Cassazione: giudice può stabilire un "minimo vitale" impignorabile

Cassazione: giudice può stabilire un "minimo vitale" impignorabile
più alto rispetto alla pensione minima
Sulla base del rilievo che non ci sono parametri normativi specifici che consentono di determinazione il
c.d. minimo vitale impignorabile, il giudice dell'esecuzione può, "in considerazione degli elementi
concreti del caso (e non dovendo necessariamente fare riferimento all'importo di trattamento minimo di
pensione indicato dallo stesso ente erogatore), pervenire all'individuazione dell'importo maggiormente
adeguato" ad assicurare a chi subisce il pignoramento mezzi di vita".
Lo ha affermato la terza sezione civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 18225 depositata il
26 agosto 2014, in una fattispecie avente ad oggetto l'opposizione, da parte dell'impresa creditrice,
all'ordinanza di assegnazione del credito pignorato nei confronti di un pensionato.
Denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 38 l. n. 448/2001 e 39 l. n. 289/2002, in
particolare, il titolare dell'impresa ricorrente si doleva dell'erronea valutazione da parte del giudice
dell'ammontare della quota di pensione impignorabile nella somma di euro 536,00 anziché in euro
427,58, come indicato dall'ente erogatore (Inps) per l'anno 2006.
Per i giudici di piazza Cavour il motivo è infondato. Ripercorrendo l'orientamento consolidato sulla
impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici (cfr. Corte Cost. n. 506/2002), la S.C. ha
affermato che la stessa è posta "a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire
al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.)", finalità ancora più marcata
dopo l'entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che mira ad "assicurare
un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti" (art. 34, comma 3).
Pertanto, ha ribadito la Corte, è assolutamente impignorabile "la parte della pensione, assegno o
indennità necessaria per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita (c.d. minimo
vitale), mentre ex art. 545, 4 co., c.p.c. è pignorabile, nei soli limiti del quinto, la parte residua". E
l'indagine circa la sussistenza o l'entità della parte di pensione necessaria, in difetto di interventi del
legislatore al riguardo, è rimessa, ha precisato la Corte, "alla valutazione in fatto del giudice
dell'esecuzione, incensurabile in Cassazione se logicamente e congruamente motivata". Per cui
ritenendo conforme ai principi espressi, la valutazione del giudice dell'esecuzione, nel ritenere
maggiormente adeguato anche in considerazione del costo della vita un importo maggiore rispetto a
quello indicato dall'Inps, la Corte ha rigettato il ricorso.
Diritto del padre lavoratore a fruire dei riposi giornalieri durante il
primo anno di vita del bambino: ultima pronuncia del Consiglio di
Stato
L' art. 40 del T.U. 151/2001 riposi giornalieri del padre, contempla i casi in cui i periodi di riposo, a
carico del datore di lavoro, previsti dall' art. 39 per le lavoratrici madri, durante il primo anno di vita
del bambino, sono riconosciuti al padre lavoratore: "a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre
non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre".
La norma, che sembrerebbe scontata e di facile lettura, non viene applicata, ancora oggi,
uniformemente sia dalla Pubblica Amministrazione sia dal Giudice Amministrativo.
Non solleva particolari problemi interpretativi il riconoscimento del diritto nelle prime due ipotesi.
Rimangono, invece, tuttora controverse, a causa di contrasti all' interno della stessa magistratura
amministrativa, le condizioni di applicabilità della disposizione di cui alla lett. c) dell'art. 40, in forza
della quale nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, il padre lavoratore ha diritto a
fruire di due permessi orari, anche cumulabili, nel corso della giornata lavorativa.
Fuori discussione l'attribuzione del beneficio al padre, qualora la madre sia lavoratrice autonoma, in
quanto avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell'Inps o di altro ente
previdenziale.
Si discute invece, ancora, sulla legittimità dell' estensione del beneficio al padre lavoratore dipendente,
qualora la madre versi nella condizione di casalinga.
Sulla significato della norma, all' interno della magistratura amministrativa (naturalmente per i rapporti
di lavoro sottoposti alla sua giurisdizione esclusiva) si confrontano due opposti orientamenti, che
postulano due diverse qualificazioni della madre lavoratrice non dipendente.
La prima opzione, identifica la madre lavoratrice "non dipendente" con la lavoratrice autonoma (quindi
avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell'Inps o di altro ente
previdenziale).Ne consegue la non riconoscibilità del diritto al padre lavoratore quando la moglie versi
nella condizione di "casalinga"
La seconda soluzione intende la condizione di "lavoratrice non dipendente" nel senso più ampio
possibile, comprendendovi anche il lavoro casalingo.
Da qui, la conclusione della equiparabilità della figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non
dipendenti, con il risultato sostanziale di configurare una sorta di diritto originario del padre lavoratore
subordinato a beneficiare dei riposi giornalieri, indipendentemente dalla condizione lavorativa della
madre.
I contrasti sono presenti all' interno dello stesso Consiglio di Stato
La posizione (per così dire) estensiva è stata fatta propria dal Consiglio di Stato, con la decisione della
Sesta Sezione n. 4293 del 9 settembre 2008, sulla base delle seguenti motivazioni:
"... la nozione di lavoratore assume diversi significati nell'ordinamento, in particolare nelle materie
privatistiche ed in quelle pubblicistiche, ed è a quest'ultimo che occorre fare riferimento, trattandosi di
una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità, in attuazione delle finalità generali,
di tipo promozionale, scolpite dall'art. 31 della Costituzione.
In tale prospettiva, essendo noto che numerosi settori dell'ordinamento considerano la figura della
casalinga come lavoratrice, non può che valorizzarsi la ratio della norma, volta a beneficiare il padre di
permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non
dipendente e pur tuttavia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato".
Diametralmente opposta la posizione assunta dal Consiglio di Stato, in sede consultiva.
La Prima Sezione,
nel parere n. 6351 del 22 ottobre 2009, ha enunciato ... il principio di
"alternatività nel godimento del beneficio", poiché le ipotesi contemplate dall'art. 40 del d.lgs. n.
151/2001 hanno tutte per presupposto che "la madre non possa o non voglia, per ragioni giuridiche,
fisiche o per scelta, provvedere, usufruendo dei riposi giornalieri nel primo anno di vita, alla cura del
minore".
Nel parere è stata criticata anche l'equiparazione, ai fini dell' attribuzione del beneficio al padre, della
figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non dipendenti, in quanto desunta da arresti del
giudice civile unicamente tesi ad affermare che "lo svolgimento di attività domestiche nell'ambito del
nucleo familiare configura un'attività lavorativa la quale, pur non producendo un reddito monetizzato, è
tuttavia suscettibile di valutazione economic".
Tali considerazioni, secondo il parere citato, non valgono ad inficiare il principio di alternatività posto a
fondamento dell'istituto, né il dato di fatto che, nel caso della lavoratrice casalinga, implica
un'autonomia di gestione delle proprie incombenze tale da consentire "evidentemente alla madre di
dedicare l'equivalente delle due ore di riposo giornaliero alle cure parentali".
Il caso all' esame della Terza sezione del Consiglio di Stato.
Il TAR della Liguria, Sezione Seconda, nella sentenza N. 00222/2014, aveva respinto il ricorso,
presentato da un assistente della Polizia di Stato, contro il provvedimento del Questore, che gli aveva
negato il diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all' art. 40 del TU n. 151/2001.
L' amministrazione aveva motivato il provvedimento "con il fatto che la moglie dell'istante è nella
condizione di casalinga, mentre le ipotesi contemplate dall'art. 40 comma 1 lettera c del D. Lgs.
