Rassegna bibliografica 1943-1945: la guerra civile italiana?

R assegna bibliografica
1943-1945: la guerra civile italiana?
di Marco Palla
Il volume che qui si presenta — Aa.Vv., La
Repubblica sociale italiana 1943-45 (Atti del
convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985, a cura
di Pier Paolo Poggio, “Annali della Fonda­
zione Luigi Micheletti”, Brescia, 1986, pp.
VIII-467, sip) — può essere considerato non
solo indispensabile, ma anche come lo sfor­
zo collettivo di ricerca più importante sul te­
ma non facile e controverso della Rsi. Il vo­
lume è infatti così dettagliato, articolato e
documentato che altri contributi e libri di
singoli autori, pur molto noti e stimati, non
possono ormai più reggere al confronto. È
un peccato che la mole ponderosa (il nume­
ro delle pagine di formato assai grande va
raddoppiato, dato che ognuna è composta
su due colonne), se correttamente risponde
al fine di presentare tutte le voci del conve­
gno in una sede editoriale appropriata, può
forse non favorirne la diffusione presso un
pubblico più ampio di quello degli speciali­
sti. Per le loro implicazioni scientifiche e
culturali, i risultati storiografici che qui so­
no pubblicati meritano una attenzione, una
lettura e appunto una diffusione che superi,
per così dire, la audience delle sedi e delle ri­
viste specialistiche. La breve discussione che
mi accingo a fare ha il limite di non poter ci­
tare, se non nella forma di un telegrafico re­
soconto, tutti i contributi dei relatori, le loro
osservazioni metodologiche, le puntualizza­
zioni numerose e circostanziate, i solidi ap­
porti documentari. Si deve tuttavia osserva­
re che, per la sua parte, il volume conferma
Italia contemporanea”, marzo 1988, n. 170
uno dei dati generali più sconcertanti della
situazione della ricerca storica in Italia, il
fatto cioè che buona parte delle proposte più
utili ed innovative non sono sollecitate dalla
politica governativa e dai finanziamenti mi­
nisteriali alla ricerca scientifica, ma vedono
la luce grazie agli sforzi preziosi di una so­
cietà civile appassionata e curiosa di studiare
e di sapere: sforzi di tipo privato, singolo, o
di piccoli gruppi e istituzioni che danno pro­
va di grande intelligenza e capacità di lavo­
ro. In questo caso, si tratta della Fondazio­
ne Micheletti che ha sì avuto l’incoraggia­
mento degli enti locali, ma si è basata so­
prattutto sul volontariato dei suoi dirigenti,
collaboratori e ricercatori, organizzando
una mostra ed un convegno che hanno visto
una partecipazione molto qualificata di stu­
diosi e di pubblico. Nella presentazione di
questo volume, Luigi Micheletti espone con
chiarezza difficoltà e ostacoli, dovuti magari
ad idiosincrasie di tipo accademico che han­
no portato per esempio all’assenza ingiusti­
ficata di Renzo De Felice e di qualche suo
allievo, pur invitati, e accenna a comporta­
menti “tortuosi” o “grotteschi” (“vengo ma
lui non deve esserci”) con cui gli organizza­
tori hanno dovuto fare i conti (p. VI). Per
Micheletti la Rsi godeva di adesioni reali,
ma molto circoscritte, cui si contrapponeva­
no le centinaia di migliaia di militari interna­
ti in Germania e che rifiutarono di aderire, i
soldati stessi della Rsi che disertarono e
quelli che, pur non disertando, collaboraro-
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Rassegna bibliografica
no con la Resistenza, le miriadi di renitenti
alla leva e, oltre ai partigiani combattenti e
agli antifascisti militanti, la “moltitudine
oppressa dalla guerra, sempre più ostile al
fascismo identificato con la guerra, antifa­
scista in senso prepolitico, sicuramente im­
permeabile agli slogan e alle promesse” re­
pubblichine (p. VII). Frederick W. Deakin
ha aperto il convegno con alcune considera­
zioni generali ed un richiamo al contesto in­
ternazionale in cui si situa l’episodica della
Rsi; Enzo Collotti ha collocato Salò del
Nuovo ordine europeo dei nazisti; Jens Petersen ha illustrato la propaganda tedesca e
Meir Michaelis ha descritto l’entità non tra­
scurabile delle persecuzioni antiebraiche isti­
gate ed eseguite dai repubblichini. Massimo
Legnani ha ricostruito i rapporti economici
e di potere, gli uomini e le amministrazioni
locali, le condizioni dello spirito pubblico, le
interessate consonanze se non affinità tra
ministri della Rsi come Tarchi e industriali
come Marinotti, mentre Gaetano Grassi ha
analizzato statisticamente la contiguità della
presenza del ceto imprenditoriale dal 1940 al
1945. P.P. Poggio e Gianni Sciola hanno
ampiamente descritto la questione operaia, e
Lidia Vaini altri aspetti dell’iniziativa del
mondo economico e finanziario. Un gruppo
molto interessante di relazioni ha preso in
esame gli elementi caratteristici della propa­
ganda e dell’attività “culturale” , con la rav­
vicinata e minuziosa analisi di pubblicazioni
minori e di opuscoli compiuta da Mario Insenghi e gli studi di Giovanni De Luna su
giornali e giornalisti, di Ivano Canteri sull’e­
mittenza radiofonica, di Vittorio Paolucci
su “Il lavoro” di Genova, di Augusto Saina­
ti sulla stampa cinematografica, di Gloria
Gabrielli sulla stampa repubblichina e la
“defascistizzazione” badogliana nell’ “Italia
invasa” , di Luciano Canfora su Gentile. Le
difficoltà e la posizione particolare del clero
e delle gerarchie della chiesa nel territorio
controllato dalla Rsi, oscillanti tra tituban­
ze, attendismo, mancati riconoscimenti e,
per contro, collaborazioni di cappellani mili­
tari e di giornalisti in tonaca sono state ben
illustrate da Claudia Scagliola, Francesco
Malgeri, Silvio Tramontin. Le situazioni lo­
cali di Trieste, del Cuneese, di Novara, della
Toscana, sono state ampiamente descritte da
Giancarlo Bertuzzi, Michele Calandri, Adol­
fo Mignemi, Giovanni Verni. Mentre San­
dro Setta ha biografato Renato Ricci, Maria
Fraddosio ha richiamato l’attenzione su un
tema poco conosciuto come i gruppi fascisti
repubblichini femminili, Aldo Gamba ha
studiato lo spionaggio, Luciano Violante
l’amministrazione della giustizia, Virgilio
Ilari il ruolo istituzionale delle forze armate
e il problema della loro reale o presunta
“apoliticità” . Federico Cereja e Brunello
Mantelli hanno illustrato la tragedia dei de­
portati italiani nei campi di sterminio nazi­
sti; e Marco Revelli ha valutato il peso del­
l’eredità repubblichina sul neofascismo ita­
liano. Ma è sulla relazione di Claudio Pavo­
ne La guerra civile che vorrei soffermarmi
un momento, per l’impegno dimostrato nel­
l’analisi serrata (condotta con una franchez­
za che si potrebbe dire sia benvenuta e salu­
tare) di un tema particolarmente delicato e
controverso. Pavone non rende esplicite tut­
te le implicazioni e le conseguenze del suo
intervento, che mi sembrano molto impor­
tanti sul terreno scientifico anche se talora
non sono convincenti o accettabili. Egli
muove da presupposti culturali e da un’ispi­
razione civile che non ha niente a che vede­
re, è bene avvertirlo subito, con il tentativo
strumentale di “parificare” e “nobilitare”
entrambi i contendenti che sta dietro a pa­
recchi interventi sulla “guerra civile” , a co­
minciare da quello del fascista Giorgio Pisa­
no, che è stato un precursore dell’impiego di
questo termine nel senso indicato. Micheletti
ha del resto denunciato i “rischi di strumen­
talizzazione” e di “appropriazione indebita”
della problematica storico-politica connessa
alla Rsi, sia da parte dei “nostalgici veri e
propri” sia da parte di “altre forze poli­
Rassegna bibliografica
tico-culturali impegnate in una vasta opera­
zione di recupero dell’eredità fascista” , for­
ze e posizioni che trovano una “piattaforma
comune, e grosse possibilità di sfondamento
in direzione dell’arco costituzionale, parten­
do dal presupposto della pari dignità delle
forze in campo” (p. V). Pavone sottolinea
innanzitutto la necessità di una riconsidera­
zione unitaria della nostra storia recente,
dalla quale non si può espungere evidente­
mente la Rsi: è questa un’esigenza fondamentale, condivisa da tutti gli studiosi inter­
venuti al convegno, e ribadita dalle conclu­
sioni di Guido Quazza che indicano nel nes­
so Resistenza-Rsi il momento periodizzante
di un’unica fase storica, che appunto non si
può affrontare con storie “separate” e isola­
te né dell’una né dell’altra (pp. 447-448).
Pavone non condivide la “reticenza” degli
antifascisti ad usare l’espressione di “guerra
civile”, che egli considera invece un “ovvio
presupposto” che ha il “valore di categoria
interpretativa generale” (p. 395). Nel corso
della discussione al convegno, Silvio Lanaro
si è detto d’accordo, aggiungendo anzi l’os­
servazione linguistica, secondo me inesatta,
che “lotta partigiana” vuol dire la stessa co­
sa di “guerra civile” (p. 444). In altra occa­
sione, lo stesso Pavone (“Italia contempora­
nea”, 1985, n. 160, p. 72) aveva parlato di
“guerra civile” come di un dato “incontro­
vertibile”. Ma proprio in questa relazione al
convegno di Brescia, Pavone è assai persua­
sivo nella diffusa analisi delle “reticenze”
antifasciste, degli imbarazzi, per motivi di­
versi, sia di azionisti, sia di cattolici, sia di
comunisti ad usare quella terminologia: reti­
cenze e imbarazzi che risultano meno evi­
denti e palesi nel momento stesso della lotta
durante gli anni 1943-45 e quelli immediata­
mente successivi. Mentre sono citate con
grande acume e finezza le fonti dell’epoca e
le testimonianze letterarie di un Calvino e di
un Fenoglio, resta più in ombra la riflessio­
ne storiografica sulla proprietà di quel ter­
mine e di quella categoria interpretativa ge­
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nerale. Pavone tende ad un uso estensivo del
concetto di guerra civile, che nella storia uni­
versale è stato impiegato sempre polemicamente e comunque con forti sollecitazioni
soggettive da tutti i contemporanei ma che
dovrebbe avere, per gli storici, un significato
più preciso e appropriato. La casistica qui ri­
cordata (1789, 1917, Spagna 1936-39, Grecia
1945, Jugoslavia 1941-45, pp. 395, 397) è più
un’esemplificazione di tipo, per così dire, as­
severativo che non dimostrativo. L’esperien­
za della Spagna non viene mai, neppure per
accenni, effettivamente comparata in termini
storiografici con quella della Rsi. In genera­
le, mancano nel testo quei riferimenti analo­
gici che sembrano una costante in ogni stu­
dio di guerre civili, pur tra forzature e frain­
tendimenti: è noto che Marx (La guerra civi­
le in Francia, 1871) paragona Thiers a Siila.
Pur senza arretrare fino ai tempi di Mario e
Siila, un raffronto comparativo con la guer­
ra civile inglese negli anni quaranta del di­
ciassettesimo secolo e con quella americana
(detta anche, con termine significativo che
meriterebbe un discorso a parte, guerra di
secessione) degli anni sessanta del dicianno­
vesimo secolo, avrebbero giovato a verificare la consistenza e la congruità del termine
applicato al caso della Rsi. Pavone nega va­
lidità al criterio “quantitativo” usato per
esempio da René Rémond per affermare che
nella Francia di Vichy non vi fu una guerra
civile che avrebbe appunto presupposto un
rapporto di forze relativamente equilibrato;
ma subito dopo ammette, con argomenta­
zione di tipo geografico-quantitativo, che
l’espressione sarebbe più legittima e “più
completa” se “nel Mezzogiorno si fosse ma­
nifestata una guerriglia fascista” (p. 397);
peraltro accetta il criterio quantitativo di Petersen — “la distribuzione unilaterale delle
cause della violenza” — che rende proble­
matica e discutibile la definizione del 19191922 come guerra civile.
Le guerre civili non implicano necessaria­
mente l’assenza di interventi stranieri o la
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Rassegna bibliografica
concomitanza di eventi “esterni” ; ma la de­
finizione presuppone tuttavia una certa indipendenza dei fattori interni della divisione
in due campi, che in quanto endogeni risul­
tano anche prioritari e non certo secondari.
Pavone è quindi costretto ad una certa sopravalutazione di tali fattori endogeni ed in­
terni, che non arriva al punto da colloca­
re lo scontro Resistenza-Rsi in una sorta di
vacuum storico nel bel mezzo del frastuono
—- esterno alle pareti di casa — della secon­
da guerra mondiale. Tuttavia, si attribuisce
ai protagonisti della contesa una volontarie­
tà d’intenti ed una libertà d’azione che paio­
no eccessive, ove si afferma che “questo sbi­
lanciamento fra le due situazioni, settentrio­
nale e meridionale, conferma che la guerra
civile si svolse tanto fra Regno del Sud e
Rsi, quanto fra fascisti e antifascisti, e fu
ovviamente combattuta solo sul territorio
dove entrambe le parti erano presenti in
quanto tali [sottolineatura mia]. Ne è ripro­
va il fatto che sia il governo del Sud che
quello del Nord evitarono [sottolineatura
mia] lo scontro diretto, sulla linea gotica,
delle rispettive truppe regolari” (p. 398).
Un’argomentazione del genere potrebbe, a
ben vedere, essere applicata a qualsiasi con­
flitto interno a qualsiasi area in qualsiasi
circostanza, e non spiega di per sé la natura
della guerra civile, implicando tra l’altro che
Mussolini e Badoglio furono in grado di evi­
tare lo scontro diretto perché potevano sce­
gliere di farlo o, in alternativa, di non farlo,
in autonomia dal fronte contrapposto di te­
deschi e di anglo-americani. Esempio ulte­
riore di questo uso estensivo del termine è
anche l’affermazione di Pavone che lo stes­
so Risorgimento italiano, prima della costi­
tuzione di uno stato nazionale, “aveva avu­
to tratti rilevanti di guerra civile” (p. 400).
Le implicite conseguenze storiografiche del­
l’adozione di questo termine nel senso indi­
cato sono niente meno che tale definizione
può valere come “categoria interpretativa”
sia per la storia italiana preunitaria, sia in
fondo per la maggior parte delle lotte di ca­
rattere “fratricida” , degli scontri di classe o
ideologici o di religione o di fazione o inte­
stini, insomma per la maggior parte dei mo­
menti di polarizzazione della vita politica
e sociale, stemperando o vanificando la spe­
cificità della “guerra civile” come termine
scientificamente utile. Avrei molti dubbi ad
usare l’espressione per i casi attuali del Li­
bano, dell’Irlanda del Nord, dei palestinesi,
dei baschi, del Sudafrica, per non parlare
dei casi del passato come i Guelfi e i Ghibel­
lini. Lo stato d’animo dei contendenti, che è
indispensabile per la ricostruzione storica ed
è quello su cui in sostanza si basa l’impianto
del contributo di Pavone, non è da solo suf­
ficiente a giustificare la nozione generale
che viene impiegata. Essa può inoltre pre­
cludere lo studio circostanziato di un’altra
“categoria interpretativa” non certo estra­
nea al nostro caso, quella di collaborazioni­
smo, che riguarda i repubblichini italiani,
Pétain, il Manciukuò, la Norvegia di Qui­
sling e che ha dato origine nella letteratura
storiografica, in particolare anglosassone,
alla definizione di governi-quisling applica­
bile a Ante Pavelic, alla Romania, alla Bul­
garia, alla Slovacchia. La terribile novità e
la straordinaria complessità della seconda
guerra mondiale stanno anche nel suo carat­
tere totale, nel coinvolgimento dell’intera
popolazione civile che fu particolarmente
brutale nei paesi soggetti all’occupazione
militare nazista: è questo imprescindibile
contesto generale che rende discutibile se
non impropria la legittimità innanzitutto
storiografica dell’espressione di guerra civile
nel caso dell’Italia occupata dai tedeschi e
retta con la collaborazione del governo fan­
toccio di Mussolini. Pavone ha il merito di
aver sollevato un interrogativo importante a
proposito di uno dei momenti più tragici e
laceranti della nostra storia recente. Il tema
della guerra civile nella storia italiana non è
stato posto con particolare frequenza e atten­
zione: nel primo volume della Storia d ’Ita-
Rassegna bibliografica
Ha Einaudi (I caratteri originari, Torino,
1972), il solo Corrado Vivanti ha di sfuggita
accennato all’avvento e al crollo del fasci­
smo come due momenti in cui si verificò
“qualcosa di molto simile a una guerra civi­
le”, alTinterno di una carrellata di lunghissi­
mo periodo sulle lacerazioni e i contrasti di
ben altra portata che hanno contrassegnato
le vicende del “paese chiamato Italia”, quali
l’invasione longobarda e la Chiesa, il frazio­
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namento e la debolezza “economico-corporativa”, la questione meridionale. Da un’an­
golazione molto specifica, Pavone riapre la
discussione, che a mio parere comporta
un’appendice di approfondimenti termino­
logici affinché la nozione di “guerra civile”
non diventi ancella e valletta di una nuova e
magari avvincente questione mal posée.
Marco Palla
“N uovo ordine” europeo e deportazioni
di Giorgio Vaccarino
Il volume (Spostamenti di popolazione e de­
portazioni in Europa, 1939-1945, Bologna,
Cappelli, 1987, pp. 506, lire 32.000) racco­
glie gli atti del convegno internazionale svol­
tosi su tale tema a Carpi nei giorni 4 e 5 ot­
tobre 1985, sotto gli auspici della Regione
Emilia Romagna nel quarantesimo della Li­
berazione, e costituisce un contributo fondamentale nella pluralità dei suoi aspetti alla
comprensione di quella che fu nella storia
1’ “unicità” dell’imperialismo ideologicorazziale del nazionalsocialismo tedesco. Sol­
tanto una parte dei temi trattati, per ovvie
ragioni di spazio, potrà essere qui ricordata.
Nell’attuale fervore delle tendenze revisio­
nistiche della storiografia tedesca non è for­
se inopportuno ricordare che una fatale ne­
mesi si è abbattuta sul popolo tedesco, non
solo quale prima vittima sin dagli anni tren­
ta del terrore nazista, ma della manipolazio­
ne razziale dallo stesso nazismo programma­
ta, mediante il riflusso coatto entro le fron­
tiere della vecchia Germania, delle etnie te­
desche sparse in Europa. A tale trasferimen­
to non furono costrette soltanto quelle del
Sud Tirolo, alle quali, anche se avevano op­
tato a favore di esso, fu consentito, ancora
dopo la sconfitta del Reich, di permanere
nel paese (si veda la relazione di Karl Stuhlpfarrer dell’Università di Vienna).
In apertura del convegno, una robusta re­
lazione di Enzo Collotti sul “piano nazista
di nuovo ordine europeo” (pubblicata nel
1985 su “Italia contemporanea”, n. 161)
analizza il programma di eliminazione fisica
nei paesi occupati delle popolazioni “estra­
nee alla razza”, giudicate come “un pericolo
per il Reich” e, all’inverso, della ricolonizza­
zione tedesca degli spazi così occupati attra­
verso l’insediamento di cittadini tedeschi e
di elementi di nazionalità germanica, rien­
trati dall’estero.
Il principio base della risistemazione etni­
ca fu la distruzione dell’identità nazionale e
culturale delle comunità nazionali. La prima
sperimentazione fu avviata in Polonia dove,
oltre l’annessione al Reich delle terre più oc­
cidentali (il cosiddetto Warthegan, con i
suoi otto milioni di abitanti), altri (quindici
milioni) del “governatorato” centrale dove­
vano esser sottoposti al processo distruttivo
e alla “scrematura razziale” , per estrarre gli
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Rassegna bibliografica
elementi recuperabili e cioè “germanizzabili” . Fondamentale per la distruzione del
connettivo sociale fu allora l’intervento sul
sistema scolastico. L’istruzione venne limi­
tata in Polonia alle quattro classi elementa­
ri. Di qui l’iniziativa della resistenza polacca
di far proseguire l’insegnamento clandestino
in locali anche di fortuna, sino allo svolgi­
mento di corsi universitari e alla pubblica­
zione di lavori scientifici grazie ad un fondo
di solidarietà costituito nel 1942 a Cracovia
e a Varsavia (cfr. Jean B. Neveux, Le fonctionnement et l’einsegnement supérieur polonais sous l’occupation allemande, “Revue
d’histoire de la deuxième guerre mondiale”,
1960, n. 40). “Questa popolazione — preve­
deva Himmler — [...] priva come sarà di
una propria cultura, sarà chiamata, sotto la
guida severa e giusta del popolo tedesco, a
collaborare alle sue sempiterne opere di ci­
viltà, [...] almeno per quanto riguarda la
mole del lavoro bruto” . Con la sconfitta
della Wermacht sotto le mura di Mosca nel­
l’inverno 1941-42 si accelerò quel processo
di selezione (e cioè di eliminazione) delle po­
polazioni non germanizzabili in tutti i terri­
tori occupati, che costituirà progressivamen­
te il contenuto del Generalplan Osi, la più
fedele espressione del progetto demografico
del nazismo, da attuarsi dopo la vittoria bel­
lica. A preparazione dell’insediamento di
elementi germanici, in sostituzione delle co­
munità tradizionali espulse, circa 50 milioni
di abitanti avrebbero dovuto essere evacuati
nel corso di trent’anni dai territori occupati
ad est dei confini tedeschi del 1939 verso la
Siberia occidentale oltre il fiume Ural. E co­
me in Polonia e in Russia, anche in Cecoslo­
vacchia il 50 per cento degli abitanti, consi­
derato non “germanizzabile” — in partico­
lare modo l’intellighenzia — avrebbe dovuto
subire lo stesso espatrio forzato. In minor
misura analoghe manipolazioni razziali fu­
rono operate nei Balcani, ove le minoranze
tedesche furono utilizzate quale punta di
diamante nella disgregazione dall’interno
delle comunità nazionali consolidate. Nei
paesi sopraffatti in Occidente, in particolare
nella Francia, lo sfruttamento fu invece as­
sociato alla collaborazione, diversamente
dai paesi dell’Est ove lo sfruttamento si ac­
compagnò alla distruzione, all’annullamen­
to biologico.
Sulla deportazione di massa dalla Jugosla­
via ha parlato Tone Ferenc, in rappresentan­
za dell’Istituto di storia del movimento ope­
raio di Lubiana. Particolare sollecitudine fu
posta dai tedeschi nell’opera di “snazionaliz­
zazione” in Slovenia della popolazione di
“altra razza” . Nell’aprile 1941 Himmler
aveva previsto la deportazione verso la Ser­
bia di una cifra oscillante fra i 220 e i 960
mila abitanti di tale origine, mentre in realtà
non ne furono trasferiti che una parte per le
difficoltà dei trasporti, per l’impossibilità di
una adeguata ricezione da parte sèrba e per
l’insorgere della lotta partigiana. Come i te­
deschi in Slovenia così gli ungheresi nei ter­
ritori confiscati, in vista della costituzione
della Grande Ungheria, attuarono program­
mi feroci di “denazionalizzazione” , deciden­
do di trasferire immigrati serbi nei territori
della vecchia Serbia e della Croazia.
Soltanto la Croazia — che aveva incorpo­
rato la Bosnia e l’Erzegovina — fu ricono­
sciuta, dopo le note intese con l’Italia, come
stato indipendente, ancorché in realtà vas­
sallo. Nondimeno gli “ustascia” croati dal­
l’aprile 1941 diedero inizio all’annientamen­
to biologico della popolazione serba ed
ebrea, assassinando complessivamente circa
700.000 persone tra serbi, ebrei e zingari; e
ciò per sostituire alle comunità, soprattutto
serbe, insediamenti di popolazione croata
cattolica.
Sulla deportazione degli ebrei dall’Europa
orientale ha riferito estesamente Czeslaw
Madajczyk, in rappresentanza del Comitato
di scienze storiche di Varsavia ed autore del­
la fondamentale opera in due volumi (Faszyzm i okupacje 1938-1945. Wykonywanie
okupacji przez panstwa Osi w Europie, Poz-
Rassegna bibliografica
nan, 1983-84) sull’occupazione nazifascista
in Europa. Dopo un’emigrazione pressoché
volontaria di mezzo milione di ebrei negli ul­
timi anni precedenti il secondo conflitto,
erano rimasti nei loro paesi circa quattro mi­
lioni di ebrei polacchi e 250.000 cecoslovac­
chi. Dopo un fallito progetto di trasferirli
nella colonia francese del Madagascar (che
avrebbe dovuto essere ceduta alla Francia),
gli ebrei furono concentrati nei ghetti polac­
chi nell’attesa, secondo il piano del governa­
tore Hans Frank, di essere trasferiti all’Est,
mentre i Gruppi operativi speciali (Einsatz­
gruppen) già avevano iniziato in più parti il
loro triste compito dei massacri di massa.
Fu alla conferenza di Wansee (Berlino) nel
gennaio 1942 che fu infine affrontata per la
sua pratica attuazione la “soluzione finale” .
Fu allora deciso il trasferimento degli ebrei
nei campi di rapido sterminio con l’utilizza­
zione degli individui validi fino all’esauri­
mento nel lavoro coatto. Senonché il mecca­
nismo del genocidio fu intralciato, ma non
impedito, dalle eroiche insurrezioni nei ghet­
ti di Varsavia, Lublino, Bialystok, Sobibor e
dalla solidarietà delle organizzazioni polac­
che clandestine e di una parte della popola­
zione.
Anche se la repressione in Occidente non
fu mai così dura come in Polonia, è risultata
interessante la relazione di C.J.F. Stulreher,
dell’Istituto di storia della guerra di Amster­
dam, sulle “proteste di massa contro le de­
portazioni, nell’Olanda occupata” . A que­
sto fine uno sciopero — certamente il primo
dell’Europa occupata — contro un rastrella­
mento di ebrei avviati alla deportazione, fu
scatenato nella capitale per iniziativa della
clandestinità, soprattutto comunista, nelle
giornate del 25 e 26 febbraio 1941. Il secon­
do giorno fu represso dalla polizia tedesca.
Gli scioperi contro la deportazione di soldati
e ufficiali dell’esercito olandese furono rin­
novati per tre giorni sulla fine dell’aprile
1943, in varie località industriali oltre che ad
Amsterdam. Tale esteso movimento popola­
143
re di solidarietà, non direttamente controlla­
to in questo caso dalla resistenza, si concluse
con uccisioni, condanne a morte e traduzio­
ne nei lager.
L’utilizzazione dei lavoratori deportati
nell’industria tedesca, che costruiva a questo
fine le sue fabbriche nei pressi dei lager, re­
tribuendo a vile prezzo e direttamente alle Ss
il lavoro dei “sottouomini” schiavizzati, è
stato l’oggetto dell’intervento di Klaus Drobish dell’Accademia delle scienze di Berlino
(Ddr). Si pensi fra gli altri allo stabilimento
Ig Farben, strettamente associato al lager di
Auschwitz (di cui l’Istituto di documentazio­
ne della politica sociale del nazismo di Am­
burgo si sta ora occupando in più di un vo­
lume) e a quello della Siemens, che sfruttò il
lavoro dei deportati, prelevati da più parti e
concentrati nel campo di Haselhorst, co­
struito appositamente nei pressi dello stabili­
mento omonimo da internati del lager di
Sachsenhausen. Ma la relazione più estesa e
documentata sulla “deportazione della ma­
no d’opera in Germania” è stata quella di
Dietrich Eichholtz dell’Accademia delle
scienze di Berlino (Ddr), già autore della re­
cente grande storia dell’economia di guerra
tedesca nel corso del secondo conflitto (Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft
1939-1945, Berlin, Akademie Verlag, 1984).
Non poteva non essere riproposto nel con­
vegno il tema assillante della conoscenza che
gli Alleati e il Vaticano dovevano aver avuto
delle deportazioni e in particolare del geno­
cidio. Sulle reazioni dei primi ha riferito Ar­
nold Paucher dell’Istituto Leo Baeck di
Londra. Il pubblico americano non fu in ge­
nerale informato dello sterminio degli ebrei
fino al tardo 1944. Di tale disinformazione
gli stessi fogli ebraici furono responsabili.
L’elettorato ebraico era interamente fedele a
Roosevelt, la cui amministrazione pareva
voler sfuggire all’orripilante realtà o forse
riluttava dal vedere accresciute le ondate im­
migratorie di popolazioni destinate a rima­
nere negli Usa dopo il conflitto.
144
Rassegna bibliografica
Silenziosa rimase la stampa cattolica,
mentre fogli evangelici tenevano a dimostra­
re che le cifre della deportazione erano enor­
memente gonfiate. La Chiesa d’Inghilterra
mostrò maggiore sensibilità e intervenne con
slancio dai suoi livelli più alti, mentre la
stampa cattolica ancora nel 1943 volle mini­
mizzare le atrocità naziste incolpando gli
ebrei dei mali che, lungo la loro storia, si
erano attirati. Esemplare fu invece il lavoro
svolto dal Concilio ecclesiastico mondiale di
Ginevra, in stretta collaborazione con il
Congresso mondiale ebraico. L’alta parola
dei vescovi britannici Chichester, Bell e del­
l’arcivescovo Tempie contrastava con l’at­
teggiamento del governo di Sua Maestà,
“tiepido e poco disponibile” .
Sulla conoscenza delle deportazioni e del
genocidio e sui conseguenti atteggiamenti
della Santa sede è intervenuto con equilibrio
e persuasiva documentazione Giovanni Mic­
coli. “La sostanza dei fatti — egli ha conclu­
so — poteva dirsi sconosciuta solo a chi non
voleva conoscerla, o fosse mentalmente con­
dizionato per non conoscerla” . L’affermare
il contrario, per ciò che riguardava le possi­
bilità conoscitive del Vaticano circa le atro­
cità naziste contro gli ebrei, costituirebbe
“un’operazione mistificatoria, che non tro­
va fondamento né corrispondenza nelle fon­
ti, solo che queste si leggano senza precon­
cetti o aspirazioni apologetiche” .
