Cassazione: giudice può stabilire un "minimo vitale" impignorabile più alto rispetto alla pensione minima Sulla base del rilievo che non ci sono parametri normativi specifici che consentono di determinazione il c.d. minimo vitale impignorabile, il giudice dell'esecuzione può, "in considerazione degli elementi concreti del caso (e non dovendo necessariamente fare riferimento all'importo di trattamento minimo di pensione indicato dallo stesso ente erogatore), pervenire all'individuazione dell'importo maggiormente adeguato" ad assicurare a chi subisce il pignoramento mezzi di vita". Lo ha affermato la terza sezione civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 18225 depositata il 26 agosto 2014, in una fattispecie avente ad oggetto l'opposizione, da parte dell'impresa creditrice, all'ordinanza di assegnazione del credito pignorato nei confronti di un pensionato. Denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 38 l. n. 448/2001 e 39 l. n. 289/2002, in particolare, il titolare dell'impresa ricorrente si doleva dell'erronea valutazione da parte del giudice dell'ammontare della quota di pensione impignorabile nella somma di euro 536,00 anziché in euro 427,58, come indicato dall'ente erogatore (Inps) per l'anno 2006. Per i giudici di piazza Cavour il motivo è infondato. Ripercorrendo l'orientamento consolidato sulla impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici (cfr. Corte Cost. n. 506/2002), la S.C. ha affermato che la stessa è posta "a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.)", finalità ancora più marcata dopo l'entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che mira ad "assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti" (art. 34, comma 3). Pertanto, ha ribadito la Corte, è assolutamente impignorabile "la parte della pensione, assegno o indennità necessaria per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita (c.d. minimo vitale), mentre ex art. 545, 4 co., c.p.c. è pignorabile, nei soli limiti del quinto, la parte residua". E l'indagine circa la sussistenza o l'entità della parte di pensione necessaria, in difetto di interventi del legislatore al riguardo, è rimessa, ha precisato la Corte, "alla valutazione in fatto del giudice dell'esecuzione, incensurabile in Cassazione se logicamente e congruamente motivata". Per cui ritenendo conforme ai principi espressi, la valutazione del giudice dell'esecuzione, nel ritenere maggiormente adeguato anche in considerazione del costo della vita un importo maggiore rispetto a quello indicato dall'Inps, la Corte ha rigettato il ricorso. Diritto del padre lavoratore a fruire dei riposi giornalieri durante il primo anno di vita del bambino: ultima pronuncia del Consiglio di Stato L' art. 40 del T.U. 151/2001 riposi giornalieri del padre, contempla i casi in cui i periodi di riposo, a carico del datore di lavoro, previsti dall' art. 39 per le lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, sono riconosciuti al padre lavoratore: "a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre". La norma, che sembrerebbe scontata e di facile lettura, non viene applicata, ancora oggi, uniformemente sia dalla Pubblica Amministrazione sia dal Giudice Amministrativo. Non solleva particolari problemi interpretativi il riconoscimento del diritto nelle prime due ipotesi. Rimangono, invece, tuttora controverse, a causa di contrasti all' interno della stessa magistratura amministrativa, le condizioni di applicabilità della disposizione di cui alla lett. c) dell'art. 40, in forza della quale nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, il padre lavoratore ha diritto a fruire di due permessi orari, anche cumulabili, nel corso della giornata lavorativa. Fuori discussione l'attribuzione del beneficio al padre, qualora la madre sia lavoratrice autonoma, in quanto avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell'Inps o di altro ente previdenziale. Si discute invece, ancora, sulla legittimità dell' estensione del beneficio al padre lavoratore dipendente, qualora la madre versi nella condizione di casalinga. Sulla significato della norma, all' interno della magistratura amministrativa (naturalmente per i rapporti di lavoro sottoposti alla sua giurisdizione esclusiva) si confrontano due opposti orientamenti, che postulano due diverse qualificazioni della madre lavoratrice non dipendente. La prima opzione, identifica la madre lavoratrice "non dipendente" con la lavoratrice autonoma (quindi avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell'Inps o di altro ente previdenziale).Ne consegue la non riconoscibilità del diritto al padre lavoratore quando la moglie versi nella condizione di "casalinga" La seconda soluzione intende la condizione di "lavoratrice non dipendente" nel senso più ampio possibile, comprendendovi anche il lavoro casalingo. Da qui, la conclusione della equiparabilità della figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non dipendenti, con il risultato sostanziale di configurare una sorta di diritto originario del padre lavoratore subordinato a beneficiare dei riposi giornalieri, indipendentemente dalla condizione lavorativa della madre. I contrasti sono presenti all' interno dello stesso Consiglio di Stato La posizione (per così dire) estensiva è stata fatta propria dal Consiglio di Stato, con la decisione della Sesta Sezione n. 4293 del 9 settembre 2008, sulla base delle seguenti motivazioni: "... la nozione di lavoratore assume diversi significati nell'ordinamento, in particolare nelle materie privatistiche ed in quelle pubblicistiche, ed è a quest'ultimo che occorre fare riferimento, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità, in attuazione delle finalità generali, di tipo promozionale, scolpite dall'art. 31 della Costituzione. In tale prospettiva, essendo noto che numerosi settori dell'ordinamento considerano la figura della casalinga come lavoratrice, non può che valorizzarsi la ratio della norma, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato". Diametralmente opposta la posizione assunta dal Consiglio di Stato, in sede consultiva. La Prima Sezione, nel parere n. 6351 del 22 ottobre 2009, ha enunciato ... il principio di "alternatività nel godimento del beneficio", poiché le ipotesi contemplate dall'art. 40 del d.lgs. n. 151/2001 hanno tutte per presupposto che "la madre non possa o non voglia, per ragioni giuridiche, fisiche o per scelta, provvedere, usufruendo dei riposi giornalieri nel primo anno di vita, alla cura del minore". Nel parere è stata criticata anche l'equiparazione, ai fini dell' attribuzione del beneficio al padre, della figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non dipendenti, in quanto desunta da arresti del giudice civile unicamente tesi ad affermare che "lo svolgimento di attività domestiche nell'ambito del nucleo familiare configura un'attività lavorativa la quale, pur non producendo un reddito monetizzato, è tuttavia suscettibile di valutazione economic". Tali considerazioni, secondo il parere citato, non valgono ad inficiare il principio di alternatività posto a fondamento dell'istituto, né il dato di fatto che, nel caso della lavoratrice casalinga, implica un'autonomia di gestione delle proprie incombenze tale da consentire "evidentemente alla madre di dedicare l'equivalente delle due ore di riposo giornaliero alle cure parentali". Il caso all' esame della Terza sezione del Consiglio di Stato. Il TAR della Liguria, Sezione Seconda, nella sentenza N. 00222/2014, aveva respinto il ricorso, presentato da un assistente della Polizia di Stato, contro il provvedimento del Questore, che gli aveva negato il diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all' art. 40 del TU n. 151/2001. L' amministrazione aveva motivato il provvedimento "con il fatto che la moglie dell'istante è nella condizione di casalinga, mentre le ipotesi contemplate dall'art. 40 comma 1 lettera c del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi da parte del padre, nel caso di rinuncia della madre lavoratrice". Il TAR respingeva il ricorso ritenendo che "essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l'anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente". Ed inoltre "il precipuo interesse del minore ad essere seguito da uno dei genitori, risulta sufficientemente garantito nel caso in cui uno di essi (normalmente la madre) svolga solamente attività domestica, in virtù della vicinanza fisica consentita dalla natura di tale impegno lavorativo e della possibilità di organizzare il tempo dedicato al lavoro in modo da riservare uno spazio adeguato per le esigenze di cura del bambino nel primo anno di vita, condizioni che sono naturalmente precluse alle lavoratrici subordinate e autonome" In questo contesto "non rileva, pertanto, l'incontestabile pari dignità del lavoro domestico rispetto a quello retribuito né l'equiparazione affermata dal giudice civile a fini giuridici del tutto diversi, bensì l'oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico". Contro la decisione del TAR l' assistente di polizia ha presentato appello al Consiglio di Stato, che ha pronunciato, in senso estensivo, l' ultima parola sull' istituto (di cui ovviamente, d'ora in avanti, sia la Pubblica Amministrazione che i Tribunali Amministrativi dovranno tener conto). Il ricorso è stato, infatti, accolto e la Sezione Terza, sentenza n. 04618/201 del 10 settembre 2014, ha riconosciuto al padre il diritto ai riposi giornalieri, pur essendo la madre del bambino in condizione di casalinga. Nelle motivazioni della decisione viene richiamato l' orientamento maggioritario della Giurisprudenza Amministrativa secondo cui, anche a questo fine, si ha una piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente. Secondo il Giudice di Appello non vie alcun dubbio che "... alla luce del principio espresso nella sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 (che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente) l'opposto diniego si riveli illegittimo". "Ha rilevato infatti tale pronuncia che, la disposizione di cui all' art. 40 comma 1 lettera c, essendo rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività ( nella fattispecie, quella di "casalinga" ), che la distolgano dalla cura del neonato". Ma anche altri motivi hanno indotto la Sezione Terza ad aderire all' orientamento cosiddetto estensivo. Innanzitutto la "non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, "nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente". Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un'attività non retribuita da terzi (se a quest'ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula "nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente". La tecnica di redazione dell'art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa". E poi dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31. Gerolamo Taras Cassazione: viola la privacy il comune che non utilizza il plico chiuso per notificare la sanzione "particolare" Corte di Cassazione civile, sezione sesta, sentenza n. 18812 del 5 Settembre 2014. Se il Comune non assume i dovuti accorgimenti, è tenuto a risarcire il danno per violazione del diritto alla privacy del destinatario di provvedimento sanzionatorio inerente violazione amministrativa legata al fenomeno della prostituzione, nel caso in cui la notifica avvenga non in plico sigillato. E' quanto ha confermato la Suprema corte avallando la decisione del giudice del merito, dichiarando in parte inammissibile il ricorso proposto da un Comune italiano. L'ordinanza ingiunzione, dopo un primo tentativo (fallito) di notifica a mezzo servizio postale presso il domicilio eletto dal resistente, era stata affidata per la notifica ai messi comunali, i quali provvedevano alla stessa a mezzo plico, non in busta chiusa, alla residenza del destinatario, dunque a mani alla madre dello stesso. Il destinatario della sanzione lamentava che sua madre era venuta in questo modo a conoscenza della vicenda. Ma c'è di più. L'uomo si trovava in una particolare dato che era in corso una causa di separazione e la conoscenza da parte di terzi di una simile sanzione sarebbe stata idonea a provocargli serio pregiudizio. La Suprema corte, pur disconoscendo l'esistenza di un vero e proprio obbligo a carico della pubblica amministrazione di procedere in ogni caso alla notifica presso il domicilio eletto dal destinatario - e non, come nel caso di specie, eseguirla presso la residenza - fa riferimento ai principi generali di trasparenza, lealtà e imparzialità della pubblica amministrazione, data l'evidente manifestazione di preferenza del destinatario ad interloquire con l'ente pubblico in modalità particolare. La Cassazione conferma come sia applicabile al caso di specie l'art. 15 del d. lgs. 196/2003 (codice privacy) il quale afferma che "sussiste responsabilità per i danni cagionati per effetto del trattamento illegittimo dei dati personali ai sensi dell'art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l'esercizio di attività pericolose". In questo senso, la pubblica amministrazione procedente avrebbe potuto sottrarsi all'obbligo risarcitorio solo provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; circostanza non dimostrata in grado di merito. Nella specie, il Comune avrebbe dovuto provare di non aver potuto ricorrere a nessun'altra forma di notifica, che, "seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propagazione del contenuto dell'oggetto della violazione sanzionata con l'ordinanza ingiunzione". Di conseguenza, il comportamento dell'ente comunale "non si è affatto concretato nell'aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell'art. 2050 c.c. Ciò, per l'assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell'art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto". Cassazione: neppure la legge può legalizzare l'illegale. No a ingerenze della P.A. nella proprietà privata La legalizzazione dell'illegale non è consentita neppure ad una norma di legge né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo. La statuizione della suprema Corte di Cassazione. SOMMARIO: 1. Il fatto. 2. L'evoluzione giuridica della disciplina espropriativa. 3. La natura giuridica del bene espropriato. 4. Il procedimento espropriativo nel d.p.r. n. 327/2001. 5. L'indennità di espropriazione prevista nel T.U. n. 327/2001. 6. L'ordinanza delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione n. 442/2014. 1. Il fatto: Una persona fisica chiede al TAR Puglia la condanna del Comune di Porto Cesareo (LE) alla restituzione di alcuni terreni di sua proprietà che sono stati occupati senza titolo da detta amministrazione, per l'inutile decorso del tempo che comporta la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità che li aveva destinati alla realizzazione di strade, parchi e parcheggio. Con sentenza del 25 giugno 2010, il TAR ordina al Comune l'adozione del provvedimento acquisitivo delle aree, ai sensi dell'allora vigente art. 43, del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, Testo unico sulle espropriazioni per pubblica utilità, dichiarato costituzionalmente illegittimo, con sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010; fatto per cui la persona fisica interessata adisce il TAR Puglia per ottenerne la restituzione ed il risarcimento del danno. Poiché nelle more è stato introdotto nello stesso T.U. l'art. 42-bis, attraverso la L. n. 15 luglio 2011, n. 111, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, il Comune, con provvedimento del 19 ottobre 2011, la p.a. dispone l'acquisizione dei terreni al suo patrimonio e liquida al proprietario l'indennizzo di cui alla nuova norma; ed avendo il soggetto interessato, con motivi aggiunti, richiesto anche la rideterminazione dell'indennizzo in base al valore venale attuale dei beni, propone regolamento di giurisdizione chiedendo alla Corte di Cassazione che la stessa sia attribuita al giudice ordinario. Per deciderne l'attribuzione della questione al giudice ordinario è necessario, a parere della Suprema Corte, preventivamente valutare se la nuova "acquisizione sanante", introdotta dall'art. 42-bis, sia esente da dubbi di costituzionalità e compatibilità con la Convenzione CEDU, in ragione dell'attribuzione all'amministrazione del potere espropriativo, nonché di quello di trasformare il diritto restitutorio/risarcitorio del proprietario in diritto al mero indennizzo, devoluto dapprima dalla L. n. 205/2000, art. 7; dalla L. n. 104 del 2010, art. 133 sub e n. 2, lett. g, alla giurisdizione ordinaria. Ciò premesso, la Corte di Cassazione, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, conv. con mod. dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che ha introdotto l'art. 42-bis nel d.p.r. n. 327/2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonché art. 