151/2001 prevedono la fruizione dei riposi da parte del padre, nel caso di rinuncia della madre
lavoratrice".
Il TAR respingeva il ricorso ritenendo che "essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di
garantire al figlio, entro l'anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata,
nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente". Ed inoltre
"il precipuo interesse del minore ad essere seguito da uno dei genitori, risulta sufficientemente
garantito nel caso in cui uno di essi (normalmente la madre) svolga solamente attività domestica, in
virtù della vicinanza fisica consentita dalla natura di tale impegno lavorativo e della possibilità di
organizzare il tempo dedicato al lavoro in modo da riservare uno spazio adeguato per le esigenze di
cura del bambino nel primo anno di vita, condizioni che sono naturalmente precluse alle lavoratrici
subordinate e autonome"
In questo contesto "non rileva, pertanto, l'incontestabile pari dignità del lavoro domestico rispetto a
quello retribuito né l'equiparazione affermata dal giudice civile a fini giuridici del tutto diversi, bensì
l'oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività
di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico".
Contro la decisione del TAR l' assistente di polizia ha presentato appello al Consiglio di Stato, che ha
pronunciato, in senso estensivo, l' ultima parola sull' istituto (di cui ovviamente, d'ora in avanti, sia la
Pubblica Amministrazione che i Tribunali Amministrativi dovranno tener conto).
Il ricorso è stato, infatti, accolto e la Sezione Terza, sentenza n. 04618/201 del 10 settembre 2014,
ha riconosciuto al padre il diritto ai riposi giornalieri, pur essendo la madre del bambino in condizione
di casalinga. Nelle motivazioni della decisione viene richiamato l' orientamento maggioritario della
Giurisprudenza Amministrativa secondo cui, anche a questo fine, si ha una piena assimilazione della
lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente.
Secondo il Giudice di Appello non vie alcun dubbio che "... alla luce del principio espresso nella
sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 (che, esaminando la medesima problematica oggetto di
causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice
autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice
casalinga alla lavoratrice non dipendente) l'opposto diniego si riveli illegittimo".
"Ha rilevato infatti tale pronuncia che, la disposizione di cui all' art. 40 comma 1 lettera c, essendo
rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo
promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione,
la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre
non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività ( nella
fattispecie, quella di "casalinga" ), che la distolgano dalla cura del neonato".
Ma anche altri motivi hanno indotto la Sezione Terza ad aderire all' orientamento cosiddetto estensivo.
Innanzitutto la "non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al
padre, "nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente". Tale formulazione, secondo il
significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro
dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di
una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un'attività non retribuita da
terzi (se a quest'ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il
legislatore avesse usato la formula "nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente". La
tecnica di redazione dell'art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il
beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia
volutamente tassativa".
E poi dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica
partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici
nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.
Gerolamo Taras
Cassazione: viola la privacy il comune che non utilizza il plico chiuso
per notificare la sanzione "particolare"
Corte di Cassazione civile, sezione sesta, sentenza n. 18812 del 5 Settembre 2014.
Se il Comune non assume i dovuti accorgimenti, è tenuto a risarcire il danno per violazione del diritto
alla privacy del destinatario di provvedimento sanzionatorio inerente violazione amministrativa legata al
fenomeno della prostituzione, nel caso in cui la notifica avvenga non in plico sigillato. E' quanto ha
confermato la Suprema corte avallando la decisione del giudice del merito, dichiarando in parte
inammissibile il ricorso proposto da un Comune italiano.
L'ordinanza ingiunzione, dopo un primo tentativo (fallito) di notifica a mezzo servizio postale presso il
domicilio eletto dal resistente, era stata affidata per la notifica ai messi comunali, i quali provvedevano
alla stessa a mezzo plico, non in busta chiusa, alla residenza del destinatario, dunque a mani alla
madre dello stesso.
Il destinatario della sanzione lamentava che sua madre era venuta in questo modo a conoscenza della
vicenda.
Ma c'è di più. L'uomo si trovava in una particolare dato che era in corso una causa di separazione e
la conoscenza da parte di terzi di una simile sanzione sarebbe stata idonea a provocargli serio
pregiudizio.
La Suprema corte, pur disconoscendo l'esistenza di un vero e proprio obbligo a carico della pubblica
amministrazione di procedere in ogni caso alla notifica presso il domicilio eletto dal destinatario - e
non, come nel caso di specie, eseguirla presso la residenza - fa riferimento ai principi generali di
trasparenza, lealtà e imparzialità della pubblica amministrazione, data l'evidente manifestazione di
preferenza del destinatario ad interloquire con l'ente pubblico in modalità particolare.
La Cassazione conferma come sia applicabile al caso di specie l'art. 15 del d. lgs. 196/2003 (codice
privacy) il quale afferma che "sussiste responsabilità per i danni cagionati per effetto del trattamento
illegittimo dei dati personali ai sensi dell'art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla
responsabilità per l'esercizio di attività pericolose". In questo senso, la pubblica amministrazione
procedente avrebbe potuto sottrarsi all'obbligo risarcitorio solo provando di avere adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno; circostanza non dimostrata in grado di merito.
Nella specie, il Comune avrebbe dovuto provare di non aver potuto ricorrere a nessun'altra forma di
notifica, che, "seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente
rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati
sensibili, ricollegabile alla propagazione del contenuto dell'oggetto della violazione sanzionata con
l'ordinanza ingiunzione". Di conseguenza, il comportamento dell'ente comunale "non si è affatto
concretato nell'aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell'art. 2050 c.c. Ciò,
per l'assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati
personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione
contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell'art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di
ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto".
Cassazione: neppure la legge può legalizzare l'illegale. No a ingerenze
della P.A. nella proprietà privata
La legalizzazione dell'illegale non è consentita neppure ad una norma di legge né tanto meno ad un
provvedimento amministrativo di essa attuativo. La statuizione della suprema Corte di Cassazione.
SOMMARIO: 1. Il fatto. 2. L'evoluzione giuridica della disciplina espropriativa. 3. La natura giuridica
del bene espropriato. 4. Il procedimento espropriativo nel d.p.r. n. 327/2001. 5. L'indennità di
espropriazione prevista nel T.U. n. 327/2001. 6. L'ordinanza delle SS.UU. della Suprema Corte di
Cassazione n. 442/2014.
1. Il fatto: Una persona fisica chiede al TAR Puglia la condanna del Comune di Porto Cesareo (LE)
alla restituzione di alcuni terreni di sua proprietà che sono stati occupati senza titolo da detta
amministrazione, per l'inutile decorso del tempo che comporta la scadenza della dichiarazione di
pubblica utilità che li aveva destinati alla realizzazione di strade, parchi e parcheggio.
Con sentenza del 25 giugno 2010, il TAR ordina al Comune l'adozione del provvedimento acquisitivo
delle aree, ai sensi dell'allora vigente art. 43, del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, Testo unico sulle
espropriazioni per pubblica utilità, dichiarato costituzionalmente illegittimo, con sentenza della Corte
Costituzionale n. 293/2010; fatto per cui la persona fisica interessata adisce il TAR Puglia per
ottenerne la restituzione ed il risarcimento del danno.
Poiché nelle more è stato introdotto nello stesso T.U. l'art. 42-bis, attraverso la L. n. 15 luglio 2011, n.
111, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante
disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, il Comune, con provvedimento del 19 ottobre
2011, la p.a. dispone l'acquisizione dei terreni al suo patrimonio e liquida al proprietario l'indennizzo di
cui alla nuova norma; ed avendo il soggetto interessato, con motivi aggiunti, richiesto anche la
rideterminazione dell'indennizzo in base al valore venale attuale dei beni, propone regolamento di
giurisdizione chiedendo alla Corte di Cassazione che la stessa sia attribuita al giudice ordinario.
Per deciderne l'attribuzione della questione al giudice ordinario è necessario, a parere della Suprema
Corte, preventivamente valutare se la nuova "acquisizione sanante", introdotta dall'art. 42-bis, sia
esente da dubbi di costituzionalità e compatibilità con la Convenzione CEDU, in ragione
dell'attribuzione all'amministrazione del potere espropriativo, nonché di quello di trasformare il diritto
restitutorio/risarcitorio del proprietario in diritto al mero indennizzo, devoluto dapprima dalla L. n.
205/2000, art. 7; dalla L. n. 104 del 2010, art. 133 sub e n. 2, lett. g, alla giurisdizione ordinaria.
Ciò premesso, la Corte di Cassazione, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, conv. con mod. dalla L. 15 luglio 2011,
n. 111, che ha introdotto l'art. 42-bis nel d.p.r. n. 327/2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, 42 e 97
Cost.; nonché art. 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1°
prot. add. della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva
con L. 4 agosto 1955, n. 848 e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il giudizio.
L'intervento della Suprema Corte si è reso necessario in quanto, negli ultimi anni, la Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo (CEDU) è più volte intervenuta sul regime legale nazionale delle espropriazioni,
condannando svariate volte l'Italia anche riguardo ai criteri indennitari previsti dalla legge,per ristorare il
privato della perdita del bene della vita, subito a causa della patita espropriazione del terreno.
2. L'evoluzione giuridica della disciplina espropriativa: In senso estensivo, l'espropriazione è un istituto
attraverso il quale un soggetto viene privato della proprietà o altro diritto reale, concernente un
particolare bene per pubblico interesse, posto in essere in base alla legge.
Secondo autorevole dottrina (BONCOMPAGNI M.R., TANGARI C., in GAROFOLI R., FERRARI G.,
Manuale di diritto amministrativo, Roma, NEL DIRITTO, 2009, p. 1035) «l'espropriazione per pubblica
utilità è il provvedimento con cui l'autorità - seguendo un procedimento disciplinato dalla legge acquisisce beni di proprietà privata per motivi di pubblico interesse, previa corresponsione di un equo
indennizzo».
Già lo Statuto Albertino stabiliva all'art. 29 che «tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono
inviolabili. Tuttavia, quando l'interesse legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cedere in
tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi».
L'espropriazione per pubblica utilità nel nostro Paese è stata regolata dapprima dalla L. 25 giugno
1865,n. 2359, Espropriazione per causa di pubblica utilità (poi modificata dalla L. n. 5188/1879), la
quale aveva disposto che l'espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per
l'esecuzione di opere di pubblica utilità non poteva aver luogo che con l'osservanza delle forme
stabilite dalla succitata legge.
In seguito, con la L. 15 gennaio 1885, n. 2892, concernente il risanamento di Napoli, sono dichiarate
di pubblica utilità tutte le opere necessarie al risanamento della Città di Napoli, in base al piano
proposto dal Municipio che verrà approvato con Regio Decreto.
Con l'art. 13, comma 4, della L. n. 2892/1885 «l'indennità dovuta ai proprietari degli immobili
espropriati sarà determinata sulla media del valore venale [valore di mercato] e dei fitti coacervati
dell'ultimo decennio ... [per fitti coacervati dell'ultimo decennio, di data certa, si intende la somma
aritmetica dei canoni riscossi dai proprietari, anno per anno, nel decennio precedente l'entrata in vigore
della legge; se anche uno solo dei canoni risulta indeterminato, alla somma dei canoni si sostituisce la
somma degli imponibili degli ultimi dieci anni]».
Di seguito
è intervenuta la L. 22 ottobre 1971, n. 865, Programmi e coordinamento dell'edilizia
residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle
leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di
spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata; mentre
il codice civile, nel prevedere all'art. 832 che «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose
in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento
giuridico», dispone all'art. 834, che «nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua
proprietà se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata e contro il pagamento di una
giusta indennità [e che] le norme relative all'espropriazione per causa di pubblico interesse sono
determinate da leggi speciali».
La Costituzione valorizza l'aspetto economico della proprietà, superando il carattere d'inviolabilità di
quest'ultima ed enuncia, all'art. 42, commi 2 e 3, il principio che «la proprietà privata è riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei
casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale».
Il primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà
Fondamentali, sottoscritto a Parigi, 20 marzo 1952, all'art. 1, rubricato Protezione della proprietà,
dispone che «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere
privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e
dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al
diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in
modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o
delle ammende».
Successivamente interviene la L. 22 ottobre 1971, n. 865, Programmi e coordinamento dell'edilizia
residenziale pubblica; norme sull'espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi
17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di
spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata (poi
integrata dalla L. n. 10/1977), la quale, all'art. 16, stabilisce che «l'indennità di espropriazione, per le
aree esterne ai centri edificati di cui all'articolo 18, è commisurata al valore agricolo medio di cui al
comma precedente corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare.
Nelle aree comprese nei centri edificati l'indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura
più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l'area da espropriare, coprono una
superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa.
Tale valore è moltiplicato per un coefficiente:
- da 2 a 5 se l'area ricade nel territorio di Comuni fino a 100 mila abitanti;
- da 4 a 10 se l'area ricade nel territorio di Comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti».
La Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, all'art. 17, rubricato Diritto di proprietà, al
comma 1, prevede che «ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito
legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della
proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il
pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L'uso dei beni può essere
regolato dalla legge nei limiti imposti dall'interesse generale».
Nella suddetta Carta dei Diritti Fondamentali, non si fa richiamo alla funzione sociale della proprietà, a
differenza della previsione dell'art. 42 Cost.; ma ci si sofferma sui diritti del proprietario che possono
essere affievoliti solo per causa di pubblico interesse e contro il pagamento «in tempo utile» di una
«giusta indennità» per la perdita della stessa.
L'espropriazione è inquadrabile nel novero dei provvedimenti ablatori reali, attraverso i quali la p.a.
agisce nei confronti del privato, operando un azzeramento del diritto di proprietà che trasla in capo alla
p.a. medesima, costituendosi in capo al soggetto espropriato un diritto di credito, consistente in un
indennizzo per l'effetto privativo susseguente alla subita espropriazione del bene.
3. La natura giuridica del bene espropriato: Qual è la natura dell'effetto traslativo che pone in essere il
provvedimento di espropriazione per pubblica utilità?
Si confrontano due teorie a tal proposito; la prima che ritiene che l'espropriazione faccia parte dei modi
di acquisto della proprietà a titolo originario; la seconda che sposa l'opzione dell'acquisto a titolo
derivativo.
I sostenitori della prima teoria sono dell'avviso che il bene acquisito tramite espropriazione entri a far
parte dei beni della p.a. libero da qualsiasi vincolo, per il fatto che nessun peso assume la volontà
dell'espropriato.
Coloro che propendono per la seconda teoria (acquisto a titolo derivato della proprietà), ritengono che
l'acquisizione del bene espropriato è la conseguenza del provvedimento coattivo del trasferimento del
bene de quo che consegue all'espropriazione.
4. Il procedimento espropriativo nel d.p.r. n. 327/2001: Il d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327 detta la
disciplina della procedura espropriativa anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad
immobili per l'esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità.