Discorso a parte è stato fatto per la depor­
tazione dei militari italiani dopo l’8 settem­
bre 1943. Giorgio Rochat ha assolto al com­
pito con un sistematico riesame del proble­
ma, lamentando l’assenza, ancora a quarant’anni dalla fine del conflitto, di studi scien­
tifici sull’internamento. In merito all’entità
delle adesioni al rientro in patria, al prezzo
dell’integrazione nelle forze tedesche o in
quelle della Rsi, Rochat ha respinto tutte le
valutazioni sino ad ora avanzate. Come pu­
ra ipotesi di lavoro, a proposito dei 650.000
militari italiani catturati, propone come più
probabile la percentuale del dieci per cento
delle adesioni: dato questo — Rochat ha in­
teso sottolineare — che, anziché svalutare lo
spirito di sacrificio dei prigionieri, esalta
nella sua esiguità l’eroismo della protesta,
espressa in condizioni ambientali insosteni­
bili. Altra cosa fu invece il lavoro forzato, a
cui gran parte dei soldati finì con l’aderire
per una semplice ragione di sopravvivenza:
comportamento che non ledeva la dignità
morale del combattente, che non si piegava
a rinnegare i valori in cui credeva, come sa­
rebbe accaduto nel caso di servizio prestato
al nemico con le armi.
Bruno Vasari infine, in un appassionato
intervento ha parlato del suo incontro a
Mauthausen con maestranze deportate in se­
guito agli scioperi del marzo 1944 nell’Italia
del nord e — altra insolita testimonianza —
delle iniziative culturali quali lezioni e confe­
renze, organizzate dagli esausti prigionieri di
Mauthausen nel periodo tra la liberazione
del campo e il rimpatrio.
Il volume ora considerato costituisce cer­
tamente un primo ricco bilancio variamente
articolato della storia della deportazione da
cui qualsiasi ripensamento storiografico non
potrà d’ora innanzi prescindere. Una lacuna
di non lieve importanza è però a mio parere
da rilevare: trattandosi di un ampio conve­
gno senza dichiarati limiti tematici sui feno­
meni di deportazione nell’ambito del secon­
do conflitto, come non considerare pertinen­
ti (non fosse che per un interesse comparati­
vo) anche le deportazioni inflitte dall’occu­
pazione sovietica alla Polonia, ai paesi balti­
ci, per non parlare di quelle in Siberia dei
Tartari di Crimea, delle popolazioni del
Nord Caucaso e di altre ancora? Tutto ebbe
inizio con la cattura dei militari polacchi (da
due a trecentomila) che avevano combattuto
contro i tedeschi nel settembre 1939 e che,
ripiegando sulla frontiera romena-ungherese
che apriva loro la via verso le forze alleate in
Occidente, vi incontrarono i reparti dell’Ar­
mata rossa in attesa, che li rinchiusero in va­
goni sigillati e li trasportarono nel profon­
Rassegna bibliografica
do dell’Urss. Seguirono nel biennio 1940-41
altre deportazioni dai territori occupati nella
Polonia orientale. In gran parte i convogli era­
no costituiti da funzionari di stato, da membri
della polizia, da professionisti, da coloni ricchi
con le loro famiglie. Tutti coloro che non da­
vano affidamento di accettare di buon grado
l’occupazione e la snazionalizzazione vennero
avviati ai campi di lavoro nel Kazastan e nella
Siberia del nord, dove le temperature raggiun­
gevano i meno 70 gradi centigradi e la mortali­
tà era altissima. Di tali deportazioni ho trova­
to negli atti un solo occasionale accenno nel
rapporti di Warlaw Dlugoborski dell’Universi­
tà di Katowice (p. 166). E come anche non ri­
cordare per la sola Lituania la deportazione,
se non l’eliminazione, di migliaia di persone,
per lo più rappresentanti della locale intelli­
ghenzia, al tempo della prima occupazione
russa, dopo l’accordo tedesco sovietico dell’a­
gosto del 1939 e le reciproche intese del 28 set­
tembre di snazionalizzazione delle rispettive
zone di occupazione?
Proprio in questo convegno si sarebbero
145
dovute approfondire le ancora mal conosciute
ragioni di tali imponenti fenomeni di selezione
sociale, se non più razziale. Stava alla loro ori­
gine la paventata difesa dell’identità nazionale
da parte delle popolazioni soggiogate o l’accu­
sa di un forse presunto loro massiccio collabo­
razionismo? (cfr. Alexandr Nekric, Thepunished peoples. The deportation and fate o f Soviets minorities at thè end o f thè Second
World War, New York, Norton & Co, 1978).
Non appare in merito indifferente che nel cor­
so dei lavori non si sia trattato soltanto dei cri­
mini tedeschi, senza alcun dubbio prevalenti
nella loro incommensurabile unicità, se l’at­
tenzione si estese ai trasferimenti — sia pure
indotti ma non per questo meno richiesti dalle
autorità locali — tra le popolazioni dei paesi
balcanici. A questo punto l’incomprensibile
cesura tematica in un così ampio impegno di
studio se non meglio spiegata potrebbe far na­
scere il sospetto di una singolare quanto ana­
cronistica reticenza.
Giorgio Vaccarino
U n passato che non vuol passare
di Stefano Caviglia
L’acceso dibattito fra storici e intellettuali
tedeschi a proposito del nazismo e dello ster­
minio degli ebrei in Europa è un intreccio
delicatissimo in cui confluiscono motivi as­
sai diversi, a mio avviso non sempre conci­
liabili, di importanza determinante per tutta
la problematica storica contemporanea.
Principalmente a questo imponente carico
di significati, e alle sue implicazioni politi­
che, bisogna ricondurre sia l’estrema asprez­
za dei toni che il clamore suscitato presso
l’opinione pubblica tedesca ed europea —
fenomeni entrambi inusuali per una polemi­
ca nata in ambito accademico. A questo in­
teresse ha risposto assai tempestivamente in
Italia la casa editrice Einaudi con la pubbli­
cazione dei principali interventi della “que­
relle”, preceduti da un’ampia introduzione
di Gian Enrico Rusconi (Germania: un pas­
sato che non passa, Torino, Einaudi, 1987,
pp. 164, lire 14.000) consentendo una prima
riflessione sistematica su tutta la vicenda.
La disputa, come molti ricorderanno, si è
accesa con un vibrato articolo del filosofo
francofortese Jùrgen Habermas sul settima­
nale “Die Zeit” in risposta all’ormai celebre
146
Rassegna bibliografica
articolo che lo storico Ernst Nolte aveva
precedentemente pubblicato sulla “Frank­
furter Allgemeine Zeitung”, Il passato che
non vuole passare. Le stesse testate verranno
poi chiamate in causa e in qualche modo
identificate con i due opposti schieramenti.
Habermas, in realtà, aveva dedicato la sua
attenzione solo in parte a Nolte, mettendo in
guardia più in generale contro tutto un
orientamento storiografico, definito “revi­
sionista”, tendente a minimizzare i crimini
nazisti, e chiamato in causa storici di nome
come Michael Sttirmer, Andreas Hillgruber,
Klaus Hildebrand, accusati di tentare un’o­
perazione politica non dichiarata e soprat­
tutto moralmente e culturalmente nefasta.
In breve tempo ciò gli è valso una pioggia di
critiche assai violente, non ultima quella di
non essere abbastanza competente per espri­
mere giudizi in materia, da parte di Nolte,
Hillgruber e Hildebrand, ai quali si è ag­
giunto per tempo Joachim Fest, celebre bio­
grafo di Hitler. Ciò che maggiormente ha ir­
ritato questi storici, secondo quanto affer­
mano loro stessi, è che Habermas abbia pre­
sentato le loro posizioni come articolazioni
di uno stesso disegno politico, quasi a lan­
ciare l’allarme contro una pericolosa con­
giura.
Il primo nodo da affrontare, dunque, è
quello dell’esistenza o meno di tale disegno
politico nonché, eventualmente, delle sue ca­
ratteristiche fondamentali.
I tratti principali della tesi di Nolte sono
forse ormai noti. In sintesi egli si chiede (re­
toricamente, poiché risponde con decisione
in modo affermativo) se non sia il frutto di
una eccessiva severità verso il popolo tede­
sco il fatto che i crimini nazisti siano consi­
derati unici e ineguagliati nella storia e se es­
si non abbiano invece un degno termine di
paragone e addirittura un “prius logico e
fattuale” , cioè una causa scatenante, nei cri­
mini commessi nella Russia sovietica prece­
dente e contemporanea all’ascesa al potere
di Hitler. Tutto questo viene collocato nella
deplorazione generale del fatto che (a suo
avviso) i tedeschi sono ancora oggi, ad oltre
quarant’anni di distanza, schiacciati sotto il
peso di quella colpa (da qui l’emblematico
titolo del suo primo intervento).
Meno note sono le argomentazioni con
cui lo storico tedesco ritiene di mostrare
fondata, ed anzi incontestabile la sua tesi.
Vale la pena di entrare in dettaglio.
L’elemento centrale, quello che dovrebbe
risultare illuminante ed aprire la via ad una
nuova interpretazione dello sterminio ebrai­
co da parte dei nazisti, è una frase che Hitler
rivolse ai suoi più stretti collaboratori il 1°
febbraio 1943 per anticipare che gli ufficiali
tedeschi catturati a Stalingrado avrebbero
ben presto collaborato con la propaganda
sovietica: “figuratevi, uno arriva a Mosca; e
pensate alla gabbia dei topi. A quel punto
firma qualsiasi cosa. Farà confessioni, lancerà appelli...” . Ecco dunque la grande sco­
perta: quella “gabbia dei topi” non indica,
come gli storici hanno sempre ritenuto, sem­
plicemente la Lubjanka, bensì un’orrenda
tortura che ben ricorderà chi ha letto il ro­
manzo 1984 di George Orwell, che non sa­
rebbe dunque un’invenzione letteraria dello
scrittore inglese, ma un motivo diffuso con
cui la propaganda antibolscevica degli anni
venti, in modo più o meno veritiero (questo
non è importante secondo Nolte), descriveva
la barbarie rivoluzionaria. Da qui la conclu­
sione: dal timore, dall’ossessione per una
minaccia (vera o presunta, anche qui, non
importa) di barbarie “asiatica” Hitler e il
gruppo dirigente nazista avrebbero matura­
to il proposito di un’azione ancora più terri­
bile verso gli ebrei, ritenuti gli artefici occul­
ti e malvagi della minaccia bolscevica in
qualsiasi parte del mondo.
Habermas definisce stravagante questa te­
si, attirandosi perciò una risentita replica di
Nolte, che dice fra l’altro: “Come filosofo,
però, Habermas dovrebbe accettare questo
enunciato” — che i crimini sovietici siano il
prius di quelli nazisti — “poiché esso non è
Rassegna bibliografica
lontano dalla verità analitica che la rivolu­
zione è antecedente alla controrivoluzione” .
Riesce difficile credere che queste argo­
mentazioni siano il frutto di una approfon­
dita riflessione, volta ad allargare l’orizzon­
te conoscitivo sulle condizioni e le responsa­
bilità che resero possibili i campi di stermi­
nio nazisti. Se non vi intravedessimo un in­
tento politico, in senso lato, che tende a
stravolgere e a fuorviare la ricerca di ele­
menti significativi su cui fondare l’analisi
storica, saremmo tentati di attribuire colpe
assai più gravi a Nolte e a coloro che sono
scesi in campo per difenderlo. Non è qui es­
senziale sapere se essi abbiano davvero in
mente, come sostiene qualcuno degli altri
storici intervenuti nella polemica, di offrire
servigi culturali alla cosiddetta politica della
svolta (espressione del nuovo blocco mode­
rato fra liberali, cristiano-democratici e cri­
stiano-sociali). Ciò che va soprattutto tenu­
to presente è che queste ed altre affermazio­
ni non possono essere comprese (ed anzi la­
sciano francamente increduli) al di fuori
della necessità, vissuta come imperativa, di
irrobustire l’identità nazionale del popolo
tedesco attraverso la ricostruzione di una
memoria storica. Le posizioni di Nolte, ri­
spetto a quelle, più moderate, dei suoi di­
fensori (che spesso sentono il bisogno di
fornire una lettura attenuata degli elementi
più criticabili o di dissociarsi da questo o
quel punto) non sono che il tentativo più ar­
dito e spericolato di risolvere lo stesso ar­
duo problema — che per altro questi storici
hanno in comune, sebbene in tutt’altro con­
testo e con argomenti assai diversi, con la
prima storiografia conservatrice del dopo­
guerra.
In questo senso mi sembra del tutto legit­
timo e per nulla diffamatorio l’uso dell’e­
spressione “tendenze neoconservatrici” fatto
da Habermas per definire l’orientamento de­
gli storici revisionisti, che ha suscitato le ire
di Hillgruber nonché la censura di Rusconi
nella sua prefazione al libro.
147
È perfettamente comprensibile che il cura­
tore di un’opera di tal genere si sforzi di
mantenersi in equilibrio fra le parti in con­
trasto e suggerisca di smussare le principali
asperità di entrambe le posizioni. Tuttavia
una verifica più severa della consistenza del­
le tesi revisioniste avrebbe potuto essere ten­
tata. Rusconi mostra di preoccuparsi molto
che non vengano lanciati anatemi o invocati
tabù, che la ricerca, insomma, non venga li­
mitata od ostacolata dal timore di toccare te­
mi scabrosi o di rievocare memorie laceranti.
In questa direzione infatti Rusconi affer­
ma: “allineare i crimini nazisti nella lunga
serie dei genocidi del XX secolo, a comincia­
re da quello perpetrato dai turchi contro gli
armeni per finire con i massacri di Poi Pot,
serve alla loro più precisa comprensione?
Formulata come ipotesi conoscitiva, questa
domanda non può che ricevere una risposta
positiva”.
In linea teorica non si può dissentire da
questa affermazione. Occorrerebbe tuttavia
procedere oltre, verso una minore generali­
tà. Come è evidente, ogni vicenda storica
contiene in sé innumerevoli elementi (e dun­
que innumerevoli connessioni possibili con
altre vicende), ognuno dei quali può portare
in direzioni molto diverse, non necessaria­
mente contrastanti, la ricerca. Compito del­
lo storico è operare una selezione fra quegli
elementi, privilegiarne alcuni, trascurarne
altri. Il quesito da porsi, dunque, ragionan­
do in termini di metodo storico, dovrebbe
essere piuttosto: è pregnante, è significativa
la linea di interpretazione proposta, ai fini
di una valutazione etica — poiché di questo
si tratta anche per gli storici revisionisti —
dei crimini del nazionalsocialismo? Non vi
sono, a quello scopo, altre direzioni di ricer­
ca di gran lunga più decisive, più proficue,
più pertinenti? E se è così, perché sono state
ignorate o trascurate? In altre parole, nessu­
no potrebbe contestare a questi storici il di­
ritto o l’utilità presuntiva di impegnarsi a
fondo sulle connessioni psicopatologiche del­
148
Rassegna bibliografica
la mente di Hitler o sull’esistenza o meno di
una recondita vocazione al genocidio radica­
ta nell’umanità di tutti i tempi (solo per fare
due esempi alla rinfusa), ma pretendere che
questo modifichi il giudizio storico comples­
sivo sul nazismo e i suoi crimini è ben altra
cosa.
Il buon senso e l’interpretazione storica fi­
nora accettata dicono che il fatto moralmen­
te più rilevante di quella vicenda è che una
società assai evoluta abbia posto enormi
mezzi tecnici, economici, intellettuali al ser­
vizio del massacro pianificato di milioni di
persone, buona parte delle quali erano in età
da non capire neppure cosa stesse accaden­
do. E che nessuno, o quasi, in quella società
abbia trovato ragioni per opporsi o disso­
ciarsi da quanto stava accadendo. Quando si
parla di unicità o incomparabilità dei crimi­
ni nazisti (i termini presi di mira più dura­
mente dagli storici revisionisti) si intende af­
fermare, con un’espressione simbolica, che
essi sono stati lo scacco per eccellenza dei
valori di cui da secoli si nutre, o si illude di
nutrirsi, la civiltà occidentale. Che essa è
piombata per quella via ad un livello di bar­
barie assolutamente inimmaginabile, dato il
grado di sviluppo fino ad allora raggiunto,
tale che gli uomini di quell’epoca (ed anche
di questa) avrebbero semplicemente rifiutato
di credere possibile se non fossero stati co­
stretti a vederlo con i propri occhi. Per que­
sto si ritiene che quei crimini debbano rima­
nere come monito non solo per il popolo te­
desco (seppure per esso in primo luogo) ma
anche per tutto il mondo occidentale. Da un
punto di vista funzionale-scientifico poi, il
richiamo all’unicità di quei crimini significa
più semplicemente e concretamente che il fe­
nomeno del nazismo non può essere sussun­
to sic et simpliciter nella categoria interpre­
tativa del fascismo e tanto meno in quella
del totalitarismo poiché quelle categorie so­
no del tutto insufficienti a spiegare e forse
anche solo ad inquadrare la vicenda dello
sterminio degli ebrei in Europa.
Tutta questa sensibilità e puntigliosità fi­
lologica di Nolte e degli altri, che ci ram­
menta il fatto ovvio che ogni evento reale è
unico e che tutti d’altronde sono comparabi­
li, appare qui inconsistente e fuori luogo. A
ben più severa critica potrebbe esser sotto­
posto l’uso del termine “olocausto”, adope­
rato tanto volentieri, che suggerisce appun­
tamenti della storia con il trascendente.
Con tutto ciò non si vuole naturalmente
ignorare la vasta riflessione in atto da diver­
si anni sulla storia contemporanea della Ger­
mania, in cui pure quelle posizioni si inseri­
scono, o negare che da essa possano venire
spunti di grande interesse anche per la com­
prensione delle condizioni che resero possi­
bile il nazismo. Porre l’accento sulla criticità
della posizione dell’impero tedesco in Euro­
pa o, più ancora, sugli effetti sociali e psico­
logici particolarmente destrutturanti in Ger­
mania dell’irruzione delle “cateratte della
modernità”, può significare senza dubbio un
approccio più profondo e più articolato al­
l’atteggiamento e alla mentalità tedeschi nel
periodo che comprende le due guerre mon­
diali.
Ciò che non può essere accettalo è l’uso
strumentale di questi e di altri assai meno
convincenti motivi per imbellettare la storia
del Reich di cui la Rft, nel bene e nel male,
ha assunto l’eredità. Dal punto di vista della
memoria storica degli ebrei, e di tutti coloro
che si sentono ancora oggi partecipi della
sorte toccata loro durante la seconda guerra
mondiale, è poi semplicemente inaccettabile
che la vicenda dei campi di sterminio venga
trattata come un’appendice fastidiosa, come
un ostacolo da rimuovere a tutti i costi per
condurre a termine quella operazione. Mi
sembra che anche nei commenti apparsi sul­
la stampa italiana non sia stato dato il giusto
peso a questa leggerezza e a questa sistema­
tica volontà di non approfondire.
Nelle argomentazioni di Nolte questo tipo
di atteggiamento è riscontrabile in modo
preciso. Va citato anzitutto l’ambiguo richia­
Rassegna bibliografica
mo alla tesi (che non si capisce bene in che
misura venga condivisa) che l’assicurazione
data da Weizman al governo britannico che
gli ebrei di tutto il mondo avrebbero com­
battuto contro la Germania possa equivalere
in qualche modo ad una dichiarazione di
guerra e dunque aver autorizzato Hitler ad
alcune forme di internamento preventivo.
Ma pure tralasciando questo, si resta scon­
certati di fronte alla conclusione del primo
intervento di Nolte in cui egli ci invita a trar­
re, come maggiore insegnamento dalla vi­
cenda in questione, l’impulso a liberarci dal­
la tirannia del “pensiero collettivistico”.
Quella critica cioè, “di condizioni dalle quali
gli individui non possono liberarsi (o solo
con estrema difficoltà): cioè la critica verso
gli ebrei, i russi, i tedeschi, o i piccolo-bor­
ghesi” . Oltre al tentativo di far sparire la
corresponsabilità della società tedesca del
tempo, e tutte le problematiche che essa po­
trebbe sollevare, va qui rilevato il cattivo gu­
sto — per non dire che questo — di mettere
su uno stesso piano la ‘critica’ verso gli
ebrei, che è costata quasi sei milioni di morti
nel giro di tre-quattro anni, e l’odierno at­
teggiamento critico verso il passato della
Germania. Ma c’è di più. Lo stesso Nolte
aveva commesso poche pagine prima la stes­
sa mancanza da cui ci esorta a guardarci,
chiedendosi con incredibile disinvoltura se
per caso l’ostinato non voler passare del
passato tedesco non dipenda anche “dall’in­
teresse dei perseguitati e dei loro discendenti
ad una condizione permamente di ecceziona­
lità e di privilegio”.
Il fatto è che la motivazione di fondo che
muove questi storici impedisce loro qualsiasi
seria verifica dei processi logici proposti.
Non altrimenti si può spiegare, a mio avvi­
so, che sforici di fama e di grande esperienza
inciampino malamente su questioni di meto­
do come accade a Hillgruber (nel saggio Du­
plice caduta. Lo smembramento del Reich
tedesco e la fine dell’ebraismo europeo, Ber­
lino, 1986) che nel descrivere il crollo del
149
fronte orientale tedesco alla fine della guer­
ra, nel 1944-45, sente il bisogno di chiedersi
con quale delle parti in causa lo storico deb­
ba identificarsi. E risponde che la sua pro­
spettiva è quella della popolazione civile te­
desca che cercava invano di resistere alla
pressione sovietica e di coloro che l’aiutava­
no combattendo, nonostante all’interno di
quel confine e grazie alla sua tenuta funzio­
nassero a pieno regime i campi della morte.
Ad Habermas, che giustamente trova cu­
rioso che uno storico vada cercando, per
identificarvisi, la prospettiva di una delle
parti in causa e non scelga senz’altro la pro­
pria, quella cioè di uno studioso che scrive
ad oltre quarant’anni di distanza, Hillgru­
ber, evidentemente a corto di argomenti, rie­
sce solo a rispondere pateticamente: “Si vuole
forse — in contrasto con la nostra costituzio­
ne liberale — prescrivere qui per legge cosa
agli storici è consentito fare e cosa no?” .
Ancora a quell’approccio distorto va ri­
condotto il liquidatorio discorso di Fest (che
pure afferma contestualmente che nessun
crimine può giustificarne o attenuarne un al­
tro) secondo cui la principale linea di demar­
cazione fra i due schieramenti della polemi­
ca potrebbe essere individuata con profitto
nella diversità fra un presupposto pessimistico e uno ottimistico sulla natura dell’umani­
tà. Gli uni avrebbero una visione dell’uomo
come “l’antico Adamo, la cui malvagità fa
parte della condition humaine, su cui nessu­
na utopia ha mai potuto prevalere” . Gli al­
tri, “dalle catastrofi morali del secolo hanno
tratto in salvo la speranza di un tempo sulla
perfettibilità dell’uomo e sulla possibilità di
educarlo, e nell’Olocausto scorgono una
aberrazione unica e atipica, dopo la quale si
potrà procedere verso un mondo migliore”.
In definitiva, sia che si voglia diluirli nel­
l’infinita serie di nefandezze della storia del­
l’umanità, sia che si cerchino connessioni e
accostamenti o punti di vista alternativi, l’o­
biettivo è pur sempre quello di ridimensio­
nare i crimini nazisti. Di attenuarne la cen­
150
Rassegna bibliografica
tralità, fino ad oggi per lo più indiscussa,
nella storia tedesca contemporanea. Poiché
essi non possono essere ragionevolmente ri­
mossi da quella posizione, gli storici revisio­
nisti sono costretti a tentare analisi e rico­
struzioni assai tortuose che, oltretutto, li al­
lontanano costantemente dal merito della
questione. In tutta la loro affannosa ricerca
di connessioni, ad esempio, non si trova un
solo riferimento al secolare antisemitismo
cristiano né ai reali antecedenti storici del­
l’odio e della violenza contro gli ebrei. Ora,
c’è da chiedersi, è possibile comprendere in­
teramente la volontà sterminatrice dei nazi­
sti e la generale indifferenza della popolazio­
ne in Germania e in Europa orientale pre­
scindendo dal pregiudizio religioso e, più
ancora, dalla sua trasfigurazione violente­
mente politica, affermatasi in Europa ai
tempi della rivoluzione francese e mantenu­
tasi in ottima salute fino alla fine della se­
conda guerra mondiale? Non è qui necessa­
rio chiamare in causa la propaganda reazio­
naria del diciannovesimo e ventesimo secolo
che ricorreva con tanta larghezza al motivo
degli ebrei giacobini, bolscevichi, capitalisti
o massoni (a seconda delle congiunture e
delle convenienze), sempre nemici e sovverti­
tori del buon vecchio ordine del mondo cri­
stiano? Non è il caso di riferirsi, se si cerca­
no antecedenti, al processo Dreyfus, ai Pro­
tocolli dei savi anziani di Sion, ai pogrom
spaventosi con cui nella Russia zarista si cer­
cò di far fronte, manovrando masse consi­
derevoli, ai problemi politici e sociali fino
alla rivoluzione d’ottobre? Il ricordare que­
sti elementi insieme ad una critica dell’at­
teggiamento incerto e a volte ipocrita del
mondo libero, avrebbe forse potuto tornare
di qualche sollievo per la coscienza storica
dei tedeschi mostrando come quel crimine
agghiacciante, incomparabile o meno che
sia, comunque non è nato nel vuoto, non è
stato una pura invenzione della Germania
nazista.
È inevitabile il sospetto che, ancora una
volta per ragioni ideologiche, risulti assai
più comodo ricercare le radici dell’orrore
nazista nel trauma e nell’esempio “asiatico”
della rivoluzione bolscevica piuttosto che se­
guire tracce che potrebbero portare a spez­
zoni non marginali della cultura politica
conservatrice d’Europa.
Stefano Caviglia
La Svizzera italiana nel ventennio fascista
di Elisa Signori
Dalla minacciosa battuta sul Canton Ticino
“imbastardito e tedeschizzato” e sul Gottar­
do “confine naturale dellTtalia”, pronun­
ciata dal neodeputato Mussolini al suo esor­
dio parlamentare, il 21 giugno del 1921, sino
al nebuloso “disegno finale” di una annes­
sione dei cantoni della Svizzera meridionale,
affiorato più volte a partire dal 1938 nelle
conversazioni del duce con Ciano e Bottai e
accennato anche in seno al Gran Consiglio,
corrono quasi vent’anni di relazioni italoelvetiche, per la cui messa a fuoco nel conte­
sto del gioco politico europeo tra le due
guerre non si poteva contare fino a tempi re­
centi su indagini specifiche e di vasto im­
pianto documentario. L’interesse degli stu­
diosi della politica estera si è polarizzato —
beninteso con ottime ragioni — intorno agli
assi portanti della collocazione internaziona­
le dell’Italia fascista — quali i rapporti con
Rassegna bibliografica
il Terzo Reich, con l’area danubianobalcanica, con la Gran Bretagna, con la
Francia, con gli Stati Uniti, con l’Etiopia —
e intorno ai quesiti di fondo e ai modelli in­
terpretativi adottati per ricostruirne le scelte
e comprenderle: i nessi e le priorità tra poli­
tica interna e politica estera, il revisionismo,
la coerenza o improvvisazione di Mussolini
diplomatico, la continuità o discontinuità
della direttrice imperialista, il colonialismo
“straccione”, i miti e la realtà della politica
di potenza. In tale vasta tessitura di ricerche
i rapporti italo-elvetici, intesi ovviamente nel
senso più ampio e non strettamente tecnico e
diplomatico del termine, sono rimasti al­
quanto in ombra, limitandosi per lo più il
commento storico alle ricorrenti impennate
panitalianiste del duce nei confronti del
Canton Ticino o alle campagne di stampa
intimidatorie, venate di fermenti irredenti­
stici, orchestrate a più riprese dal regime.
Certo per l’Italia fascista Berna fu un in­
terlocutore di secondaria importanza, ma è
pur vero che nel confronto con la confinante
democrazia elvetica il peso specifico, per co­
sì dire, delle relazioni diplomatiche era ac­
cresciuto da un singolare intreccio di interes­
si e condizionamenti politici, economici e
culturali. Basti ricordare che la Svizzera era
seconda in Europa solo alla Francia per nu­
mero di fuorusciti antifascisti ammessi a go­
dere dello status di perseguitato politico;
che, inoltre, essa ospitava nutrite e attive co­
munità di lavoratori italiani, emigrati tra
Otto e Novecento; che l’impatto del fasci­
smo sulla vita politica del cantone di lingua
italiana aveva creato e continuò a creare si­
tuazioni conflittuali ricche di promettenti
prospettive per il regime, ma anche di ri­
schiose incognite; che il movimento dei fasci
italiani all’estero vantava appunto in Svizze­
ra titoli di vera e propria primogenitura e
che, assorbiti poi, sul finire degli anni venti
in una struttura ramificata e rigidamente di­
sciplinata da Roma, i fasci si configurarono
come una corposa presenza istituzionale, in­
151
cuneatasi a latere della tradizionale rappre­
sentanza diplomatica nella società svizzera e
operante di fatto come una proiezione ideo­
logica e organizzativa del regime fuori dei
suoi confini territoriali. Per non dire dei ten­
tativi di imitazione del fascismo avviati in
Svizzera e incoraggiati da Roma o della stri­
sciante opera di penetrazione culturale per­
seguita da riviste pseudo scientifiche e lette­
rarie. A questo sommario quadro di recipro­
ci influssi si aggiunga qualche dato di carat­
tere economico tra i più appariscenti — co­
me la presenza in Italia di operatori svizzeri
di grosso calibro in campo industriale, com­
merciale e finanziario e di capitali svizzeri
investiti in vari settori d’attività, come un
volume non trascurabile di scambi tra i due
paesi o l’importanza strategica dei nodi fer­
roviari elvetici per i traffici dell’Italia con il
centro e nord Europa — e si avrà netta la
percezione della varietà di quesiti e proble­
matiche connessi a questo capitolo di storia
dell’Europa contemporanea.