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1° prot. add. della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848 e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio. L'intervento della Suprema Corte si è reso necessario in quanto, negli ultimi anni, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) è più volte intervenuta sul regime legale nazionale delle espropriazioni, condannando svariate volte l'Italia anche riguardo ai criteri indennitari previsti dalla legge,per ristorare il privato della perdita del bene della vita, subito a causa della patita espropriazione del terreno. 2. L'evoluzione giuridica della disciplina espropriativa: In senso estensivo, l'espropriazione è un istituto attraverso il quale un soggetto viene privato della proprietà o altro diritto reale, concernente un particolare bene per pubblico interesse, posto in essere in base alla legge. Secondo autorevole dottrina (BONCOMPAGNI M.R., TANGARI C., in GAROFOLI R., FERRARI G., Manuale di diritto amministrativo, Roma, NEL DIRITTO, 2009, p. 1035) «l'espropriazione per pubblica utilità è il provvedimento con cui l'autorità - seguendo un procedimento disciplinato dalla legge acquisisce beni di proprietà privata per motivi di pubblico interesse, previa corresponsione di un equo indennizzo». Già lo Statuto Albertino stabiliva all'art. 29 che «tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia, quando l'interesse legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cedere in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi». L'espropriazione per pubblica utilità nel nostro Paese è stata regolata dapprima dalla L. 25 giugno 1865,n. 2359, Espropriazione per causa di pubblica utilità (poi modificata dalla L. n. 5188/1879), la quale aveva disposto che l'espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l'esecuzione di opere di pubblica utilità non poteva aver luogo che con l'osservanza delle forme stabilite dalla succitata legge. In seguito, con la L. 15 gennaio 1885, n. 2892, concernente il risanamento di Napoli, sono dichiarate di pubblica utilità tutte le opere necessarie al risanamento della Città di Napoli, in base al piano proposto dal Municipio che verrà approvato con Regio Decreto. Con l'art. 13, comma 4, della L. n. 2892/1885 «l'indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sarà determinata sulla media del valore venale [valore di mercato] e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio ... [per fitti coacervati dell'ultimo decennio, di data certa, si intende la somma aritmetica dei canoni riscossi dai proprietari, anno per anno, nel decennio precedente l'entrata in vigore della legge; se anche uno solo dei canoni risulta indeterminato, alla somma dei canoni si sostituisce la somma degli imponibili degli ultimi dieci anni]». Di seguito è intervenuta la L. 22 ottobre 1971, n. 865, Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata; mentre il codice civile, nel prevedere all'art. 832 che «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico», dispone all'art. 834, che «nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata e contro il pagamento di una giusta indennità [e che] le norme relative all'espropriazione per causa di pubblico interesse sono determinate da leggi speciali». La Costituzione valorizza l'aspetto economico della proprietà, superando il carattere d'inviolabilità di quest'ultima ed enuncia, all'art. 42, commi 2 e 3, il principio che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale». Il primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, sottoscritto a Parigi, 20 marzo 1952, all'art. 1, rubricato Protezione della proprietà, dispone che «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende». Successivamente interviene la L. 22 ottobre 1971, n. 865, Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sull'espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata (poi integrata dalla L. n. 10/1977), la quale, all'art. 16, stabilisce che «l'indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati di cui all'articolo 18, è commisurata al valore agricolo medio di cui al comma precedente corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare. Nelle aree comprese nei centri edificati l'indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l'area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa. Tale valore è moltiplicato per un coefficiente: - da 2 a 5 se l'area ricade nel territorio di Comuni fino a 100 mila abitanti; - da 4 a 10 se l'area ricade nel territorio di Comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti». La Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, all'art. 17, rubricato Diritto di proprietà, al comma 1, prevede che «ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L'uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall'interesse generale». Nella suddetta Carta dei Diritti Fondamentali, non si fa richiamo alla funzione sociale della proprietà, a differenza della previsione dell'art. 42 Cost.; ma ci si sofferma sui diritti del proprietario che possono essere affievoliti solo per causa di pubblico interesse e contro il pagamento «in tempo utile» di una «giusta indennità» per la perdita della stessa. L'espropriazione è inquadrabile nel novero dei provvedimenti ablatori reali, attraverso i quali la p.a. agisce nei confronti del privato, operando un azzeramento del diritto di proprietà che trasla in capo alla p.a. medesima, costituendosi in capo al soggetto espropriato un diritto di credito, consistente in un indennizzo per l'effetto privativo susseguente alla subita espropriazione del bene. 3. La natura giuridica del bene espropriato: Qual è la natura dell'effetto traslativo che pone in essere il provvedimento di espropriazione per pubblica utilità? Si confrontano due teorie a tal proposito; la prima che ritiene che l'espropriazione faccia parte dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario; la seconda che sposa l'opzione dell'acquisto a titolo derivativo. I sostenitori della prima teoria sono dell'avviso che il bene acquisito tramite espropriazione entri a far parte dei beni della p.a. libero da qualsiasi vincolo, per il fatto che nessun peso assume la volontà dell'espropriato. Coloro che propendono per la seconda teoria (acquisto a titolo derivato della proprietà), ritengono che l'acquisizione del bene espropriato è la conseguenza del provvedimento coattivo del trasferimento del bene de quo che consegue all'espropriazione. 4. Il procedimento espropriativo nel d.p.r. n. 327/2001: Il d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327 detta la disciplina della procedura espropriativa anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità. I procedimenti previsti dal suddetto T.U. si ispirano ai principi di economicità, di efficacia, di efficienza, di pubblicità e di semplificazione dell'azione amministrativa e assegnano notevole centralità al principio di legalità, tant'è che «l'espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili di cui all'articolo 1 può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti». Ai sensi dell'art. 8, il decreto di esproprio può essere emanato qualora: a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio. Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità. Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni; entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, la quale se non è tempestivamente dichiarata, il vincolo preordinato all'esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall'articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard. Nel corso dei cinque anni di durata del vincolo preordinato all'esproprio, il Consiglio comunale può motivatamente disporre che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità anche differenti da quelle originariamente previste nel piano urbanistico generale, nel quale caso, se la Regione o l'ente da questa delegato all'approvazione del piano urbanistico regionale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del Consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del Consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l'efficacia. Una volta che sia divenuto efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità, entro i successivi trenta giorni, il promotore dell'espropriazione compila l'elenco dei beni da espropriare, con una descrizione sommaria e dei relativi proprietari ed indica le somme che offre per le loro espropriazioni, notificando l'elenco a ciascun proprietario, nella parte che lo riguarda; mentre gli interessati nei successivi trenta giorni possono presentare osservazioni scritte e depositare documenti. Tale fase sub-procedimentale che implica un contraddittorio tra le parti interessate, può condurre alla cessione volontaria del bene. Il decreto di esproprio, così come previsto dall'art. 23, è emanato entro il termine di scadenza dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità; indica quale sia l'indennità determinata in via provvisoria o urgente e precisa se essa sia stata accettata dal proprietario o successivamente corrisposta, ovvero se essa sia stata depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti; indica quale sia l'indennità determinata in via provvisoria o urgente e precisa se essa sia stata accettata dal proprietario o successivamente corrisposta, ovvero se essa sia stata depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti; dispone il passaggio del diritto di proprietà o del diritto oggetto dell'espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito; è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili, con un avviso contenente l'indicazione del luogo, del giorno e dell'ora in cui è prevista l'esecuzione del decreto di espropriazione, almeno sette giorni prima di essa; è eseguito mediante l'immissione in possesso del beneficiario dell'esproprio, con la redazione di apposito verbale. 5. L'indennità di espropriazione prevista nel T.U. n. 327/2001: Ad iniziare dal 1865 e per finire ai nostri giorni, la disciplina espropriativa ha subito varie vicissitudini che hanno visto la mutevole definizione del valore del bene espropriato; solo a titolo di esempio, si evidenzia che si è passati dal criterio del valore venale al criterio del valore agricolo (L. n. 2359/1865; L. n. 865/1971); dal criterio della media tra il valore venale ed il reddito dominicale rivalutato all'indennità riferita al valore del bene dichiarato ai fini dell'ICI (L. 359/1992; d.lgs. n. 504/1992); per giungere alla definizione dell'indennità d'espropriazione nei modi previsti dal d.p.r. n. 327/2001. Nel T.U. sull'espropriazioni per pubblica utilità, vi sono quattro categorie di aree interessate dal d.p.r. n. 327/2001 e diverse modalità di determinazione dell'indennità in caso di esproprio. L'art. 37 del T.U. in esame attiene alla determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile; l'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene, mentre quando l'espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l'indennità è ridotta del 25 per cento. Nei casi in cui è stato concluso l'accordo di cessione o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all'espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un'indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l'indennità è aumentata del 10 per cento. Inoltre l'indennità è ridotta ad un importo pari al valore indicato nell'ultima dichiarazione o denuncia presentata dall'espropriato ai fini dell'imposta comunale sugli immobili prima della determinazione formale dell'indennità, qualora il valore dichiarato risulti contrastante con la normativa vigente ed inferiore all'indennità di espropriazione come determinata in base ai commi precedenti. Ai sensi dell'art. 38 T.U. espropri, la determinazione dell'indennità, nel caso di esproprio di un'area legittimamente edificata, è pari al valore venale del bene oggetto d'espropriazione; mentre qualora la costruzione ovvero parte di essa sia stata realizzata in assenza della concessione edilizia o della autorizzazione paesistica, ovvero in difformità, l'indennità è calcolata tenendo conto della sola area di sedime in base all'articolo 37 ovvero tenendo conto della sola parte della costruzione realizzata legittimamente. Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da quella agricola; se l'area non è effettivamente coltivata, l'indennità è commisurata al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona ed al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. Al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale spetta un'indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata 6. L'ordinanza delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione n. 442/2014: Si ribadisce il fatto oggetto della suddetta ordinanza e consistente nella richiesta da parte di un privato al TAR Puglia della condanna del Comune di Porto Cesareo alla restituzione di alcuni terreni di sua proprietà, occupati senza titolo da detta amministrazione, poiché era scaduta la dichiarazione di pubblica utilità che li aveva destinati alla realizzazione di strade, parchi e parcheggio. La vicenda richiama la legittimità costituzionale dell'acquisizione sanante, prevista dall'art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001. Al fine di meglio comprendere il senso dell'ordinanza della Suprema Corte n. 442/2014, occorre partire dall'istituto dell'occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione, prevista dall'art. 22-bis del T.U. sull'espropriazioni, il cui fine è quello di permettere che si possa, in modo del tutto legittimo, addivenire allo spossessamento del bene de quo a beneficio della p.a. interessata alla procedura espropriativa, nell'attesa dell'emanazione del provvedimento di espropriazione. Qualora l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza può essere emanato, senza particolari indagini e formalità, decreto motivato che determina in via provvisoria l'indennità di espropriazione; dispone anche l'occupazione anticipata dei beni immobili necessari; contiene l'elenco dei beni da espropriare e dei relativi proprietari; indica i beni da occupare e determina l'indennità da offrire in via provvisoria. Ad avviso della Cassazione civile (Sez. Unite, Sentenza n. 10362 del 6 maggio 2009), l'occupazione temporanea preordinata all'espropriazione, è finalizzata a consentire alla p.a. di conseguire l'anticipata immissione in possesso dell'area sulla quale deve essere realizzata l'opera pubblica dichiarata urgente ed indifferibile, per dare inizio ai lavori ed evitare di dover attendere che il procedimento espropriativo giunga alla sua naturale conclusione con la pronuncia del provvedimento ablativo. Secondo la giurisprudenza (TAR Venezia, Sez. I, 12 novembre 2007, n. 3608), la p.a. non può utilizzare l'istituto dell'occupazione d'urgenza, per un fine ben diverso da quello ivi previsto nell'art. 22bis del T.U.; «la funzione di tale istituto si identifica, infungibilmente, nel consentire il legittimo spossessamento dell'immobile a favore dell'Amministrazione procedente nelle more dell'adozione del provvedimento di esproprio, con la conseguenza che quest'ultima non può avvalersi dell'istituto medesimo per sanare un'occupazione abusiva già intervenuta. In tale evenienza - per contro - l'effetto sanante perseguito dall'Amministrazione Comunale può discendere soltanto dal ben diverso procedimento contemplato dall'art. 43 del medesimo T.U. approvato con d.p.r. n. 327 del 2001, intitolato Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico ed in forza del quale - infatti - l'Autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, valutati gli interessi in conflitto, può disporre che l'immobile medesimo vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. L'atto di acquisizione può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio o l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 dell'art. 43 ovvero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la p.a. procedente o chi utilizza il bene, può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo; qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia disposto la condanna al risarcimento del danno, l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto risarcimento del danno. Il poi decreto è trascritto nei registri immobiliari, a cura e spese della medesima autorità. Il risarcimento del danno è determinato: a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7; b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo. Possono però insorgere vistosi problemi allorquando la p.a. espropriante non dovesse emanare il decreto di esproprio nei tempi previsti dalla legge e dovesse trasformare, comunque, anche se del tutto illegittimamente, la proprietà occupata, dando inizio ai lavori o persino completando l'opera pubblica già iniziata. Come si è visto supra, la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, all'art. 17, comma 1, prevede che «nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa». Ciò detto ed esclusa in chiave europea la figura dell'espropriazione di fatto o sostanziale, mancando un valido titolo giuridico, è stata disciplinata con l'art. 43 del T.U. dell'espropriazione, la cd. acquisizione sanante, tramite la quale alla p.a. è attribuito il potere discrezionale di acquisire, con apposito provvedimento in sanatoria, la proprietà delle aree occupate sine titulo; acquisizione sanante che sostituisce nell'ordinamento l'acquisizione acquisitiva e l'acquisizione usurpativa. L'acquisizione acquisitiva è categoria giurisprudenziale, in base alla quale la p.a. che per realizzare un'opera pubblica occupa un area privata in maniera del tutto illegittima, mancando dall'inizio del provvedimento autorizzatorio o essendo decorsi i termini di efficacia dello stesso, acquista in modo originario la proprietà del bene a seguito dell'irreversibile trasformazione del suolo. Ad avviso della giurisprudenza, la costruzione dell'opera pubblica produce un effetto estintivo del diritto di proprietà sul suolo privato illecitamente occupato e comporta il diritto per il soggetto spogliato, di ottenere il solo risarcimento pecuniario del danno e la perdita della titolarità del diritto di proprietà del fondo in capo al privato. L'occupazione acquisitiva è stata teorizzata dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 1464/1983, attraverso la quale i giudici ritengono che nelle ipotesi in cui la p.a. (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l'irreversibile sua destinazione, al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito. L'occupazione usurpativa, invece, è un istituto creato dalla giurisprudenza che si ha qualora la p.a. proceda all'occupazione di un area per realizzare un'opera pubblica mancando della dichiarazione di pubblica utilità; allorquando sia stata comunque dichiarata la pubblica utilità dell'opera da realizzare e tale dichiarazione sia stata successivamente annullata; nel caso sia diventata inefficace la dichiarazione di pubblica per inutile decorso del tempo. In tali evenienze la p.a. concretizza un'attività materiale illecita permanente, verificandosi, al contempo, una situazione in cui è evidente la carenza di potere da parte della p.a. procedente, a causa del mancato riconoscimento dell'utilità dell'opera da realizzare. Si verifica con l'istituto in esame, un'azione del tutto illegale della p.a., a seguito della quale non si produce l'effetto traslativo del bene, rimanendo in capo al proprietario originario l'opzione di scelta tra i rimedi petitori e possessori posti in essere a difesa della proprietà privata e il rimedio risarcitorio, il quale ultimo, se attivato, comporta l'implicita rinuncia al diritto di proprietà sul bene de quo. La Corte Suprema di Cassazione elabora l'istituto dell'acquisizione usurpativa a decorrere dal 1997 (Sent. 16 luglio 1997, n. 1615) per discriminarla dall'occupazione acquisitiva. Ad avviso dei giudici del TAR (Sez. V Napoli , 12 maggio 2014, n. 2607) «la c.d. "occupazione usurpativa" (che è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo devoluta a quella del giudice ordinario), ricorre nel caso in cui i comportamenti materiali della pubblica amministrazione, relativi alla ablazione del bene, non siano riconducibili, neppure in via mediata ed indiretta, all'esercizio di un pubblico potere (Corte Costituzionale n. 204/2004 e n. 191/2006; Cass. Civ., Sez. Un., 23 marzo 2009 n. 6956). Ritornando all'occupazione sanante, occorre dire che con essa si legalizza l'espropriazione sostanziale che è stata posta in essere, in mancanza di titolo che consente l'espropriazione di un bene. L'art. 43 del T.U. sull'espropriazione, al comma 1, prevede l'acquisizione sanante per l'iniziativa diretta della p.a.; l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. Il comma 3, enuncia un'altra fattispecie, nel caso in cui sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 ovvero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico; in tale evenienza «l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga [solo] la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo». Ai sensi del comma 6, dell'art. 43, «il risarcimento del danno è determinato: a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7; b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo». La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in data 15 novembre 2005, ha statuito che il meccanismo dell'espropriazione indiretta non è atto ad assicurare un grado sufficiente di sicurezza giuridica: infatti, sia che operi in virtù di un principio giurisprudenziale sia che si fondi su di un testo di legge, come ad es., l'art. 43 del T.U. sull'espropriazione per pubblica utilità, esso non può costituire una valida alternativa ad un'espropriazione avvenuta secondo le forme prescritte, in quanto tende a ratificare una situazione di fatto che consegue alle illegittimità commesse dalla p.a. e a regolare le conseguenze a favore di questa. La Corte Costituzionale, con sentenza 4-8 ottobre 2010, n. 293, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 T.U. sull'espropriazione, a seguito dell'intervento del TAR per la Campania che con tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, le prime due del 28 ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009) con le quali aveva sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 43 del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327. Secondo la Corte Costituzionale «la norma censurata ha ad oggetto la disciplina dell'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e consente all'autorità che abbia utilizzato a detti fini un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, di disporne l'acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l'obbligo di risarcire i danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto dell'atto di acquisizione, l'impugnazione del medesimo, la facoltà della pubblica amministrazione di chiedere che il giudice amministrativo «disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo», fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento del danno ... l'applicazione della disciplina di cui al citato art. 43 determinerebbe l'improcedibilità dei ricorsi in ottemperanza, in considerazione dell'atto formale di acquisizione sanante; nello stesso tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero essere rigettati, perché il provvedimento oggetto di impugnazione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto disegnato dall'intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse già intervenuta una pronuncia di restituzione». Per questi motivi, il giudice delle leggi dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 43 del d.p.r.8 giugno 2001, n. 327. Dichiarata costituzionalmente illegittima, per eccesso di delega, dalla sentenza n. 293/2010, l'acquisizione sanante è stata riproposta dall'art. 34 d.l. 6 luglio 2011 n. 98, conv. con mod. dalla legge 15 luglio 2011, che ha inserito nel d.p.r. n. 327/2001 l'art. 42-bis, rubricato "utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico" che integralmente si riporta infra: «1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. 