I procedimenti previsti dal suddetto T.U. si ispirano ai principi di economicità, di efficacia, di efficienza,
di pubblicità e di semplificazione dell'azione amministrativa e assegnano notevole centralità al principio
di legalità, tant'è che «l'espropriazione dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili di cui all'articolo
1 può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti».
Ai sensi dell'art. 8, il decreto di esproprio può essere emanato qualora:
a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed
efficacia equivalente e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio;
b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità;
c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio.
Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione
del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un'opera
pubblica o di pubblica utilità.
Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni; entro tale termine, può essere emanato
il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, la quale se non è
tempestivamente dichiarata, il vincolo preordinato all'esproprio decade e trova applicazione la disciplina
dettata dall'articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, e
tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.
Nel corso dei cinque anni di durata del vincolo preordinato all'esproprio, il Consiglio comunale può
motivatamente disporre che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità
anche differenti da quelle originariamente previste nel piano urbanistico generale, nel quale caso, se la
Regione o l'ente da questa delegato all'approvazione del piano urbanistico regionale non manifesta il
proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del
Consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione
del Consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l'efficacia.
Una volta che sia divenuto efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità, entro i successivi trenta giorni,
il promotore dell'espropriazione compila l'elenco dei beni da espropriare, con una descrizione
sommaria e dei relativi proprietari ed indica le somme che offre per le loro espropriazioni, notificando
l'elenco a ciascun proprietario, nella parte che lo riguarda; mentre gli interessati nei successivi trenta
giorni possono presentare osservazioni scritte e depositare documenti.
Tale fase sub-procedimentale che implica un contraddittorio tra le parti interessate, può condurre alla
cessione volontaria del bene.
Il decreto di esproprio, così come previsto dall'art. 23, è emanato entro il termine di scadenza
dell'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità; indica quale sia l'indennità determinata in via
provvisoria o urgente e precisa se essa sia stata accettata dal proprietario o successivamente
corrisposta, ovvero se essa sia stata depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti; indica quale sia
l'indennità determinata in via provvisoria o urgente e precisa se essa sia stata accettata dal
proprietario o successivamente corrisposta, ovvero se essa sia stata depositata presso la Cassa
Depositi e Prestiti; dispone il passaggio del diritto di proprietà o del diritto oggetto dell'espropriazione,
sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito; è
notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili, con un avviso contenente l'indicazione
del luogo, del giorno e dell'ora in cui è prevista l'esecuzione del decreto di espropriazione, almeno
sette giorni prima di essa; è eseguito mediante l'immissione in possesso del beneficiario dell'esproprio,
con la redazione di apposito verbale.
5. L'indennità di espropriazione prevista nel T.U. n. 327/2001: Ad iniziare dal 1865 e per finire ai
nostri giorni, la disciplina espropriativa ha subito varie vicissitudini che hanno visto la mutevole
definizione del valore del bene espropriato; solo a titolo di esempio, si evidenzia che si è passati dal
criterio del valore venale al criterio del valore agricolo (L. n. 2359/1865; L. n. 865/1971); dal criterio
della media tra il valore venale ed il reddito dominicale rivalutato all'indennità riferita al valore del bene
dichiarato ai fini dell'ICI (L. 359/1992; d.lgs. n. 504/1992); per giungere alla definizione dell'indennità
d'espropriazione nei modi previsti dal d.p.r. n. 327/2001.
Nel T.U. sull'espropriazioni per pubblica utilità, vi sono quattro categorie di aree interessate dal d.p.r.
n. 327/2001 e diverse modalità di determinazione dell'indennità in caso di esproprio.
L'art. 37 del T.U. in esame attiene alla determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area
edificabile; l'indennità di espropriazione di un'area edificabile è determinata nella misura pari al valore
venale del bene, mentre quando l'espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma
economico-sociale, l'indennità è ridotta del 25 per cento.
Nei casi in cui è stato concluso l'accordo di cessione o quando esso non è stato concluso per fatto
non imputabile all'espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un'indennità provvisoria che,
attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l'indennità è
aumentata del 10 per cento.
Inoltre l'indennità è ridotta ad un importo pari al valore indicato nell'ultima dichiarazione o denuncia
presentata dall'espropriato ai fini dell'imposta comunale sugli immobili prima della determinazione
formale dell'indennità, qualora il valore dichiarato risulti contrastante con la normativa vigente ed
inferiore all'indennità di espropriazione come determinata in base ai commi precedenti.
Ai sensi dell'art. 38 T.U. espropri, la determinazione dell'indennità, nel caso di esproprio di un'area
legittimamente edificata, è pari al valore venale del bene oggetto d'espropriazione; mentre qualora la
costruzione ovvero parte di essa sia stata realizzata in assenza della concessione edilizia o della
autorizzazione paesistica, ovvero in difformità, l'indennità è calcolata tenendo conto della sola area di
sedime in base all'articolo 37 ovvero tenendo conto della sola parte della costruzione realizzata
legittimamente.
Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al criterio
del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza
valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da quella agricola; se l'area non è effettivamente
coltivata, l'indennità è commisurata al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente
nella zona ed al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati. Al proprietario coltivatore diretto o
imprenditore agricolo a titolo principale spetta un'indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al
valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata
6. L'ordinanza delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione n. 442/2014: Si ribadisce il fatto
oggetto della suddetta ordinanza e consistente nella richiesta da parte di un privato al TAR Puglia
della condanna del Comune di Porto Cesareo alla restituzione di alcuni terreni di sua proprietà,
occupati senza titolo da detta amministrazione, poiché era scaduta la dichiarazione di pubblica utilità
che li aveva destinati alla realizzazione di strade, parchi e parcheggio.
La vicenda richiama la legittimità costituzionale dell'acquisizione sanante, prevista dall'art. 42-bis del
d.p.r. n. 327/2001.
Al fine di meglio comprendere il senso dell'ordinanza della Suprema Corte n. 442/2014, occorre
partire dall'istituto dell'occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione, prevista dall'art. 22-bis del
T.U. sull'espropriazioni, il cui fine è quello di permettere che si possa, in modo del tutto legittimo,
addivenire allo spossessamento del bene de quo a beneficio della p.a. interessata alla procedura
espropriativa, nell'attesa dell'emanazione del provvedimento di espropriazione.
Qualora l'avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza può essere emanato, senza particolari
indagini e formalità, decreto motivato che determina in via provvisoria l'indennità di espropriazione;
dispone anche l'occupazione anticipata dei beni immobili necessari; contiene l'elenco dei beni da
espropriare e dei relativi proprietari; indica i beni da occupare e determina l'indennità da offrire in via
provvisoria.
Ad avviso della Cassazione civile (Sez. Unite, Sentenza n. 10362 del 6 maggio 2009), l'occupazione
temporanea preordinata all'espropriazione, è finalizzata a consentire alla p.a. di conseguire l'anticipata
immissione in possesso dell'area sulla quale deve essere realizzata l'opera pubblica dichiarata urgente
ed indifferibile, per dare inizio ai lavori ed evitare di dover attendere che il procedimento espropriativo
giunga alla sua naturale conclusione con la pronuncia del provvedimento ablativo.
Secondo la giurisprudenza (TAR Venezia, Sez. I, 12 novembre 2007, n. 3608), la p.a. non può
utilizzare l'istituto dell'occupazione d'urgenza, per un fine ben diverso da quello ivi previsto nell'art. 22bis del T.U.;
«la funzione di tale istituto si identifica, infungibilmente, nel consentire il legittimo
spossessamento dell'immobile a favore dell'Amministrazione procedente nelle more dell'adozione del
provvedimento di esproprio, con la conseguenza che quest'ultima non può avvalersi dell'istituto
medesimo per sanare un'occupazione abusiva già intervenuta.
