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Dalla parte dell’ Uomo
Rivista Trimestrale
gennaio 2013
n° 7
Direttore: Paolo Cardoso
Direttore responsabile: Maurizio Gori
Comitato di Redazione: Paolo Cardoso
Maurizio Gori
Lucia Mattesini
Presentazione
Paolo Cardoso, Presidente Associazione Erich Fromm
Questo numero raccoglie alcuni articoli di soci e non della nostra
associazione, non di natura strettamente tecnica.
Lo spirito della nostra Associazione è quello di promuovere la
salute psicologica, ma anche di dare spazi per presentare le
proprio esperienze ed il proprio pensiero.
I prossimi numeri della rivista conterranno gli atti dei nostri
futuri convegni. I relativi programmi sono inclusi in questa
rivista.
Vi prego di consultare anche la nostra pagina su Facebook: Erich
Fromm Firenze.
Grazie ed aspetto, da parte dei lettori, dei contributi da inserire
nei prossimi numeri.
Molto gradite anche le recensioni di libri che avete trovato
interessanti.
2
Indice
Presentazione
p. 2
Paolo Cardoso, Presidente Erich Fromm Firenze
Assertività per esprimere se stessi, rimanendo se stessi
nell’incontro con gli altri
p. 4
Antonella Leccese
Stress e malattia oncologica: un intervento integrato
p. 35
Francesca Bernardini
Relazione tra attaccamento e comportamento aggressivo
nell’età dello sviluppo
p. 51
Isacco Cannas
Dipendenza da cibo, disturbi dell’alimentazione e obesità:
una review della letteratura internazionale
p. 62
Eleonora Sirsi
Il fenomeno della de-umanizzazione
p. 80
Claudia Spolverini
Storia di Gianna
p. 92
Alessandra Turchetti
La cura Schopenhauer di Irvin D. Yalom e S. Prina
p. 95
Recensione di Elisa Selmi
Una piccola riflessione su Tanizaki, Casanova e la vita
p. 96
Paolo Cardoso
Programmi dei prossimi convegni della Fondazione
3
p. 98
ASSERTIVITA’ PER ESPRIMERE SE STESSI,
RIMANENDO SE STESSI NELL’INCONTRO CON GLI ALTRI
di Antonella Leccese
1. Introduzione
Il concetto di assertività presuppone la capacità dell’individuo di esprimere i
propri punti di vista, opinioni ed emozioni, facendo valere i propri diritti nel
rispetto dei diritti altrui.
La franchezza e l’onesta con cui è possibile esprimere se stessi può
incontrarsi
con
l’empatia
verso
l’interlocutore,
tenendo
in
debita
considerazione i diritti, i sentimenti e le opinioni di quest’ultimo.
Assertività, infatti, significa sostenere la propria integrità e dignità e allo
stesso tempo incoraggiare ed accettare questo comportamento negli altri
La parola deriva dal latino ad serere, significa «asserire» o anche affermare
se stessi. Sanavio (1998) descrive l’assertività come la capacità di far valere i
propri diritti rispettando quelli degli altri, attraverso una comunicazione
chiara, diretta e al tempo stesso, coerente e completa sul piano verbale e non
verbale.
L’assertività è la capacità che un individuo ha di utilizzare in ogni
situazione di relazione i comportamenti e le modalità di comunicazione più
idonee ad instaurare reazioni positive nell’interlocutore riducendo la
possibilità di generarne di negative.
La comunicazione assertiva costituisce un metodo di interazione che si attua
attraverso i seguenti comportamenti:
4
 un comportamento partecipe attivo e non in contrapposizione con
l’altro;
 un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e
negli altri;
 un comportamento completo che manifesta pienamente il proprio sé,
funzionale all’affermazione dei propri diritti senza negare i diritti e
l’identità dell’altro;
 un atteggiamento che non giudica e avulso da critiche non costruttive
verso l’altro ovvero senza pregiudizi;
 la capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e
diretta e onesta senza manifestare aggressività o essere minacciosi
verso l’altro.