A muoversi in questa direzione di indagi­
ne sono stati per primi gli studiosi d’oltralpe
le cui ricerche, pur privilegiando per lo più
l’ottica svizzera, offrono un contributo rile­
vante per la conoscenza non solo di questo
particolare aspetto del confronto internazio­
nale, ma anche di poco esplorate realtà del
fascismo, a metà strada, se così si può dire,
tra la storia delle istituzioni e quella della
politica interna ed estera. Dopo il pionieri­
stico lavoro di Katharina Spindler (trad. it.:
La Svizzera e il fascismo italiano 1922-1930,
Bellinzona, Casagrande-Milano, Longanesi
e Co, 1980) apparso nel 1976 e dedicato agli
anni venti, con un primo stimolante sondag­
gio delle fonti diplomatiche italiane e svizze­
re e la ricostruzione della fase d’avvio, ag­
gressiva e tumultuosa, dei fasci in Svizzera,
sono venute diverse indagini di taglio regio­
nale — ad esempio il saggio di Paola
Bernardi-Snozzi sull’irredentismo e filofa­
scismo ticinese, quello di Claude Cantini
{Per una storia del fascismo italiano a Lo-
152
Rassegna bibliografica
sauna, “Italia contemporanea”, 1975, n.
119) sul fascismo italiano a Losanna e la più
recente monografia di Mario Rigonalli {Le
Tessin dans les relations entre la Suisse et
l ’Italie, 1922-1940, Locamo, Pedrazzini,
1983), anch’essa dedicata al Cantón Ticino e
alle relazioni italo-svizzere.
La pubblicazione nei primi anni ottanta di
una sezione cospicua dei documenti ufficiali
della diplomazia elvetica, nonché la messa a
fuoco di personalità significative per le vi­
cende in esame — si pensi al profilo del co­
lonnello Arthur Fonjallaz, fondatore del fa­
scismo svizzero, tracciato da Cantini {Il fa ­
scismo elvetico del colonnello Fonjallaz nel
Cantón Ticino, “Archivio storico ticinese”,
1981, n. 86-87) — e la accessibilità dei car­
teggi privati e semiufficiali di Giuseppe Mot­
ta, capo del Dipartimento politico federale
fino al 1940, hanno dato ulteriore impulso
allo studio di questi temi, che nel vasto e do­
cumentato lavoro di Mauro Cerutti, Tra Ro­
ma e Berna. La Svizzera italiana nel venten­
nio fascista, Milano, Angeli, 1986, pp. 528,
lire 32.000 (Istituto nazionale per la storia
del movimento di liberazione in Italia) tro­
vano una prima organica e persuasiva tratta­
zione. Situato all’incrocio tra storia regiona­
le del Cantón Ticino e storia della Confede­
razione tout court, tra storia politica del fa­
scismo e dell’antifascismo nella Svizzera ita­
liana e storia delle relazioni diplomatiche tra
i due stati confinanti, il volume di Cerutti si
fonda su una condividibile ipotesi interpre­
tativa e cioè che il confronto/scontro tra fa­
scismo e antifascismo abbia funzionato co­
me un formidabile “reagente” sul contesto
delle istituzioni e della vita politica anzitutto
ticinese e di riflesso elvetica. L’arco cronolo­
gico considerato è quello grosso modo com­
preso tra l’avvento del fascismo e la metà
degli anni trenta (l’analisi del periodo suc­
cessivo, dalla guerra d’Etiopia in poi, è ri­
mandato ad un ulteriore studio già annun­
ciato dallo stesso autore). Entro queste
coordinate temporali Cerutti ricostruisce mi­
nuziosamente le tappe del processo di coin­
volgimento e quasi di osmosi politica creato­
si tra Italia e Canton Ticino, seguendo l’evo­
luzione di un dibattito che con l’arrivo dei
fuorusciti antifascisti e l’intensificarsi del­
l’attivismo dei fasci locali si trasforma in
aperto conflitto e altera irreversibilmente il
clima politico di quegli anni. L’indagine
rientra dunque parzialmente anche nella
prospettiva dell’“Italia giudicata” , ossia del­
l’immagine del fascismo all’estero, e, nel ca­
so specifico, dei consensi e dissensi suscitati
nello schieramento politico cantonale, nel­
l’opinione pubblica, nel variegato panorama
della stampa. Dalla dimensione regionale si
passa però di continuo a quella federale, ove
i contraccolpi delle vicende ticinesi innesca­
no discussioni parlamentari e interventi di­
plomatici.
Uno dei risultati dell’analisi di Cerutti è di
aver accertato un sensibile scarto tra gli
orientamenti della politica federale e di quel­
la ticinese in tema di diritto d’asilo, vero ca­
posaldo del neutralismo democratico della
Svizzera moderna, la cui applicazione s’inte­
se a Berna in modo assai più cauto e in mi­
sura più selettiva che non a Bellinzona. In
questa dimensione federale s’inquadra un
tentativo di valutazione della politica di fles­
sibilità praticata nei confronti dell’Italia fa­
scista dal Consiglio federale sotto la guida di
Giuseppe Motta: pur senza indulgere ad una
interpretazione di tipo personalistico della
politica estera svizzera — Cerutti bada a
non trascurare la dialettica politica interna
del Consiglio federale e a non attribuire al
solo Motta la responsabilità di decisioni col­
legiali di tutto l’esecutivo — viene ricono­
sciuto un ruolo centrale al capo del Diparti­
mento politico che, ticinese di nascita e cul­
turalmente legato all’Italia, di fatto fu “l’e­
sperto di cose italiane” e, dunque, il primo
artefice delle scelte politiche e diplomatiche
in questo ambito. La consultazione delle
carte Motta permette a Cerutti di illuminare,
nelle sue pieghe psicologiche oltre che cultu-
Rassegna bibliografica
rali e politiche, la linea perseguita dal capo
della diplomazia elvetica: ne emerge un me­
ditato ritratto che coniuga l’inflessibile av­
versione a qualsivoglia irredentismo con
l’autentica simpatia per l’Italia, la coerente
difesa dell’“elvetismo” con l’anticomunismo
dichiarato, la fede cattolica con l’ammira­
zione per Mussolini e per molte realizzazioni
del regime. Componente essenziale dell’at­
teggiamento di Motta resta d’altronde — e
l’autore non manca di notarlo — la franca
opposizione alla versione indigena, svizzera
del fascismo: particolare questo illuminante
per capire non solo Motta, ma anche uomini
di cultura come Francesco Chiesa che, se
guardavano con simpatia all’Italia e al fasci­
smo italiano, non per questo approvavano il
modello fascista e quindi consentivano a un
eventuale suo trapianto in Svizzera.
Nel ripercorrere i momenti salienti della
tenace “benevolenza” di Motta verso il fa­
scismo Cerutti ne stigmatizza tuttavia con
forza la miopia: a suo parere mancò a Motta
la corretta percezione della politica ambiva­
lente, a doppio binario, giocata da Mussoli­
ni e dei suoi obiettivi di aggressivo imperiali­
smo nel lungo periodo. La compiacenza di
Motta di fronte alle istanze della potente vi­
cina — Cerutti documenta con cura i nume­
rosi casi di attrito, da\Vaffaire Cesare Rossi
al processo Bassanesi, alle espulsioni di An­
gelo Tonello e poi di Pacciardi, nonché l’in­
treccio dei servizi segreti italiani in terra el­
vetica — ebbe secondo l’autore effetti nega­
tivi sul clima politico e civile della Confede­
razione, contribuendo all’indebolimento di
quei valori democratici sulla cui buona tenu­
ta, in termini di consenso e di coscienza poli­
tica collettiva, la Svizzera giocava parte del
suo futuro. “Sebbene piccola — conclude
Cerutti — la Svizzera avrebbe avuto tutto da
guadagnare in termini di salute delle istitu­
zioni ostentando pubblicamente, con più vi­
gore di quanto non fece, i suoi valori demo­
cratici. Ma il governo, con Motta in prima
fila, troppo spesso scelse di piegare quei va­
153
lori al dettame diplomatico dei buoni rap­
porti con Roma; le promesse mussoliniane
di amicizia — di cui oggi conosciamo, a po­
steriori, la scarsa serietà — non meritavano,
a nostro parere, un compenso talmente ele­
vato” . Nel giudizio ci paiono fuse considera­
zioni di ordine etico e politico e valutazioni
di carattere storico e diplomatico. Su questo
secondo piano qualche precisazione sarebbe
opportuna. Varrebbe la pena di domandar­
si, ad esempio, se non convenga, specie per
il periodo considerato, confrontare il savoir
faire di Motta e persino la sua disponibilità
al compromesso con le manifestazioni di sti­
ma, le larghe aperture di credito, le simpatie
che da tanti leader del mondo democratico,
europeo e non, vennero al regime. Anche
senza parlare, come fece Salvemini, di
“complicità” francesi e inglesi, va detto che
non il solo Motta sentì la necessità di non
rompere i ponti con Roma e di evitare che il
confronto con la vicina dittatura assumesse
il carattere di uno scontro ideologico tra op­
posti modelli politici e istituzionali. La posta
in gioco era alta — la pace e la sicurezza —
e diffusa fu la convinzione, almeno fino al
1935 e oltre, che i discorsi incendiari di Mus­
solini si potessero esorcizzare con concessio­
ni di modesta entità. E del resto la storia del
successo del fascismo e del nazionalsociali­
smo non è stata letta anche come la storia
della loro fatale sottovalutazione, prima da
parte degli interlocutori politici all’interno,
poi nel contesto post Versailles della politica
internazionale?
La flessibilità elvetica ci pare rientrare, in­
somma, in un clima e in una casistica inter­
nazionale di pragmatico opportunismo, che
a posteriori è facile condannare, ma che sul
piano storico merita una disamina articolata
e assai cauta. Per tale articolato bilancio
storico complessivo sulla politica di Motta ci
pare manchino ancora molti elementi: a co­
minciare da una analisi degli effettivi rap­
porti di forza economici e militari, oltre che
strettamente politici, esistenti tra i due vici­
154
Rassegna bibliografica
ni, sulla cui base si possa verificare la prati­ sta istituzione e nel contempo di studiarne i
cabilità o meno di una linea di maggior rigo­ fiancheggiatori e i coraggiosi avversari: dal
re verso l’Italia e stimarne realisticamente i partito socialista ticinese, schierato con Gu­
costi in termini di pace e di sicurezza. Per li­ glielmo Canevascini inequivocabilmente dal­
mitarci al solo settore economico sarebbe la parte degli antifascisti, alle forze liberalutile, ad esempio, disporre di una mappa de­ radicali, che proprio sul tema della solidarie­
gli interessi economici svizzeri in Italia, così tà col fuoruscitismo maturarono le ragioni
come di un quadro dettagliato dell’import- di una drastica scissione, dai cedimenti filoexport italo-elvetico, specie nel settore del­ fascisti della destra conservatrice alle vigoro­
l’industria meccanica e di precisione per ap­ se campagne di stampa contro il regime, in
plicazioni militari. Un primo assaggio di parte ispirate dagli esuli italiani. Quanto al
questi dati è proposto da Rigonalli nel suo fascismo autoctono, Cerutti riesce a colle­
citato studio, ma rimane ancora spazio per garne l’evoluzione, da un lato, agli appoggi
venuti da Roma e voluti espressamente da
utili approfondimenti.
Tornando alla stimolante indagine di Ce- Mussolini, dall’altro alle perplessità che la di­
rutti resta da sottolineare il rilevante contri­ plomazia italiana in Svizzera manifestò so­
buto ch’essa offre alla conoscenza di due prattutto in merito alla discutibile scelta di
realtà quasi inesplorate del fascismo fuori Fonjallaz come alfiere del movimento e alla
d’Italia: da un lato i fasci italiani nel Canton malriposta fiducia nelle sue capacità politiche.
Le diverse vie battute dalla politica estera
Ticino, dall’altro la nascita, evoluzione e
crisi di un autoctono partito fascista svizze­ fascista risultano così recuperate con acume
ro, cui Mussolini non negò aiuti materiali e nella loro interdipendenza, a conferma del
nemmeno una sorta di investitura politica. fatto che, come efficacemente scrisse Gior­
Mettendo a frutto un suggerimento di Enzo gio Rumi {Alle origini della politica estera
Santarelli (Intorno ai fasci italiani all’este­ fascista 1918-1923, Bari, Laterza, 1968) “il
ro, in Fascismo e neofascismo. Studi e pro­ ‘regno d’Italia’ e ‘l’Italia fascista’ convivo­
blemi di ricerca, Roma, Editori Riuniti, no anche se non senza contrasti, e Mussoli­
1974), che riconosceva nell’“ambiguo, bici­ ni, volta a volta, gioca l’una o l’altra carta” .
pite o pluralistico” movimento dei fasci ita­ Più che parlare di slealtà o di cinismo, come
liani all’estero un elemento “peculiare del talvolta capita di fare a Cerutti — ci pare il
fascismo italiano fra gli altri fascismi euro­ caso di riconoscere in questa prassi il segno
pei” e come tale storicamente rilevante sia peculiare della strategia mussoliniana, non
sotto il profilo dell’impostazione propagan­ priva di una sua logica interna, anche se
distica che sotto quello dell’organizzazione eversiva delle consuetudini diplomatiche. È
“di massa”, Cerutti dedica un’analisi pun­ insomma una vasta tastiera di strumenti, che
tuale all’attività dei fasci italiani nel Canton Mussolini — ma varrebbe la pena di accerta­
Ticino, mettendone in luce il raccordo con re cosa ne pensavano le altre componenti
la rete spionistica e informativa organizzata dell’establishment fascista — suona nei rap­
dalla polizia politica italiana e con le mute- porti con la Svizzera, muovendosi con dutti­
voli esigenze del regime. La consultazione lità tra diversi registri: la routine diplomati­
incrociata delle fonti archivistiche italiane e ca non esclude l’intrigo, il conclamato paci­
di quelle elvetiche, arricchita dallo spoglio fismo e le proteste d’amicizia non pregiudi­
della stampa ticinese e italiana, permette al­ cano la permanente disponibilità all’avven­
l’autore di organizzare in un quadro preciso tura.
e coerente la storia interna ed esterna di que­
Elisa Signori
Rassegna bibliografica
155
Il “lungo O ttocento” di Eric H obsbawm
di Massimo Legnani
Che il diciannovesimo secolo rappresenti
l’asse centrale delle produzione storiografica
di Eric J. Hobsbawm è un dato del tutto evi­
dente anche al lettore italiano, che ha potuto
via via disporre (per una volta con notevole
tempestività) della traduzione dei principali
lavori dello storico inglese: da I ribelli a /
banditi; dagli Studi di storia del movimento
operaio a La rivoluzione industriale e l’Im­
pero-, dai contributi inseriti nella Storia del
marxismo (tutti pubblicati da Einaudi a par­
tire dal 1966) a Rivoluzione industriale e ri­
volta nelle campagne (scritto in collabora­
zione con George Rudé, Roma, Editori Riu­
niti, 1973), alla recente raccolta di saggi su
Lavoro, cultura e mentalità nella società in­
dustriale (Roma-Bari, Laterza, 1986). Agli
interessi specifici che questi titoli suggerisco­
no Hobsbawm ha accompagnato, sin quasi
dagli inizi, un disegno di rappresentazione
complessiva dell’Ottocento, avviato nel 1962
da The Age o f Revolution.Europe 17891848 (Le rivoluzioni borghesi 1789-1848,
Milano, Il Saggiatore, 1963), proseguito nel
1975 con The Age o f Capital 1848-1875 {Il
trionfo della borghesia 1848-1875, Roma-Bari, Laterza, 1976) e concluso, nel
1987, da questo The Age o f Empire 18751914 {L’età degli Imperi 1875-1914, Ro­
ma-Bari, Laterza, 1987). Distribuiti su un
quarto di secolo, i tre volumi obbediscono
ad una comune formula di haute vulgarisation, il cui “lettore ideale — aveva scritto
Hobsbawm nel 1962 — è costituito da quei­
rindividuo teorico che è il cittadino intelli­
gente e istruito, il quale non è soltanto cu­
rioso di conoscere il passato, ma desidera
comprendere come e perché il mondo è di­
ventato quello che è oggi e quale è la meta
verso cui si avvia”. Ribadita nella prefazio­
ne all’ultimo volume, questa destinazione
meriterebbe più di un semplice richiamo in
rapporto alle assai meno positive valenze
che le finalità divulgative assumono nella
media della produzione editoriale italiana.
Nel nostro caso, essa si carica di un ulteriore
significato legandosi a ciò che l’autore defi­
nisce come la “zona crepuscolare” collocata
fra storia e memoria, “fra il passato come
archivio generale aperto all’indagine relati­
vamente spassionata, e il passato come parte
o sfondo dei propri ricordi personali” (p. 5).
Avvicinandosi, e poi decisamente inol­
trandosi nel ventesimo secolo, l’intreccio tra
conoscenza ed evocazione si complica attra­
verso il gioco delle prospettive esistenziali e
generazionali. A ragione, in tale prospettiva,
Hobsbawm può indicare nell’agosto 1914
“una delle più incontestabili ‘cesure natura­
li’ della storia” (p. 9), sulla quale l’imponen­
te ed ininterrotto accumulo di letteratura ra­
ramente sfugge al dilemma tra la celebrazio­
ne della belle époque come luogo della no­
stalgia o come presa di distanza dal capitolo
conclusivo del passato. In ogni caso, si trat­
ta di attitudini che sarebbe arduo ricondurre
a pure categorie storiografiche; e, si potreb­
be aggiungere (Hobsbawm vi dedica un rapi­
do cenno nell’epilogo), non separabili dal
senso di precarietà del futuro che accompa­
gna questa fine Novecento. Il fatto stesso
che il 1914 sia oggetto di interesse costante
da parte dei mass media ne accresce, nel sen­
so comune, le valenze simboliche e serve a
propagarne le suggestioni.
A differenza dei primi due, questo terzo
volume presenta una intelaiatura meno net­
tamente squadrata. Allo schema fondato
sulla successione racconto-analisi subentra
una articolazione più fluida, che alterna
continuamente i due piani e nella quale si
può vedere riflesso lo sforzo di aderire ad
una materia più complessa, contraddittoria
e sfuggente. Se fino al 1875 si era trattato di
156
Rassegna bibliografica
delineare l’ascesa del potere borghese facen­
do spazio anche a incertezze e rallentamenti,
ma tenendo ferma la sostanziale linearità e
continuità del processo (interpretato sulla
base di prevalenti categorie marxiste, che
nell’instaurazione dei regimi liberali scorgo­
no la sanzione di interessi già largamente af­
fermatisi in campo economico), a partire
dalla ‘grande depressione’ l’obiettivo che
Hobsbawm si prefigge è di dar conto, paral­
lelamente, e della ulteriore estensione di quel
potere e del manifestarsi, al suo interno, di
fattori che ne minano progressivamente la
solidità. Tra i tanti “paradossi” di cui l’età
imperiale costituisce un elenco “interminabi­
le” , il maggiore, scrive l’autore, è proprio
“quello del mondo e della società del libera­
lismo borghese avanzante verso la ‘strana
morte’ [...] che lo coglie proprio quando esso
raggiunge il suo apogeo” (p. 13). E d’altro
canto, i modi del declino, dapprima quasi
impercettibili (anzi, ammantati dei segni op­
posti: T“apogeo”), poi improvvisamente
brutali (e qui l’agosto 1914 torna per vie di­
verse a convalidare quel carattere di spar­
tiacque epocale prima suggerito dalla memo­
ria) pongono nella giusta luce la vittima pe­
culiare della crisi, la “società liberale bor­
ghese” , appunto: “questo libro — leggiamo
ancora — studia il momento storico in cui
diventò chiaro che la società e la civiltà crea­
te da e per la borghesia liberale occidentale
non rappresentavano la forma permanente
del mondo industriale moderno, ma solo
una fase del suo sviluppo iniziale” (p. 15).
Così si evidenzia fino in fondo l’asse portan­
te dell’opera e la nozione stessa di “lungo
Ottocento” come fase che trae la propria
omogeneità dalla centralità economica, poli­
tica, culturale della classe borghese.
Gli anni 1880-1914 sono quelli in cui tra
slanci, adattamenti, prime ritirate, si com­
pleta l’edificio di cui i decenni precedenti
avevano posto le fondamenta, dall’omoge­
neizzazione del quadro mondiale agli inte­
ressi dei ceti dominanti delle grandi potenze
europee allo sgretolamento della antica base
agraria accelerato dalla ‘grande depressio­
ne’, dalla comparsa del capitalismo oligopo­
listico alla ‘democratizzazione’ dei sistemi
politici, dalla diffusione dei movimenti sin­
dacali e socialisti alla loro crescente assimi­
lazione ai contesti nazionali grazie agli stru­
menti di integrazione delle incipienti società
di massa (l’esercito, la scuola), ma grazie
anche alla pervasività delle dottrine imperia­
listiche, nazionalistiche e razziste. “Fu un’e­
ra — in definitiva — nonostante le apparen­
ze, di crescente stabilità sociale nella zona
delle economie industriali avanzate, un’era
che fornì le esigue schiere di uomini in gra­
do, con quasi sprezzante facilità, di conqui­
stare e governare imperi vastissimi” (p. 13).
Il quadro sociale che Hobsbawm muove en­
tro questi confini è spesso assai vivo e ricco
di scambi tra i suoi numerosi versanti. La
borghesia che ora asseconda, ora manipola
la ‘democratizzazione’ (p. Ili); che accen­
tua gli spazi della vita privata e al tempo
stesso paga uno dei prezzi delle trasforma­
zioni vedendo crescere il distacco dai figli (e
soprattutto dalle figlie, tra le quali germo­
gliano i primi movimenti emancipazionisti)
(pp. 193-196 e 233); che accompagna i pro­
pri agi con una crescente inquietudine socia­
le e spirituale (p. 215). Il proletariato che ri­
flette, soprattutto attraverso gli orientamen­
ti sindacali, modificazioni dell’assetto pro­
duttivo, tradizioni nazionali e regionali,
identità culturali condizionate dalla urbaniz­
zazione (pp. 141-151). I ceti intermedi, e più
particolarmente quelli di ascendenza artigia­
na, che offrono il principale terreno di con­
senso al nuovo radicalismo nazionalistico su
cui si innesta l’antisemitismo (pp. 180-183).
Sono solo alcuni accenni che sottolineano
l’attenzione che il libro dedica all’immagine
(spesso alla autorappresentazione) dei diver­
si attori sociali, alla percezione che essi han­
no del cambiamento, alle reazioni che mani­
festano. In questo senso la capacità di co­
gliere certi aspetti della ‘massificazione’ —
Rassegna bibliografica
siano essi la diffusione della stampa e degli
spettacoli oppure le applicazioni tecnologi­
che alla organizzazione della vita domestica
o ancora la diffusione della pratica sportiva
a livello popolare o nel coté alto-borghese —
si salda alle informazioni sull’andamento dei
salari o sulla scolarizzazione e offre indica­
tori essenziali per fissare i ritmi della vita
collettiva. Così come, su altro piano, riesce
particolarmente incisivo il discorso sul mu­
tamento scientifico e artistico, tanto per
quanto riguarda il “divorzio fra scienza e in­
tuizione” esemplificato attraverso le trasfor­
mazioni della matematica e della fisica (pp.
281-288), quanto per la frattura, che prende
corpo con le avanguardie novecentesche,
“fra ‘modernità’ politica e artistica” (p.
263). Il senso di precarietà che subentra alle
certezze del progresso minando le basi dell’i­
deologia liberale emerge più nettamente, an­
che se indirettamente, in questo ambito che
non nel campo delle scienze sociali, dove pu­
re l’irruzione delle masse determina una in­
quieta attenzione all’“irrazionale”.
Tuttavia le maglie del discorso tendono ad
allargarsi quando si spingono sul terreno
della politica e della gestione del potere. Al­
lora il predominio o quantomeno la conno­
tazione borghese restano in qualche modo
implicite, così da scolorire proprio un feno­
meno centrale dell’età imperialistica, quello
che lo stesso Hobsbawm definisce “crescente
convergenza fra politica ed economia, cioè
ruolo crescente del governo e del settore
pubblico” (p. 63). Ceti parlamentari e mini­
steriali, apparati burocratici e strumenti di
intervento, eserciti e diplomazie restano sul­
lo sfondo, rendendo talvolta sfuggente pro­
prio quel livello che fa da catalizzatore della
fiducia e della incertezza, del senso di peri­
colo e delle convinzioni di tenuta. E resta
sullo sfondo una più ampia analisi dei siste­
mi di alleanza, politica e sociale, che si
scompongono e ricompongono alla svolta
del secolo. L’attribuzione alla borghesia del
ruolo di assoluta protagonista riposa (aven­
157
do l’occhio anche ai precedenti volumi) su
solide valutazioni, ma abbisogna di verifiche
ed articolazioni che qui non sono quasi mai
spinte al centro della scena.
I limiti di questa dimensione del discorso
diventano soprattutto avvertibili nell’ultima
parte del libro, quando lo storico inglese
traccia la parabola verso la guerra. Mentre
da un lato si moltiplicano i segni dell’imperialismo europeo sintetizzati dalla massima
espansione dei sistemi coloniali (“non c’è
mai stato nella storia né ci sarà mai più un
secolo così europeo”, p. 22), dall’altro si ap­
palesano, attraverso gli squilibri delle gerar­
chie che quell’imperialismo instaura (e Hob­
sbawm è molto efficace quando richiama le
basi economiche del colonialismo, la mobili­
tazione culturale per affermare la superiori­
tà biologica dei bianchi europei, gli sforzi di
“occidentalizzazione” delle élites indigene),
dall’altro si evidenziano segni di tensione e
via via di destabilizzazione, cui le grandi po­
tenze reagiscono accentuando la rigidità del­
la spartizione di mercati ed aree strategiche,
incrementando in modo irreversibile la corsa
agli armamenti. Alle manifestazioni della
crisi incipiente sono dedicati i capitoli XII e
XIII, che delineano la mappa della instabili­
tà procedendo per cerchi concentrici, dagli
imperi persiano, cinese e ottomano al cuore
del sistema europeo, dove il maturare per
nulla rettilineo di due blocchi contrapposti
(la cui genesi, dalla Triplice Alleanza alla
Triplice Intesa, copre l’intero periodo consi­
derato) simboleggia la ‘deriva’ del continen­
te e soprattutto il nodo esplosivo rappresen­
tato dagli anelli deboli di quel sistema, dagli
stati nei quali la pressione della politica in­
terna su quella estera raggiunge limiti intol­
lerabili. L’esempio estremo dell’Austria-Ungheria, la quale “non poteva far altro che
puntare la sua esistenza nel gioco d’azzardo
militare, perché senza di esso sembrava con­
dannata” (p. 368) conferma senza dubbio
quell’intreccio di fattori economici e nazio­
nali che le pagine di Hobsbawm propongo­
158
Rassegna bibliografica
no, ma introduce anche varianti non direttamente riconducibili al declino della “società
e civiltà borghese” , varianti che riportano
piuttosto in primo piano una specificità con­
tinentale che, variamente sfumata, vede il
potere borghese coesistere con componenti
tradizionali della società e dello stato. E se
di tramonto del mondo borghese occorre
parlare, è in una accezione europea sulla
quale la storiografia non ha ancora prodotto
una valutazione complessiva (anche in corre­
Antifascismo e resistenza
S pinelli, Come ho
tentato di diventare saggio. La
goccia e la roccia, a cura di Ed­
mondo Paolini, Bologna, Il
Mulino, 1987, pp. 110, lire
10.000; Discorsi al Parlamento
europeo, 1976-1986, a cura di
Pier Virgilio Dastoli, Bologna,
Il Mulino, 1987, pp. 390, lire
25.000.
A ltiero
Nell’arco di meno di un an­
no dalla scomparsa di Altiero
Spinelli (23 maggio 1986), con
una tempestività che depone
per l’attenzione e la sollecitudi­
ne affettuose e insieme dolenti
dei suoi ultimi collaboratori,
sono apparsi sia il seguito, pur
parziale e frammentario, della
sua autobiografia Come ho
tentato di diventare saggio. La
goccia e la roccia (a cura di Ed­
mondo Paolini), sia la raccolta
dei suoi Discorsi al Parlamento
europeo, 1976-1986 (a cura di
Pier Virgilio Dastoli), mentre si
annunziano, a parte, gli inter­
venti svolti in precedenza come
deputato nazionale. Il fram­
mento autobiografico è relativo
agli anni tra l’estate 1943 e
lazione all’ascesa, alPinterno come all’ester­
no, del capitalismo nordamericano). La
“strana morte” che trova il proprio riferi­
mento simbolico nell’agosto 1914 resta un
problema per molti aspetti aperto e questo
libro di Hobsbawm fornisce un contributo
di assoluto rilievo al suo approfondimento.
Anche per capire quale eredità il “lungo Ot­
tocento” lasci alle crisi e trasformazioni del
nostro secolo.
Massimo Legnani
quella del 1946, e riguarda, do­
po il ritorno a casa, la fonda­
zione a Milano del Movimento
federalista europeo, l’intreccio
con i casi più personali (il ritro­
varsi con Ursula, la paternità),
quindi il difficile lavoro di pro­
selitismo e di consolidamento
in Svizzera e Francia, l’inter­
mezzo azionista ancora a Mila­
no — segnato dall’incontro con
P an i — e l’abbandono della
scena politica, la malinconica
“brughiera nazionale” su cui si
va ormai stendendo la cappa
della restaurazione più piatta.