In tale evenienza - per contro - l'effetto sanante perseguito dall'Amministrazione Comunale può
discendere soltanto dal ben diverso procedimento contemplato dall'art. 43 del medesimo T.U.
approvato con d.p.r. n. 327 del 2001, intitolato Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di
interesse pubblico ed in forza del quale - infatti - l'Autorità che utilizza un bene immobile per scopi di
interesse pubblico modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, valutati gli interessi in conflitto, può disporre che l'immobile medesimo
vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni.
L'atto di acquisizione può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all'esproprio o l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto
di esproprio.
Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 dell'art. 43 ovvero sia esercitata
una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la p.a.
procedente o chi utilizza il bene, può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del
ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della
restituzione del bene senza limiti di tempo; qualora il giudice amministrativo abbia escluso la
restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia disposto la condanna al risarcimento del danno,
l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto
risarcimento del danno. Il poi decreto è trascritto nei registri immobiliari, a cura e spese della
medesima autorità. Il risarcimento del danno è determinato:
a)
nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4,
5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato
senza titolo.
Possono però insorgere vistosi problemi allorquando la p.a. espropriante non dovesse emanare il
decreto di esproprio nei tempi previsti dalla legge e dovesse trasformare, comunque, anche se del
tutto illegittimamente, la proprietà occupata, dando inizio ai lavori o persino completando l'opera
pubblica già iniziata.
Come si è visto supra, la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, all'art. 17, comma 1,
prevede che «nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico
interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta
indennità per la perdita della stessa».
Ciò detto ed esclusa in chiave europea la figura dell'espropriazione di fatto o sostanziale, mancando
un valido titolo giuridico, è stata disciplinata con l'art. 43 del T.U. dell'espropriazione, la cd.
acquisizione sanante, tramite la quale alla p.a. è attribuito il potere discrezionale di acquisire, con
apposito provvedimento in sanatoria, la proprietà delle aree occupate sine titulo; acquisizione sanante
che sostituisce nell'ordinamento l'acquisizione acquisitiva e l'acquisizione usurpativa.
L'acquisizione acquisitiva è categoria giurisprudenziale, in base alla quale la p.a. che per realizzare
un'opera pubblica occupa un area privata in maniera del tutto illegittima, mancando dall'inizio del
provvedimento autorizzatorio o essendo decorsi i termini di efficacia dello stesso, acquista in modo
originario la proprietà del bene a seguito dell'irreversibile trasformazione del suolo.
Ad avviso della giurisprudenza, la costruzione dell'opera pubblica produce un effetto estintivo del diritto
di proprietà sul suolo privato illecitamente occupato e comporta il diritto per il soggetto spogliato, di
ottenere il solo risarcimento pecuniario del danno e la perdita della titolarità del diritto di proprietà del
fondo in capo al privato.
L'occupazione acquisitiva è stata teorizzata dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.
1464/1983, attraverso la quale i giudici ritengono che nelle ipotesi in cui la p.a. (o un suo
concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale
occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei
termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo,
con l'irreversibile sua destinazione, al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione
del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo
all'ente costruttore ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che
abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione
del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita
del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel
momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al
giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo
per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di
rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito.
L'occupazione usurpativa, invece, è un istituto creato dalla giurisprudenza che si ha qualora la p.a.
proceda all'occupazione di un area per realizzare un'opera pubblica mancando della dichiarazione di
pubblica utilità; allorquando sia stata comunque dichiarata la pubblica utilità dell'opera da realizzare e
tale dichiarazione sia stata successivamente annullata; nel caso sia diventata inefficace la
dichiarazione di pubblica per inutile decorso del tempo.
In tali evenienze la p.a. concretizza un'attività materiale illecita permanente, verificandosi, al contempo,
una situazione in cui è evidente la carenza di potere da parte della p.a. procedente, a causa del
mancato riconoscimento dell'utilità dell'opera da realizzare.
Si verifica con l'istituto in esame, un'azione del tutto illegale della p.a., a seguito della quale non si
produce l'effetto traslativo del bene, rimanendo in capo al proprietario originario l'opzione di scelta tra i
rimedi petitori e possessori posti in essere a difesa della proprietà privata e il rimedio risarcitorio, il
quale ultimo, se attivato, comporta l'implicita rinuncia al diritto di proprietà sul bene de quo.
La Corte Suprema di Cassazione elabora l'istituto dell'acquisizione usurpativa a decorrere dal 1997
(Sent. 16 luglio 1997, n. 1615) per discriminarla dall'occupazione acquisitiva.
Ad avviso dei giudici del TAR (Sez. V Napoli , 12 maggio 2014, n. 2607) «la c.d. "occupazione
usurpativa" (che è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo devoluta a quella del
giudice ordinario), ricorre nel caso in cui i comportamenti materiali della pubblica amministrazione,
relativi alla ablazione del bene, non siano riconducibili, neppure in via mediata ed indiretta, all'esercizio
di un pubblico potere (Corte Costituzionale n. 204/2004 e n. 191/2006; Cass. Civ., Sez. Un., 23
marzo 2009 n. 6956).
Ritornando all'occupazione sanante, occorre dire che con essa si legalizza l'espropriazione sostanziale
che è stata posta in essere, in mancanza di titolo che consente l'espropriazione di un bene.
L'art. 43 del T.U. sull'espropriazione, al comma 1, prevede l'acquisizione sanante per l'iniziativa diretta
della p.a.; l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in
assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i
danni. Il comma 3, enuncia un'altra fattispecie, nel caso in cui sia impugnato uno dei provvedimenti
indicati nei commi 1 e 2 ovvero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato
per scopi di interesse pubblico; in tale evenienza «l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza
il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda,
disponga [solo] la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene
senza limiti di tempo».
Ai sensi del comma 6, dell'art. 43, «il risarcimento del danno è determinato:
a)
nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4,
5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato
senza titolo».
La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in data 15 novembre 2005, ha statuito che il meccanismo
dell'espropriazione indiretta non è atto ad assicurare un grado sufficiente di sicurezza giuridica: infatti,
sia che operi in virtù di un principio giurisprudenziale sia che si fondi su di un testo di legge, come ad
es., l'art. 43 del T.U. sull'espropriazione per pubblica utilità, esso non può costituire una valida
alternativa ad un'espropriazione avvenuta secondo le forme prescritte, in quanto tende a ratificare una
situazione di fatto che consegue alle illegittimità commesse dalla p.a. e a regolare le conseguenze a
favore di questa.
La Corte Costituzionale, con sentenza 4-8 ottobre 2010, n. 293, ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 43 T.U. sull'espropriazione, a seguito dell'intervento del TAR per la Campania
che con tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, le prime due del 28 ottobre
2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009) con le
quali aveva sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 43 del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327.
Secondo la Corte Costituzionale «la norma censurata ha ad oggetto la disciplina dell'utilizzazione
senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e consente all'autorità che abbia utilizzato a
detti fini un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, di disporne l'acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l'obbligo
di risarcire i danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto dell'atto di
acquisizione, l'impugnazione del medesimo, la facoltà della pubblica amministrazione di chiedere che il
giudice amministrativo «disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della
restituzione del bene senza limiti di tempo», fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento del
danno ... l'applicazione della disciplina di cui al citato art. 43 determinerebbe l'improcedibilità dei
ricorsi in ottemperanza, in considerazione dell'atto formale di acquisizione sanante; nello stesso tempo,
i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero essere rigettati, perché il provvedimento oggetto
di impugnazione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto disegnato dall'intera disposizione,
nonostante, in questo caso, fosse già intervenuta una pronuncia di restituzione». Per questi motivi, il
giudice delle leggi dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 43 del d.p.r.8 giugno 2001, n. 327.