Tentando di
ricondurre i
concetti
principali
direttamente riferibili
all’assertività, sebbene possano essere presenti lievi differenze tra i diversi
studiosi, si ritiene che gli elementi costituitivi dell’assertività siano:
-
sviluppare autostima e sicurezza nelle proprie idee, riconoscendo e
difendendo
diritti,
dunque
possibilità
di
rifiutare
richieste
soggettivamente considerate come irragionevoli o esprimere il proprio
disaccordo;
-
iniziare, continuare e portare a termine le interazioni sociali,
percependo queste ultime come occasione per esprimere se stessi, di
conseguenza tali interazioni sono caratterizzate dalla percezione del
sentirsi a proprio agio (assertività sociale);
-
esprimere i sentimenti, riuscendo a comunicare i propri sentimenti
quando questi sono “positivi” e quando sono negativi (assertività
positiva/negativa);
-
risolvere problemi e soddisfare bisogni personali come il chiedere
favori, avanzare richieste (assertività di iniziativa);
5
-
resistere attivamente a pressioni e influenze individuali o di gruppo
nella direzione del conformismo, dando voce alle proprie credenze e
opinioni.
I capisaldi del comportamento assertivo sono impliciti nei diritti di ciascun
essere umano che vengono di seguito riportati:
1. Essere trattato con rispetto, poiché ognuno ha il diritto di gestire la
propria vita come desidera e di perseguire i propri scopi ed obiettivi,
senza però danneggiare gli altri. Inoltre ognuno ha il diritto di essere
trattato dagli altri con gentilezza e cortesia, a prescindere dalla
propria posizione sociale; il rispetto e la dignità sono i prerequisiti di
una società civile
2. Esprimere le proprie opinioni ed i propri sentimenti, dato che
ciascuno di noi ha il diritto di esprimere se stesso; il proprio punto di
vista circa una situazione e i sentimenti che ne scaturiscono sono
validi tanto quanto quelli degli altri.
Se si nascondono le proprie opinioni ed i propri sentimenti, gli altri
non avranno la possibilità di conoscerci o di capirci. In tal modo ci
verrà negato il valore e la bellezza dell'amicizia vera.
3. Fissare i propri scopi ed i propri obiettivi, dal momento che tutti
hanno il diritto di perseguire i propri scopi. Ciascuno ha il diritto di
perseguire le priorità che ritiene essere più consone a se stesso,
altrimenti si può avere la percezione di vivere la vita di altri.
4. Rifiutare una richiesta o dire di no, poiché ognuno ha il diritto di
rifiutare.
5. Chiedere ciò che si desidera, dal momento che ognuno ha il diritto di
esprimere i propri bisogni. Ciascuno ha delle necessità e desideri ed è
utile esprimerli nelle relazioni.
6. Commettere degli errori; sbagli ed errori sono elementi essenziali
dell'apprendimento.
6
7. Essere i giudici del proprio comportamento, indipendentemente dalla
benevolenza degli altri , infatti ognuno ha il diritto di giudicare se
stesso. Si può giudicare il proprio comportamento, senza avere
bisogno dell'approvazione o delle critiche altrui.
8. Cambiare la propria opinione, dato che il cambiamento può essere
associabile alla crescita ed allo sviluppo personale.
9. Decidere se far valere o meno i propri diritti, in conformità al diritto
di scelta.
10. Decidere se dare spiegazioni e scuse per il tuo comportamen to.
In ogni situazione le persone coinvolte hanno diritti particolari e correlati al
contesto e alla cultura di appartenenza. Esistono, però, dei principi
qualificabili come diritti inviolabili della persona che proprio in quanto tali,
sono comuni a tutte le situazioni di relazione e non possono essere
dimenticati.
2. Siamo sempre assertivi?
L’assertività non è una caratteristica assoluta e costante di un individuo;
può cambiare nel tempo ed è in stretta relazione ai pensieri che una
determinata situazione sollecita all’intensità dell’emozione provata dalla
persona in un determinato momento. ;La probabilità che si realizza un
comportamento assertivo è inversamente proporzionale alla carica emotiva
esperita: la difficoltà esperita nell’esprimere un messaggio assertivo
crescerà al crescere dell’intensità emotiva. In seguito verranno analizzati gli
elementi che possono influire nell’accrescimento dell’intensità emotiva: gli
errori del pensiero ed il relativo comportamento anassertivo, poiché
entrambi trasmettono feedback negativi alla persona, nel breve e nel lungo
termine, autosvalutandola.