Si tratta in pratica del triennio
cruciale con cui si compie la
parabola culturale e politica
avviata nel confino di Ventotene, culminante nella elabora­
zione del Manifesto, assieme a
Eugenio Colorni e soprattutto
a Ernesto Rossi, documento
teorico e programmatico di ba­
se delle idee federaliste, accom­
pagnato da saggi di approfon­
dimento e seguito poi dalle Tesi
e dalle Direttive di lavoro. Il
Manifesto, a sua volta, segna il
punto di snodo nella vicenda
Spinelli e la svolta esistenziale,
oltre che intellettuale e politi­
ca, nella sua vita. Come è noto
— ed egli stesso ne ha del resto
lasciato corposa memoria nella
prima parte dell’autobiografia,
pubblicata nel 1984 (Come ho
tentato di diventare saggio, Bo­
logna, Il Mulino) e sottotitola­
ta emblematicamente Io, Ulisse
— Spinelli matura giovanissi­
mo l’adesione al Pei verso cui
10 sospinge non già l’ansia di
giustizia sociale né il biso­
gno-dovere di disciplina, quan­
to piuttosto la liturgia e la reli­
gione del potere, l’impegno
quasi sacerdotale nell’obbedire
per comandare e creare, in for­
za di ciò, la società nuova. Ac­
canto alla professione di rivo­
luzionario, da subito dopo la
grande guerra, è viva in lui la
sensibilità alla dimensione e al­
l’essenza sovranazionale dei
problemi. Di tali capisaldi, è il
secondo a resistere nel tempo al
continuo rovello della mente
‘prigioniera’ di un corpo priva­
to della libertà per oltre sedici
anni e che alla Libertà non in­
tenderà però sacrificare anche
11 diritto alle metamorfosi e alle
avventure del pensiero e del
proprio io morale, che gli sa­
ranno costantemente rimprove­
rate e gli alieneranno l’amicizia
Rassegna bibliografica
o anche sola la considerazione
di uomini tanto diversi tra loro
come, ad esempio, Emilio Lussu e Riccardo Bauer. L’uomo
che ha teorizzato per sé la ten­
sione continua alla ricerca, co­
me Ulisse, appunto, e che della
propria personalità e attitudine
speculativa si esprime in termi­
ni di campi psichici di forze,
abbandona insomma il comuni­
smo, ma non per questo inter­
rompe l’inesauribile sfida a ri­
mettere in discussione l’esisten­
te, che costantemente lo spinge
al bisogno di azione e di prota­
gonismo, ad inseguire una
‘grande idea’, lavorare a un
grande disegno nuovo. Di qui,
e dal convincimento sempre più
profondo che il futuro può es­
sere possibile solo sulle ceneri
degli stati nazionali e delle cor­
rispondenti logiche di potenza,
la vigorosa e irruente, a tratti,
rielaborazione del federalismo
tornato in circolazione in In­
ghilterra fra le due guerre mon­
diali. Prende corpo su queste
basi il ‘sogno’ dell’unità euro­
pea, nutrito, peraltro, della sin­
cera e ‘necessaria’ fede antifa­
scista e resistenziale.
Inizia anche, fra il 1943 e
il 1945, la seconda parte del­
la sua intensissima esistenza,
articolata in sei “cicli di azio­
ni fondate ciascuna su un’ipo­
tesi diversa” — come egli stes­
so scrive — e corrisponden­
ti a tappe della costruzione
europea, ma insieme ad al­
trettante ‘avventure’ del pro­
prio spirito e del proprio intel­
letto. In esse, il “linguaggio
diurno” dell’agire quotidiano e
il “linguaggio notturno” del­
l’insonne studio e della rifles­
sione, nonché della program­
mazione, tendono a combi­
narsi.
E invero, i quasi dieci anni di
attività parlamentare europea,
attraverso due elezioni successi­
ve come candidato indipendente
nelle liste del mai dimenticato
Pei, si svolgono ancora sotto il
segno di questa sua più generale
avventura politica. A giudizio di
Dastoli, Spinelli “ha certamente
segnato [...] la storia e l’avvenire
del Parlamento europeo, prima
Assemblea dotata di legittimità
democratica a livello europeo”
(Discorsi, p. 16). In pratica fino
alla vigilia della morte, compiu­
tasi “casualmente, così come una
candela si spegne casualmente
quando un soffio porta via la sua
fiamma o quando il lucignolo si
annega nella cera fusa che ne cir­
conda la base” — come egli stes­
so aveva anticipato molti anni
innanzi — ha portato avanti un
progetto originale e coraggioso
per l’Europa: riformare i tratta­
ti di Roma per giungere a poteri
sovranazionali effettivi, facen­
do leva sul parlamento del 1979,
eletto finalmente a suffragio di­
retto. Bloccata tale strategia
dalle resistenze della Commis­
sione e del Consiglio, “il lupo
battuto da avversari più potenti,
coperto di non poche ferite, ed
ora di nuovo solitario” (La goc­
cia e la roccia, p. 94) non si ar­
rende e lancia una nuova, ennesi­
ma parola d’ordine — mandato
costituente per il prossimo parla­
mento europeo e referendum
per l’Europa — che ha assunto
ormai il valore di un testamento
politico.
Guido D’Agostino
Riccardo B auer , Quello che
ho fatto. Treni’anni di lotte e di
ricordi, Roma-Bari-Milano, Cariplo-Laterza, 1987, pp. 296, li­
re 20.000.
159
Quello di Riccardo Bauer
(1896-1982) è un percorso di vi­
ta per tanti versi esemplare che
egli ha provato a raccontare —
cedendo già avanti negli anni al­
le sollecitazioni di amici ed esti­
matori, primo fra tutti Leo Valiani — nel volume appena usci­
to, postumo, per cura congiunta
della Cariplo e delle edizioni Laterza. Quello che ho fatto.
Treni’anni di lotte e di ricordi,
così come si presenta ai lettori, è
in effetti, ancora, frutto di cura­
tori amorosi e diligenti come
Piero Malvezzi e Mario Melino,
“educatori che avvertono l’im­
portanza della storia come stru­
mento di formazione umana, ci­
vile e culturale” , e reca un’at­
tenta, partecipata presentazione
di Arturo Colombo, in diverse
occasioni misuratosi già con le
idee e con la cultura politica di
Bauer da lui messe in chiara e
colta evidenza. A tanti, specialmente tra i lettori più giovani, il
nome del protagonista di queste
memorie antifasciste dice poco
o nulla — supponiamo — anche
per la modestia e la reticenza
che ne hanno caratterizzato per­
sonalità e volontà. Eppure si
tratta di un uomo che di un alto
magistero civile e politico ha
fatto la ragione della sua esi­
stenza e che ha pagato la pro­
pria intransigenza e fedeltà alla
religione, laicamente intesa, del­
la libertà con durissimi anni di
persecuzione, di carcere e di
confino durante la dittatura fa­
scista, da lui con ogni mezzo av­
versata.
Appartenente alla generazio­
ne di intellettuali e di militanti
antifascisti del calibro di Cala­
mandrei, Gobetti, La Malfa,
Lussu, Parri, i fratelli Rosselli,
Ernesto Rossi, Altiero Spinelli;
formatosi alla Bocconi e immer­
160
so e partecipe dell’ambiente ri­
formatore e civile della Milano
dei primissimi decenni del seco­
lo; interventista internazionali­
sta e valoroso combattente nella
grande guerra, Riccardo Bauer
elabora, di fronte alle prime av­
visaglie delle inquietudini del
dopoguerra e più tardi al pale­
sarsi del fascismo, la propria
concezione etica e politica a cui
consacrerà l’intera vita. Si tratta
di una originale ‘pedagogia del­
la libertà’ in cui è fortissima
l’influenza crociana, ma della li­
bertà intesa compiutamente co­
me processo di liberazione e, in
quanto tale, egualitaria e nemi­
ca così di ogni condizione di pri­
vilegio materiale, come di qual­
siasi situazione di compromesso
culturale e ideologico. L’uomo
è tuttavia parimenti sensibile ai
dati materiali e, si direbbe,
scientifici del reale; per questa
via è dunque tu tt’altro che in­
consapevole dell’istanza sociale,
e persino socialista, ma nell’am­
bito di una visione interamente
antimarxista. È qui, certo, una
discriminante precisa della sua
persona e del suo stesso impe­
gno militante antifascista che lo
porta prima al fianco del Gobet­
ti della “rivoluzione liberale” e
poi all’adesione al movimento
rosselliano di Giustizia e Liber­
tà. Da tale adesione, e in ragio­
ne di essa, molti punti fermi, si
deve ripeterlo, di ordine morale,
politico e culturale. Politica e
cultura, in particolare, binomio
inscindibile, se è vero — come
per Bauer è sempre e inflessibil­
mente stato — che la prima vale
ad emendare dove possibile e
cambiare quanto è necessario
mutare; la seconda, ad impedire
alla prima di rendersi pratica di
manipolazioni dentro e attorno
alla sfera del potere. Non solo,
Rassegna bibliografica
ma dallo straordinario crogiuo­
lo di forze e di idee, anche diver­
se, rappresentato da Giustizia e
Libertà, gli provengono pure
due elementi teorici e pratici,
apparentemente contraddittori:
la condanna netta del “precon­
cetto geometrico antagonismo
di categorie arbitrariamente sta­
bilite” quale egli individua nel
principio marxista della lotta di
classe, da un lato, e l’apprezza­
mento cosciente e complesso del
fenomeno rivoluzionario, a co­
minciare dall’esemplare 1917 in
Russia. Si comprendono, alla
luce di ciò, i suoi severi giudizi
sul primo dopoguerra e sull’Aventino come rivoluzioni man­
cate perché giocate tutte o sul
terreno sociale o su quello poli­
tico-istituzionale, ma senza in­
contro e senza sintesi fra i diver­
si ambiti, né suggellate dalla su­
periore mediazione culturale e
civile. Ed anche, per certi versi,
si capisce come simili valutazio­
ni tornino anche nel caso della
Resistenza — cui pure Bauer ha
dato tanto — in cui egli vede,
correttamente peraltro, ‘preci­
pitare’ il corso lungo della storia
italiana contemporanea dall’Unità in poi, con il suo fardello di
reazione politica e di ingiustizia
sociale che ha alimentato co­
stantemente le basi storiche di
“servitù” e di ignoranza o anal­
fabetismo politici del popolo.
La ribellione popolare al fasci­
smo di Salò, la lotta partigiana
che conquista strati e ceti tradi­
zionalmente lontani, strette dal­
la furia delle contingenze gravis­
sime non sedimentano tuttavia,
a suo giudizio, spessore politico
sufficiente a innescare un pro­
cesso di segno inverso e altret­
tanto lungo. Ne è riprova il se­
condo dopoguerra, con le sue
lacerazioni, le sue insanabili di­
varicazioni fra conservazione e
progresso, le dure conseguenze
sul sistema politico italiano,
bloccato nella sterile contrappo­
sizione fra De e Pei, fra oppor­
tunismi e arroganze.
Le lotte e i ricordi di Bauer si
arrestano all’intensa e incisiva
esperienza nel Cln, sia militare
che civile, e quindi a quella svol­
ta durante il governo Parri e nel
Partito d ’Azione fino al suo
“fallimento” . E proprio a pro­
posito del partito azionista ri­
tornano le osservazioni tipiche
in Bauer sull’effetto disgregante
e perdente della mancata sintesi
tra ‘anima’ laica e liberale e
quella socialista; il suo esempio,
la sua testimonianza di vita, il
suo impegno non sono, eviden­
temente, bastati a scongiurarlo,
allora, inducendolo al ritiro dal­
la vita politica attiva. Non certo
da sconfitto, però, se ciò doveva
riportarlo, in una sorta di em­
blematico ritorno alle origini, a
riprendere l’antico ‘ufficio’
presso la Società Umanitaria,
forse la più tipica istituzione lai­
ca, civile e ‘socialista’ milanese
e la più consona all’educatore e
al maestro che erano profonda­
mente radicati in lui.
Nel volume ci sono, evidente­
mente, molte altre cose: l’incon­
tro con uomini e cose, l’attra­
versare le più disparate e impe­
gnative situazioni, con corag­
gio, fermezza e orgoglio della
propria “schiena dritta” . Non
facilmente dimenticabili, pur
tra diverse altre, sono le secche,
inappellabili prese di distanza
nei confronti di personaggi co­
me Giovanni Ansaldo, o come
lo stesso Spinelli, o il colonnello
italo-americano Poletti, ma an­
che di comportamenti e azioni
di leader politici come Togliatti,
di capi religiosi, di giudici e po­
Rassegna bibliografica
liziotti asserviti al ‘regime’.
Con lo stesso impeto, però, è
pronto pure a riconoscere, nella
ignoranza e nella incultura poli­
tica dei più — che assai lo an­
gustiano — i piccoli e i grandi
tesori di umanità, di intelligen­
za e di dignità ovunque si mani­
festino.
Una bella lezione, insomma,
quella di Bauer, dai cui principi
teorici ispiratori di fondo si può
certamente dissentire (e ne dis­
sentivano senz’altro i giovani
milanesi che nel 1968 lo conte­
starono duramente), senza però
che si possa legittimamente di­
sconoscerla nel suo grandissimo
valore umano e morale.
Guido D’Agostino
Franco Invernici , L ’alternati­
va di “Giustizia e Libertà”.
Economia e politica nei progetti
del gruppo di Carlo Rosselli,
Milano, Angeli, 1987, pp. 204,
lire 20.000.
“Sconfitti, non abbiamo lo
stato d ’animo dei vinti, non sia­
mo dei rassegnati. T utt’altro.
Comincia oggi la nostra vera
giornata. Siamo degli ottimisti,
perché sentiamo che il fondo
dell’abisso fu toccato ormai da
tempo e che la disfatta è diven­
tata il pegno di una lotta storica
che vale davvero la pena di es­
sere vissuta, per la quale è bello
sacrificarsi, di una lotta che fi­
nalmente porta in prima linea
quei problemi supremi che co­
stringeranno il popolo italiano
al suo tirocinio di popolo mo­
derno” .
Ci sono in queste righe, scrit­
te da Carlo Rosselli a soli 27
anni, accanto ai segni inconfon­
dibili del suo carattere intransi­
gente e irriducibile, le premesse
e l’esigenza di un progetto di al­
ternativa politica, sociale ed
economica che di lì a poco assu­
merà contorni sempre più defi­
niti.
Nella stretta coesione fra
pensiero e azione che caratteriz­
zerà tutta la sua vita, Rosselli
aveva già alle sue spalle, in quel
momento, una storia importan­
te. Collaboratore de “La Rifor­
ma Sociale” di Einaudi, anima­
tore del “Non Mollare” e di
“Quarto Stato” , egli aveva sa­
puto esemplarmente imperso­
nare l’oppositore militante al
fascismo e, insieme, l’intellet­
tuale impegnato ad avviare una
coraggiosa chiarificazione ideo­
logica sul socialismo, i suoi ca­
ratteri, le sue finalità.
Proprio da qui prende le
mosse Franco Invernici nel suo
bel saggio L ’alternativa di
“Giustizia e Libertà". In bilico
fra la ricostruzione storica vera
e propria e gli evidenti interessi
per gli studi di filosofia politi­
ca, Invernici pone al centro del­
la sua analisi quel rapporto fra
economia e politica che tanta
parte ha nel pensiero di Rosselli
prima e, poi, nell’animato e
spesso aspro dibattito dentro e
fuori Gl. Quel che ne esce è una
vera e propria foto di gruppo
che va ad aggiungersi e ad inte­
grarsi, con apporto indubbia­
mente originale, alla vasta e im­
portante bibliografia prodotta
negli ultimi anni sull’argomento
(e che l’autore dimostra di ben
padroneggiare).
Se infatti, nel nostro caso, si
potrebbe pensare a prima vista
a una rilettura e a una ripresa di
temi già ampiamente noti e di­
scussi, merito di Invernici è sen­
z’altro quello di proporci, at­
traverso un attento lavoro di
161
scavo, una sorta di acuta bio­
grafia intellettuale di Rosselli e,
in parte almeno, del gruppo di
cui fino all’ultimo è rimasto
leader incontrastato.
Dalla tesi di laurea (con cui
Rosselli partecipa, con la pas­
sione consueta, al dibattito del
primo dopoguerra) agli articoli
di polemica politica del 19241926, dalla critica e autocritica
del “Quarto Stato” alle tesi del
Socialismo liberale, dalla nasci­
ta del movimento ai “Quader­
ni” di Gl, l’autore va alla ricer­
ca degli elementi di fondo di un
progetto politico che pur tra
velleitarismi e incertezze, fra
accese polemiche e aspirazioni
teoriche spesso accompagnate
da scarso rigore scientifico, non
manca ancora oggi di stupire
per la modernità e la forza anti­
cipatrice di tante intuizioni,
molte delle quali troveranno
puntuale riscontro nell’evolu­
zione economica postbellica.
Pensiamo soltanto ad alcuni
aspetti — fra quelli messi luci­
damente in evidenza da Inverni­
ci — quali la proposta di un’e­
conomia mista, dove l’iniziativa
privata dovrebbe convivere con
l’intervento statale, oppure al
significato profondo che viene
ad assumere l’ideologia demo­
cratica sia in prospettiva italia­
na che europea e federalista o
ancora l’intuizione della centra­
lità, nel moderno sviluppo in­
dustriale, di problemi come
quelli della fabbricazione in se­
rie, del decentramento dell’in­
dustria, del fordismo come or­
ganizzazione della produzio­
ne, delle relazioni industriali,
del ruolo delle leghe e dei sinda­
cati.
Se Invernici, dunque, cerca
di individuare nel pensiero di
Rosselli e poi nel programma di
162
Gl un nucleo più squisitamente
economico, non può però esi­
mersi dal dover riconoscere
che, essendo per Rosselli “l’e­
conomia più che un’ipotesi
astratta un aspetto della politi­
ca concreta”, proprio il nesso
politica-economia diventa es­
senziale per cogliere il respiro di
una vera e propria progettualità
antifascista che accanto a un
riesame spregiudicato e fecondo
delle principali linee dottrinarie
(prima fra tutte, l’aspirazione a
superare il dualismo liberali­
smo-socialismo alla luce di un
confronto anziché di un irridu­
cibile e pregiudiziale antagoni­
smo) indichi anche strumenti di
intervento e istituti giuridico-economici idonei. Se è vero —
sottolinea Invernici — che risul­
terebbe quanto mai disagevole
rappresentare l’andamento del­
le teorie economiche gielliste
“secondo una linea di sviluppo
di qualche regolarità” è altret­
tanto vero che “Rosselli e Gl
considerano l’impossibilità di
opporsi al fascismo semplicemente basandosi su una pregiu­
diziale classista” . Per questo
avvertono l’urgenza di esprime­
re una proposta rigorosamente
coordinata: “togliere il movi­
mento socialista dagli stereotipi
e dagli immobilismi, riconosce­
re la valenza politica e sociale
dei ceti medi e della borghesia
non fascistizzata, proporre un
piano di economia mista, porre
allo stesso livello, in vista del­
l’alleanza, proletariato e ceti
medi” .
Per ricostruire questa propo­
sta Invernici sceglie di far par­
lare direttamente i documenti
ripercorrendo — lo sottolinea
già Arturo Colombo nella den­
sa introduzione al volume — un
po’ tutta la produzione giellista
Rassegna bibliografica
in una minuziosità di analisi fat­
ta di citazioni e raffronti com­
parativi. Anche se l’agilità della
lettura talvolta ne soffre un po­
co, non si può non convenire
che l’approfondimento condot­
to sui testi è tale da consentire
all’autore di offrirci in sede di
valutazione critica ben più di
un’indicazione importante.
Basti dire delle acute note sul­
l’influenza del socialismo ingle­
se, belga e francese sul pensiero
di Rosselli, delle pagine dedicate
alla riflessione sul tema del libe­
rismo, della liquidazione del de­
terminismo marxista, dell’al­
leanza proletariato-ceto medio
nel processo di trasformazione
socialista della società e per fini­
re, proprio in sede di conclusio­
ne, le pagine dedicate al rappor­
to élites-masse e alla valenza
propulsiva e democratica che
Rosselli dà all’elitismo rispetto
alla funzione storica e conserva­
trice ad esso comunemente asse­
gnata.
Un progetto, quello del grup­
po Rosselli, in cui si fondono,
dunque, teoria, politica, econo­
mia e che conserva inalterato
tutto il suo fascino, per il forte
contenuto etico, anche dopo
mezzo secolo, nonostante molti
degli enunciati abbiano talvolta
valore più sul piano dei buoni
propositi e della tensione mora­
le, appunto, che nella realtà.
Del resto, come sottolinea
acutamente Invernici, “Rosselli
ha sempre intravisto soluzioni
più proiettate verso il futuro che
adattabili alla contingenza. Se
da un punto di vista politico è
facile tacciarlo di utopia, da un
altro, da quello ideologico, è
doveroso riconoscergli di aver
suggerito ipotesi che nel tempo
si sono rivelate quanto meno
profetiche e con le quali le gran­
di organizzazioni di sinistra
(persino europee) si sono trova­
te a fare i conti, addirittura a
decenni di distanza” .
Pierangelo Lombardi
Le formazioni “M atteotti” nella
lotta di liberazione, a cura di
Marco Brunazzi e Agostino
Conti, Cuneo, L’Arciere, 1986,
pp. 150, lire 14.000.
Il convegno di cui si pubblica­
no gli atti, tenuto a Torino nel
marzo 1985 ed organizzato dal­
l’Associazione Partigiani Mat­
teotti e dal Gruppo consiliare
del Psi torinese, pur nei limiti
dell’intento commemorativo co­
stituì una positiva occasione di
dibattito e di messa a punto.
Non poche infatti sono le que­
stioni che intorno alla parteci­
pazione socialista alla lotta ar­
mata, e più in generale alla poli­
tica del Psiup nella Resistenza,
stentano a trovare una sistema­
zione storiografica lontana da
ormai anacronistiche polemi­
che. Nonostante recenti contri­
buti, tra cui quelli, a prevalente
carattere documentario, di Li­
bero Cavalli e Carlo Strada (Nel
nome di Matteotti. Materiali
per una storia delle Brigate Mat­
teotti in Lombardia, 1943-1945
e II vento del Nord. Materiali
per una storia del Psiup a Mila­
no, 1943-45, entrambi Milano,
Angeli, 1982), il ritardo nella
raccolta e nell’elaborazione del­
le fonti rimane ancora assai gra­
ve, tanto più rispetto ai risultati
acquisiti per altri partiti. Si trat­
ta innanzitutto di individuare i
caratteri distintivi della linea
politica del Psiup e quindi le ra­
gioni e i limiti del suo successo
in quegli anni. Nella relazione
Rassegna bibliografica
introduttiva al convegno, Fran­
cesca Taddei, sintetizzando
considerazioni già svolte nel
suo bel saggio II socialismo ita­
liano nel dopoguerra: correnti
ideologiche e scelte politiche
(1943-1947), Milano, Angeli,
1984, indica nella rottura della
continuità sociale ed istituzio­
nale con il fascismo prima, nel­
la trasformazione dello stato
tramite la Costituente in segui­
to, il progetto politico distinti­
vo del Psiup, destinato tuttavia
ad arenarsi di fronte alla con­
vergenza sostanziale realizzatasi
tra la strategia togliattiana e il
disegno politico perseguito dal­
le forze moderate e dagli Allea­
ti. Un’interpretazione che ha
l’indubbio merito di sottolinea­
re la coerenza e la specificità del
progetto socialista e di eviden­
ziare la ricchezza dell’elabora­
zione del Psiup, anche se forse
è eccessivo vedere in esso l’in­
terprete “più fedele” dei valori
resistenziali (pp. 17 e 28-29).
Quel che tuttavia resta in om­
bra in questa analisi, e che spie­
ga invece la mancata egemonia
socialista nel movimento di resi­
stenza, è il limite derivante dal
carattere preminentemente ideo­
logico della battaglia socialista,
mentre la ricostruzione politica
ed organizzativa del partito e,
in certa misura, la sua stessa
elaborazione, furono frenate da
incertezze e ritardi e non di ra­
do sollecitate dalla maturazione
del movimento.
Tali problemi diventano pale­
si a proposito della lotta arma­
ta. Al di là delle risposte alle in­
giustificate accuse di attendi­
smo, nate già nei mesi della Re­
sistenza, si tratta in questo caso
di individuare motivazioni poli­
tiche, tempi di maturazione e
capacità di iniziativa dell’orga­
nizzazione militare socialista.
La relazione di Riccardo Marchis, ricostruendo Io sviluppo
delle Matteotti piemontesi in
modo necessariamente schema­
tico, ma sulla base di una valida
documentazione
archivistica,
evidenzia le diverse ipotesi di
partecipazione alla lotta armata
presenti nel Psiup e quindi deli­
nea la crescita di un’organizza­
zione militare di partito affida­
ta in un primo tempo all’inizia­
tiva individuale di alcuni diri­
genti, in particolare Corrado
Bonfantini e Renato Martorelli,
ucciso dai tedeschi nell’estate
1944. Secondo Marchis fino al
marzo 1944 fu l’iniziativa per­
sonale di alcuni esponenti so­
cialisti il tramite attraverso il
quale il Psiup manteneva con­
tatti con bande partigiane che
tuttavia non potevano ancora
qualificarsi come socialiste. La
costituzione delle Matteotti,
tardiva rispetto a quella delle
brigate di orientamento giellista
e comunista, avvenne a partire
dal maggio successivo attraver­
so tre principali linee di aggre­
gazione: la qualificazione ideo­
logica di bande già in contatto
con i socialisti e da essi promos­
se, la fornitura di sostegno logi­
stico a bande isolate, la capaci­
tà di offrire un riferimento al­
ternativo all’opera di accorpa­
mento
contemporaneamente
sviluppata dai comandi delle
autonome.
Implicitamente discorde la
relazione di Agostino Conti, ex
comandante partigiano, quindi
studioso e conservatore di una
vasta documentazione archivi­
stica sulle Matteotti piemontesi.
Tracciando un’ampia panora­
mica della presenza delle Mat­
teotti in tutta l’Italia occupata,
Conti sottolinea piuttosto la so­
163
stanziale continuità, politica ed
organizzativa, tra l’attività mili­
tare promossa da alcuni sociali­
sti fin dall’inverno 1943 e l’origine delle brigate in seguito qua­
lificatesi come Matteotti.
D’altronde, soltanto il censi­
mento e la cronologia dell’ope­
ratività politica e militare delle
brigate e dei comandi, quale
potrà scaturire da ulteriori e più
sistematiche ricerche, consenti­
rà di chiarire tempi e modi di
un’aggregazione di forze che
non fu, e non poteva essere, li­
neare. II carattere composito di
quel processo, sottolineato nel
dibattito da Gianni Alasia,
emerge peraltro dalle stesse te­
stimonianze portate al conve­
gno e accluse agli atti. Da esse
sorge l’invito ad una ricerca
che, accantonando pudori e or­
gogli di parte e sfuggendo alla
tentazione di ritrovare prematu­
ramente coerenze e sintesi, sap­
pia ripercorrere e distinguere
criteri e urgenze, ragioni e con­
traddizioni della lotta partigiana.
Simone Neri Serneri
G iancarlo P ajetta , Il ragazzo
rosso va alla guerra, Milano,
Mondadori, 1986, pp. 163, lire
16.000.
Un’autobiografia riguardan­
te gli anni della Resistenza,
scritta da un’autorevole prota­
gonista quale Pajetta, non può
non presentare alcuni problemi
di lettura. Il ragazzo rosso va
alla guerra non è e non vuole
essere un contributo alla storia
del movimento di liberazione,
né tanto meno a quella del Par­
tito comunista. Tuttavia il rac­
conto rivela non pochi elementi
di discreta rilevanza, sia pure
164
mediati nella forma consentita
dal genere, in merito a quella
cruciale vicenda storica. L’au­
tobiografia, infatti, oltre ad es­
sere un prodotto letterario com­
piuto, può anche ridiventare
materia prima per il lavoro sto­
riografico, costituendo una te­
stimonianza preziosa dell’auto­
coscienza dei protagonisti di un
evento.
Il libro offre, a nostro avvi­
so, due diversi piani di lettura,
che peraltro si intersecano fre­
quentemente. Ad un primo li­
vello appare una articolata ca­
ratterizzazione
dell’autore,
l’autoritratto di una soggettivi­
tà umana e politica forte, quale
risulta soprattutto grazie alla
scelta sapiente di episodi signi­
ficativi e di un linguaggio estre­
mamente fedele all’indole del
personaggio.
L’intenzione, o soltanto la
suggestione, che anima l’autore
sembra essere quella di offrire
oltre che una memoria persona­
le, anche lo spaccato di un’u­
manità molto particolare: quel­
la del comunista, del cospirato­
re che, uscito dagli anni duri del
carcere, andrà a costituire il
nerbo della resistenza armata di
massa al nazifascismo. È una
figura che Pajetta ricostruisce
con qualche deliberata forzatu­
ra di ordine soggettivo, che non
può non risaltare soprattutto se
riproposta quarant’anni dopo,
quando la comunicabilità di
quell’orizzonte umano e politi­
co è ormai divenuta problema­
tica, o anche estremamente se­
lettiva, se non mediata da un
approccio più propriamente
storiografico.
Numerosi sono i tasselli che
compongono l’identità del co­
munista e Pajetta non li elenca
in modo estrinseco, bensì li
Rassegna bibliografica
enuclea uno ad uno da eventi ed
episodi significativi, che rievoca
senza retorica, ma con un visi­
bile sentimento di orgoglio e di
appartenenza.
Tuttavia il testo scorre senza
finzioni e schivo di intenti cele­
brativi, anzi un linguaggio so­
vente aspro e spigoloso e un’i­
nesauribile vena polemica con­
ducono la narrazione a momen­
ti veramente critici: è il caso
dell’ingrato trattamento riser­
vato a Eugenio Curiel che, do­
po l’arresto, “non si comportò
da comunista” (p. 29); ma è an­
che il caso della rimeditazione
compiaciuta sui caratteri di
quella “sicurezza e [...] arro­
ganza di sempre di noi comuni­
sti” (p. 55). Ma il libro presenta
anche un secondo piano di let­
tura. Su questo livello affiora­
no più direttamente i problemi
politici, i nodi delle valutazioni
e delle scelte consumate in un
periodo breve, ma intenso e de­
cisivo per la storia italiana.
