POPPER, L’INDUZIONE NON ESISTE Quella di Popper è la piú dura ed efficace critica all’induzione di tutta la storia della filosofia. Di essa diamo un esempio in questa lettura. K. R. Popper, Scienza e filosofia, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1969, pagg. 150-152 Desidero perciò dire che io non credo che esista nulla di simile al metodo induttivo, o a un procedimento induttivo, [...]. Non faccio mai questioni di parole, e naturalmente non ho nessuna seria obiezione contro chi voglia chiamare col nome “induzione” il metodo di discussione critica. Ma in questo caso è necessario rendersi conto che si tratta di qualcosa di molto diverso da tutto ciò che in passato è stato chiamato “induzione”. Infatti, si è sempre pensato che l'induzione debba fondare una teoria, o una generalizzazione, mentre il metodo della discussione critica non fonda un bel niente. Il suo verdetto è sempre e invariabilmente “non provato”. La miglior cosa che possa fare – e raramente la fa – è quella di venir fuori con il verdetto che una certa teoria sembra la migliore disponibile, cioè la migliore che finora sia stata sottoposta alla discussione, quella che sembra risolvere una gran parte del problema che era destinata a risolvere, e che è sopravvissuta ai controlli piú severi che siamo stati finora in grado di escogitare. Ma naturalmente ciò non fonda la verità della teoria; cioè non stabilisce che la teoria corrisponde ai fatti, o è una descrizione adeguata della realtà; tuttavia possiamo dire che un verdetto positivo di questo genere equivale al dire che, alla luce della discussione critica, la teoria appare come la migliore approssimazione alla verità che si sia finora raggiunta. In realtà, l'idea di “migliore approssimazione alla verità” è, allo stesso tempo, il principale modello della nostra discussione critica e lo scopo che speriamo di raggiungere, come risultato della discussione. Tra i nostri altri modelli ci sono il potere esplicativo dl una teoria e la sua semplicità. Nel passato il termine “induzione” è stato usato soprattutto in due sensi. La prima è l'induzione ripetitiva (o induzione per enumerazione), che consiste di osservazioni spesso ripetute, osservazioni che dovrebbero fondare qualche generalizzazione della teoria. La mancanza di validità di questo genere di ragionamento è ovvia: nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi (o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è piccola). Allo stesso modo, per quanti spettri di atomi d'idrogeno osserviamo non potremo mai stabilire che tutti gli atomi d'idrogeno emettono spettri dello stesso genere. Tuttavia considerazioni di ordine teorico possono suggerirci quest'ultima generalizzazione, e considerazioni teoriche ulteriori possono suggerirci di modificarla introducendo spostamenti Doppler e spostamenti verso il rosso propri della gravitazione einsteiniana. Dunque l'induzione per enumerazione è fuori causa: non può fondare nulla. Il secondo senso principale in cui il termine “induzione” è stato usato in passato è l'induzione eliminatoria: l'induzione fondata sul metodo dell'eliminazione o confutazione delle teorie false. A prima vista questo tipo di induzione può sembrare molto simile al metodo della discussione critica che io sostengo, ma in realtà è molto diverso. Infatti Bacone e Mill, e gli altri diffusori di questo metodo dell'induzione per eliminazione credevano che, eliminando tutte le teorie false, si possa far valere la teoria vera. In altre parole, non si rendevano conto che il numero delle teorie rivali è sempre infinito, anche se, di regola, in ogni momento particolare possiamo prendere in considerazione soltanto un numero finito di teorie. Dico “di regola”, perché qualche volta ci troviamo di fronte a un numero infinito di tali teorie: ad esempio, qualcuno suggerí di modificare la legge newtoniana dell'attrazione secondo l'inverso dei quadrati, sostituendo al quadrato una potenza che differisca solo di poco al numero 2. Questa proposta equivale al suggerimento che si dovrebbe considerare un numero infinito di correzioni, di poco differenti tra loro, della legge di Newton. Il fatto che per ogni problema esiste sempre un'infinità di soluzioni logicamente possibili, è uno dei fatti decisivi di tutta la scienza; è una delle cose che fanno della scienza un'avventura cosí eccitante. Esso infatti rende inefficaci tutti i metodi basati sulla mera routine. Significa che, nella scienza, dobbiamo usare l'immaginazione e idee ardite, anche se l'una e le altre devono sempre essere temperate dalla critica e dai controlli piú severi. Tra l'altro, mette anche in evidenza l'errore di coloro i quali pensano che lo scopo della scienza sia, puramente e semplicemente, quello di stabilire correlazioni tra gli eventi osservati, o le osservazioni (o, peggio ancora, fra i “dati sensibili”). In scienza, tendiamo a molto di piú. Tendiamo a scoprire nuovi mondi dietro il mondo dell'esperienza ordinaria, mondi come, ad esempio, un mondo microscopico o submicroscopico; come, ad esempio, un mondo non-euclideo, un mondo popolato di forze invisibili: forze gravitazionali, chimiche, elettriche e nucleari, alcune delle quali, forse, sono riducibili ad altre, mentre