I requisiti necessari per un comportamento assertivo sono:
7
 livello di autostima e immagine di sé;
 capacità
comunicative
nelle
relazioni
interpersonali;
libertà
espressiva;
 umiltà;
 capacità di dare risposta alle richieste e alle critiche;
 capacità di gestire i conflitti;
 abilità di dare e di ricevere apprezzamenti.
L’autostima è il propellente necessario per sviluppare una buona condotta
assertiva; il volersi bene, il pensare di valere, essere sicuri delle proprie
scelte e azioni, infine assumersi delle responsabilità ci permette di essere
soddisfatti di noi stessi; se siamo soddisfatti ci relazioneremo in maniera
adeguata con gli altri, mentre il pensare di non valer nulla impedisce un
positivo
dialogo
interiore,
finendo
per
sviluppare
con
gli
altri,
comportamenti e modi di comunicare o passivi o aggressivi (Milena Pedrotti,
2008).
Le cause a cui si possono addurre le condotte anassertive possono essere
molteplici, di seguito ne vengono elencate alcune:

apprendimento di comportamenti errati in ambito familiare per
imitazione;

educazione rigida;

scarsa indipendenza;

bassa autostima;

esperienze della vita vissute dalla persona come particolarmente
negative;

presenza di un abbassamento del tono dell’umore, depressione, o di
una problematica riconducibile al versante ansioso
Non vi è un rapporto deterministico tra i fattori sopracitati e la presenza di
una condotta anassertiva. Tali elementi possono rappresentare, infatti, dei
fattori di vulnerabilità che potrebbero comportare la presenza di pensieri
8
non realistici o negativi, alla cui base si pone lo stile comunicativo assertivo
(figura 1. Concettualizzazione Assertività)
9
Figura 1. Concettualizzazione Assertività
Educazione
rigida
Comportamenti
familiari errati
Scarsa
indipendenza
MODALITA’
PENSIERO
Buona
Autostima
Esperienze
negative
Scarsa
Autostima
PENSIERO REALISTICO
PENSIERO NON REALISTICO
(basato su informazioni e dati
reali)
(vedi “errori del pensiero”)
TECNICHE
ANASSERTIVITA’
ASSERTIVITA’
La modalità con cui rispondiamo agli stimoli ambientali dipende dal
pensiero che una determinata circostanza ci suscita. Scoprire che non esiste
10
un’unica modalità con cui interpretare un evento è già un primo passo verso
la crescita in una direzione assertiva.
Molto spesso, infatti, quando le nostre emozioni negative raggiungono
un’elevata intensità emotiva ciò può dipendere dalla difficoltà incontrata nel
cercare spiegazioni o soluzioni alternative. Ciò implica che sarebbe
opportuno compiere uno sforzo nell’ascolto di sé e delle proprie connotazioni
emotive, evitando che queste “alzino la voce”, ossia aumentino di intensità,
per essere ascoltate!
A causa di tutte le variabili circostanziali e momentanee, non è possibile
parlare di “personalità assertiva”, ma di “comportamento o condotta
assertiva”. L’assertività, infatti, è per chiunque una conquista, realizzabile
mediante un ascolto attento di se stessi e degli altri e dall’esercizio con cui si
impiegano delle tecniche specifiche.
3. Ansia e comportamento anassertivo
L’assertività può essere intesa come la capacità di elaborare risposte in
grado di inibire lo sviluppo di stati d'ansia. Tali risposte dovranno essere
socialmente adeguate, in grado ossia, di favorire o permettere l'inserimento
positivo e gratificante del singolo nella collettività.
Il training assertivo ha evidenziato la propria efficienza nella risoluzione di
patologie accompagnate da sintomi manifesti di ansia interpersonale ed è
finalizzato a far apprendere abilità sociali appropriate ed adottive.