Dichiarata costituzionalmente illegittima, per eccesso di delega, dalla sentenza n. 293/2010,
l'acquisizione sanante è stata riproposta dall'art. 34 d.l. 6 luglio 2011 n. 98, conv. con mod. dalla
legge 15 luglio 2011, che ha inserito nel d.p.r. n. 327/2001 l'art. 42-bis, rubricato "utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico" che integralmente si riporta infra:
«1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale
del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui
sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il
decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza
di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se
l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già
erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle
dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al
comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di
pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni
dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno,
l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla
indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente
motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano
l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza
di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è
disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai
sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto
a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed
è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.
5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per
finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno
destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il
provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria
dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è
imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto
reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere
all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di
concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7.
L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo ne dà
comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in
vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo».
Ad avviso degli ermellini, con l'art. 42-bis è stata reintrodotta la possibilità per l'amministrazione che
utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al
proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al
proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U. n.
327/2001 e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, il quale
assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza
"uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma».
«La nuova soluzione è apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per eliminare la figura sorta nella
prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ... nonché quella dell'occupazione usurpativa..
(Cons. St. Ad. gen. 4/2001) e quindi al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi costituzionali ed a
quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprietà". Posto che in forza di detto
provvedimento cessa la occupazione sine titulo e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a
quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprietà alla p.a. (se prevale l'interesse
pubblico), cui è consentita una legale via di uscita dalle numerose situazioni di illegalità realizzate nel
corso degli anni».
Al fine di permettere alla p.a. il ritorno alla legalità in modo completo, perciò comprendente tanto le
(prevedibili) utilizzazioni illecite future, quanto quelle già verificatesi, anche in epoca antecedente al
T.U. n. 327/2001, per le quali permane egualmente la necessità di regolarizzarne la sorte definitiva,
l'art. 42-bis ha riproposto l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui
ha ereditato perfino la rubrica.
Ad avviso della Corte di Cassazione «i caratteri dell'acquisizione, immediatamente denominata
"sanante", hanno indotto anche per la sentenza n. 293/2010 della Corte Costituzionale ad osservare
che il nuovo istituto "prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in
forma specifica del diritto di proprietà violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al
contesto normativo positivo, "neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via
interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei
procedimenti espropriativi". Per cui la sua riproduzione nell'art. 42-bis, applicabile ad ogni genere di
situazione sostanziale e processuale indicata, con il risultato di aprire alla p.a. una vasta ed
indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalità -
anche per le possibili violazioni del principio di legalità dell'azione amministrativa - in relazione ai
precetti contenuti negli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonché di compatibilità con la ricordata normativa
della Convenzione CEDU, e quindi, dell'art. 117 Cost.».
I giudici della Corte di Cassazione si chiedono, dunque, se è legittimo il comportamento della p.a. che
ha commesso un fatto illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli artt. 2043 e 2058 c.c., e se alla medesima p.a. «possa essere riservato un trattamento
privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed attribuita la facoltà di mutare,
successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e per effetto di una propria
unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione
(da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del "neminem laedere" per
qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio costituzionale (ritenuto da Corte
Cost. n. 204/2004 "una conquista liberale di grande importanza") che nel sistema vigente è
privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto».
Di conseguenza, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto
soggettivo, quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta", per effetto dell'autotutela
amministrativa, cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post", le conseguenze e le obbligazioni
restitutorie e risarcitorie ad esse correlate.
Per superare soluzioni di illegittimità/illegalità diffusa, apparse non conformi al principio di legalità in
ambito espropriativo, «la giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio degli anni ottanta aveva riconsiderato
ed espunto (Cass. N. 382/1978; n. 2931/1980; n. 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che
alla p.a. occupante (senza titolo) fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo,
con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal
proprietario per la restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del
provvedimento ablativo - ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la
conversione automatica dell'azione restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennità:
alla quale soltanto il proprietario finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa
costituzionale non è sfuggito alla ricordata decisione n. 293/2010 della Consulta che lo ha
contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a quelli del decreto tardivo), dando atto che
da decenni "secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la
sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un'efficacia sanante retroattiva,
determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi"».
Di conseguenza, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto
soggettivo, quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta" per effetto dell'autotutela
amministrativa, cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post" le conseguenze e le obbligazioni
restitutorie e risarcitorie ad esse correlate.
Anche per i giudici di Strasburgo l'illegittima ingerenza nella proprietà privata, comporta che alla p.a.
non è consentito (né direttamente né indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti, e
più in generale, da una situazione di illegalità dalla stessa determinata (cfr. Corte Giust. UE 10
novembre 2011, C 405/10); nonché nella giurisprudenza della Corte Edu (1^, 13 ottobre 2005, Serrao;
15 novembre 2005, La Rosa; 3^, 15 dicembre 2005, Scozzari; 2^, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande
Chambre, 4 gennaio 2010, Guiso).
Il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata (commi 2 e
3), appare alle Sezioni Unite ancor più consistente, in relazione al primo e fondamentale presupposto
per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella
necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale"; che trova puntuale riscontro in quello di eguale
tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU, per cui l'ingerenza nella proprietà privata
può essere attuata soltanto "per causa di pubblica utilità".
Secondo la Corte di Cassazione, assunta la centralità dell'art. 42 Cost., per cui l'espropriazione in
tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di interesse generale", non si
avrebbe aderenza a tale assunto, con la «conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito
dall'esercizio di un potere amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una "valutazione
degli interessi in conflitto", è destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo,
unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi.
Da qui la formula dell'art. 42, comma 3, per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima
in quanto è originata da "motivi di interesse generale, ovvero collegata ad un procedimento
amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di
questo valorizzando il ruolo partecipativo, con la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito
dall'esercizio di un potere amministrativo che, è destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio
espropriativo unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi e con il risultato
che «la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico con l'esclusivo effetto di
condizionare la legittimità del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi solo
congiuntamente a quest'ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a determinare immediati
effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della tutela
giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase antecedente alla
sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente con l'emersione
dei "motivi d'interesse generale" (Cons. St. 4766/2013; 3684/2010; 3338 e 479/2009;
5034/2007; Ad. plen. 2/2000; 14/1999)».
Inoltre, secondo i giudici della Suprema Corte, l'art. 42 bis oggetto d'esame, prescindendo dalla
dichiarazione di pubblica utilità, comporta
l'espropriazione sostanziale, pur mancando la
predeterminazione dei motivi d'interesse generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di
proprietà, ritenendo del tutto sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi
giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contra ius
dell'amministrazione; consentendo l'acquisizione del bene anche quando tale procedura sia stata
violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto del procedimento tipizzato dalla
legge in una mera facoltà dell'amministrazione e relegando la dichiarazione di pubblica utilità a
momento procedimentale eventuale, la cui assenza può essere superata dal provvedimento di
acquisizione che ne elimina in radice la necessarietà della stessa. In contrasto anche con la
complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dal d.p.r. n. 327/2001, che nell'art. 2 ha
dichiarato di ispirarsi proprio al "principio di legalità dell'azione amministrativa", dal momento che il
potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri, obblighi e limiti che scandiscono il
procedimento espropriativo.