2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo. 3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma. 4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2. 5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene. 6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia. 7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale. 8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo». Ad avviso degli ermellini, con l'art. 42-bis è stata reintrodotta la possibilità per l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U. n. 327/2001 e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, il quale assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza "uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma». «La nuova soluzione è apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per eliminare la figura sorta nella prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ... nonché quella dell'occupazione usurpativa.. (Cons. St. Ad. gen. 4/2001) e quindi al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi costituzionali ed a quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprietà". Posto che in forza di detto provvedimento cessa la occupazione sine titulo e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprietà alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico), cui è consentita una legale via di uscita dalle numerose situazioni di illegalità realizzate nel corso degli anni». Al fine di permettere alla p.a. il ritorno alla legalità in modo completo, perciò comprendente tanto le (prevedibili) utilizzazioni illecite future, quanto quelle già verificatesi, anche in epoca antecedente al T.U. n. 327/2001, per le quali permane egualmente la necessità di regolarizzarne la sorte definitiva, l'art. 42-bis ha riproposto l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato perfino la rubrica. Ad avviso della Corte di Cassazione «i caratteri dell'acquisizione, immediatamente denominata "sanante", hanno indotto anche per la sentenza n. 293/2010 della Corte Costituzionale ad osservare che il nuovo istituto "prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo, "neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi". Per cui la sua riproduzione nell'art. 42-bis, applicabile ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale indicata, con il risultato di aprire alla p.a. una vasta ed indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalità - anche per le possibili violazioni del principio di legalità dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonché di compatibilità con la ricordata normativa della Convenzione CEDU, e quindi, dell'art. 117 Cost.». I giudici della Corte di Cassazione si chiedono, dunque, se è legittimo il comportamento della p.a. che ha commesso un fatto illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di cui agli artt. 2043 e 2058 c.c., e se alla medesima p.a. «possa essere riservato un trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed attribuita la facoltà di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del "neminem laedere" per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio costituzionale (ritenuto da Corte Cost. n. 204/2004 "una conquista liberale di grande importanza") che nel sistema vigente è privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto». Di conseguenza, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta", per effetto dell'autotutela amministrativa, cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post", le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad esse correlate. Per superare soluzioni di illegittimità/illegalità diffusa, apparse non conformi al principio di legalità in ambito espropriativo, «la giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio degli anni ottanta aveva riconsiderato ed espunto (Cass. N. 382/1978; n. 2931/1980; n. 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che alla p.a. occupante (senza titolo) fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo, con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del provvedimento ablativo - ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennità: alla quale soltanto il proprietario finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa costituzionale non è sfuggito alla ricordata decisione n. 293/2010 della Consulta che lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni "secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi"». Di conseguenza, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta" per effetto dell'autotutela amministrativa, cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post" le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad esse correlate. Anche per i giudici di Strasburgo l'illegittima ingerenza nella proprietà privata, comporta che alla p.a. non è consentito (né direttamente né indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti, e più in generale, da una situazione di illegalità dalla stessa determinata (cfr. Corte Giust. UE 10 novembre 2011, C 405/10); nonché nella giurisprudenza della Corte Edu (1^, 13 ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3^, 15 dicembre 2005, Scozzari; 2^, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010, Guiso). Il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata (commi 2 e 3), appare alle Sezioni Unite ancor più consistente, in relazione al primo e fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale"; che trova puntuale riscontro in quello di eguale tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU, per cui l'ingerenza nella proprietà privata può essere attuata soltanto "per causa di pubblica utilità". Secondo la Corte di Cassazione, assunta la centralità dell'art. 42 Cost., per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di interesse generale", non si avrebbe aderenza a tale assunto, con la «conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una "valutazione degli interessi in conflitto", è destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo, unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi. Da qui la formula dell'art. 42, comma 3, per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di interesse generale, ovvero collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo valorizzando il ruolo partecipativo, con la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere amministrativo che, è destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi e con il risultato che «la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimità del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi solo congiuntamente a quest'ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente con l'emersione dei "motivi d'interesse generale" (Cons. St. 4766/2013; 3684/2010; 3338 e 479/2009; 5034/2007; Ad. plen. 2/2000; 14/1999)». Inoltre, secondo i giudici della Suprema Corte, l'art. 42 bis oggetto d'esame, prescindendo dalla dichiarazione di pubblica utilità, comporta l'espropriazione sostanziale, pur mancando la predeterminazione dei motivi d'interesse generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di proprietà, ritenendo del tutto sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contra ius dell'amministrazione; consentendo l'acquisizione del bene anche quando tale procedura sia stata violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facoltà dell'amministrazione e relegando la dichiarazione di pubblica utilità a momento procedimentale eventuale, la cui assenza può essere superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice la necessarietà della stessa. In contrasto anche con la complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dal d.p.r. n. 327/2001, che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al "principio di legalità dell'azione amministrativa", dal momento che il potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri, obblighi e limiti che scandiscono il procedimento espropriativo. Ad avviso della Corte di Cassazione «la nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio" - presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticità - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.). La quale, del resto, come già rilevato da questa Corte (Cass. N. 18239/2005; n. 20543/2008), si è già pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42-bis». Per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto, incompatibili con il diritto al rispetto dei propri beni e ripristinare la legalità, è del tutto indifferente l'adozione postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti, perché il requisito della legalità non permette in generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente e considerarlo acquisito al patrimonio pubblico, senza che contestualmente un provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprietà sia stato emanato. «La "legalizzazione dell'illegale" non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006; De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005). In termini non dissimili si è espressa anche la Corte Costituzionale (n. 293/2010), per la quale «non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità». Di conseguenza la Corte di Cassazione, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, conv. con mod. dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che ha introdotto l'art. 42- bis nel T.U. dell'espropriazioni n. 327/2001, per contrasto, con gli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonché art. 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1° prot. add. della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 84; di conseguenza dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio. Conclusivamente, il parallelo ragionamento posto in essere dalla Corte di Cassazione, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e dalla Corte Costituzionale in tema di indennizzo espropriativo, conduce all'affermazione che nell'ordinamento, il sacrificio legittimo che può imporsi in base all'interesse pubblico, non può spingersi fino all'annientamento del diritto di proprietà, in quanto il perseguimento dell'interesse generale incontra un preciso limite nella tutela delle proprietà privata che è posta a garanzia della libertà d'iniziativa economica dei cittadini; e che nel bilanciamento del contrapposto interesse pubblico e privato è necessario il rispetto della centralità del principio di legalità, cardine di un Paese che vuole essere Stato di diritto. Prof. Luigino Sergio (già Direttore Generale della Provincia di Lecce; esperto di organizzazione e gestione degli enti locali). Cassazione: giudice può stabilire un "minimo vitale" impignorabile più alto rispetto alla pensione minima Sulla base del rilievo che non ci sono parametri normativi specifici che consentono di determinazione il c.d. minimo vitale impignorabile, il giudice dell'esecuzione può, "in considerazione degli elementi concreti del caso (e non dovendo necessariamente fare riferimento all'importo di trattamento minimo di pensione indicato dallo stesso ente erogatore), pervenire all'individuazione dell'importo maggiormente adeguato" ad assicurare a chi subisce il pignoramento mezzi di vita". Lo ha affermato la terza sezione civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 18225 depositata il 26 agosto 2014, in una fattispecie avente ad oggetto l'opposizione, da parte dell'impresa creditrice, all'ordinanza di assegnazione del credito pignorato nei confronti di un pensionato. Denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 38 l. n. 448/2001 e 39 l. n. 289/2002, in particolare, il titolare dell'impresa ricorrente si doleva dell'erronea valutazione da parte del giudice dell'ammontare della quota di pensione impignorabile nella somma di euro 536,00 anziché in euro 427,58, come indicato dall'ente erogatore (Inps) per l'anno 2006. Per i giudici di piazza Cavour il motivo è infondato. Ripercorrendo l'orientamento consolidato sulla impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici (cfr. Corte Cost. n. 506/2002), la S.C. ha affermato che la stessa è posta "a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.)", finalità ancora più marcata dopo l'entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che mira ad "assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti" (art. 34, comma 3). Pertanto, ha ribadito la Corte, è assolutamente impignorabile "la parte della pensione, assegno o indennità necessaria per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita (c.d. minimo vitale), mentre ex art. 545, 4 co., c.p.c. è pignorabile, nei soli limiti del quinto, la parte residua". E l'indagine circa la sussistenza o l'entità della parte di pensione necessaria, in difetto di interventi del legislatore al riguardo, è rimessa, ha precisato la Corte, "alla valutazione in fatto del giudice dell'esecuzione, incensurabile in Cassazione se logicamente e congruamente motivata". Per cui ritenendo conforme ai principi espressi, la valutazione del giudice dell'esecuzione, nel ritenere maggiormente adeguato anche in considerazione del costo della vita un importo maggiore rispetto a quello indicato dall'Inps, la Corte ha rigettato il ricorso. CRC Auto: basta il preventivo per liquidare il danno se le voci trovano corrispondenza nelle fotografie - Tribunale di S. M. Capua Vetere Con la sentenza n. 2808/2014, avente ad oggetto la richiesta di risarcimento danni derivanti da circolazione stradale, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha affermato che può bastare un semplice preventivo per liquidare il danno all'autovettura se le singole voci di danno corrispondono a quanto emerge dalla documentazione fotografica. Ecco in breve la vicenda processuale: un automobilista alla guida di una Mercedes 270, mentre percorreva l'autostrada A1 - tratto Caserta-Capua - direzione Capua, giunto al km 727+150 (dove mancava la rete di recinzione come invece prevede l'art. 2, n. 3, lett. A) del d. lgs. n. 285 del 1992) entrava in collisione con un cane di grossa taglia che attraversava l'autostrada in direzione trasversale da sinistra verso destra. A causa del sinistro l'autovettura subiva ingenti danni per la complessiva somma di € 7.188,38 e tali danni risultavano da un preventivo oltre che da rilievi fotografici in atti. L'automobilista chiedeva anche un risarcimento ulteriore per il danno da fermo tecnico e le spese di rimozione e trasporto. Parte attrice deduceva che il sinistro per cui è causa si era verificato per esclusiva responsabilità della società convenuta, la quale, in virtù del principio del "neminem laedere" di cui all'art. 2043 c.c., e quale proprietaria della strada aperta al pubblico, è tenuta a far sì che la stessa non presenti per l'utente situazioni di pericolo occulto. Tanto premesso, chiedeva l'accertamento della società convenuta in ordine alla causazione del sinistro de quo, la condanna della stessa al risarcimento dei danni alla propria autovettura, con vittoria di spese. Nella sentenza il giudice, affermata la responsabilità della società convenuta, afferma che i danni possono essere liquidati in via equitativa. A tal fine basta utilizzare come parametro il preventivo prodotto dall'attore, le cui voci trovano corrispondenza nella documentazione fotografica oltre che nelle dichiarazioni rese dai testi e nelle rilevazioni effettuate dalla Polizia Stradale. In relazione al fermo tecnico il giudice ha liquidato poi un somma di euro 500,00 richiamando un orientamento della Corte di Cassazione secondo cui è possibile la liquidazione equitativa del danno da fermo tecnico anche in assenza di prova