L'ansia è considerata come una naturale risposta a stimoli reali o non reali
di minaccia.
Le abitudini di risposte ansiose sono abitudini apprese. L'ansia è una
risposta emozionale condizionata da un meccanismo di associazione ripetuta
e rinforzata di stimoli incondizionati avversivi e stimoli neutri. In seguito
alla loro assimilazione, il soggetto evocherà risposte ansiose anche in
11
presenza di un solo stimolo neutro. L'ansia condizionata può venire in
seguito estesa a stimoli simili o ad altri stimoli non originariamente
avversivi, ossia fonte di minaccia.
Il livello di ansia può gradualmente diminuire mediante un’associazione tra
lo stimolo sociale precedentemente ansiogeno ed una risposta incompatibile
con esso.
Il
training
assertivo
permette,
dunque,
di
elaborare
risposte
comportamentali in grado di inibire lo sviluppo di stati d’ansia legati alla
sfera di relazione (Alberti, Dinetto, 1988).
Una condotta anassertiva può comportare il coinvolgimento prolungato in
relazioni conflittuali responsabili di picchi improvvisi di ormoni dello stress.
Il riuscire ad instaurare e mantenere relazioni sociali emotivamente
soddisfacenti abbassa il livello di cortisolo e stimola la funzionalità del
sistema immunitario, persino quando quest’ultimo è sotto stress.
4. Continuum comportamentale
Nelle dinamiche interattive, a scopo prettamente illustrativo, è possibile
delineare due modalità comunicative in netto contrasto l’una con l’altra, ma
entrambe anassertive: quella passiva e quella aggressiva.
Sebbene le persone non siano mai sempre e solo aggressive, passive o
assertive, ciascuno di noi protende verso un determinato stile relazionale o
tende ad adottarlo in particolari circostanze esterne o interne.
Lo stile comunicativo stesso può differenziarsi sulla base di alcune variabili
insite nella situazione specifica o relative allo stato psico-fisiologico della
persona in un determinato momento. Un esempio di ciò può essere costituito
dal silenzio, il cui valore assertivo, aggressivo o passivo è strettamente
vincolato alla situazione specifica.
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E’ pertanto da sottolineare che per rendere più agevole la comprensione dei
concetti verranno illustrate esclusivamente le modalità comunicative poste
ai poli del continuum relazionale, nonostante vi siano molte sfumature
comportamentali e la stessa persona può adottare stili comportamentali
diversi in contesti situazionali o psico-fisiologici diversi.
La stessa persona può essere, infatti, remissiva e passiva con i propri
genitori, ma allo stesso tempo aggressiva con il patner o con i propri figli. I
concetti a cui ci riferiamo, pertanto, si riferiscono a comportamenti e non a
personalità ed essendo comportamenti possono essere appresi o modificati.
Per comodità espositiva si parla di un continuum che va dal comportamento
passivo al comportamento aggressivo e nell’area intermedia si situerebbe il
comportamento assertivo (Tabella 1. Continuum comportamentale).
PASSIVO
ASSERTIVO
- Tendenza ad evitare
AGGRESSIVO
- Espressione
- Tendenza a ricercare il
il conflitto,
ragionevole e
conflitto,
prevaricando
rinunciando ad
rispettosa delle
pensieri
ed
esprimere pensieri
opinioni
altrui
ed emozioni
- Disponibilità nel
- Difficoltà nel
emozioni
- Pretesa che siano gli
cercare un accordo
altri ad adattarsi ai
rifiutare richieste
tra i propri pensieri,
suoi tempi e bisogni
altrui
bisogni ed emozioni e
- Sottomissione al
quelli altrui
volere altrui
- Attacco
diretto
indiretto
dell’interlocutore
Tabella 1. Continuum comportamentale
13
o
Ciò che distingue il comportamento assertivo dagli altri due anassertivi,
quello passivo e quello aggressivo, è principalmente la considerazione che la
persona ha dei bisogni altrui. Nel caso del comportamento passivo vengono
anteposti i bisogni altrui ai propri bi, sottostando ad essi, mentre nel caso
del comportamento aggressivo è presente un’indifferenza verso i bisogni
altrui, a vantaggio dei propri.