Ad avviso della Corte di Cassazione «la nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate
dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed
efficace provvedimento di esproprio" - presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticità - non
risolvibili in via ermeneutica - con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo
(art. 117 Cost.). La quale, del resto, come già rilevato da questa Corte (Cass. N. 18239/2005; n.
20543/2008), si è già pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente
art. 43 T.U., interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42-bis».
Per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto, incompatibili con il diritto al rispetto dei propri
beni e ripristinare la legalità, è del tutto indifferente l'adozione postuma di un provvedimento con
pretesi effetti sananti, perché il requisito della legalità non permette in generale all'amministrazione di
occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente e considerarlo acquisito al patrimonio pubblico,
senza che contestualmente un provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprietà sia stato
emanato.
«La "legalizzazione dell'illegale" non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo
neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo,
quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio
2006; De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta,
12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005).
In termini non dissimili si è espressa anche la Corte Costituzionale (n. 293/2010), per la quale «non è
affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le
stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave
vulnus al principio di legalità».
Di conseguenza la Corte di Cassazione, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, conv. con mod. dalla L. 15
luglio 2011, n. 111, che ha introdotto l'art. 42- bis nel T.U. dell'espropriazioni n. 327/2001, per
contrasto, con gli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonché art. 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche
alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1° prot. add. della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle
Libertà Fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 84; di conseguenza dispone
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Conclusivamente, il parallelo ragionamento posto in essere dalla Corte di Cassazione, dalla Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo e dalla Corte Costituzionale in tema di indennizzo espropriativo, conduce
all'affermazione che nell'ordinamento, il sacrificio legittimo che può imporsi in base all'interesse
pubblico, non può spingersi fino all'annientamento del diritto di proprietà, in quanto il perseguimento
dell'interesse generale incontra un preciso limite nella tutela delle proprietà privata che è posta a
garanzia della libertà d'iniziativa economica dei cittadini; e che nel bilanciamento del contrapposto
interesse pubblico e privato è necessario il rispetto della centralità del principio di legalità, cardine di
un Paese che vuole essere Stato di diritto.
Prof. Luigino Sergio (già Direttore Generale della Provincia di Lecce; esperto di organizzazione e
gestione degli enti locali).
Cassazione: giudice può stabilire un "minimo vitale" impignorabile
più alto rispetto alla pensione minima
Sulla base del rilievo che non ci sono parametri normativi specifici che consentono di determinazione il
c.d. minimo vitale impignorabile, il giudice dell'esecuzione può, "in considerazione degli elementi
concreti del caso (e non dovendo necessariamente fare riferimento all'importo di trattamento minimo di
pensione indicato dallo stesso ente erogatore), pervenire all'individuazione dell'importo maggiormente
adeguato" ad assicurare a chi subisce il pignoramento mezzi di vita".
Lo ha affermato la terza sezione civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 18225 depositata il
26 agosto 2014, in una fattispecie avente ad oggetto l'opposizione, da parte dell'impresa creditrice,
all'ordinanza di assegnazione del credito pignorato nei confronti di un pensionato.
Denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 38 l. n. 448/2001 e 39 l. n. 289/2002, in
particolare, il titolare dell'impresa ricorrente si doleva dell'erronea valutazione da parte del giudice
dell'ammontare della quota di pensione impignorabile nella somma di euro 536,00 anziché in euro
427,58, come indicato dall'ente erogatore (Inps) per l'anno 2006.
Per i giudici di piazza Cavour il motivo è infondato. Ripercorrendo l'orientamento consolidato sulla
impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici (cfr. Corte Cost. n. 506/2002), la S.C. ha
affermato che la stessa è posta "a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire
al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.)", finalità ancora più marcata
dopo l'entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che mira ad "assicurare
un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti" (art. 34, comma 3).
Pertanto, ha ribadito la Corte, è assolutamente impignorabile "la parte della pensione, assegno o
indennità necessaria per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita (c.d. minimo
vitale), mentre ex art. 545, 4 co., c.p.c. è pignorabile, nei soli limiti del quinto, la parte residua". E
l'indagine circa la sussistenza o l'entità della parte di pensione necessaria, in difetto di interventi del
legislatore al riguardo, è rimessa, ha precisato la Corte, "alla valutazione in fatto del giudice
dell'esecuzione, incensurabile in Cassazione se logicamente e congruamente motivata". Per cui
ritenendo conforme ai principi espressi, la valutazione del giudice dell'esecuzione, nel ritenere
maggiormente adeguato anche in considerazione del costo della vita un importo maggiore rispetto a
quello indicato dall'Inps, la Corte ha rigettato il ricorso.
CRC Auto: basta il preventivo per liquidare il danno se le voci
trovano corrispondenza nelle fotografie - Tribunale di S. M. Capua
Vetere
Con la sentenza n. 2808/2014, avente ad oggetto la richiesta di risarcimento danni derivanti da
circolazione stradale, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha affermato che può bastare un
semplice preventivo per liquidare il danno all'autovettura se le singole voci di danno corrispondono a
quanto emerge dalla documentazione fotografica.
Ecco in breve la vicenda processuale: un automobilista alla guida di una Mercedes 270, mentre
percorreva l'autostrada A1 - tratto Caserta-Capua - direzione Capua, giunto al km 727+150 (dove
mancava la rete di recinzione come invece prevede l'art. 2, n. 3, lett. A) del d. lgs. n. 285 del 1992)
entrava in collisione con un cane di grossa taglia che attraversava l'autostrada in direzione trasversale
da sinistra verso destra. A causa del sinistro l'autovettura subiva ingenti danni per la complessiva
somma di € 7.188,38 e tali danni risultavano da un preventivo oltre che da rilievi fotografici in atti.
L'automobilista chiedeva anche un risarcimento ulteriore per il danno da fermo tecnico e le spese di
rimozione e trasporto.
Parte attrice deduceva che il sinistro per cui è causa si era verificato per esclusiva responsabilità della
società convenuta, la quale, in virtù del principio del "neminem laedere" di cui all'art. 2043 c.c., e
quale proprietaria della strada aperta al pubblico, è tenuta a far sì che la stessa non presenti per
l'utente situazioni di pericolo occulto. Tanto premesso, chiedeva l'accertamento della società convenuta
in ordine alla causazione del sinistro de quo, la condanna della stessa al risarcimento dei danni alla
propria autovettura, con vittoria di spese.
Nella sentenza il giudice, affermata la responsabilità della società convenuta, afferma che i danni
possono essere liquidati in via equitativa.
A tal fine basta utilizzare come parametro il preventivo prodotto dall'attore, le cui voci trovano
corrispondenza nella documentazione fotografica oltre che nelle dichiarazioni rese dai testi e nelle
rilevazioni effettuate dalla Polizia Stradale.
In relazione al fermo tecnico il giudice ha liquidato poi un somma di euro 500,00 richiamando un
orientamento della Corte di Cassazione secondo cui è possibile la liquidazione equitativa del danno da
fermo tecnico anche in assenza di prova specifica in ordine allo stesso, "rilevando a tal fine la sola
circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche prescindere
dall'uso effettivo a cui esso era destinato. L'autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte
di spesa (tassa di circolazione, premio dia assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è
altresì soggetta a un naturale deprezzamento di valore, del veicolo" (Cass. n. 23916/2006).