specifica in ordine allo stesso, "rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche prescindere dall'uso effettivo a cui esso era destinato. L'autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio dia assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetta a un naturale deprezzamento di valore, del veicolo" (Cass. n. 23916/2006). Sempre in ordine al danno il giudice ricorda che trattandosi di risarcimento da illecito extracontrattuale e quindi di debito di valore, la somma liquidata deve essere annualmente rivalutata secondo gli indici ISTAT di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai e sulla somma via via rivalutata devono calcolarsi gli interessi compensativi, in misura pari a quella legale (v. la risorsa per il calcolo congiunto di interessi e rivalutazione monetaria). Tale misura si ritiene idonea a compensare il ritardato adempimento, tenuto conto della normale redditività del denaro nel periodo intercorso dalla data del sinistro. Dott. Agostino Saviano Divorzio: Cassazione ribadisce, l'assegno deve tenere conto della breve durata del matrimonio Ai fini della determinazione dell'assegno divorzile, non è necessario ripercorrere analiticamente tutti i criteri indicati dall'art. 5 della l. n. 898/1970, ben potendo il giudice considerare prevalente, di fronte ad un matrimonio di breve durata, il fattore tempo. È quanto emerge dall'ordinanza n. 18722 depositata il 4 settembre scorso, con la quale la Cassazione si è pronunciata sulla sentenza della Corte d'Appello di Roma che, all'esito di un procedimento di divorzio, fissava in 200 euro mensili l'assegno di mantenimento a favore dell'ex moglie, in virtù dell'inadeguatezza dei mezzi della stessa, comparati con quelli del marito e della breve durata (due anni) del vincolo coniugale. La donna ricorreva per Cassazione lamentando l'erronea valutazione dei criteri indicati dal sesto comma dell'art. 5 della l. n. 898/70, con particolare riferimento all'errata considerazione dei redditi propri e dell'assenza di valutazione comparativa dei medesimi elementi in capo all'ex marito, il quale, secondo la stessa godeva di un reddito 16 volte superiore e di un patrimonio ben più cospicuo rispetto alla sua modestissima condizione reddituale. Ma la S.C. non è dello stesso avviso e respinge il ricorso. Secondo gli Ermellini, infatti, la Corte d'Appello ha correttamente tenuto conto degli indici "reputati rilevanti tra quelli indicati nell'art. 5 comma sesto della l. n. 898 del 1970, non essendo tenuta a ripercorrerli analiticamente tutti. In particolare ha considerato prevalenti sugli altri il criterio della durata, molto breve, del matrimonio e sull'autonomo lungo percorso di vita vissuto da ciascuna delle parti prima del divorzio". Le dedotte ragioni del "disfacimento della comunità familiare - ha continuato, infatti, la Corte - a fronte di una così lunga fase separativa sono state ritenute recessive ai fini della determinazione in concreto dell'assegno divorzile secondo una graduazione che, ove sostenuta da motivazione complessivamente esauriente ed adeguata (come nella specie) risulta incensurabile". Sulla base dei predetti rilievi, pertanto, ha respinto il ricorso. Concorso per 400 Giudici ausiliari di Corte Di Appello. Possono partecipare anche avvocati e magistrati onorari La Nella Gazzetta Ufficiale del 9/9/2014 n. 70, serie speciale concorsi ed esami (v PDF qui sotto allegato), è stato pubblicato il bando di concorso per 400 Giudici ausiliari di corte di Appello. Con il Decreto del 21/7/2014, il Ministero della Giustizia, ha voluto, in questo modo incrementare l'organico della magistratura per offrire un ausilio concreto allo smaltimento degli arretrati. I destinatari del bando sono non soltanto i giudici ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati dello Stato ma altresì i magistrati onorari che non esercitano più le proprie funzioni giudicanti, i quali abbiano, però, alle spalle, una valutazione positiva della propria attività per almeno cinque anni. Ulteriori destinatari sono: i professori universitari in materie giuridiche di prima e seconda fascia, i ricercatori universitari in materie giuridiche, gli avvocati e i notai. Sono ventisei le Corti D'appello interessate dal bando: Ancona, Bologna, Trento, Brescia, Cagliari, Campobasso, Lecce, Caltanissetta, Catania, Bari, Catanzaro, Firenze, Genova, Milano, Potenza, L'aquila, Napoli, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Perugia, Trieste e Venezia. Il modulo per la presentazione della domanda è rinvenibile on line sul sito del Consiglio superiore della Magistratura www.csm.it e sarà disponibile dalla data di pubblicazione in G.U. del bando fino alla sua data di scadenza. Il numero di identificazione della domanda rilasciato dal sistema a seguito della registrazione on line va conservato per poter accedere successivamente alla propria domanda per poterla modificare o revocarla. Come da Decreto del 21 Luglio 2014, le informazioni di cui alle diverse fasi della procedura selettiva, comprensive del punteggio riportato, nonché della graduatoria provvisoria e definitiva, potranno essere consultate sul sito web www.csm.it Cassazione: matrimonio di breve durata e assegno di mantenimento. Ecco il testo della sentenza e i precedenti giurisprudenziali Corte di Cassazione civile, sezione sesta, ordinanza n. 18722 del 4 Settembre 2014. Al termine del procedimento di divorzio, il giudice può legittimamente riconoscere alla ex moglie che guadagna 16 volte meno del marito un assegno di mantenimento di soli 200 euro mensili. Lo chiarisce la Corte di Cassazione facendo notare come nel caso di specie il giudice del merito ha tenuto conto non solo del livello di vita del coniuge benestante, ma anche della breve durata del vincolo coniugale, di fatto di soli due anni. Nella sentenza si fa notare come al fine di determinare l'obbligo e l'entità dell'assegno di mantenimento, il giudice di merito ha a disposizione i criteri elencati all'art. 5, comma sesto, della legge 898/1970 (legge sulla separazione e divorzio; ad esempio, le condizioni dei coniugi, la ragione della decisione di rottura, il reddito di entrambi e la durata del matrimonio). Nel fondare la propria decisione egli deve congruamente motivare le ragioni della scelta. Circostanza che nel caso in esame è stata rispettata dalla Corte d'appello, la quale ha correttamente interpretato la norma di cui sopra dando prevalenza all'esigua durata del vincolo e "sull'autonomo lungo percorso di vita vissuto da ciascuna delle parti prima del divorzio". Tale operazione, se compiutamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. In prevalenza degli altri requisiti sopra elencati, la sola circostanza della modestia del reddito di uno dei due coniugi non è di per sé sufficiente a fondare le ragioni della ricorrente, la quale si è vista rigettare il ricorso. Ecco alcuni precedenti della Corte di Cassazione in relazoine allabreve durata del matrimonio. Subito sotto, il testo integrale della sentenza in commento. Cassazione sentenza 3398/2014 Ai fini del riconoscimento del diritto all'assegno divorzile il giudice deve limitarsi a valutare se i mezzi di cui dispone il coniuge richiedente siano adeguati e sufficienti alla conservazione almeno tendenziale del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Ai soli fini della quantificazione e del contenimento dell'importo dell'assegno potranno essere valutati i criteri della durata del rapporto coniugale e delle ragioni della decisione. Cassazione civile 23378/2004 Alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all'assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti. Al più, alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura dell'assegno di mantenimento. Cassazione sentenza 25174/2011 La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuato, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale, anche ponderando ulteriori elementi funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio ed il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il "de cuius" gli aveva assicurato in vita.