Mediante il comportamento assertivo è possibile tenere presente i bisogni
altrui, non sottostando ad essi, ma accogliendoli e ricercando una
mediazione con i propri.
4.1. Comportamento anassertivo passivo
Una condotta passiva porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a
reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali
alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata
poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia...
Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno
disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere
rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi
responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le
proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue
aspettative... pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel
comportamento altrui.
Tutti i comportamenti vengono mantenuti da vantaggi, primari o secondari,
altrimenti tendono ad estinguersi nel tempo se non soddisfano gli specifici
bisogni della singola persona. Compito di ciascuno di noi è comprendere i
nostri bisogni per poi creare un bagaglio comportamentale capace di
permettere la scelta del comportamento più funzionale nella specifica
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situazione. Di seguito vengono elencati alcuni vantaggi a breve termine
responsabili del mantenimento del comportamento anassertivo passivo.
L'immediato vantaggio è quello di eludere situazioni potenzialmente
ansiogene ed acquistare l'approvazione e la lode come persona molto gradita.
A breve termine è presente il sollievo per essere riusciti ad evitare una
situazione percepita come difficile e per aver neutralizzato il senso di colpa
che talvolta si associa all’esprimere un’opinione od uno stato emotivo diversi
o
potenzialmente
diversi
dall’interlocutore.
Inoltre,
attraverso
tale
comportamento a breve termine è possibile ottenere un “rinforzo sociale”,
poiché la persona passiva appare come disponibile e rispettosa dell’altro,
allo stesso tempo è autorinforzante, poiché si può avere la sensazione di
essere venuti incontro o di aver fatto un piacere a qualcuno.
A
lungo
termine,
però,
questo
comportamento
può
comportare
progressivamente la perdita della stima di sé e dell’autoefficacia, frutto della
rinuncia prolungata a se stessi in favore dei bisogni altrui.
Può, inoltre, comportare risentimento, frustrazione e rabbia verso desideri
ed obiettivi non realizzati, irritazione, sensi di rabbia crescenti e percezione
di repressione. In questi casi è difficilmente il soggetto è consapevole di
quanto sia propria la responsabilità della percezione di repressione, potrà
tendere a ricercarla altrove e/o possono insorgere varie patologie fisiche e/o
di origine psicosomatica (cefalea, gastriti...)
Il comportamento anassertivo passivo tende a comportare conseguenze
anche sull’interlocutore che può non sentirsi stimolato da una conversazione
in cui non vengono posti punti di vista alternativi o contrastanti,
percependola come mancanza di partecipazione. L’interlocutore, inoltre, può
sentirsi confuso dal mantenere una interazione con un soggetto che non
esplica le proprie idee, opinioni e sentimenti o percepire sensi di colpa legati
alla sensazioni di prevaricare l’altro.
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4.2. Comportamento anassertivo aggressivo
Il comportamento anassertivo di tipo aggressivo si realizza nel momento in
cui la persona per raggiungere i propri obiettivi ed ottenere la propria
gratificazione si afferma con violenza, minimizzando, calpestando o
disconoscendo il valore altrui. E’ presente la difficoltà nel considerare punti
di vista diversi dal proprio ed una percezione di non essere mai in errore. In
tale caso i fallimenti vengono attribuiti all’esterno, quindi alle circostanze o
agli altri, compare una svalutazione dell’altro, rigidità, inflessibilità rispetto
alle sue posizioni, ed incapacità nel distingue le opinioni dalla realtà
oggettiva.
La risposta che ne determina risulta essere imprevedibile, espressiva,
sproporzionata rispetto allo stimolo, inadeguata e causa di sensi di colpa,
espressione di ostilità o rancore; tali emozioni si possono realizzare
nell'invasione dello spazio vitale altrui, nell'umiliazione o nel disprezzo.