Anche qui l’autore si mantie­
ne fedele ad una narrazione se­
vera e priva di infingimenti: la
problematica delle due Italie —
quella del “vento del Nord” e
quella del Sud liberato — attra­
versa dall’interno lo stesso Par­
tito comunista. Il tema è quello
dello scollamento tra l’iniziati­
va partigiana e la strategia togliattiana inaugurata con la
‘svolta’, una divaricazione che
sembra materializzarsi nel dif­
ferente clima politico, culturale
e umano che caratterizza i cen­
tri politici delle due Italie, Ro­
ma e Milano.
Quando Pajetta, la cui attivi­
tà cospirativa lo porta a cam­
biare continuamente identità
(Rossi, Nullo, Luca, Mare), ab­
bandona il capoluogo lombar­
do per una missione politica,
scopre che nel Partito non c’è
“quella ferma passione parti­
giana che mi sarebbe sembrata
naturale e che al Nord ci fa cre­
dere nella possibilità di un reale
e profondo mutamento degli
uomini e delle cose” (p. 104).
Anzi, visti da Roma, i partigia­
ni “appaiono un po’ come ra­
gazzi che giochino alla guerra”
(p. 105).
Tuttavia, queste considera­
zioni, gravi nella loro natura,
non diedero luogo, almeno per
quanto riguarda l’autore, a un
dissenso politico. Così, il To­
gliatti “prudentissimo” , che
non volle mai sapere cosa fosse­
ro state le brigate partigiane,
occupato com’era a definire le
linee della democrazia progres­
siva (tale appare nella narra­
zione la divaricazione tra que­
sta riflessione strategica e l’e­
sperienza resistenziale), è anche
il dirigente che “ci permetterà
di consolidarci e diventare più
forti” (p. 104). Allo stesso
modo e con lo stesso curioso
equilibrio, Pajetta coniuga bra­
ni densi di passione insurrezio­
nale con maliziose puntate di
ironia e di autoironia antigiaco­
bina.
In definitiva, quel disagio po­
litico e umano che doveva ine­
vitabilmente investire un mili­
tante che aveva dato il meglio
di sé nella lotta partigiana non
si traduce in dissenso, non ac­
quista spessore politico, ma
sembra rimanere fermamente
confinato in un ambito prepoli­
tico: “Forse mi aspettavo più
calore per i partigiani” (p. 104).
Su questo secondo piano di let­
tura si ha complessivamente
l’impressione di un giudizio
troppo ostentatamente ‘sereno’
in rapporto ai problemi in que­
stione, e che probabilmente ap­
Rassegna bibliografica
partiene più al Pajetta scrittore
che al Pajetta protagonista.
Con questo intreccio, in soc­
corso dell’autore, è intervenuta
Vastuzia di un genere letterario,
che ha consentito la rivendica­
zione orgogliosa e matura di
una storia, senza dover nel con­
tempo riaffrontare quell’annosa
costellazione di problemi politi­
ci e teorici, la cui ombra lunga
non manca di investire ancora
aspetti decisivi del nostro pre­
sente.
Salvatore Minolfi
A n e d , Gli scioperi del marzo
1944, Tavola rotonda, 17 marzo
1944, con un saggio di Claudio
Dellavalle, Milano, Angeli,
1986, pp. 64, lire 8.000.
Il numero degli operai italiani
deportati nei lager di annienta­
mento in seguito agli scioperi
del marzo 1944 non è stato cer­
tamente trascurabile; lo docu­
menta in maniera inoppugnabi­
le l’appendice al libro che racco­
glie gli atti della tavola rotonda
organizzata a Torino dall’Asso­
ciazione nazionale ex deportati
politici nei campi nazisti. È sta­
ta l’occasione non solo per rie­
vocare, attraverso testimonian­
ze di indubbio interesse, uno de­
gli episodi centrali del moto di
liberazione, ma anche, come ha
sottolineato Dellavalle nel suo
saggio, per avviare una riflessio­
ne su un evento finora poco ap­
profondito in sede di analisi sto­
rica.
A differenza delle agitazioni
operaie dell’anno precedente,
che accelerarono lo sfaldamento
del “fronte interno”, lo sciope­
ro del marzo 1944 fu prevalente­
mente politico, con parole d’or­
dine contro la guerra, i tedeschi,
i fascisti. Sciopero politico, ma
con una piattaforma economica
basata su rivendicazioni molto
elementari che tenevano conto
del grave disagio esistente nelle
fabbriche. Un ruolo di primo
piano nella mobilitazione dei la­
voratori ebbero i militanti e i di­
rigenti del Pei, che intendevano
fare della classe operaia una del­
le componenti fondamentali del
movimento di liberazione. Si ve­
niva, peraltro, formando pro­
prio in quegli anni l’intelaiatura
di un partito operaio comunista
con un saldo insediamento so­
ciale.
Significative le implicazioni
dello sciopero, la cui ampiezza
ed estensione non ebbero ri­
scontro nell’Europa dominata
dal nazismo. La demagogia so­
ciale della Rsi, che si affidava
alla carta della socializzazione,
fu perentoriamente respinta. Da
quel momento divenne a dir po­
co problematico lo sfruttamen­
to dell’apparato produttivo ita­
liano da parte dell’occupante te­
desco, che per rappresaglia sca­
tenò un feroce quanto miope re­
pressione.
L’insubordinazione operaia
non solo inflisse un durissimo
colpo alle declinanti fortune del
nazifascismo, ma concorse a ri­
lanciare l’iniziativa delle forze
più avanzate della Resistenza.
La conseguenza più importante
fu, però, il legame che si venne
allora stabilendo tra lotta in
fabbrica e guerra partigiana; le­
game che nei mesi successivi si
andò consolidando sino a porta­
re all’insurrezione generale del
25 aprile. A rendere originale
l’esperienza della resistenza ita­
liana, rispetto a quella degli altri
paesi, è stato proprio l’intreccio
tra lotta sociale e lotta politi­
co-militare.
165
Un discorso a parte merita
l’atteggiamento degli industria­
li, indotti dall’asprezza dello
scontro ad assumere una posi­
zione oggettivamente collabora­
zionista. Posizione quanto mai
imbarazzante per chi con spre­
giudicatezza conduceva il dop­
pio o triplo gioco con i nazisti,
gli Alleati e i Cln.
Sono questi gli aspetti essen­
ziali di una vicenda storica trat­
teggiata in maniera incisiva da
Dellavalle, esponente di una
corrente storiografica che ha
cercato di fare luce sulle moda­
lità e sugli esiti della transizione
dal fascismo alla repubblica.
Tuttavia, se si vuole compren­
dere appieno la portata e il si­
gnificato delle agitazioni in fab­
brica negli anni di guerra, non
basta studiarle esclusivamente
nella loro dinamica interna e
porre solo attenzione al conflit­
to sociale tra operai e industria­
li da un lato, e alla dialettica
classe-partito dall’altro. Né è
sufficiente indagare sul rappor­
to tra lotte operaie e lotte con­
tadine e sulle ripercussioni che
le prime ebbero sugli orienta­
menti dei ceti medi urbani. Oc­
corre mettere a fuoco soprattut­
to i nessi delle lotte operaie sia
con il contesto sociale e politico
nazionale e internazionale, sia
con la storia d ’Italia del vente­
simo secolo.
A lungo considerata soltanto
come un elemento decisivo del­
la vittoria sul nazifascismo, la
lotta operaia del periodo 194345 va vista come un momento
importante di una profonda cri­
si sociale, che fu tra le cause
principali della disgregazione
dei tradizionali rapporti di po­
tere. Perciò questa lotta, espres­
sione di uno specifico antifasci­
smo proletario — proteso in
Rassegna bibliografica
166
primo luogo a smantellare l’ap­
parato di dominio instaurato
dal fascismo in fabbrica — va
collocata nel quadro dei proces­
si in atto negli anni trenta e
quaranta anche al fine di inten­
dere meglio la complessa e arti­
colata condotta dei ceti domi­
nanti di fronte alla crisi.
Francesco Soverina
S ilvio T rentin , Federalismo e
libertà. Scritti teorici 19351943, a cura di Norberto Bob­
bio, Venezia, Marsilio, 1987,
pp. 398, sip.
11 quarto volume delle Opere
scelte di Silvio Trentin antolo­
gizza la produzione del suo ulti­
mo decennio di vita: da La crise
du droit e de l ’Etat, uscito nel
1935, agli articoli comparsi su
“Libérer et Fédérer. L’insurgé”
nel corso del 1944.
Leggiamo così gli scritti più
interessanti del Trentin rivolu­
zionario, fortemente nutriti di
passione civile, ma al tempo
stesso intenti a ragionare la crisi
dell’ordine esistente e a definire
proposte per un nuovo ordine.
Rispetto al primo momento del­
la sua conversione rivoluziona­
ria, Trentin ha in parte messo a
punto l’apparato con cui guar­
da alle radici economiche della
crisi.
Certo, tale apparato è co­
munque quello di un militante
più che di uno studioso e la
fondatezza dei giudizi che l’au­
tore dà sui fenomeni economici
non è pari a quella raggiunta
dalle osservazioni critiche sugli
aspetti istituzionali della crisi.
Ma precisamente tale connota­
zione ideologica serve ora a so­
stenere una proposta politica
che si è fatta chiara e sicura.
Trentin formula una propria
risposta alle domande del pre­
sente, un proprio progetto.
Questo mobilita tutta la sua
precedente esperienza intellet­
tuale ed i suoi più profondi
convincimenti. La formazione
di giurista e il radicato culto
dell’autonomia concorrono a
produrre una vigorosa ipotesi
federalista.
Norberto Bobbio sottolinea
nell’introduzione la natura spe­
cifica di tale federalismo; il
quale non si preoccupa soltanto
— com’era ovvio in vista della
tragedia bellica — di trovare le
forme per mediare la contrap­
posizione tra gli stati; ma muo­
ve piuttosto dall’assillo di “tro­
vare un rimedio al dispotismo
che comprime la libertà degli
individui e l’autonomia dei
gruppi” (Bobbio, p. XIV). Un
federalismo dunque senz’altro
pacifista, ma soprattutto liber­
tario.
Quello di Trentin è un mes­
saggio che non si può sottoscri­
vere tutto intero; specie laddove
fa passare la speranza di un si­
stema economico-sociale più
giusto e libero attraverso la cru­
na d ’acciaio della dittatura,
“strumento tecnico insostituibi­
le per l’instaurazione rivoluzio­
naria dell’ordine nuovo” (p.
319). Ma è tuttavia un messag­
gio che, proprio quando dispie­
ga la critica alle troppe negazio­
ni sofferte dal principio dell’au­
tonomia nell’esperienza statua­
le contemporanea, risulta assie­
me attuale e convincente. Persi­
no gli aspetti minuti, i dettagli
organizzativi su cui Trentin si
diffonde, nei due progetti costi­
tuzionali che egli redasse (per la
Francia e l’Italia libere), lungi
dal subire il degrado del tempo,
si rivelano, appena elaborati,
ancora densi di lezioni, oltreché
di sapere giuridico.
Il pensiero trentiniano è in
effetti una miniera di spunti e
suscita interrogativi di ampia
portata. Ad esempio, sul gioco
tra pianificazione e libertà, tra
collettivismo economico e plu­
ralismo politico; oppure sul ri­
spettivo ruolo della rappresen­
tanza per territorio e della rap­
presentanza per interessi, e sul­
la possibilità di attivarle con­
giuntamente.
A proposito di quest’ultima
questione, si noterà come il di­
scorso di Trentin rielabori la
posizione decisamente negativa
nei confronti della rappresen­
tanza dei cittadini in quanto
produttori, assunta nei primi
anni della polemica contro il fa­
scismo, e non solo salvi quel
modello costituzionale, ma anzi
lo ponga a temperare il princi­
pio della rappresentanza terri­
toriale o addirittura — secondo
quanto legge Bobbio (p.
XXXII) — lo ponga a base del­
l’assetto istituzionale da instau­
rarsi dopo la guerra.
Su questo e su altri problemi
l’opera trentiniana può essere
ulteriormente e proficuamente
interpellata. E certamente allo­
ra la maggiore attenzione dovrà
cadere proprio sui lavori conte­
nuti in questo volume, che rac­
coglie il vertice del Trentin poli­
tico, così come il volume intito­
lato Dallo Statuto albertino al
regime fascista (a cura di Ales­
sandro Pizzorusso) ci aveva re­
stituito alcune tra le più stimo­
lanti pagine del Trentin giu­
rista.
Ancora una volta, peraltro,
questo secondo aspetto dell’ere­
dità trentiniana viene lasciato,
in questo volume, un po’ in
Rassegna bibliografica
ombra. Di un’opera assai impor­
tante. La crise du droit e de l ’Etat, viene ripreso solo il capitolo
conclusivo; e l’attenzione giusta­
mente dedicata da Bobbio nel­
l’introduzione (pp. XV e XXVIXXVIII) serve a far rimpiangere
ancor più la sua esclusione.
Occorre perciò di nuovo os­
servare (cfr. La doppia eredità
di Silvio Trentin sul n. 162,
1986, di questa rivista) che il sa­
crificio del Trentin giurista rea­
lizzato dalla scelta degli scrit­
ti nell’arco dei quattro volumi
non pare condivisibile. Anzitut­
to perché sulla cultura giuridica
cresce il Trentin politico e di es­
sa si alimenta quello che forse è
l’elemento più specifico della
sua posizione: la soluzione “isti­
tuzionale” ch’egli propone
(Bobbio, p. XXXIV); ma anche
perché una più larga accoglien­
za degli scritti, anche ‘tecnici’,
del Trentin giurista avrebbe pu­
re accolto una lezione implicita
nella sua biografia: il suo tran­
sito dal diritto al diritto, dallo
studio dell’ordinamento vigente
alla delineazione d ’un nuovo
ordinamento — quasi a compro­
vare l’imprescindibilità del fat­
tore giuridico nella figurazione
del politico d’età contempora­
nea.
Fabio Rugge
Virgilio S antato , Un intellet­
tuale nell’antifascismo. France­
sco Viviani (1891-1945): dall ’“Italia Libera” a Buchenwald,
presentazione di Enrico Opocher, Rovigo, Minelliana, 1987,
pp. 154, sip.
Non era facile ricostruire la
biografia di una figura comples­
sa come quella di Francesco Vi­
viani e occorre dire subito che il
Santato è riuscito nell’intento
raccogliendo tutte le testimo­
nianze rintracciabili e vaglian­
dole con spirito critico, senza
concessioni alla agiografia e
senza rinunciare a indicare per­
sino qualche pausa dell’attivi­
smo antifascista del futuro mar­
tire. È difficile definire politicamente Viviani nonostante la sua
adesione, nel 1941, al Partito
d ’Azione insieme all’amico Egi­
dio Meneghetti; egli si sentiva
soprattutto un intellettuale e,
probabilmente, egli vide in quel
partito l’effettiva valutazione
del ruolo degli uomini di cultu­
ra. Lo stesso era avvenuto per la
partecipazione a Italia Libera,
un movimento senza un pro­
gramma politico preciso se si
esclude la denuncia delle opera­
zioni avviate dal governo di
Mussolini contro le libertà de­
mocratiche ed il richiamo agli
ideali patriottici e risorgimentali
dai quali il Viviani stesso aveva
ricevuto l’ispirazione dell’atteg­
giamento interventistico nella
prima guerra mondiale.
Professore di latino e greco
nei licei, il Viviani ebbe una car­
riera burrascosa perché la sche­
datura come sovversivo in se­
guito alla partecipazione a una
manifestazione pubblica contro
il governo di Italia Libera pro­
vocò nei suoi confronti prete­
stuosi provvedimenti disciplinari quali sospensioni dallo stipen­
dio, trasferimenti per servizio,
licenziamenti. Egli si batté con
molto coraggio contro le perse­
cuzioni di cui era oggetto e riu­
scì in qualche modo, fino all’8
settembre 1943, ad evitare, pur
tra umiliazioni e disagi, il
peggio.
A Ferrara egli godette dell’a­
micizia e dell’appoggio di Nello
Quilici, legatissimo a Italo Bal­
167
bo, direttore del “Corriere pa­
dano” , giornale voluto cultural­
mente aperto quasi a sottolinea­
re una sorta di separazione del
gruppo balbiano dal fascismo
nel suo insieme. Anche Viviani
collaborò al quotidiano ferrare­
se ma in otto anni, dal 1930 al
1937, i suoi articoli non supera­
no la ventina e sono in gran
parte di argomento musicale e
relativi alle stagioni liriche areniane di Verona. Gli anni ferra­
resi furono i meno traumatici
della sua carriera d ’insegnante
finché i suoi apprezzamenti sul
fascismo gli procurarono una
denuncia anonima con conse­
guente trasferimento per servi­
zio; sul suo insegnamento al li­
ceo della città estense e sul
provvedimento nei suoi con­
fronti si veda, oltre alle testi­
monianze ricordate dal Santa­
to, quella illuminante di Lan­
franco Caretti, che fu suo alun­
no, in La cultura ferrarese tra
le due guerre mondiali. Dal­
la scuola metafisica a Osses­
sione, a cura di Walter Moret­
ti, Bologna, Cappelli, 1980,
pp. 218-220.
Sull’attività politica del se­
condo CIn veronese, costituitosi
nel dicembre 1943 sotto la pre­
sidenza del Viviani, le notizie
sono piuttosto limitate ma ciò è
da attribuire a carenza di fonti,
come risulta anche dal libro di
Maurizio Zangarini, Politica e
società a Verona in epoca fasci­
sta, Verona, Cierre, 1986, nel
quale viene attentamente esami­
nata la storiografia della Resi­
stenza nella città veneta; va no­
tato che sia nel primo che nel se­
condo Cln veronese non figura­
no rappresentanti del partito
della democrazia cristiana, fatto
abbastanza strano per una città
largamente cattolica. Viviani
168
viene arrestato il 2 luglio 1944,
affidato dai fascisti ai tedeschi
che non tardano a trasferirlo nei
campi di sterminio; morirà a
Buchenwald.
L’antifascismo del Viviani
dal 1923 al 1943 e la sua parte­
cipazione alla Resistenza sono
strettamente connessi alle sue
idee liberali ed alla sua aspira­
zione alla restaurazione demo­
cratica in Italia; la convinzione
del diritto dell’uomo alla libertà
ha in lui origine culturale e non
ci sembra legata ad un partico­
lare programma politico o so­
ciale. La sua designazione a
presidente del secondo Cln ve­
ronese è legata soprattutto alla
coerenza della sua opposizione
ventennale al fascismo, al suo
equilibrio ed al suo prestigio
personale.
Le biografie delle figure di
maggior rilievo sono uno degli
strumenti per penetrare all’in­
terno della Resistenza e cogliere
gli aspetti particolari che distin­
guono il movimento di libera­
zione da una località all’altra;
ben vengano, dunque, i lavori co­
me questo del Santato su France­
sco Viviani.
Luigi Ambrosoli
Rassegna bibliografica
rica ed è nella ricostruzione del­
l’episodio della ricerca e della
individuazione, da parte di due
partigiani, del comando della
decima armata del generale
Herr che si preparava a un’e­
strema difesa sui colli e sui fiu­
mi veneti.
Quanto alla parte narrativa,
occorre riconoscere all’autore il
merito di aver rievocato senza
enfasi il clima della Resistenza e
di avervi inserito la vicenda di
un giovane che entra nel movi­
mento di liberazione, opera con
una brigata partigiana, viene
arrestato e deportato in Germa­
nia dove viene assegnato al
campo di eliminazione di Mauthausen.
Quanto alla parte che l’auto­
re presenta come autenticamen­
te storica, si tratta di una testi­
monianza senza dubbio interes­
sante anche se avrebbe meritato
maggiori chiarimenti l’afferma­
zione che fu proprio la distru­
zione del comando della decima
armata a determinare la rinun­
cia tedesca all’estrema difesa e
ad anticipare di una decina di
giorni la fine della guerra in Ita­
lia, risparmiando altre vittime e
salvando gli impianti industriali
del Nord.
Luigi Ambrosoli
Lerino C andio , Con il piede
straniero sopra il cuore, Como,
Edizioni Graficop, 1987, pp.
286, sip (Istituto comasco per la
storia del movimento di libera­
zione).
L ’altro dopoguerra. Roma e il
Sud ¡944-1945, a cura di Nicola
Gallerano, Milano, Angeli,
1985, pp. 554, lire 30.000.
In un’avvertenza l’autore
precisa che “non si tratta di un
memoriale, che è un documen­
to, ma di un romanzo, di un
contesto quindi di fatti storici e
di elementi d’invenzione” . Egli
aggiunge che soltanto in un ca­
so egli garantisce la fedeltà sto­
La vicenda che questo libro
ricostruisce — il passaggio dal
fascismo allo stato democrati­
co della società centro meridio­
nale italiana, liberata dagli Al­
leati in anticipo sul resto del
paese — ha un respiro molto
ampio.
L’opera, composta di molte
tematiche che vengono analiz­
zate in una grande varietà di si­
tuazioni locali, si compone di
38 saggi costituiti dalle relazioni
e comunicazioni presentate al
convegno tenutosi a Roma dal
4 al 6 giugno 1984 (organizzato
dall’Istituto romano per la sto­
ria d’Italia dal fascismo alla re­
sistenza e dall’Amministrazione
provinciale di Roma) ed è pre­
ceduta da una prefazione di
Guido Quazza, da un’introdu­
zione di Enzo Forcella e da un
intervento di Nicola Gallerano
che delinea le principali coordi­
nate di quella breve e dramma­
tica fase storica.
Il taglio del volume nel suo
complesso può definirsi di tipo
“sociale” . Specie nella prima
sezione, rivolta all’analisi di
problemi
economico-sociali,
che significativamente occupa
quasi i due terzi dell’intera ope­
ra, l’intento prevalente degli
autori è quello di chiarire nel
modo più approfondito le tra­
sformazioni avvenute nella vita
concreta e quotidiana degli in­
dividui, dei nuclei familiari, dei
gruppi sociali in seguito alla fi­
ne della guerra e di esaminare le
conseguenti influenze sulle
mentalità dei singoli e delle col­
lettività. Viene messo in luce, in
particolare in alcuni interventi
che si avvalgono di narrazioni
dirette, il carattere di assoluta
eccezionalità che ha contrasse­
gnato quella esperienza, con la
conseguente sospensione delle
ordinarie convenzioni sociali e
la produzione nelle campagne
di nuove forme di solidarietà e
nei grandi centri urbani di modi
di vita alternativi, destinati a
sfuggire la miseria, da parte dei
ceti popolari e delle classi medie
a reddito fisso, travolte dall’in­
Rassegna bibliografica
flazione ed escluse dal giro di
affari della borsa nera. Nel vo­
lume vi è anche spazio per una
riflessione sulle grandi questioni
che caratterizzano questa fase
storica, ad esempio le difficoltà
di ripresa dell’industria meri­
dionale, colpita dalle distruzioni
belliche in misura maggiore ri­
spetto al resto del paese; l’im­
mancabile e generalizzato scate­
narsi dell’inflazione e del mer­
cato nero all’indomani della li­
berazione; l’inversione del rap­
porto di priorità fra zone agri­
cole e centri urbani, a favore
delle prime, in seguito agli effet­
ti rovinosi e terrorizzanti dei
bombardamenti.
Nella seconda e terza sezione
vengono posti maggiormente in
risalto i problemi di portata na­
zionale. Ad esempio le vicissitu­
dini dei partiti politici, alle prese
con l’immediata necessità di ela­
borare una strategia ricollegabi­
le alla tradizione prefascista e al
tempo stesso funzionale rispetto
ai nuovi problemi dell’oggi, lo
scontro, consumatosi in mille si­
tuazioni locali, fra le aspirazioni
di rinnovamento radicale, da at­
tuarsi anzitutto con un’epura­
zione sistematica negli organi
della pubblica amministrazione
e un desiderio di transizione
“morbida” , quasi sempre pre­
valente per il favore degli Allea­
ti e talvolta l’ausilio delle prefet­
ture. Anche nell’affrontare te­
matiche di tale ampiezza prevale
comunque la tendenza a coglie­
re la realtà nei suoi aspetti più
minuti e precisi anche se meno
appariscenti. Nomi di primissi­
mo piano nella vicenda politica
nazionale di quel periodo come
Togliatti, De Gasperi, Parri,
Croce, compaiono a volte, ma
la loro personale collocazione in
quegli eventi è appena sfiorata,
per dedicare attenzione alle per­
sonalità locali e alle trasforma­
zioni che questi potevano opera­
re nelle situazioni territoriali,
negli ambienti di lavoro o nei
circoli intellettuali e politici.
La ricerca sulle classi dirigenti
locali può essere considerata
uno dei tracciati interni che
maggiormente caratterizzano il
libro, contribuendo in modo de­
terminante all’originalità dei ri­
sultati.
Stefano Caviglia
R ita Palumbo, Camilla Ravera
racconta la sua vita, Milano, Ru­
sconi, 1985, pp. 165, lire 16.000.
“Partecipare, fare politica, vi­
vere ed essere non è mai stato
nient’altro che un offrire discreta­
mente ed incondizionatamente il
suo pensiero e poi mettersi da
parte” (p. 12). Così Rita Palum­
bo, giornalista napoletana e at­
tenta osservatrice del nesso don­
na-lavoro, conclude la sua intro­
duzione alla biografia di Camilla
Ravera traducendo con sensibilità
ed affetto il senso di una vita.
Un bel libro che si legge con
passione e nel quale sono del
tutto assenti i ‘toni elevati’ sic­
ché anche i momenti più dram­
matici vengono raccontati con
una sorta di pudore, quasi con
umiltà. Il merito è certo anche
della Palumbo che ha saputo ri­
spettare la testimone-protagoni­
sta, facendosi quasi da parte e
ritagliandosi un autonomo spa­
zio di presenza e intervento —
distinto anche graficamente nel
testo —, per conseguire in que­
sto modo un effetto di ‘coro’
dal quale la voce narrante risal­
ta. La voce di una donna “dalla
personalità ricchissima per sen­
sibilità, sacrificio e dedizione
169
[...], una persona diversa da
quella della rivoluzionaria di
professione” (p. 9). La Ravera
visse un’infanzia felice all’inter­
no di una tipica famiglia della
borghesia progressista torinese:
la madre tenera ed esclusivamente dedita all’accudimento
dei figli; il padre funzionario del
ministero delle Finanze, aperto
e molto preoccupato della cultu­
ra dei figli, maschi o femmine
che fossero; più tardi, un’adole­
scenza e una giovinezza segnate
dalla lettura delle opere di
Marx, dai primi contatti con le
organizzazioni operaie fino ai
momenti in cui le scelte di fondo
si realizzano e comincia l’inten­
sa partecipazione alla vita poli­
tica. Di qui, il racconto di pro­
fonde esperienze: il congresso di
Livorno e la nascita del Partito
comunista; l’incontro con Lenin
a Mosca e, dopo l’avvento del
fascismo, responsabilità sempre
crescenti nel partito, la clande­
stinità, l’arresto, il carcere. E a
questa fase della vita della Ra­
vera sono dedicate le pagine più
intense del libro da cui emergo­
no, con più evidenza, la strordinaria fermezza e fedeltà ad un
ideale di purezza di vita, vissuto
in ogni occasione, anche le più
difficili, con assoluta serenità.
“Non ebbi mai un momento di
sconforto, fui sempre serena
[...] appena mi chiusero la porta
della cella alle spalle, mi dissi:
ora potrò leggere fin quando
vorrò e potrò recuperare tutto il
tempo perso” (pp. 97-98): forza
e tranquillità d ’animo che le
consentirono, dopo la Libera­
zione, di riprendere il proprio
posto nel partito sempre con in­
carichi di grandissima responsa­
bilità (consigliere comunale di
Torino, deputato al Parlamento,
membro del Comitato centrale e
170
della Commissione centrale di
controllo e, infine, nel 1982 se­
natrice a vita con nomina del
Presidente Pertini).
L’attività politica non ha im­
pedito alla Ravera di trasfor­
mare la sua esperienza in testi­
monianza storica e di pubblica­
re una serie di scritti sulla sua
vita, uno dei quali — Diario di
trent’anni — ha avuto 49 edi­
zioni e, nel 1973, il Premio Via­
reggio. Di fronte a una donna
come la Ravera, viene tuttavia
fatto di chiedersi che differenza
passi tra le sue scelte di vita e
quelle di una donna d’oggi. È
lei stessa a fornirci una risposta
quando, nelle pagine dedicate
agli ultimi anni del lunghissimo
corso della sua esistenza, affer­
ma: “senza alcun problema di­
menticai di essere una donna.
Non saprei dire quali furono i
meccanismi che governarono le
mie decisioni in quegli anni” (p.
159); eppure alle donne aveva
dedicato parte non piccola della
propria vita, da quando Gram­
sci le aveva affidato La tribuna
delle donne su “Ordine Nuo­
vo”, alla cura della redazione di
“Compagne” , uno dei primi pe­
riodici femministi, e poi agli
impegni nell’Udi, alle continue
riunioni con le donne comuni­
ste della provincia di Torino
in pieno fascismo. La Ravera
con grande chiarezza e molto
presto aveva intuito la necessità
di mantenere nella società da
costruire la differenza di ruolo
fra l’uomo e la donna, fuori
dalla logica emancipazionista
ed egualitaria dello stesso parti­
to comunista. Perché dunque si
accontentò dell’amicizia e non
cercò mai l’amore? Alcune don­
ne, le donne migliori, nel passa­
to, hanno dovuto accontentarsi
della serenità; forse oggi Camil­
Rassegna bibliografica
la Ravera riterrebbe giusto ri­
cercare la felicità.
Laura Capobianco
A ntonio C uffolo , M oj Dnev-
nik. La seconda guerra mondia­
le vissuta dal ‘focolaio’ della
canonica di Lasiz, Cividale del
Friuli, Società Cooperativa
Dom, 1986, pp. 239, sip.