Sempre in ordine al danno il giudice ricorda che trattandosi di risarcimento da illecito extracontrattuale
e quindi di debito di valore, la somma liquidata deve essere annualmente rivalutata secondo gli indici
ISTAT di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai e sulla somma via via
rivalutata devono calcolarsi gli interessi compensativi, in misura pari a quella legale (v. la risorsa per il
calcolo congiunto di interessi e rivalutazione monetaria).
Tale misura si ritiene idonea a compensare il ritardato adempimento, tenuto conto della normale
redditività del denaro nel periodo intercorso dalla data del sinistro.
Dott. Agostino Saviano
Divorzio: Cassazione ribadisce, l'assegno deve tenere conto della breve
durata del matrimonio
Ai fini della determinazione dell'assegno divorzile, non è necessario ripercorrere analiticamente tutti i
criteri indicati dall'art. 5 della l. n. 898/1970, ben potendo il giudice considerare prevalente, di fronte
ad un matrimonio di breve durata, il fattore tempo.
È quanto emerge dall'ordinanza n. 18722 depositata il 4 settembre scorso, con la quale la Cassazione
si è pronunciata sulla sentenza della Corte d'Appello di Roma che, all'esito di un procedimento di
divorzio, fissava in 200 euro mensili l'assegno di mantenimento a favore dell'ex moglie, in virtù
dell'inadeguatezza dei mezzi della stessa, comparati con quelli del marito e della breve durata (due
anni) del vincolo coniugale.
La donna ricorreva per Cassazione lamentando l'erronea valutazione dei criteri indicati dal sesto
comma dell'art. 5 della l. n. 898/70, con particolare riferimento all'errata considerazione dei redditi
propri e dell'assenza di valutazione comparativa dei medesimi elementi in capo all'ex marito, il quale,
secondo la stessa godeva di un reddito 16 volte superiore e di un patrimonio ben più cospicuo rispetto
alla sua modestissima condizione reddituale.
Ma la S.C. non è dello stesso avviso e respinge il ricorso.
Secondo gli Ermellini, infatti, la Corte d'Appello ha correttamente tenuto conto degli indici "reputati
rilevanti tra quelli indicati nell'art. 5 comma sesto della l. n. 898 del 1970, non essendo tenuta a
ripercorrerli analiticamente tutti. In particolare ha considerato prevalenti sugli altri il criterio della durata,
molto breve, del matrimonio e sull'autonomo lungo percorso di vita vissuto da ciascuna delle parti
prima del divorzio". Le dedotte ragioni del "disfacimento della comunità familiare - ha continuato,
infatti, la Corte - a fronte di una così lunga fase separativa sono state ritenute recessive ai fini della
determinazione in concreto dell'assegno divorzile secondo una graduazione che, ove sostenuta da
motivazione complessivamente esauriente ed adeguata (come nella specie) risulta incensurabile". Sulla
base dei predetti rilievi, pertanto, ha respinto il ricorso.
Concorso per 400 Giudici ausiliari di Corte Di Appello. Possono
partecipare anche avvocati e magistrati onorari
La Nella Gazzetta Ufficiale del 9/9/2014 n. 70, serie speciale concorsi ed esami (v PDF qui sotto
allegato), è stato pubblicato il bando di concorso per 400 Giudici ausiliari di corte di Appello.
Con il Decreto del 21/7/2014, il Ministero della Giustizia, ha voluto, in questo modo incrementare
l'organico della magistratura per offrire un ausilio concreto allo smaltimento degli arretrati.
I destinatari del bando sono non soltanto i giudici ordinari, amministrativi e contabili e gli avvocati dello
Stato ma altresì i magistrati onorari che non esercitano più le proprie funzioni giudicanti, i quali
abbiano, però, alle spalle, una valutazione positiva della propria attività per almeno cinque anni.
Ulteriori destinatari sono: i professori universitari in materie giuridiche di prima e seconda fascia, i
ricercatori universitari in materie giuridiche, gli avvocati e i notai.
Sono ventisei le Corti D'appello interessate dal bando: Ancona, Bologna, Trento, Brescia, Cagliari,
Campobasso, Lecce, Caltanissetta, Catania, Bari, Catanzaro, Firenze, Genova, Milano, Potenza,
L'aquila, Napoli, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Perugia, Trieste e
Venezia.
Il modulo per la presentazione della domanda è rinvenibile on line sul sito del Consiglio superiore della
Magistratura www.csm.it e sarà disponibile dalla data di pubblicazione in G.U. del bando fino alla sua
data di scadenza.
Il numero di identificazione della domanda rilasciato dal sistema a seguito della registrazione on line va
conservato per poter accedere successivamente alla propria domanda per poterla modificare o
revocarla.
Come da Decreto del 21 Luglio 2014, le informazioni di cui alle diverse fasi della procedura selettiva,
comprensive del punteggio riportato, nonché della graduatoria provvisoria e definitiva, potranno essere
consultate sul sito web www.csm.it
Cassazione: matrimonio di breve durata e assegno di mantenimento.
Ecco il testo della sentenza e i precedenti giurisprudenziali
Corte di Cassazione civile, sezione sesta, ordinanza n. 18722 del 4 Settembre 2014. Al termine del
procedimento di divorzio, il giudice può legittimamente riconoscere alla ex moglie che guadagna 16
volte meno del marito un assegno di mantenimento di soli 200 euro mensili.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione facendo notare come nel caso di specie il giudice del merito ha
tenuto conto non solo del livello di vita del coniuge benestante, ma anche della breve durata del
vincolo coniugale, di fatto di soli due anni.
Nella sentenza si fa notare come al fine di determinare l'obbligo e l'entità dell'assegno di
mantenimento, il giudice di merito ha a disposizione i criteri elencati all'art. 5, comma sesto, della
legge 898/1970 (legge sulla separazione e divorzio; ad esempio, le condizioni dei coniugi, la ragione
della decisione di rottura, il reddito di entrambi e la durata del matrimonio).
Nel fondare la propria decisione egli deve congruamente motivare le ragioni della scelta.
Circostanza che nel caso in esame è stata rispettata dalla Corte d'appello, la quale ha correttamente
interpretato la norma di cui sopra dando prevalenza all'esigua durata del vincolo e "sull'autonomo
lungo percorso di vita vissuto da ciascuna delle parti prima del divorzio".
Tale operazione, se compiutamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. In prevalenza degli
altri requisiti sopra elencati, la sola circostanza della modestia del reddito di uno dei due coniugi non è
di per sé sufficiente a fondare le ragioni della ricorrente, la quale si è vista rigettare il ricorso.
Ecco alcuni precedenti della Corte di Cassazione in relazoine allabreve durata del matrimonio. Subito
sotto, il testo integrale della sentenza in commento.
Cassazione sentenza 3398/2014
Ai fini del riconoscimento del diritto all'assegno divorzile il giudice deve limitarsi a valutare se i mezzi
di cui dispone il coniuge richiedente siano adeguati e sufficienti alla conservazione almeno tendenziale
del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Ai soli fini della quantificazione e del contenimento dell'importo dell'assegno potranno essere valutati i
criteri della durata del rapporto coniugale e delle ragioni della decisione.
Cassazione civile 23378/2004
Alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto
all'assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non
addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di
adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti. Al più,
alla durata del matrimonio può essere attribuito rilievo ai fini della determinazione della misura
dell'assegno di mantenimento.
Cassazione sentenza 25174/2011
La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge
superstite aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuato, oltre che sulla
base del criterio della durata del rapporto matrimoniale, anche ponderando ulteriori elementi funzionali
allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del
tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio ed il secondo sia
privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il "de cuius" gli aveva
assicurato in vita.