istituzioni e degli organi.