Dal suo osservatorio della ca­
nonica di Lasiz, una piccola
parrocchia della Valle del Nati­
sene, punto di riferimento, in
quegli anni roventi, per tutti co­
loro che combattevano per la li­
bertà, l’autore fornisce, in que­
sto volume pubblicato postu­
mo, due distinte cronache della
seconda guerra mondiale e degli
avvenimenti che la precedettero
e la seguirono, una delle quali
in sloveno (dal 1938 al 1946) e
l’altra in italiano (dal 1940 al
1947). Non si tratta però di
semplici traduzioni. Mentre in­
fatti il testo sloveno deve inten­
dersi datato dall’epoca degli av­
venimenti, quello italiano fu
probabilmente scritto negli anni
cinquanta, sulla base di quello
sloveno. Entrambi i diari sono
tratti da manoscritti.
“Uomo di frontiera che guar­
da i due versanti del monte sul­
la cui vetta si trova” (come giu­
stamente dice Marino Qualizza
nella prefazione al diario italia­
no) e nello stesso tempo intran­
sigente difensore dell’identità
della popolazione allogena della
regione, nel 1933 l’autore ri­
schierà l’arresto da parte delle
autorità fasciste per avere ten­
tato di infrangere il divieto rela­
tivo all’uso dello sloveno nei
canti, nelle preghiere, nelle pre­
diche e nell’insegnamento reli­
gioso. Durante l’occupazione
tedesca della regione, egli salve­
rà il suo paese dalla distruzione
ordinata dal comando delle
truppe cosacche, che si erano
insediate nella regione, ed aiu­
terà la fuga di trentacinque uf­
ficiali britannici sfuggiti ai nazi­
fascisti. Conclusa la guerra (ed
è questa senz’altro la parte più
interessante del diario) toccherà
ancora al Cuffolo di battersi
contro i rigurgiti nazionalisti
dei “tricoloristi” che tentavano
di fare mantenere in vigore i
provvedimenti discriminatori
contro la minoranza slava emessi
durante il regime fascista.
In complesso il volume costi­
tuisce un utile strumento per
comprendere il passato ed il
presente di quella regione di
confine e le contraddizioni dalle
quali essa era travagliata. Uni­
co difetto è costituito dall’im­
precisione con la quale, proba­
bilmente per motivi legati al­
l’interpretazione calligrafica del
manoscritto, sono riportati al­
cuni nomi (ad esempio Roeder
per Reader e Funch per Funk).
Si tratta comunque di difetti che
potranno facilmente trovare ri­
medio in una successiva edizione
del libro.
Franco Pedone
Italia repubblicana. Istituzioni
e sistema politico
P iero Calandra , Il Governo del­
la Repubblica, Bologna, Il Muli­
no, 1986, pp. 324, lire 24.000.
Inserito in una ormai collau­
data e diffusa collana di studi
giuridici delle edizioni del Muli­
no (“La nuova scienza, Diritto”)
in cui sono comparsi, fra gli al­
Rassegna bibliografica
tri, i noti saggi di Sabino Cassese sul sistema amministrativo
italiano, di Andrea Manzella sul
Parlamento, di Mario Nigro
sulla giustizia amministrativa,
di Gustavo Zagrebelsky su quel­
la costituzionale, il recente volu­
me di Calandra affronta una te­
matica politico-costituzionale di
non minor rilievo ed importan­
za. Il Governo della Repubbli­
ca, infatti, a dispetto di talune
stantie posizioni dottrinali, an­
cora legate ad u n ’ottica giu­
spubblicistica tardottocentesca,
che identificano nel parlamento
il vero perno, il motore primo di
ogni regime democratico rap­
presentativo, ha assunto, di fat­
to, un ruolo sempre più centrale
e decisivo; è diventato l’asse
portante dell’intera compagine
politico-amministrativa
dello
stato contemporaneo. Resta co­
munque da stabilire se a questa
mutazione ‘genetica’, a questa
alterazione del classico modello
parlamentare, abbia, o non,
corrisposto un incremento degli
spazi effettivi di partecipazione
dei cittadini (e di controllo dei
rappresentanti del popolo so­
vrano sugli atti dell’esecutivo) e
se, quindi, sia più conveniente
prospettare un’ulteriore svolta
in senso centralistico ed efficientistico, oppure vagheggiare
ed auspicare differenti e ben più
robuste ‘sterzate’ assemblearistiche. Come è noto, questa al­
ternativa è, da alcuni anni, al
centro di vivaci scontri fra i par­
titi di maggioranza e quelli di
opposizione e ne condiziona le
rispettive strategie istituzionali;
polemiche, queste, rese più acu­
te dalla indubbia propensione
‘decisionistica’ dimostrata dagli
ultimi governi a guida sociali­
sta. Il fenomeno, in sé, è tutta­
via incontestabile — e forse irre­
versibile nel lungo periodo — e
bene ha fatto l’autore a sottoli­
neare questa reale preminenza
dell’esecutivo, cui fa da pendant
l’eclissi degli strumenti di parte­
cipazione democratica, nell’odierno sistema politico italiano.
Il volume affronta, perciò,
non solo i tradizionali profili
strutturali e funzionali dell’or­
gano in questione, ma si adden­
tra con acume e competenza in
quel labirinto di convenzioni,
prassi, atteggiamenti, consuetu­
dini che ormai completano ed
integrano il puro ed astratto di­
segno costituzionale e che, da
tempo, formano oggetto di inte­
resse speculativo e di curiosità
scientifica anche da parte dei
politologi. A differenza delle
consuete monografie di diritto
costituzionale, solidamente co­
stituite su di un impianto dog­
matico ineccepibile, il lavoro di
Calandra si presenta con un ta­
glio più agile e discorsivo, mani­
festa, cioè, quegli intenti pratici
e didascalici che paiono caratte­
rizzare — sia pur con modalità
diverse — gli altri contributi
della citata collana editoriale.
Ci si trova, dunque, di fronte ad
un maneggevole vademecum,
ad una sorta di guida tecnica, a
delle vere e proprie ‘istruzioni
per l’uso’, indispensabili ormai
per orientarsi e districarsi nei
difficili meandri e nelle sotti­
gliezze ‘levantine’ dell’attuale
ed incerta situazione politico
istituzionale. I recenti avveni­
menti legati alla caduta del se­
condo governo Craxi rendono
ancor più opportune e tempesti­
ve le osservazioni e le indicazio­
ni contenute nell’opera di Ca­
landra. ‘Staffette’, fiducie ‘tec­
niche’, mandati ‘esplorativi’,
pre-incarichi, crisi ‘rientrate’,
ed altre ben conosciute formule
171
dell’inesauribile e fantasioso
lessico politico istituzionale ita­
liano, vengono adeguatamente e
puntualmente analizzate e trat­
tate. La contemporaneità ed at­
tualità dei problemi del funzio­
namento del sistema costituzio­
nale non fa tuttavia perdere di
vista, all’autore, il loro spessore
diacronico; i precedenti storici
di molte norme, di diverse rego­
le, di radicate consuetudini so­
no, infatti, diligentemente ram­
mentati. Occorre precisare, in
questo ambito specifico, che le
considerazioni di Calandra
paiono particolarmente preziose
e stimolanti, giusta la nota — e
tante volte deprecata — caren­
za, nel nostro paese, di studi di
storia costituzionale e parla­
mentare orientati nel senso di
una ricostruzione effettiva e
concreta dell’andamento delle
istituzioni.
Riconosciuto, perciò, il valo­
re complessivo dell’opera e pre­
scindendo — per ovvie ragioni
di spazio — da una puntualizza­
zione critica di molti aspetti che
pure meriterebbero una discus­
sione ed un confronto dialettico
più approfonditi, non possono
essere taciute alcune ‘ombre’,
né trascurati alcuni elementi (sia
pure marginali) che non sem­
brano del tutto convincenti. In­
nanzitutto, avrebbe forse giova­
to, anche alla stessa ‘lettura’ dei
nostri meccanismi costituziona­
li, qualche riferimento più am­
pio di diritto comparato, spe­
cialmente in rapporto a quelle
esperienze straniere che si avvi­
cinano maggiormente — per
struttura sociale, quadro costitu­
zionale o tradizione politica — al
caso italiano; e pure in sede di
proposizione di idonee soluzioni
riformatrici e di suggerimento di
eventuali diverse ‘regole del
172
gioco’. In secondo luogo, oc­
corre evidenziare come il carat­
tere didascalico e descrittivo del
lavoro finisca, talvolta, col far
premio sulla profondità e sulla
pregnanza delle argomentazio­
ni. Così, ad esempio, nel segna­
lare — peraltro compiutamente
— le diverse opinioni ed inter­
pretazioni espresse su un deter­
minato problema costituziona­
le, le affermazioni degli uomini
politici e quelle dei giuristi, o dei
politologi, vengono poste quasi
sullo stesso piano; ci si limita,
perciò, a fornire un semplice
‘resoconto’ del dibattito in
corso.
Va, infine, osservato che la
constatazione, comunque cor­
retta nelle sue linee di fondo,
della prevalenza delle esigenze
proprie del sistema politico sulle
teorizzazioni e concettualizza­
zioni della ingegneria costituzio­
nale (esigenze delle quali si ri­
chiamano, opportunamente, i
“margini di elasticità” ed i limiti
intrinseci) può, forse, indurre
coloro ai quali stanno a cuore le
sorti della democrazia ad ‘ab­
bassare la guardia’, a contem­
plare, con complice impotenza,
l’attuale corsa allo sfascio degli
apparati pubblici. Mai come in
questo momento pare necessa­
rio che l’area, estesa e variegata,
delle convenzioni, degli accordi
informali, delle prassi (più o
meno legittime), venga ristretta
a vantaggio di una regolamenta­
zione più puntuale, e giuridica­
mente vincolante, di tutti quei
delicati momenti e congegni del­
la vita politica, nonché dei rap­
porti fra i supremi organi dello
stato, che sono spesso al centro
di pretestuose polemiche fra i
partiti e sottoposti ad indebiti
patteggiamentio a logiche ‘spar­
titorie’. Pur ammettendo che,
Rassegna bibliografica
quasi sempre, si avvera l’ipotesi
contraria, non ci si può non au­
gurare che siano proprio delle
nuove e chiare ‘regole del gioco’
a modificare e condizionare —
una volta tanto — i comporta­
menti e gli obiettivi dei diversi
attori e soggetti politici.
Piero Aimo
Il sistema politico italiano, a cu­
ra di Gianfranco Pasquino,
Roma-Bari, Laterza, 1985, pp.
461, lire 29.000.
U n’ampia e qualificata rosa
di collaboratori e un’altrettanto
articolata impostazione per aree
tematiche e problematiche dan­
no corpo a questa densa antolo­
gia di saggi sul sistema politico
italiano ideata e curata da G.
Pasquino. Attorno al nodo
complesso della triplice relazio­
ne tra partiti, società civile e isti­
tuzioni — centrale nella storia
politica e sociale più recente del
nostro paese e a cui richiama
appunto in apertura il curatore
— si dispone la dozzina di con­
tributi prescelti, scritti in preva­
lenza tra il 1977 e il 1983, che
“combinano elementi tecnici
con analisi empiriche, valuta­
zione del passato e prospettazio­
ne del futuro” (pp. VII-VIII).
Delle quattro sezioni in cui il vo­
lume è suddiviso, le prime due
riguardano i processi elettorali
(“struttura e tipologia delle ele­
zioni in Italia dal ’46 all’83” e
“relazioni partiti-elettori e tipi
di voto”) trattati da Piergiorgio
Corbetta, Arturo Parisi e dallo
stesso Pasquino, e gli ‘attori’ in
campo (partiti, sindacati, movi­
menti), rievocati e analizzati da
Mario Caciagli (il “resistibile
declino” della De), G. Pasquino
(il Pei nel sistema politico nazio­
nale), Franco Cazzola (“struttu­
ra e potere” del Psi), Miriam
Golden (“neo-corporativismo
ed esclusione della forza lavoro
dalla rappresentanza politica”)
e Yasmine Ergas (“allargamen­
to della cittadinanza e governo
del conflitto”). La terza e la
quarta centrano a loro volta il
discorso sulle istituzioni — Go­
verno, Parlamento, Regione —
con Sabino Cassese (“esiste un
governo in Italia?”), Antonio
Baldassarre (“le performances
del Parlamento, 1970-1985”),
Robert D. Putnam, Robert Leo­
nardi, Raffaella Nanetti e Fran­
co Pavoncello (“il rendimento
dei governi regionali”) e sulle
micidiali presenze, “dentro e
contro il sistema”, di mafia
(Raimondo Catanzaro) e terro­
rismi (Donatella Della Porta e
Maurizio Rossi).
Impianto generale e titoli
specifici già orientano, in una
certa misura, su modi e intenti
del ‘percorso’ in questione, gui­
dato da scienziati sociali, della
politica e della organizzazione
istituzionale e amministrativa
nel ‘labirinto’ del sistema politi­
co italiano, più coerente e reat­
tivo di quel che comunemente si
creda.
È certo difficile rintracciare e
definire linee univoche di ispira­
zione e di svolgimento in opere
del genere; ancor più nel caso
specifico, nel quale ricorrono,
oltre alla scontata circostanza
della presenza di posizioni e di
risultati già noti ed entrati ‘in
circolo’ da tempo, anche una
notevole varietà di approcci, di
esperienze e di ‘appartenenze’.
Tuttavia è sicuramente un dato
condiviso l’opzione per il “filo­
ne democratico-empirico delle
scienze sociali contemporanee”
Rassegna bibliografica
(p. 146), sostanziata dal privilegiamento indiscusso delle istan­
ze di conoscenza razionale, mi­
surabile, verificabile e in chiave
comparativa, con scarsa o nes­
suna indulgenza per intuizioni e
per ideologie. Un volume utile e
intelligente, dunque, che forse
concede troppo poco alla speci­
ficità del ‘caso italiano’ ed in
cui agli anni sessanta viene at­
tribuito il carattere di spartiac­
que risolutivo nella sequenza
storica contemporanea italiana.
Sono precisi e persuasivi (a par­
te l’abbandono dello studio e
delle analisi delle ‘tendenze’ a
vantaggio dei ‘tipi’) gli scritti in
materia elettorale, che del resto
hanno fatto ‘scuola’; lucidi e
attuali, suscitatori di rassicu­
ranti ‘consonanze’ quelli dedi­
cati ai tre partiti maggiori, al
sindacato, all’interazione tra
politiche istituzionali e dinami­
ca conflittuale, “politiche socia­
li e politiche del sociale” (p.
234). Di indiscutibile dottrina i
saggi sul governo e sul parla­
mento, ed originali quelli sulla
mafia, il terrorismo e il rendi­
mento istituzionale delle regio­
ni, quest’ultimo sulla scorta di
fattori misurabili e di correttivi
‘qualitativi’.
Certo, taluni passaggi e qual­
che conclusione, fondati su ela­
borati procedimenti statistici,
fanno pensare talvolta che egua­
li risultati si potrebbero conse­
guire con minore spreco di ener­
gie, sia pure solo strumentali.
Inoltre, qualche perplessità de­
sta il tipo di rapporto che i sape­
ri messi in campo nella raccolta
antologica intrattengono con la
storia, un rapporto tradizionale
e, per ciò stesso, arcaico. Occor­
re ancora ripetere che la storia è
una scienza con mezzi e fini abi­
litati e orientati alla misura del­
l’incidenza del passato sul pre­
sente, risolutiva sul piano dei
“perché dei come”, attenta al
mutamento come alle persisten­
ze, alle fratture come alla conti­
nuità? Per dirla in breve, una
dimensione del reale e una cate­
goria del conoscere, un sapere
attivo ad altissima formalizza­
zione e capace in proprio, o an­
che in intelligenti combinazioni
interdisciplinari, di fornire ri­
sposte e ragioni, “reti di spiega­
zioni” .
Guido D ’Agostino
Renato M annheimer e G iaco ­
Sa n i , Il mercato elettorale.
mo
Identikit dell’elettore italiano,
Bologna, Il Mulino, 1987, pp.
185, lire 15.000.
Il libro di Mannheimer e di
Sani si propone di sviluppare
un’idea, quella dell’analogia tra
mondo della politica e mondo
dell’economia, che soprattutto
a partire dall’ormai classico la­
voro di Anthony Down (A n
Economie Theory o f Democracy, New York, 1957), ha in­
fluenzato un importante filone
di riflessione teorica e di ricerca
empirica, non solo nel mondo
anglosassone, ma anche nel no­
stro paese (si pensi ai significati­
vi contributi degli studiosi del­
l’Istituto Cattaneo). Tale analo­
gia risulta più calzante, a giudi­
zio degli autori, ove si consideri
un momento particolare della
vita politica, quello della com­
petizione elettorale. Vale segna­
lare, tuttavia, che nell’indica­
zione del mercato elettorale
quale oggetto della riflessione
scientifica è consegnato non so­
lo un approccio metodologico,
ma anche l’esplicito auspicio
che gli sviluppi futuri consen­
173
tano una sempre più chiara de­
finizione del luogo nel quale “i
produttori di politiche pubbli­
che presentano le loro offerte
a cittadini informati, liberi da
pregiudizi e sciolti da legami
col passato, che scelgono di
volta in volta proprio sulla base
delle alternative loro proposte”
(p.8).
Nel definire le caratteristiche
del mercato elettorale italiano
negli anni ottanta, il libro arti­
cola e sviluppa i risultati di una
ricerca demoscopica svoltasi nel
1985 in Italia ed in altri tre paesi
dell’Europa del sud.
In particolare, l’analisi delle
motivazioni, con la conseguente
definizione delle tipologie di vo­
to (si richiama in proposito la
classica tripartizione in voto di
appartenenza, voto di opinione
e voto di scambio, compiuta
dieci anni fa da Arturo Parisi e
Gianfranco Pasquino), sia pure
arricchita da un più ampio spet­
tro di indicatori utili a illustrare
alcuni aspetti della scelta eletto­
rale, dimostra scarse capacità di
chiarire e prevedere la direzione
del voto.
Similmente, anche l’analisi
orientata alla considerazione
delle variabili sociali ed econo­
miche riesce a spiegare solo una
parte modesta delle scelte eletto­
rali, rivelando pertanto una de­
bole capacità predittiva. Per
spiegare e prevedere il compor­
tamento di voto, appare neces­
sario ricorrere ad altri elementi,
quali le tradizioni, l’apparte­
nenza a subculture, la forza or­
ganizzativa dei partiti, la strut­
tura dei canali di comunicazio­
ne, la forza di persuasione dei
leader.
Il tentativo degli autori è
quello di fondare la possibilità
della previsione sulla base della
174
definizione di una struttura del­
la scelta elettorale in Italia, po­
sto che proprio il riferimento al
‘mercato’ potrebbe risultare
astratto e fuorviante, qualora
non desse conto della moltepli­
cità di fattori che rendono
estremamente diversificata la
dinamica della formazione delle
scelte. Il libro si fonda, come si
è detto, su una ricerca demo­
scopica, il cui criterio animato­
re è quello della classificazione
soggettiva dei cittadini, la loro
autocollocazione lungo il conti­
nuum sinistra/destra, un mo­
dello di cui si sottolinea la per­
durante validità. Il primo fatto­
re utilizzato, il primo filtro che
riduce le alternative considerate
dagli elettori, è la preferenza
politica negativa, vale a dire la
vasta area delle preclusioni. Il
meccanismo delle esclusioni,
come risulta dall’inchiesta, ap­
pare correlato in modo abba­
stanza netto con gli orienta­
menti degli elettori favorevoli a
questo o quel partito. In secon­
do luogo, viene considerata l’i­
dentificazione partitica, un fe­
nomeno che riduce ulterior­
mente la scelta elettorale, e che
in Italia coinvolge ancora una
massa imponente di cittadini. Il
terzo fattore è quello dell’iden­
tificazione di area, vale a dire
l’ancoraggio sul continuum si­
nistra/destra. Infine, viene pre­
so in esame il giudizio espresso
sui leader politici: la connes­
sione tra valutazione sui lea­
der e intenzione di voto, pu­
re rilevata, rende solo in par­
te ragione della preferenza par­
titica.
L ’insieme degli elementi con­
siderati consente un apprezza­
bile livello di approssimazione,
concettuale e psicologica, al­
l’intenzione di voto. Precisate
Rassegna bibliografica
le aree interessate ad una dina­
mica di mercato, vengono prese
in considerazione le varie com­
ponenti del processo di muta­
mento elettorale, approntando
anche in questo caso un’artico­
lata e persuasiva tipologia. Ne
risulta complessivamente che la
competizione nel sistema parti­
tico italiano conserva tuttora
un
carattere
notevolmente
strutturato. Non ci si trova di
fronte ad un unico mercato
elettorale ove sono in competi­
zione tutti i ‘produttori’ e tutti i
‘consumatori’, non ci si trova
dinnanzi ad un bellum omnium
contra omnes, come gli stessi
autori sottolineano. Si tratta
piuttosto di una pluralità di
aree continue, talora parzial­
mente sovrapposte, nelle quali
la competizione coinvolge seg­
menti diversi di elettorato e di
forze politiche.
Un mercato in movimento, a
giudizio degli autori, i quali
tuttavia ricordano che l’entità e
le caratteristiche delle trasfor­
mazioni rilevate non possono
sollecitare aspettative di grossi
cambiamenti nel breve periodo.
L ’attenta valutazione dei fatto­
ri di più lungo periodo, ai quali
sembra ancorata la straordina­
ria continuità del sistema politi­
co italiano, e la considerazione
delle lente ma significative va­
riazioni registratesi negli anni,
fanno di questo volume un utile
ed interessante contributo alla
comprensione del ‘caso ita­
liano’.
Salvatore Minolfi
G uido D ’A gostino, Alla ricer­
ca di un futuro. Il voto a Napo­
li dal 1980 al 1985, Napoli,
Athena, 1987, pp. 175, lire
20 . 000 .
Alla ricerca di un futuro è il
più recente lavoro che Guido
D’Agostino dedica alla storia
elettorale di Napoli. Si tratta di
un volume antologico che rac­
coglie una serie di articoli e sag­
gi pubblicati in diversi giornali
e riviste tra il 1980 e il 1986 e,
pertanto, si pone come logica
persecuzione di Napoli alle ur­
ne, ricostruzione ed analisi del
voto urbano dal 1946 al 1979
(G. D’Agostino, Napoli alle ur­
ne. Il voto urbano dal 1946 al
1979, Napoli, Guida, 1980).
Suddiviso in nove capitoli,
organizzati attorno ad altret­
tanti momenti salienti della sto­
ria elettorale cittadina, il libro
si apre con un gruppo di artico­
li sul decentramento ammini­
strativo della città. Il decennale
processo che ha portato all’isti­
tuzione dei Consigli circoscri­
zionali (1980) è qui ripercorso
nelle sue tappe fondamentali e,
attraverso il minuzioso con­
fronto tra il regolamento dei
Consigli circoscrizionali propo­
sto dalla giunta di sinistra allo­
ra in carica ed il testo definitivo
approvato dal Consiglio comu­
nale, viene ricordato il duro
scontro che si ebbe tra le forze
politiche nel momento in cui
missini, democristiani e repub­
blicani, con la loro opera di re­
sistenza e boicottaggio, mostra­
rono “di temere, più che desi­
derare e favorire, la partecipa­
zione effettiva dei cittadini nei
processi decisionali e di con­
trollo [e preferire] il dato della
funzionalità burocratica a sca­
pito della sostanza progressiva
presente nei tratti e nelle attri­
buzioni dei nuovi organismi”
(p. 14). In definitiva, un arroc­
camento nella difesa del potere
unitario e centralizzato che li­
mitando compiti ed attribuzioni
Rassegna bibliografica
dei nascenti Consigli circoscri­
zionali li ha di fatto impoveriti e
resi incapaci di operare incisiva­
mente. In tale contesto non stu­
pisce che i Consigli circoscrizio­
nali abbiano rappresentato “l’e­
satto contrario della tensione,
innovazione e coraggio necessa­
ri” ed abbiano riproposto al lo­
ro interno le stesse logiche di
potere e prassi amministrative
proprie di organismi più ampi e
generali. Né, d ’altra parte, si sa­
rebbe potuto sperare di meglio
da “un personale politico scar­
samente radicato nel territorio,
e collocato invece nelle sezioni e
negli uffici dei partiti, poco pre­
parato e poco motivato, inten­
zionato anzi ad usare l’esperien­
za di consigliere circoscrizionale
per avviarsi verso mete ritenute
più prestigiose” (p. 30). Il de­
centramento, dunque, non ap­
pare a D ’Agostino come sinoni­
mo di partecipazione. Il decen­
tramento rappresenta certo il
prerequisito istituzionale ma la
partecipazione richiede una
chiara volontà politica (che, co­
me abbiamo visto, è mancata)
oltre che un diverso atteggia­
mento dei “cittadini-utenti” .
L’esperienza di questi anni ha
infatti dimostrato che quando vi
sono una reale volontà politica e
reali spazi di intervento ‘la base’
non è né abulica né assente, ma
ha altresì confermato che trop­
po spesso permangono verso la
sfera del politico fenomeni di
diffidenza, qualunquismo e di­
sinformazione che in definitiva
favoriscono il clientelismo, la
corruzione ed il malgoverno del­
le forze politiche più conserva­
trici. Si ha, insomma, una sorta
di circolo vizioso, quello che in
altra sede D ’Agostino ha defini­
to “effetto boomerang” (G.
D’Agostino, Napoli: governo e
amministrazione della città dal­
la caduta del fascismo alla Re­
pubblica 1943-1946, in Aa.Vv.,
Alle radici del nostro presente,
Napoli, Guida, 1986 p. 42). La
capacità di rompere questo sta­
to di cose, la possibilità di ri­
creare un diverso rapporto tra
società civile e ceto politico, è
dunque il banco di prova per
tutte le forze della sinistra, la
cartina di tornasole con la quale
misurare la consistenza di ogni
ipotesi di sviluppo e progresso
civile della città.
Ma, come dicevamo in aper­
tura, non è solo il problema del
decentramento ad essere affron­
tato dall’autore e dai suoi colla­
boratori (Maurizio Mandolini,
Alessandro Nevola, Riccardo
Vigilante) bensì tutti i principali
momenti elettorali tra l’ottanta
e l’ottantacinque. Vi troviamo,
dunque, analisi dei risultati del­
le elezioni amministrative e poli­
tiche, dei referendum popolari e
delle elezioni europee. Emerge,
così, il carattere di insularità del
voto napoletano (cioè la sua
unicità, diversità rispetto al con­
testo provinciale, regionale, me­
ridionale e nazionale); di orien­
tazione tripolare (polo liberal-monarchico e neofascista,
polo democristiano, polo comu­
nista) dei suffragi; di enfatizza­
zione selettiva (la capacità della
società napoletana di ridurre o
amplificare tendenze più gene­
rali in atto sul territorio nazio­
nale) nel quadro di un’accentua­
ta contrapposizione tra piano
locale e piano nazionale ben evi­
dente nello scarto tra il voto am­
ministrativo e quello politico. Il
voto amministrativo, infatti,
soltanto tra il 1963 ed il 1972 ha
premiato un quadro politico
omologo a quello nazionale
(De) ma più spesso ha dato vita
175
a giunte municipali in netto an­
tagonismo col governo centrale
(si pensi all’esperienza laurina e,
più recentemente, alle giunte di
sinistra). II testo si presenta utile
sia ai politici, quale insostituibi­
le strumento di conoscenza e di
lavoro sia agli storici che sempre
più vedono nella storia elettora­
le una sorta di cerniera tra la
storia elettorale stessa e quella
politico-istituzionale e sociale
(vedi, Lo spazio regionale. Con­
tributi di storia elettorale e ras­
segne sul ceto politico locale,
“Italia contemporanea” , 1987,
n. 167).
Raffaele Messina
Gli ambasciatori italiani e la di­
plomazia oggi, a cura di Enrico
Serra, Milano, Angeli, 1986,
pp. 244, lire 24.000.
Proseguendo in un disegno
avviato con il volume La diplo­
mazia in Italia (Milano, Angeli,
1985), E. Serra, curatore di que­
sto volume, tenta di gettare ulte­
riore luce su alcuni aspetti della
politica internazionale e in par­
ticolare sul ruolo italiano in
questo ambito. Dopo aver dato,
con il primo libro, una serie di
indicazioni sulla struttura del
ministero degli Esteri, sulla sua
evoluzione storica e ammini­
strativa, sulle sue tradizioni,
sulla ‘tecnica’ diplomatica, sulle
fonti archivistiche, ora egli ha
inteso offrire un gruppo di testi­
monianze ‘dall’interno’, redatte
da alcuni fra i più rappresentati­
vi esponenti della diplomazia
italiana, in servizio e non: da
Gaja a Farace, a Chelli, a Guaz­
zarono a Maccotta, a Mondel­
lo, a Ortona, a Plaja, a Roma­
no, a Tornetta, a Vita Finzi. Ad
essi è stato affidato il compito
176
di affrontare e analizzare breve­
mente aspetti diversi delle atti­
vità del diplomatico, nonché
momenti della politica estera
del paese. Sono stati così esami­
nati numerosi temi nei saggi:
Dalla diplomazia sarda alla di­
plomazia italiana, La Santa Se­
de, L ’opinione pubblica, La di­
plomazia multilaterale, sino al
saggio conclusivo e un poco in­
consueto sul rapporto fra satira
e diplomazia.
Nella presentazione, Serra, il
quale conta di far seguire a que­
sto un secondo volume, avverte
come ci si trovi di fronte a “del­
le riflessioni e non a dei saggi
storici”. Ciò nonostante, o for­
se proprio per questa ragione, il
curatore sostiene che l’opera
“offre un materiale prezioso
tanto agli studiosi che ai diplo­
matici ed agli operatori interna­
zionali” (p. 12).
In effetti il volume risente di
questa peculiare impostazione.