altre non lo sono. Proprio la scoperta di questi nuovi mondi, di queste possibilità che nessuno si era mai sognato, accresce di tanto il potere liberatore della scienza. I coefficienti di correlazione sono interessanti, non perché mettono le nostre osservazioni in relazione fra loro ma perché, e solo quando, ci aiutano a imparare qualcosa di piú intorno a questi mondi. K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri, La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 33-35 POPPER, PRIMA L’IPOTESI, POI L’OSSERVAZIONE In polemica con la teoria induttivista e con la teoria della tabula rasa, Popper propone un metodo di ricerca per congetture e confutazioni. K. R. Popper, Scienza e filosofia, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1969, pagg. 138-142 Possiamo dire che la nostra conoscenza si accresce man mano che procediamo da vecchi problemi a nuovi problemi per mezzo di congetture e di confutazioni, per mezzo della confutazione delle nostre teorie, o, piú generalmente, delle nostre aspettazioni. Suppongo che qualcuno di voi ammetterà che di solito partiamo da problemi; ma può darsi che pensiate ancora che il nostro problema deve per forza essere il risultato di osservazioni e di esperimenti, perché, prima di ricevere le impressioni attraverso i nostri sensi, la nostra mente è una tabula rasa, una lavagna vuota, un foglio bianco; perché non c'è nulla, nel nostro intelletto, che non vi sia entrato attraverso i sensi. Ma quello che sto combattendo è proprio questa venerabile idea. Io asserisco che ogni animale è nato con molte aspettazioni, solitamente inconsce, o, in altre parole, che è dotato fin dalla nascita di qualcosa che corrisponde da vicino alle ipotesi, e cosí alla conoscenza ipotetica. E asserisco che abbiamo sempre una conoscenza innata – innata in questo senso – da cui partire, anche se può ben darsi che di questa conoscenza innata non possiamo fidarci affatto. Questa conoscenza innata, queste aspettative innate, se disilluse, creeranno i nostri primi problemi, e l'accrescimento della conoscenza, che ne segue, si può descrivere come un accrescimento che consiste interamente nelle correzioni e nelle modificazioni della conoscenza precedente. Dunque capovolgo la situazione nei confronti di quelli che pensano che l'osservazione deve precedere le aspettazioni e i problemi e asserisco addirittura che, per ragioni logiche, l’aspettazione non può precedere tutti i problemi, anche se, ovviamente, qualche volta precederà alcuni problemi: ad esempio, quei problemi che sorgono da un'osservazione che ha disilluso alcune delle nostre aspettazioni o che ha confutato alcune delle nostre teorie. Ora, questo fatto – il fatto cioè che l'osservazione non può precedere tutti i problemi – si può illustrare con un semplice esperimento, che io desidero eseguire, col vostro permesso, prendendo voi stessi come cavie. Il mio esperimento consiste nel chiedervi di osservare, qui ed ora. Spero che voi tutti stiate cooperando, ed osserviate! Ma temo che qualcuno di voi, invece di osservare, provi il forte impulso a chiedermi: “Che cosa vuoi che osservi?”. Se questa è la vostra risposta, allora il mio esperimento è riuscito. Infatti, quello che sto tentando di mettere in chiaro è che, allo scopo di osservare, dobbiamo avere in mente una questione ben definita, che possiamo essere in grado di decidere mediante l'osservazione. Charles Darwin lo sapeva, quando scrisse: “Com'è strano che nessuno veda che ogni osservazione non può non essere pro o contro qualche teoria...”. Come ho detto prima, non posso sperare di convincervi della verità della mia tesi, secondo cui l'osservazione viene dopo l'aspettazione o l'ipotesi. Ma spero di essere stato capace di mostrarvi che può esistere un'alternativa alla venerabile dottrina secondo cui la conoscenza – e specialmente la conoscenza scientifica – parte dall'osservazione. K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri, La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 36-37 POPPER, COME NACQUE IL CRITERIO DI FALSIFICABILITÀ Si tratta di un episodio ormai celebre, risalente al 1919, quando Popper, sempre meno convinto del tradizionale criterio di verificabilità, mise a confronto la teoria di Einstein con quelle di Marx, Freud e Adler. K. R. Popper, Congetture e confutazioni, trad. it. di G. Pancaldi, Il Mulino, Bologna, 1972, pagg. 63-66 Fu durante l'estate del 1919 che cominciai a sentirmi sempre piú insoddisfatto di queste tre teorie: la teoria marxista della storia, la psicanalisi e la psicologia individuale; e cominciai a dubitare delle loro pretese di scientificità. Il mio problema dapprima assunse, forse, la semplice forma: “che cosa non va nel marxismo, nella psicanalisi e nella psicologia individuale? Perché queste dottrine sono cosí diverse dalle teorie fisiche, dalla teoria newtoniana, e soprattutto dalla teoria della relatività?” [...]