Molto diversi fra loro sono gli
approcci metodologici scelti dai
vari autori, da quello storico, a
quello politologico, dalla me­
morialistica all’aneddotica. Né
si può affermare che l’azione
internazionale dell’Italia, per
quanto ben presente nell’espe­
rienza di tutti coloro che hanno
contribuito al libro, rappresenti
un elemento unificante tutti i
saggi, perché a volte l’attenzio­
ne si è concentrata sulla politica
estera di altri paesi o sulla di­
plomazia in quanto “strumen­
to ” di politica. A una lettura
superficiale del volume risulte­
rebbe quasi confermato il luogo
comune secondo il quale una
delle caratteristiche del diplo­
matico è il possesso di una certa
dose di “eclettismo” . Quest’ultima osservazione è però in
gran parte ingiusta. Alcuni con­
Rassegna bibliografica
tributi risultano, al contrario,
particolarmente interessanti per
la comprensione del retroterra
culturale e politico, degli atteg­
giamenti ‘psicologici’ di una
componente significativa del
personale diplomatico italiano
che ha operato tra la fine del
fascismo e gli anni settanta; va
ricordato come, ad eccezione di
Claudio Chelli, Vincenzo Tornetta e Sergio Romano, gli au­
tori siano entrati “in carriera”
durante gli anni trenta, rag­
giungendo gli incarichi di mag­
giore prestigio e responsabilità
intorno agli anni sessanta. Al­
cuni saggi si fanno apprezzare
inoltre per la vivacità dello sti­
le, altri per la narrazione di epi­
sodi di rilievo, altri ancora per
l’acutezza di certe valutazioni.
Non è questa la sede per un
esame dettagliato di ogni singo­
lo contributo, ma pare oppor­
tuno ricordare il saggio di Ro­
berto Gaja, il quale contiene
sintetiche e utili osservazioni
sulla “doppia anima” della po­
litica estera italiana, “quella
classica, studiosa degli equilibri
continentali, e quella nazionali­
stica, ansiosa di dare una nuova
impostazione alle relazioni fra i
popoli” (p. 34). Altrettanto in­
teressanti risultano le brevi note
biografiche di Sergio Romano,
il quale ha cercato di spiegare il
nesso esistente tra la propria
esperienza di diplomatico e l’at­
tività di storico e commentatore
politico. Né si può infine di­
menticare il contributo di Paolo
Vita Finzi; egli ha infatti offer­
to alcune umoristiche osserva­
zioni sui numerosi e spesso
fuorviami luoghi comuni con­
nessi all’attività del diploma­
tico.
In conclusione si può affer­
mare che il volume offre utili
spunti di riflessione e non resta
che attendere un ulteriore ap­
profondimento su alcuni dei te­
mi presi in considerazione, in
particolare sull’azione e sul
ruolo del ministero degli Esteri
e del suo personale nella forma­
zione della politica estera ita­
liana.
Antonio Varsori
G iorgio Brosio e C arla M ar ­
Il potere di spendere.
Economia e storia della spesa
pubblica dall’Unificazione ad
oggi, Bologna, Il Mulino, 1986,
pp. 204, lire 15.000.
chese ,
Scritto da due economisti,
ma indirizzato nelle intenzioni
degli autori ad un pubblico non
specializzato, interessato alle
scienze sociali in genere, il volu­
me si propone di ripercorrere
l’evoluzione della spesa pubbli­
ca nella storia dell’Italia postu­
nitaria fino alla “abnorme
espansione” dell’ultimo venten­
nio. Più che alla ricostruzione
storica, tuttavia, il ricco mate­
riale informativo raccolto appa­
re finalizzato alla definizione di
una modellistica economica, al­
la quale gli autori — pur rico­
noscendo minore ricchezza ana­
litica rispetto alla metodologia
della storia — attribuiscono ri­
gore e possibilità di verifica su­
periori. Il compito di “mettere
in luce le relazioni essenziali fra
il fenomeno studiato (la spesa
pubblica) e il contesto societa­
rio in cui essa è determinata”
resta perciò affidato all’indivi­
duazione, da un lato, delle re­
gole del gioco politico (i mecca­
nismi decisionali) e dall’altro,
dei fattori che determinano le
preferenze dei responsabili in
materia di spesa, in una prò-
Rassegna bibliografica
spettiva di comparazione fra tre
differenti assetti socio-istituzio­
nali: l’Italia liberale, la dittatura
fascista, la democrazia del do­
poguerra. Proprio tale sforzo
comparativo costituisce il meri­
to maggiore del volume, al di là
dei frequenti schematismi e di
giudizi storici talvolta riduttivi o
affrettati.
L’ipotesi centrale del lavoro
considera la spesa pubblica co­
me un fenomeno essenzialmente
redistributivo, “uno strumento
cioè che gruppi e singoli utiliz­
zano, secondo quanto loro per­
messo dai contesti politico­
istituzionali esistenti, per modi­
ficare la propria posizione rela­
tiva” . Il ruolo diretto dello stato
nell’economia ed il suo contri­
buto allo sviluppo della produ­
zione restano perciò program­
maticamente esclusi dall’analisi.
A questa impostazione corri­
sponde la preferenza dichiarata
per un modello interpretativo di
tipo ‘politico’, secondo il quale
all’allargamento della parteci­
pazione politica corrisponde,
nel lungo periodo ma inevitabil­
mente, un’espansione della spe­
sa pubblica. Attraverso la co­
struzione di serie storiche che
analizzano le categorie di spesa
e la ripartizione del carico tribu­
tario, gli autori giungono alla
conclusione che per il periodo li­
berale “appare storicamente più
corretto, e analiticamente più
sostenibile, un modello in cui la
classe ristretta che detiene il di­
ritto di voto, e che si amplia con
lentezza, [...] difende accanitamente, cercando di protrarlo il
più a lungo possibile, il potere
di sfruttamento delle classi più
povere escluse dalla partecipa­
zione politica”.
Una particolare attenzione è
rivolta tuttavia al periodo re­
pubblicano, considerato quello
in cui il nesso espansione della
spesa pubblica/partecipazione
politica trova la sua concretizza­
zione più esplicita. L’analisi del­
la struttura della spesa pubblica
dimostra con chiarezza la dimi­
nuzione relativa della quota dei
consumi e degli investimenti
pubblici (le voci che contempla­
no un utilizzo diretto di risorse
reali ed un intervento più incisi­
vo nell’economia da parte del
settore pubblico) rispetto alla
quota dei trasferimenti (spese
sociali e interessi sul debito),
che non incidono sulle dimen­
sioni relative del settore pubbli­
co rispetto a quello privato in
termini di produzione effettua­
ta. Da ciò deriva la tesi per cui
il ‘nocciolo duro’ del settore
pubblico, nel periodo 19501982, ha teso al declino, for­
nendo una quota via via minore
di servizi reali all’organizzazio­
ne economica.
La centralità detenuta dal
ruolo redistributivo, mediante
strumenti fiscali e spese sociali,
nella formazione e nel manteni­
mento delle maggioranze del
dopoguerra spinge i due autori
a stabilire una stretta analogia
tra i modelli utilizzati per il re­
gime fascista e la democrazia
postbellica, per quanto concer­
ne i meccanismi di decisione
della spesa: ossia per il ruolo
giocato, da un lato, dai gruppi
di interesse e, dall’altro, dalla
ricerca (seppure con modalità
diverse) del consenso. Tale ana­
logia non vuole coinvolgere la
teoria dei sistemi politici, ma
intende porre in relazione “un
caso specifico di democrazia
‘bloccata’ [...] e un caso speci­
fico di dittatura, con importan­
ti caratteri di populismo, come
quella fascista”. Nel secondo
177
dopoguerra, in ogni caso, al­
l’aumento del numero dei grup­
pi sociali beneficiari della spe­
sa e all’accentuazione del ritmo
di crescita di quest’ultima, han­
no corrisposto una perdita di
chiarezza del senso della redi­
stribuzione operata ed una mol­
tiplicazione di fenomeni di “il­
lusione finanziaria” come l’e­
spansione delle entrate tramite
l’indebitamento pubblico o i tri­
buti prelevati con ritenute alla
fonte.
In conclusione, alla domanda
iniziale se una presenza pubbli­
ca tanto massiccia sia compati­
bile con la crescita a ritmi soddi­
sfacenti dell’economia e con il
mantenimento dei livelli di li­
bertà raggiunti nelle scelte indi­
viduali, gli autori rispondono
sottolineando la continuità sto­
rica del caso italiano, cioè la
“netta preferenza per le soluzio­
ni pubbliche” : “a meno che i
problemi del finanziamento di­
vengano così drammatici da im­
porre drastici tagli, non ci sono
indicazioni che questa elevata
propensione all’offerta di spesa
pubblica da parte della classe
politica italiana debba ridursi”.
D’altra parte essi giudicano
inaccettabile ogni valutazione
aprioristicamente negativa del­
l’intervento pubblico, ricono­
scendo come le proposte di revi­
sione costituzionale e di priva­
tizzazione godano oggi, grazie
alla ventata antistatalistica degli
ultimi anni, di un credito “forse
superiore alla loro effettiva con­
sistenza” .
Stefano Battilossi
P ietro B arcellona, A ntonio
Cantaro , La sinistra e lo Stato
sociale, Roma, Editori Riuniti,
1984, pp. 206, lire 16.000.
178
Il lavoro è presentato dagli
autori come una rielaborazione
della riflessione collettiva svol­
tasi al Centro per la riforma del­
lo Stato nel 1980-83. Il primo
passo è una ricognizione delle
forme della crisi dello stato so­
ciale così come emergono nelle
recenti analisi politologiche: la
sfasatura tra apparato politico
amministrativo e bisogni sociali
— per cui la spesa pubblica non
riesce a far fronte alle nuove do­
mande sociali sull’ambiente, la
qualità della vita, il sistema del­
le relazioni umane (è il tema del­
le domande sociali cosiddette
post-materialistiche) — deter­
mina una contraddizione tra la
necessità di legittimazione del­
l’apparato e la sua capacità di
accumulazione (nell’aspettò di
stato imprenditore, che è uno
dei lati fondamentali della figu­
ra del welfare state sulla cui crisi
verte il discorso); questa incapa­
cità imprenditoriale si riflette
poi nella impossibilità di mante­
nere efficiente la articolazione
tra intervento statale ed accu­
mulazione privata attraverso le
funzioni diversificate della spe­
sa pubblica.
La crisi del welfare state mo­
stra dunque un aspetto ‘interno’
— in termini di caduta di reddi­
tività della amministrazione
pubblica — ed uno ‘esterno’ co­
me caduta di credibilità presso
gli strati sociali emarginati o
portatori di nuove domande, ri­
spetto ai quali la stessa dinami­
ca della compensazione moneta­
ria ad opera dello stato in quali­
tà di redistributore della ric­
chezza sociale (altro lato del
welfare state) risulta inefficace,
e peraltro gravemente incrinata
a partire dalla crisi dell’accumu­
lazione negli anni settanta. In
questa situazione è tutto il siste­
Rassegna bibliografica
ma di funzioni sulla cui chiara
distinzione si sono rette fino ad
oggi le democrazie europee a su­
bire una complessiva distorsio­
ne: già la scelta di obiettivi pu­
ramente economici diviene nel
nuovo contesto una selezione
politica dall’alto della effettiva
domanda sociale, mentre la fun­
zione redistributiva ha percorso
fino in fondo la via dell’assi­
stenzialismo.
Gli autori rilevano la tenden­
za alla omologazione program­
matica in politica economica tra
destra e sinistra con la conse­
guente perdita, per il sistema
politico, di quel ruolo fondamentale di filtro e organizzatore
delle domande sociali intorno a
solidarietà di diversi interessi e
ben definite identità collettive.
In queste condizioni, politica
e amministrazione tendono a
confondersi: il ceto politico di
governo si presenta come pro­
prietario della impresa-ammi­
nistrazione di cui gestisce gli ap­
parati e la erogazione delle ri­
sorse mentre i partiti riducono il
loro ruolo a quello di seleziona­
re il personale dirigente e ammi­
nistrativo (è la cosiddetta occu­
pazione dello stato). Natural­
mente i diversi aspetti della
complessiva crisi di rappresen­
tanza incidono con maggiore
acutezza proprio su quei partiti
— la sinistra italiana e in parti­
colare il Pei — che maggior­
mente hanno lavorato in questi
anni alla creazione di una iden­
tità collettiva poggiata su un
complessivo progetto di muta­
mento dei rapporti tra politica,
economia e società. I partiti tra­
dizionali si trovano a dover fare
i conti con una perdita di peso
del conflitto capitale-lavoro nel­
le sue sedi classiche e con la
frantumazione degli interessi
per l’emergere di nuove figure
sociali nate dai nuovi processi
produttivi ed anche generate
dalla stessa politica redistributi­
va dello ‘stato sociale’.
È in sostanza l’intero modello
neocorporativo a mostrare la
corda in queste analisi, quel mo­
dello che — sulla base di rappre­
sentanze stabili e legittimate del­
le grandi forze sociali e di istitu­
ti capaci di garantire lo scambio
politico tra queste e lo stato —
prevedeva la definizione con­
sensuale delle compatibilità eco­
nomiche e sociali grazie alla me­
diazione politico parlamentare e
alla contrattazione collettiva.
Ripercorrendo le grandi fasi
della politica economica in Ita­
lia dal dopoguerra, l’attenzione
si volge all’anomala gestione di
questi processi da parte della
De, che deve svolgere il ruolo di
partito che realizza al suo inter­
no il compromesso sociale, ma
anche di partito anticomunista,
antagonista oggettivo di una
gran parte del mondo del lavo­
ro. La De disorganizza il blocco
dominante degli industriali del
nord e degli agrari del meridio­
ne colpendo i latifondi con la ri­
forma agraria e costituendo
un’industria di stato per condi­
zionare a monte le scelte del
processo di accumulazione, ed
opera in tal modo anche un ac­
quisto di potere contrattuale ri­
spetto ai gruppi trainanti del ca­
pitalismo italiano; nello stesso
tempo tende a ridurre il ruolo
del movimento operaio e delle
masse popolari dentro i confini
della mediazione statale e istitu­
zionale. Si configura così, in
questa “grande operazione ri­
formistica e reazionaria nello
stesso tempo” (p. 77), la pecu­
liarità di uno ‘stato sociale’ che
si viene realizzando a scapito
Rassegna bibliografica
dell’unità del mondo del lavo­
ro, scomponendo lo stesso
blocco riformatore per impedi­
re che l’aggregazione avvenga
sul polo segnato dalla presenza
del Pei.
Alla chiarezza di analisi, sia
sul piano delle teorie complessi­
ve, sia su quello della singolare
situazione italiana sino alle
preoccupanti prospettive degli
odierni processi di ristruttura­
zione, fa però riscontro una più
discutibile individuazione delle
proposte, — che finiscono col
fare riferimento al “piano
Meidner” per la “progressiva
socializzazione dei mezzi di
produzione attraverso l’istitu­
zione di fondi collettivi dei la­
voratori” (p. 203), cioè ad un
modello di progetto economico
che — come è dichiarato dagli
stessi autori — nasce ed è pen­
sabile solo in un contesto, quel­
lo svedese, totalmente diver­
so da quello puntualmente ana­
lizzato per l’Italia.
Luca Fiacco
Movimento cattolico
G iorgio V ecchio , Alla ricerca
del partito. Cultura politica ed
esperienze dei cattolici italiani
nel primo Novecento, Brescia,
Morcelliana, 1987, pp. 324, lire
28.000.
Il nodo del partito è sicura­
mente un punto di riferimento
centrale nell’esperienza politica
dei cattolici italiani. Ad esso si
è costantemente rifatta quella
storiografia di matrice cattoli­
ca che ha inteso farne l’asse
portante di un processo di svi­
luppo continuo, anche se non
lineare, attraverso il quale si af­
ferma e si legittima l’ascesa del
movimento dei cattolici or­
ganizzati all’interno dello sta­
to laico, fino alle massime re­
sponsabilità politiche e istitu­
zionali.
La graduale affermazione del
“partito di ispirazione cristia­
na” , “organismo tendenzial­
mente aconfessionale, laico, or­
ganizzato” , è appunto il filo
conduttore dei saggi che G.
Vecchio ha raccolto in questo
volume e che, per quanto stesi
in occasioni diverse, si presen­
tano collegati da una sostanzia­
le continuità tematica e crono­
logica. L’autore, ripercorrendo
le esperienze storiche di alcuni
protagonisti di primo piano e di
alcuni significativi centri di ag­
gregazione del movimento cat­
tolico italiano, intende rico­
struire i fondamenti culturali e
politici, per molti aspetti condi­
zionanti, delia presenza pubbli­
ca dei cattolici, dagli inizi del
secolo fino alla vicenda del Par­
tito popolare nel primo dopo­
guerra. Ne conseuge che il Ppi
(al quale lo stesso Vecchio ave­
va già dedicato un ampio e do­
cumentato volume nel 1982) si
presenta come il passaggio con­
clusivo del lungo travaglio col­
lettivo di una intera generazio­
ne di dirigenti cattolici, piutto­
sto che come frutto peculiare
del genio politico di Luigi Sturzo, e al tempo stesso appare in­
serito nel generale processo di
crescita democratica dei cattoli­
ci europei, ossia in un contesto
assai più ampio e dinamico di
quello segnato dai confini na­
zionali.
Senza entrare qui in un’anali­
si particolareggiata dei singoli
saggi, si può osservare che Vec­
chio sviluppa efficacemente
queste ipotesi di ricerca, anche
se solo per sondaggi, come è
179
nella natura del suo lavoro, an­
ziché attraverso un approfondi­
mento organico del tema. Si
che sorge immediatamente l’in­
terrogativo su quanto la com­
plessa realtà del movimento
cattolico italiano possa confer­
mare, nell’insieme, le pur signi­
ficative esperienze affrontate
dall’autore, tutte, per l’appun­
to, collocate nel contesto politi­
co e culturale più avanzato, che
è quello dell’Italia settentriona­
le. Ora, non c’è dubbio che Me­
da, Miglioli o l’Unione giovani
cattolici milanesi rappresenti­
no, nei rispettivi ambiti, le pun­
te emergenti di questo processo
di crescita dei cattolici italiani.
(Diverso il discorso per quanto
riguarda la Scuola sociale catto­
lica di Bergamo, di cui l’autore
non manca di mettere in luce il
“carattere tutto sommato su­
perficiale e arretrato”). Resta
da vedere quanto questi ‘casi’
possano essere assunti a rappre­
sentazione di un’evoluzione ge­
nerale e quanto invece restino
aspetti particolari e perfino
contraddittori rispetto alla real­
tà complessiva.
D ’altra parte, centrando si­
gnificativamente
l’attenzione
sui processi politici, l’autore
evita di cadere nella tradiziona­
le apologia della socialità cleri­
cale e di rifarsi esclusivamente
alla letteratura specialistica di
parte cattolica. Ciò gli consente
di valutare criticamente la de­
bolezza teorica e pratica del­
l’opposizione cattolica nell’Ita­
lia liberale e di ricondurre a
questo “limite ereditario” il ri­
tardo accumulato dai cattolici
nel misurarsi concretamente
con la problematica istituziona­
le e politica della democrazia
moderna. Temi meritevoli di ul­
teriori approfondimenti e di
180
approcci più generali, ma sui
quali il volume fornisce co­
munque validi spunti di discus­
sione.
Mario G. Rossi
G ianni La B ella, “L o Spetta­
tore Italiano" 1948-1954, Bre­
scia, Morcelliana, 1986, pp.
238, lire 20.000.
Nel dare conto di questo sag­
gio è opportuno chiarire preli­
minarmente che il titolo è, al­
meno parzialmente, fuorviante:
non si tratta infatti di una rico­
struzione dell’esperienza cultu­
rale complessiva di questa rivi­
sta, bensì dell’analisi del per­
corso politico e culturale di al­
cuni noti intellettuali prove­
nienti dalla ‘diaspora’ seguita
allo scioglimento del partito
della Sinistra cristiana, avvenu­
to nel dicembre 1945, che ave­
vano trovato modo di esprimer­
si appunto sulle colonne del pe­
riodico fondato da Elena Cro­
ce, Raimondo Craveri e Pietro
Antonelli: tra questi Filippo
Sacconi, Gabriele De Rosa e, in
posizione defilata ma non per
questo meno importante (p.
31), Franco Rodano. La preci­
sazione non è da considerarsi
pedante o poco importante:
“Lo Spettatore” era infatti nato
nel 1948 con tu tt’altra caratte­
rizzazione politica e culturale
rispetto a quella che verrà ad
assumere con il 1950-51, so­
prattutto in relazione all’ingres­
so nella redazione degli intellet­
tuali citati. Si trattava inizial­
mente di una rivista a vocazio­
ne eminentemente critico lette­
raria, espressione di una “raffi­
nata élite intellettuale” “di tra­
dizione crociana e postideali­
sta” ben esemplificata dai nomi
Rassegna bibliografica
dei fondatori. Con l’inizio degli
anni cinquanta la struttura del­
la rivista cambiò, aggiungendo­
si alla parte letteraria “una par­
te politica sempre più nutrita”
di cui De Rosa, Sacconi e so­
prattutto Rodano furono ani­
matori. La collaborazione tra
queste due anime tanto diverse
durò poco: nel giugno del 1954,
dopo alcuni mesi di crisi laten­
te, avvenne la rottura cui seguì,
l’estate stessa, la ripresa delle
pubblicazioni su nuove basi,
senza la componente che per
brevità diremo ‘rodaniana’.
Considerando il carattere para­
dossale del ‘luogo intellettuale’
scelto dal gruppo ‘rodaniano’
per esprimere le proprie idee —
“volendo privilegiare un dialo­
go comunisti-mondo cattolico
tutto da costruire, si parte da
una tribuna che non appartiene
a nessuno dei due campi” , ossia
una rivista ‘crociana’ (Giovanni
Tassani, p. 24) — a stupire non
è tanto la fine della collabora­
zione, quanto la collaborazione
stessa. Questa può essere spie­
gata sia dalla mediazione di
Raffaele Mattioli, “amico da
tempo di Franco Rodano e
molto vicino all’esperienza del­
lo Spettatore” (p. 22), sia da ta­
lune consonanze tra i punti pro­
grammatici espressi da Craveri
(direttore della rivista tra il gen­
naio 1949 e il marzo 1952) —
ad esempio “Lo Spettatore”
non doveva essere né anticomu­
nista né anticlericale e doveva
opporsi alla guerra fredda (p.
24) — e alcune delle tematiche
qualificanti delle posizioni dei
redattori provenienti dalla Sini­
stra cristiana (si vedano in par­
ticolare i capitoli II e VI). In se­
guito l’aprirsi della forbice tra
le opzioni politiche ed editoriali
di Craveri e della Croce da un
lato, e quelle del gruppo ‘roda­
niano’ dall’altro — fondamen­
tale a questo riguardo sembra
l’allineamento progressivo di
quest’ultimo alle posizioni co­
muniste (pp. 79 e 82) — portò
alla rottura del gruppo e alla
crisi della rivista. Tuttavia le vi­
cende interne della rivista inte­
ressano relativamente La Bella;
del resto, anche la crisi de “Lo
Spettatore” non va spiegata so­
lamente con i motivi di cui si è
detto, ma anche con difficoltà
interne alle scelte ideologiche
del gruppo redazionale cattoli­
co, ossia con la “esaurita fun­
zione politica e culturale della
rivista” (p. 81); in altre paro­
le, “Lo Spettatore” si era “qua­
si immobilizzato in una lettu­
ra dei fatti e degli avvenimen­
ti politici nazionali e interna­
zionali che col tempo era diven­
tata anacronistica e che non
riusciva più a confrontarsi e a
collegarsi con quanto di nuovo
veniva maturando sia sul piano
delle idee che del loro sviluppo
politico ed ideologico” (p. 81)
alla metà degli anni cinquanta.
Ne conseguì una nuova diaspo­
ra del gruppo dei cattolici-co­
munisti.
Oggetto del saggio, come ho
cercato di chiarire in questa
premessa, non è dunque “Lo
Spettatore” in quanto tale, ma,
per così dire, la Sinistra cristia­
na dopo la Sinistra cristiana: in
altre parole, scopo di La Bella è
quello di “vedere se, finita l’e­
sperienza politica della Sinistra
cristiana, ne sopravvisse qual­
che elemento culturale e in qua­
le modo si evolsero gli intellet­
tuali che avevano accettato di
confluire nel Partito comuni­
sta” nel 1945 (pp. 14-15). La
Bella ricostruisce dunque i temi
trattati dalla rivista, aggiungen­
Rassegna bibliografica
do al saggio una antologia di
scritti apparsi su “Lo Spettato­
re”, tanto più utile quanto più
difficile appare la reperibilità di
un periodico che, pur essendo
seguito dal mondo politico e in­
tellettuale che contava, ebbe
una tiratura che “non oltre­
passò mai le 550-650 copie”
(P. 27).
Espressione di un tentativo
“di liberare il linguaggio politi­
co da ogni ossessione ideologi­
ca, dalle ambiguità, dalle scal­
trezze, dai pregiudizi di una
stagione culturalmente ferrigna
e discriminatoria” (p. 25) e co­
me tale esperienza da seguire
con interesse, “Lo Spettatore”
aveva però molti limiti.
Ad esempio considerare la
presidenza di Eisenhower “il
primo passo [...] verso una pro­
babile evoluzione di tipo fasci­
sta dello strapotere militare
americano” (p. 40) e suggerire
che “il comunismo internazio­
nale avrebbe dovuto [...] pro­
fittare del contraccolpo che il
moto involutivo americano
avrebbe determinato sulle forze
antifasciste per assumere le di­
fese delle libertà borghesi e sal­
vare il mondo politico dalla
reazione e dal fascismo” (p. 41,
e in appendice La bandiera del­
le libertà borghesi del 1952, pp.
99-101), appare una forzatura
tanto più fastidiosa in quanto
non si fa cenno della situazione
esistente proprio in quel torno
di tempo nei paesi dell’Europa
orientale dove si era ben lonta­
ni dal salvaguardare le ‘libertà
borghesi’. Ancora, il considera­
re l’egemonia europea “un fat­
to materiale e ideale che non
poteva essere delegato” agli
Usa, visti come detentori di una
mera “potenza economica e
materiale” (p. 39), ricorda da
vicino ideologismi, ampiamente
diffusi nel mondo cattolico ne­
gli anni tra le due guerre, tesi
ad esaltare la civiltà (cristiana)
dell’Europa contro il materiali­
smo ed il dominio della tecnica
tipici dell’America. In conclu­
sione vogliamo segnalare quella
che fu l’ipotesi politica e cultu­
rale di fondo de “Lo Spettato­
re” o, meglio, del gruppo ‘rodaniano’ al suo interno, quella
cioè dell’incontro storico fra la
chiesa cattolica e il Pei, “le uni­
che aggregazioni storiche porta­
trici di valori e verità ideali ri­
voluzionarie” (p. 82), con il co­
rollario della negazione di
“ogni legittimità e ogni valore
storico-politico e ideale al ruolo
e alla funzione della Democra­
zia cristiana” (pp. 82-83) che,
dopo le elezioni del 1953, sem­
brava destinata a scomparire
dalla scena politica italiana (pp.
59-61): un’ipotesi smentita ben
presto dalla realtà.
Gilberto Bolliger
I cattolici italiani e la guerra di
Spagna. Studi e ricerche, a cura
di Giorgio Campanini, prefa­
zione di Gabriele De Rosa, Bre­
scia, Morcelliana, 1987, pp.
238, lire 20.000.
Nel panorama non partico­
larmente nutrito degli studi sul­
la chiesa e i cattolici di fronte
alla guerra civile spagnola, la
raccolta di saggi curata da
Giorgio Campanini ha anzitut­
to il merito di individuare una
lacuna e di porsi l’obiettivo d’i­
niziare a recuperare il ritardo.
I saggi vertono sulla condot­
ta delle principali riviste e dei
più diffusi quotidiani cattolici
italiani durante la guerra di
181
Spagna, su Pio XI, nonché sul­
l’atteggiamento di alcune per­
sonalità cattoliche di primissi­
mo piano quali De Gasperi e
Gonella, che seguono le vicende
spagnole dal privilegiato osser­
vatorio vaticano, e Luigi Sturzo
che le valuta da quello londi­
nese.
Indicando nell’Introduzione
come “luogo comune” storio­
grafico il presunto monolitismo
del mondo cattolico italiano di
fronte alle vicende spagnole,
Campanini ricorda “che si regi­
stra qui una convergenza, ma
non sempre una coincidenza,
fra la linea dell’episcopato, del
clero e della stampa cattolica
italiani e quella della S. Sede”
(p. 13). A riprova porta gli en­
tusiasmi filofranchisti di larga
parte delle testate prese in esa­
me rispetto alla più prudente
posizione ufficiale del Vatica­
no, la crisi strisciante all’inter­
no della redazione di “Fronte­
spizio”, le letture politiche della
tragedia spagnola che fanno De
Gasperi e Gonella in contrasto
con le diffuse interpretazioni in
chiave religiosa, l’esplicito dis­
senso del futuro leader dei cri­
stiano-sociali Gerardo Bruni,
degli allora giovanissimi cattoli­
ci-comunisti e di don Primo
Mazzolari (di cui è proposto un
interessante inedito). Elementi
tutti che, nonostante la questio­
ne dei vergognosi silenzi sulle
atrocità commesse dagli insorti
(ivi compreso il bombardamen­
to di Guernica), solo in parte
giustificati dalla mancanza di
informazioni di prima mano,
rivelano la presenza a volte di
significative differenze nelle va­
lutazioni, altre volte di non me­
no interessanti sfumature.
Seguono gli studi di Egidio
Walter Crivellin su Pio XI, pre­
182
valentemente condotto sulla
scia dei lavori spagnoli di Anto­
nio Marquina Barrio e soprat­
tutto di Hilari Raguer i Suner;
di Aldo Albonico sul cattolicesi­
mo ambrosiano e le differenti li­
nee rappresentate da Gemelli,
dalle riviste dell’Università del
Sacro Cuore e da “L’Italia” e
“La Scuola cattolica”; di Leo
Lestingi su “La Civiltà Cattoli­
ca” ; di Mario Tesini sul bolo­
gnese “L’Avvenire d ’Italia” ; di
Gabriele Laterza su “L’Eco di
Bergamo”; dello stesso Campa­
nini su Sturzo e, infine, la de­
scrizione ad opera di Luis Esteban de Llera, dei documenti di
Tommaso Gallarati-Scotti, am­
basciatore a Madrid nel 194546, conservati presso la Biblio­
teca Ambrosiana di Milano.