. Riscontrai che i miei amici, ammiratori di Marx, Freud e Adler, erano colpiti da alcuni elementi comuni a queste teorie e soprattutto dal loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano. Lo studio di una qualunque di esse sembrava avere l'effetto di una conversione o rivelazione intellettuale, che consentiva di levare gli occhi su una nuova verità, preclusa ai non iniziati. Una volta dischiusi in questo modo gli occhi, si scorgevano ovunque delle conferme: il mondo pullulava di verifiche della teoria. Qualunque cosa accadesse, la confermava sempre. La sua verità appariva perciò manifesta: e, quanto agli increduli, si trattava chiaramente di persone che non volevano vedere la verità manifesta, che si rifiutavano di vederla, o perché era contraria ai loro interessi di classe, o a causa delle loro repressioni tuttora “non-analizzate” e reclamanti ad alta voce un trattamento clinico. L'elemento piú caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni che “verificavano” le teorie in questione; e proprio questo punto veniva costantemente sottolineato dai loro seguaci. Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione – rilevante i pregiudizi classisti del giornale – e soprattutto, naturalmente, per quello che non diceva. Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro “osservazioni cliniche”. Quanto ad Adler restai molto colpito da un'esperienza personale. Una volta, nel 1919, gli riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po' sconcertato, gli chiesi come poteva essere cosí sicuro. “A causa della mia esperienza di mille casi simili” egli rispose; al che non potei trattenermi dal commentare: “E con questo ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”. Mi riferivo al fatto che le sue precedenti osservazioni potevano essere state non molto piú valide di quest'ultima; che ciascuna era stata a sua volta interpretata alla luce della “esperienza precedente”, essendo contemporaneamente considerata come ulteriore conferma. Conferma di che cosa, mi domandavo? Non certo piú che del fatto che un caso poteva essere interpretato alla luce della teoria. Ma questo significava molto poco, riflettevo, dal momento che ogni caso concepibile poteva essere interpretato alla luce della teoria di Atler, o parimenti di quella di Freud. Posso illustrare questa circostanza per mezzo di due esempi assai differenti di comportamento umano: quello di un uomo che spinge un bambino nell'acqua con l'intenzione di affogarlo; e quello di un uomo che sacrifica la propria vita nel tentativo di salvare il bambino. Ciascuno di questi casi può essere spiegato con la stessa facilità in termini freudiani e in termini adleriani. Per Freud, il primo uomo soffriva di una repressione, per esempio, di una qualche componente del suo complesso di Edipo, mentre il secondo uomo aveva raggiunto la sublimazione. Per Adler, il primo soffriva di sentimenti di inferiorità determinanti forse il bisogno di provare a se stesso che egli osava compiere un simile delitto, e lo stesso accadeva al secondo uomo, che aveva bisogno di provare a se stesso di avere il coraggio di salvare il bambino. Non riuscivo a concepire alcun comportamento umano che non potesse interpretarsi nei termini dell’una o dell'altra teoria. Era precisamente questo fatto – il fatto che dette teorie erano sempre adeguate e risultavano sempre confermate – ciò che agli occhi dei sostenitori costituiva l'argomento piú valido a loro favore. Cominciai a intravedere che questa loro apparente forza era in realtà il loro elemento di debolezza. Nel caso della teoria di Einstein, la situazione era notevolmente differente. Si prenda un esempio tipico – la previsione einsteiniana, confermata proprio allora dai risultati della spedizione di Eddington. La teoria einsteiniana della gravitazione aveva portato alla conclusione che la luce doveva essere attratta dai corpi pesanti come il sole, nello stesso modo in cui erano attratti i corpi materiali. Di conseguenza, si poteva calcolare che la luce proveniente da una lontana stella fissa, la cui posizione apparente fosse prossima al sole, avrebbe raggiunto la terra da una direzione tale da fare apparire la stella leggermente allontanata dal sole; o, in altre parole, si poteva calcolare che le stelle vicine al sole sarebbero apparse come se si fossero scostate un poco dal sole ed anche fra di loro. Si tratta di un fatto che non può normalmente essere osservato, poiché quelle stelle sono rese invisibili durante il giorno dall'eccessivo splendore del sole: nel corso di un'eclissi è tuttavia possibile fotografarle. Se si fotografa la stessa costellazione di notte, è possibile misurare le distanze sulle due fotografie, e controllare cosí l'effetto previsto. Ora, la cosa che impressiona in un caso come questo è il rischio implicito in una previsione del genere. Se l'osservazione mostra che l’effetto previsto è del tutto assente, allora la teoria risulta semplicemente confutata. Essa è incompatibile con certi possibili risultati dell’osservazione – di fatto, con i risultati che tutti si sarebbero aspettati prima di Einstein. Si tratta di una situazione completamente differente da quella prima descritta, in cui emergeva che le teorie in questione erano compatibili con i piú disparati comportamenti umani, cosicché era praticamente impossibile descrivere un qualsiasi comportamento che non potesse essere assunto quale verifica di tali teorie. K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri, La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 49-52