Pur con qualche disomoge­
neità nel livello d ’approfondi­
mento (non sempre le fonti ri­
sultano adeguatamente ‘spre­
mute’) complessivamente consi­
derati i saggi offrono una pano­
ramica sufficientemente com­
pleta e documentano il brusco
mutamento d ’indirizzo sui fatti
spagnoli in ottemperanza ad
evidenti direttive provenienti
dall’alto (è questo il caso de
“L ’Italia” e de “L’Avvenire d ’I­
talia”), il successivo generale al­
lineamento alla ‘crociata’, il
plauso per l’intervento italiano,
il sostegno alla lettera collettiva
dell’episcopato spagnolo del
1937, i colpevoli silenzi di cui si
è detto.
Qualche considerazione a
parte merita lo studio di Cam­
panini sulla posizione del fon­
datore del Ppi, ricostruita attra­
verso i numerosi e lucidi articoli
del periodo. Conoscitore della
realtà iberica con la quale è sta­
to ed è in contatto, il sacerdote
di Caltagirone svolge dall’esilio
Rassegna bibliografica
londinese una costante opera di
chiarificazione intellettuale e di
sostegno politico alle iniziative
del Comitato per la pace civile e
religiosa in Spagna di cui fa par­
te. In particolare mostra l’ille­
gittimità dell’alzamiento dal
punto di vista cattolico, coglie e
sottolinea a più riprese le radici
politiche del conflitto del quale
l’aspetto religioso non sarebbe
che un riflesso, si batte affinché
la chiesa assuma una posizione
non di parte e compia proficua
opera di pacificazione. Una po­
sizione, com’è dato vedere e co­
me Campanini rileva, che solo
apparentemente avvicina Sturzo
a De Gasperi e Gonella sulla ba­
se della lettura in chiave politica
degli avvenimenti spagnoli, ma
che in realtà è premessa nel pri­
mo caso ad una netta denuncia
del movimiento eversivo nazio­
nalista e ad una collocazione
imparziale, mentre nel secondo
si affaccia attraverso la teoria
del “male minore” una finale
propensione per la Spagna di
Franco (p. 15).
Una serie di spunti stimolanti
deriva in conclusione dalla let­
tura dei saggi che sollecitano la
ricerca ad ulteriori approfondi­
menti sia nella direzione dei bol­
lettini parrocchiali e diocesani,
della pastorale, della predica­
zione e della pietà popolare, sia
in quella della condotta dei ver­
tici ecclesiastici.
Allo stato degli studi la cor­
retta individuazione di diffor­
mità e sfumature nel seno del
cattolicesimo italiano, non sol­
leva i vertici della chiesa dalla
responsabilità di un contegno
sostanzialmente unilaterale. Cer­
to, vari segnali ne rivelano le
cautele e la difformità dei toni
rispetto all’intransigenza dell’e­
piscopato spagnolo che, come
da tempo ha chiarito la storio­
grafia spagnola sull’argomento,
ebbe un ruolo decisivo nel coin­
volgere la Santa Sede a sostegno
della causa franchista. Ma è an­
che vero, d ’altra parte, che la
chiave anticomunista nella qua­
le furono letti ed ingabbiati gli
avvenimenti spagnoli venne ela­
borata con la Divini Redemptoris al di qua dei Pirenei e che pa­
rimenti ‘romana’ fu la decisione
di mettere a capo della chiesa
spagnola l’intollerante Isidro
Gomà y Tomàs, preferendolo al
più equilibrato ed aperto al dia­
logo cardinale di Tarragona,
Arxiu Vidal i Barraquer.
Il porporato catalano condus­
se dall’esilio un’incessante ope­
ra di mediazione, di ricucitura
tra cattolici baschi, catalani e
Vaticano che incontrò in questa
sede più resistenze che incorag­
giamento. Lo dimostra la docu­
mentazione del suo archivio in
avanzata fase di pubblicazione,
ma anche in questo caso sarà
decisivo l’apporto che potrà ve­
nire dalle fonti di parte vati­
cana.
Alfonso Botti
M ario T esini, Oltre la città ros­
sa. L ’alternativa mancata di
Dossetti a Bologna (1956-1958),
Bologna, Il Mulino, 1986, pp.
275, lire 20.000.
Le elezioni amministrative del
1951 nel Comune di Bologna fu­
rono vinte, sia pure per pochi
voti, dai partiti della sinistra e
quella città restò l’unico capo­
luogo regionale con una mag­
gioranza socialcomunista. Cin­
que anni più tardi, nel tentativo
di scalzare l’ultima e ormai miti­
ca ‘cittadella rossa’ d’Italia, la
Democrazia cristiana bolognese
Rassegna bibliografica
diede vita ad una asperrima
campagna elettorale, contrap­
ponendo al sindaco Giuseppe
Dozza la forte personalità di
Giuseppe Dossetti. Come è no­
to, quest’ultimo si era allonta­
nato dalla lotta politica nel
1951, quando era vicesegretario
nazionale della De, e nel 1958 si
ritirò
definitivamente
“dal
mondo” , abbracciando il sacer­
dozio.
Sia pure con alcuni limiti (sui
quali torneremo), il volume di
Mario Tesini affronta la rico­
struzione del tentativo di “as­
salto alla città rossa” e di quel­
la campagna elettorale, senza
dubbio una delle più intolleran­
ti offerte a Bologna grazie al­
l’impegno congiunto della De­
mocrazia cristiana, della Curia
(guidata dal cardinale Lercaro)
e del quotidiano locale “il Re­
sto del Carlino” , allora diretto
da Giovanni Spadolini (che, fra
l’altro, costituisce la principale
fonte per il volume, unitamente
all’“Avvenire d ’Italia” , il quo­
tidiano della Curia bolognese).
Se il volume può essere utile
per conoscere, sommariamente,
i testi degli interventi politici
svolti da Giuseppe Dossetti nel
corso della campagna elettora­
le, ci sembra alquanto carente
per quanto concerne la rico­
struzione più ampia del conte­
sto politico e sociale del Bolo­
gnese, oltre che per inquadrare
le stesse motivazioni che indus­
sero Dossetti a ritornare nell’a­
gone politico che aveva tanto
clamorosamente abbandonato
qualche anno prima. Anche se
comprendiamo i motivi politici
(l’autore è attualmente consi­
gliere comunale a Bologna per
la De) che inducono Tesini a
sostenere che la candidatura di
Dossetti fu voluta e costruita
dai giovani De (pp. 22-23), non
possiamo certo giustificare che
venga ignorato (o nascosto)
quanto proprio Dossetti ha re­
centemente testimoniato: essere
stato cioè non la De, ma il car­
dinale Lercaro a volerlo candi­
dato e a indurlo ad abbandona­
re la vita di “studio e medita­
zione” che aveva ormai scelto.
Del resto anche Gianni BagetBozzo, in un suo studio del
1977 (// partito cristiano e l ’a­
pertura a sinistra. La De di
Fanfani e di Moro 1954-1962,
Firenze, Vallecchi, 1977) aveva
sottolineato come Lercaro aves­
se imposto alla De bolognese
quel candidato (non gradito!),
di fronte alla impossibilità di
trovare fra i dirigenti del parti­
to bolognese una personalità
adatta per contrapporsi ade­
guatamente alla maggioranza
socialcomunista.
L ’ampio schieramento che si
coagulò attorno a Dossetti nella
speranza di sconfiggere la mag­
gioranza Pei e Psi e che vide,
accanto ai tradizionali alleati
della De bolognese (Ente Delta
padano, Ordine dei medici, As­
sociazione dei commercianti,
Camera di commercio, Credito
romagnolo...), anche ‘laici’ come
Giovanni Spadolini (pp. 82-83),
Leo Valiani, Ugo La Malfa (p.
159) e Nicola Matteucci (pp. 199201), pur innalzando a livelli esa­
sperati i toni dell’attacco contro
l’amministrazione Dozza, non
conseguì i risultati sperati. Se la
Democrazia cristiana aumentò di
quindicimila voti i propri suffra­
gi (e di quasi il 2 per cento), il Pei
crebbe di ventottomila voti (e di
quasi il 5 per cento) e il partito
socialista guadagnò tremila voti
(inspiegabilmente Tesini assicura
che ebbe “qualche cosa in me­
no” , p. 181).
183
Ferocemente critico con i
‘laici’ che non “compresero tut­
ta la complessità della sfida
dossettiana” (p. 162) e con gli
intellettuali che rifiutarono di
schierarsi al fianco o in soste­
gno di quella che comunemente
veniva chiamata la lista del car­
dinale Lercaro (e per primi
Francesco Flora, Arturo Carlo
Jemolo e l’intera redazione de
“Il Mulino” , pp. 149-153) —
ma è lo stesso Tesini a definire
“retrospettiva e nostalgica”
l’impostazione del programma
elettorale di Dossetti (p. 125) —
l’autore traccia un ritratto del
tutto improbabile di Bologna,
“infeudata” ai comunisti: una
città “plumbea”, “arteriosclerotica”, con una “cultura im­
miserita”, soggetta ad un “im­
mobilismo conservatore” (pp.
115-116, 121, 144), una città in
cui la gente correva “follemente
a sbattezzarsi” (p. 184), secon­
do le parole che Lercaro pro­
nunciò in piazza Maggiore
quando conobbe i risultati elet­
torali.
A parte alcuni errori (fra
questi non possiamo tacere di
un fantomatico ottavo congres­
so dellTnternazionale comuni­
sta, p. 15, e dimenticanze, ad
esempio la suddivisione ammi­
nistrativa in quartieri per Bolo­
gna viene attribuita a Dossetti,
mentre il Psi la aveva già realiz­
zata alla fine degli anni dieci,
come ha documentato più volte
Nazario S. Onofri), il libro ci
sembra soprattutto risentire
della mancanza di una qualche
meditata riflessione e di quello
che potremmo chiamare un cer­
to ‘distacco’ storico.
Il personaggio Dossetti che
ne esce sembra il ritratto del­
l’asceta che nel 1986 ricevet­
te dalle mani del sindaco di
184
Rassegna bibliografica
Bologna VArchiginnasio d ’oro,
massimo riconoscimento che
quella amministrazione con ce­
de ai suoi più illustri citta­
dini.
Nelle pagine di Tesini non ri­
conosciamo assolutamente quel
Dossetti intollerante e aggres­
sivo, dogmatico e integralista
che nel 1956 rifiutò di unirsi
al minuto di raccoglimento per
le vittime di Budapest che era
stato chiesto da tutti i Grup­
pi del Consiglio comunale di
Bologna: il ‘suo’ cordoglio per
i caduti dell’Ungheria doveva es­
sere ‘diverso’ da quello espresso
da tutti gli altri partiti.
Luciano Casali
P ietro Scoppola, La “nuova
cristianità” perduta, Roma,
Studium, 1985, pp. 209, lire
14.000.
Questo scritto, il cui nucleo è
costituito dalla relazione svolta
da Scoppola nell’ambito del
convegno promosso dalla Fon­
dazione Rizzoli su “Intellettuali
e società di massa dal 1945 ad
oggi” tenutosi a Venezia nel
1980, non sembra aver ricevuto
particolare attenzione, in parte
certamente per la sua struttura
atipica, in sede di critica storica.
In esso comunque non vengono
introdotte particolari novità né
dal punto di vista documentario
né da quello interpretativo, poi­
ché l’autore si limita in sostanza
ad una sistematizzazione ‘moti­
vata’ delle tesi già esposte nelle
precedenti opere sul cattolicesi­
mo politico in Italia, avvalendo­
si altresì di una ampia utilizza­
zione critica dei principali con­
tributi più o meno recenti alla
storia della chiesa e del movi­
mento cattolico in Italia (ad
esempio quelli di Antonio Acer­
bi, Renato Moro, Andrea Ric­
cardi, Giacomo Martina, Gio­
vanni Miccoli, Sandro Magister, Agostino Giovagnoli, Ro­
berto Sani, Ennio Di Nolfo,
Gianfranco Poggi, Alfonso
Prandi, Gianni Baget-Bozzo).
L’analisi di Scoppola muove
dalla constatazione che l’ideale
maritainiano della “nuova cri­
stianità” descritto in Umanesi­
mo integrale (Roma, Boria,
1980) come “un regime tempo­
rale o un’età di civiltà la cui for­
ma ispiratrice sarebbe cristiana
e risponderebbe al clima storico
dei tempi nei quali entriamo”
(p. 11) — inteso, pur variamen­
te interpretato, come base es­
senziale della mobilitazione cat­
tolica nel dopoguerra che trova
espressione in progetti diversi di
“(ri)costruzione della cristiani­
tà ” — non si è realizzato e si de­
ve ormai considerare definitiva­
mente “perduto” . Il progetto di
Pio XI e poi di Pio XII della re­
staurazione di un ordine cristia­
no posto in crisi dalla Riforma e
dal liberalismo — ma più am­
piamente, secondo Scoppola, la
stessa ipotesi di una cristianità
da costruire, che presuppone la
possibilità della predetermina­
zione di un modello di società
cristiano — sono entrati in crisi
nonostante la posizione di forza
della chiesa e l’egemonia cattoli­
ca fossero consolidate, nell’im­
mediato dopoguerra, da un re­
gime di “doppia garanzia” (con­
cordataria e politica). L ’affer­
mazione del partito cattolico nel
1948, infatti, non ha segnato l’i­
nizio di una rinascita della cri­
stianità, ma di un processo di
secolarizzazione del paese nel
quadro di un fenomeno di “ete­
rogenesi dei fini” : “quelle ener­
gie cattoliche che si erano poste
in movimento per la costruzio­
ne di una cristianità nuova, che
si collocasse oltre la contrappo­
sizione storica tra capitalismo e
comunismo, di fatto hanno agi­
to in una diversa direzione: so­
no servite a creare le condizioni
di una nuova fase di compro­
messo fra capitalismo e demo­
crazia e hanno reso perciò pos­
sibile quello sviluppo industria­
le che il paese ha registrato” (p.
19). Ma “mentre i cattolici si
scontravano sulle piazze con la
presenza comunista, considera­
ta il pericolo maggiore per la fe­
de degli italiani, o contestavano
nello stato i residui spazi del lai­
cismo risorgimentale, il nemico
vero è venuto alle spalle, silen­
zioso e a lungo inavvertito, nel­
le forme di società consumisti­
ca, destinata a corrodere in
profondità, senza scontri cla­
morosi, ma per questo con
maggiore efficacia, la fede del
popolo italiano” (p. 20). “La
speranza di una nuova cristiani­
tà — conclude Scoppola — non
è stata distrutta da ideologie
opposte ma si è dissolta sotto la
pressione dei meccanismi spon­
tanei della società industriale”
(P- 21).
Entro questo quadro inter­
pretativo l’autore procede ad
una ricostruzione storica — a
grandi linee — dell’evoluzione
della cultura e della presenza or­
ganizzata politica ed istituziona­
le dei cattolici nell’Italia del se­
condo dopoguerra che privilegia
come termine di riferimento i
processi di sviluppo economico
e sociale ed i mutamenti cultura­
li e di costume determinatisi in
Italia nella transizione verso un
modello di società consumistica
e industriale — e poi postindu­
striale — di massa. L ’attenzione
Rassegna bibliografica
viene quindi posta principal­
mente sui processi di indu­
strializzazione e secolarizza­
zione e sulle loro conseguen­
ze; questa ricerca è stata pro­
seguita da Scoppola nel sag­
gio Chiesa e società negli an­
ni della modernizzazione con­
tenuto nel volume a cura di
A. Riccardi Le chiese di
Pio X II (Roma-Bari, Laterza,
1986).
L’analisi della vicenda del
cattolicesimo italiano nel secon­
do dopoguerra — che si estende
dalla “successione” cattolica al
fascismo (cap. 1), attraverso le
epoche successive della mobili­
tazione anticomunista e del
“monolitismo cattolico” (cap.
2) , dell’industrializzazione del
paese e del centrosinistra (cap.
3) , del “disgelo conciliare” e
della contestazione (cap. 4), fi­
no ai referendum sul divorzio e
sull’aborto — prelude, infine,
ad una riflessione sulle condi­
zioni di una nuova presenza dei
cattolici nella società postindu­
striale.
La coscienza e la compren­
sione della realtà del processo
di secolarizzazione, di una pre­
senza cristiana ormai minorita­
ria nella società civile, della cri­
si dell’ideale di una “nuova cri­
stianità” sono presupposti im­
prescindibili per l’assunzione di
nuove responsabilità e la defini­
zione di nuovi “comportamen­
ti” da parte dei cattolici. Il di­
scorso di Scoppola si struttura
in questa fa se come “testimo­
nianza, libera riflessione e pro­
posta” (p. 7), investendo i prin­
cipali “problemi della presenza
cristiana” nella società attuale
(dal rapporto chiesa-stato al
“partito cristiano”) ed affer­
mando con forza la necessità di
una rinnovata visione “non-ideo-
logica”, da parte dei cattolici,
della realtà industriale, ispirata
da una “nuova spiritualità,
capace di vivere conflittual­
mente la doppia fedeltà al mes­
saggio cristiano e alle cose”
(p. 207).
La stretta connessione fun­
zionale tra ricerca e analisi sto­
rica, da un lato, riflessione per­
sonale e scelte progettuali con­
seguenti, dall’altro, distingue
questo lavoro — come ammette
lo stesso autore — da uno stu­
dio storico. Il contributo di
Scoppola, per questa sua carat­
teristica, appare in certa misura
‘ad uso interno’ della cultura
cattolica, benché una visione
fortemente negativa del proces­
so di modernizzazione e della
secolarizzazione della società
italiana — interpretata come
“estranea [...] ad ogni mondo
di valori” (p. 142) ed adducente
ad un “vuoto etico” — induca
l’autore ad osservare che la cri­
si di un modello di cristianità
non è fatto che possa lasciare
indifferente la cultura laica, anch’essa “sconfitta” dalla massi­
ficazione e dal conformismo di­
laganti.
Non sembra dubbio, in ogni
caso, che tanto la lettura inter­
pretativa di quella crisi — fon­
data sulla ipotesi esplicativa
della “eterogenesi dei fini” —,
quanto la trattazione analiti­
ca delle sue diverse fasi stori­
che proposte da Scoppola pos­
sano suggerire esse stesse alla
cultura laica numerosi spunti
critici.
Marco Barbanti
Cristiani in politica, a cura
di Bartolo Ganglio, Milano,
Angeli, 1987, pp. 210, lire
20 .000.
185
Esaminare significato e pro­
spettive di una proposta politi­
ca correlata ad una dottrina re­
ligiosa rappresenta ancora oggi
un percorso di ricerca aperto e
dibattuto. Si direbbe anzi che
proprio l’epoca dei rapidi pro­
cessi di industrializzazione e se­
colarizzazione abbia riproposto
in termini urgenti il problema
dell’attualità ed efficacia di
ideali e movimenti di ispirazio­
ne cristiana. In particolare l’ac­
quisizione di una specifica di­
mensione programmatica del
movimento cattolico ha suscita­
to vivace attenzione anche nella
recente storiografia italiana ed
europea. Per rimanere nel pa­
norama italiano basterà ricor­
dare i recenti studi di Gabriella
Fanello Marcucci, Alle origini
della
democrazia
cristiana
1929-1944. Dal carteggio Spataro-De Gasperi, Brescia, Mor­
celliana, 1982 e Documenti pro­
grammatici dei democratici cri­
stiani (1899-1943), Roma, Cin­
que Lune, 1983, accanto alle
opere di Mario G. Rossi, Da
Sturzo a De Gasperi. Profilo
storico del cattolicesimo politi­
co del Novecento, Roma, Edi­
tori Riuniti, 1985 e di Giorgio
Vecchio, Alla ricerca del parti­
to. Cultura politica ed esperien­
ze dei cattolici italiani nel pri­
mo Novecento, Brescia, Mor­
celliana, 1987.
Su questi temi si erano con­
frontati studiosi italiani e stra­
nieri in un convegno internazio­
nale organizzato a Torino alla
fine del 1985 dal Centro studi
Carlo Trabucco. Di quelle gior­
nate di studio sono stati ora
pubblicati gli atti che permetto­
no una organica rilettura dei
contributi allora offerti.
L ’analisi prende le mosse
dall’elaborazione programmati­
186
ca del primo movimento demo­
cratico cristiano negli anni a ca­
vallo tra Ottocento e Novecen­
to, sul quale indaga Alessandro
Zussini. L’attenzione è concen­
trata soprattutto sul Program­
ma di Torino del 1899 e sui suoi
autori, Valente e Invrea, senza
trascurare peraltro i vivaci di­
battiti fra le diverse tendenze e
specialmente tra i cattolici tori­
nesi da un lato, Murri e il suo
Programma massimo e minimo
del 1901 dall’altro. Sullo sfondo
il comune tentativo di superare
una prospettiva fondamental­
mente religiosa nel quadro delle
più generali vicende legate alla
crisi politica italiana di fine se­
colo.
L’elaborazione programmati­
ca del movimento cattolico tro­
va il suo primo sbocco politico
nel Partito popolare. Su questo
aspetto l’analisi di Giorgio Vec­
chio appare particolarmente ap­
profondita e stimolante. Ricor­
dati i precedenti del programma
del 1919, Vecchio analizza det­
tagliatamente i dodici punti del­
lo stesso, ponendone in risalto il
carattere composito e gli ele­
menti di continuità e novità. Di­
scute quindi alcuni dati storio­
grafici, da un lato ribadendo
nettamente la continuità tra
Ppi, prima democrazia cristia­
na, l’esperienza dei cattolici de­
putati e più in generale la pre­
senza cattolica in età giolittiana;
dall’altro soffermandosi oppor­
tunamente sul rapporto tra il
popolarismo, inteso come l’ori­
ginale progetto politico di Sturzo, e il Ppi, che tale progetto
non riuscì a rendere compiuto.
Altri gruppi e movimenti,
benché di minor peso politico o
privi di occasioni per misurare
la loro consistenza elettorale,
hanno contribuito ad elaborare
Rassegna bibliografica
all’interno del movimento cat­
tolico proposte, indicazioni, li­
nee programmatiche. È il caso
in particolare della sinistra cri­
stiana e dei cristiano-sociali,
esperienze prese in esame rispet­
tivamente da Francesco Malgeri
e Antonio Parisella. Seguendo
la parabola di questi gruppi, pe­
raltro dettagliatamente illustra­
ta dai due studiosi in precedenti
saggi, entrambi gli interventi fa­
voriscono un opportuno riesa­
me dell’apporto di questi movi­
menti minori al vivace dibattito
ideologico e politico sviluppato­
si specialmente negli anni trenta
e nell’immediato dopoguerra.
Giorgio Campanini delinea la
formulazione dei programmi
della Democrazia cristiana. Sul­
la base di una puntuale ricogni­
zione dei testi fondamentali
prodotti negli anni 1942-1947,
Campanini analizza in primo
luogo le diverse sorgenti della
cultura politica democratico cri­
stiana che sta alla base dei vari
programmi. Vi si ritrovano, va­
riamente intrecciati, i richiami a
Sturzo e al cattolicesimo sociale
italiano, alla tradizione giuridico-istituzionalistica, al magiste­
ro di Pio XII e degli intellettuali
in qualche modo collegati con
l’Azione cattolica, al personali­
smo francese. Dei diversi pro­
grammi, raggruppati in tre mo­
menti (crisi del regime fascista,
periodo resistenziale, anni della
Costituente), Campanini evi­
denzia successivamente gli ele­
menti di differenziazione, per
discutere soprattutto il rapporto
di continuità e discontinuità con
la precedente cultura del movi­
mento cattolico e in particolare
quella del popolarismo, ponen­
do in risalto, al di là delle evi­
denti numerose convergenze, al­
cuni aspetti di novità.
Contribuiscono infine ad ar­
ricchire la problematica affron­
tata nel volume i due saggi di
Winfried Becker e Jean-Marie
Mayeur, dedicati rispettivamen­
te all’area tedesca ( / programmi
dei movimenti cattolici demo­
cratici tedeschi del ’900) e fran­
cese (Les programmes des mouvements politiques d ’inspiration
démocrate chrétienne en France
au XXèm e siècle). Emerge un
affresco di ampie dimensioni, di
variegate tendenze, che illustra
situazioni diversificate dell’area
europea, connotate però da pro­
cessi di forte secolarizzazione.
Le riflessioni dei due storici aiu­
tano a ripercorrere, l’una, la ca­
tastrofe tedesca del ventesimo
secolo, che “si compie in piena
opposizione rispetto al mondo
spirituale che anima il cattolice­
simo politico” , ma che questo
non ha potuto accantonare (p.
123); l’altra, la specificità dei
gruppi democratici cristiani
d ’oltralpe: l’attenzione ai pro­
blemi delle istituzioni e l’obbli­
go di inserirsi in una struttura
marcatamente bipolare delle
forze politiche (p. 134).
Il contributo di Francesco
Traniello che introduce il volu­
me sottolinea l’importanza del
riferimento programmatico nel­
la storia del movimento cattoli­
co; esso appare come “un mo­
mento forte di autocoscienza e
un fattore rilevante di identifi­
cazione, in termini politico-pra­
tici ma anche teorici” . Di qui
deriva anche una visione desa­
cralizzante della politica, che ha
favorito la distinzione tra iden­
tità religiosa e identità politica e
che ha consentito ai movimenti
cattolici “di inserirsi a pieno ti­
tolo nel contesto delle democra­
zie pluraliste” . Ancora una vol­
ta emerge in questa prospettiva
Rassegna bibliografica
l’apporto di Luigi Sturzo. Nel
leader del Ppi infatti “il mo­
mento programmatico assume­
va tutta la sua rilevanza come
necessario punto d’incontro e
di mediazione tra teoria e pras­
si, tra apparato ideale e obietti­
vi politicamente determinati”
(pp. 11-13).
Dall’insieme dei contributi
del volume, curato da Bartolo
Gariglio e che inaugura la col­
lana del Centro studi Carlo
Trabucco di Torino, si possono
ricavare non solo dati ed ele­
menti finalizzati ad una rico­
struzione storica in buona parte
già conosciuta anche se per cer­
ti aspetti arricchita, ma soprat­
tutto un valido contributo per
riproporre interrogativi stimo­
lanti sulle regole della demo­
crazia moderna, sulla visione
del potere in termini non sacra­
li, sul nesso tra democrazia e
secolarizzazione.
E. Walter Crivellin
Cattolici, guerra e Resistenza in
Piemonte. Le fo n ti e gli archi­
vi, a cura di Riccardo Marchis,
Torino, Angeli, 1987, pp. 196,
lire 11.000 (Istituto storico del­
la resistenza in Piemonte).
La collana “Archivi”, pro­
mossa dall’Assessorato alla cul­
tura della regione Piemonte, è
aperta da una serie di quaderni
dedicati alle fonti per la storia
della guerra e della lotta di libe­
razione curati dall’Istituto sto­
rico della resistenza in Piemon­
te. Il primo quaderno, a cura di
Riccardo Marchis, raccoglie gli
atti di una giornata di studio
svoltasi a Torino l’l l marzo
1986, su fonti e archivi catto­
lici.
Il seminario, cui partecipa­
rono anche numerosi archivisti
e il vicario episcopale di Tori­
no, monsignor Franco Peradot­
to, mise in luce una serie di
problemi relativi alle fonti “cat­
toliche” . Dalla questione, solo
apparentemente semplice, di
definizione e individuazione di
una tipologia (intervento di
Francesco Traniello), alla pro­
posta di avvio di una catalo­
gazione a partire dalle fonti
“ecclesiastiche” (Maurilio Gua­
sco).
Gli altri contributi pubblicati
si muovono su più piani: rifles­
sioni di carattere metodologico
(Bartolo Gariglio), presentazio­
ne di ipotesi di lavoro o di studi
già compiuti.
Fra questi la breve indagine
dello stesso Marchis su Le rela­
zioni dei parroci della diocesi di
Acqui sulla guerra e la resisten­
za, in risposta all’iniziativa di
raccolta di informazioni e do­
cumentazione assunta nel 1945
dalla direzione generale dell’A­
zione cattolica. Molto più det­
tagliato il lavoro di Giuseppe
Griseri, Fascismo e resistenza
nelle fo n ti cattoliche monregalesi, che può costituire un esem­
pio per studi futuri di altre real­
tà locali. Nel suo complesso il
volume costituisce, se non una
vera e propria guida, ancora
evidentemente da fare, uno
strumento utile per orientare i
ricercatori nel vasto campo del­
le fonti cattoliche, anche al di
là del periodo della guerra.
Inoltre, attraverso le note bi­
bliografiche che completano i
saggi, è possibile ricostruire un
panorama, per quanto non
esaustivo, degli studi già pub­
blicati a livello regionale.
Paola Bresso
187
Libri ricevuti
Aa.Vv., Gli archivi per la storia
contemporanea. Organizzazione e
fruizione, Roma, Istituto poligrafi­
co dello Stato, 1986, pp. 322, sip.
Aa.Vv., Concordato 1984: premes­
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Quattroventi, 1985, pp. 232, lire
20 . 000 .
Aa.Vv., Idee e stile per la grande
Cuneo. Mostra documentaria, Boves, Artigrafiche Coralli, 1987, pp.
140, sip.
Giuseppe Alberigo (a cura di), Pa­
pa Giovanni, Roma-Bari, Laterza,
1987, pp. 284, lire 32.000.
Salvatore Aldisio, Scritti, discorsi e
interviste, Caltanissetta, Edizioni
del Seminario, 1987, pp. 362, lire
18.000.
Jean Améry, Intellettuale ad A u ­
schwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, pp. 162, lire 22.000.
Marianna Amico Roxas, Lettere a
Giulia Vismara e altri, Caltanisset­
ta, Edizioni del Seminario, 1987,
pp. 395, lire 22.000.
Giuseppe Andriani, La Repubblica
del Sud. Vincenzo Calace, Bisceglie, Edizioni Carmastro, 1987, pp.
194, lire 20.000.
Angelo Ara, Austria e Italia. Dalle
cinque giornate alla questione al­
to-atesina, Udine, Del Bianco,
1987, pp. 345, lire 25.000.
Giovanni Artieri, Quarant'anni di
repubblica, Milano, Mondadori,
1987, pp. 702, lire 35.000.
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