Anche il comportamento anassertivo aggressivo viene mantenuto da
vantaggi a breve ed a lungo termine. Uno tra i maggiori vantaggi a breve
termine è caratterizzato dal soddisfare i propri bisogni in un breve arco di
tempo, la persona può avere la percezione di controllo della situazione, di
forza ed apprezzamento all’esterno.
Anche nel caso del comportamento aggressivo nel breve termine attraverso
tale comportamento viene ridotta l’ansia legata al timore di non riuscire ad
ottenere il soddisfacimento ai propri bisogni, dando all’esterno l’immagine di
forza. Un ulteriore fattore di mantenimento del comportamento è, infatti,
costituito dal rinforzo sociale, dato alla percezione di apprezzamento perché
capaci di ottenere quanto desiderato.
A lungo termine si può verificare un progressivo isolamento sociale oppure i
rapporti
interpersonali
che
la
persona
intrattiene
possono
essere
caratterizzati da inimicizie, rancore, sudditanza psicologica. Il soggetto può
dunque percepire di non essere accettato, di essere in pericolo oppure di
dover lottare contro gli altri per mantenere la propria supremazia.
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Al comportamento aggressivo è direttamente riferibile stanchezza e stress
poiché tale comportamento implica il costante monitoraggio delle azioni
altrui e l’incessante lotta per imporre il proprio valore.
Anche in questo caso si possono insorgere patologie fisiche e/o di origine
psicosomatica (emicranie, ulcere, gastriti, abuso di sostanze tranquillanti,
insonnia)
4.3. Il comportamento assertivo
Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri
e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce,
non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri,
decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono, ha
stima di sé e dell’altro, sa esprimere le proprie opinioni e le proprie emozioni
in modo funzionale, raggiunge i suoi obiettivi, sa che cosa vuole e lo
persegue senza calpestare gli altri.
I vantaggi a breve termine, che permettono il mantenimento del
comportamento assertivo possono essere riconducibili alla soddisfazione
della necessità umana di esprimere i propri bisogni, desideri e pensieri e di
avere un ruolo costruttivo nella relazione sociale. La disponibilità nel gestire
in modo produttivo le eventuali divergenze costituirà un vantaggio condiviso
per il soggetto e per il suo interlocutore, a breve ed a lungo termine.
A lungo termine la coerenza con se stessi permetterà una serenità nella
relazione con il sé e la chiarezza nei confronti degli altri permetterà la
costruzione di rapporti interpersonali veritieri. Sarà, inoltre, possibile
aumentare il senso di autoefficacia per aver raggiunto gli obiettivi desiderati
ed una maggiore tolleranza alla frustrazione legata alla sconfitta o
all’interloquire con persone aventi punti di vista differenti dal proprio
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5. Errori del pensiero
Il comportamento comunicativo, assertivo o anassertivo, dipende dalle
inferenze, ossia dalle ipotesi relative alla presenza o assenza di condizioni
fattuali (cosa sta succedendo, è successo, o succederà). Alcuni errori cognitivi
tipici sono le “distorsioni cognitive” (Johnson Laird, 1993; Girotto, 1994).
responsabili delle modalità con cui interpretiamo gli eventi e della relativa
risposta emozionale.
Tali errori del pensiero portano spesso ad un eccessivo pessimismo che è
causa e conseguenza di uno scarso senso di autoefficacia, cioè di una scarsa
convinzione nella propria capacità di affrontare e superare i problemi.
In seguito verranno riportati i principali errori di ragionamento o modi di
pensare controproducenti, che non permettono una valutazione realistica dei
propri pregi e difetti:
 Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie
mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una
situazione o è un successo oppure è un fallimento
 Ipergeneralizzazione: sopravvalutare la frequenza con cui si realizza
un determinato evento es. “se prima ho sbagliato, sbaglierò sempre”
oppure concludere che se qualcuno ha mostrato un atteggiamento
negativo in una occasione il comportamento corrisponde alla persona,
non considerando le altre situazioni in cui ha avuto atteggiamenti più
opportuni
Spesso tale errore del pensiero è preceduto da parole come sempre,
mai, tutti, tutto, nessuno, niente, che determinano sopravvalutazioni
irrealistiche della frequenza.
 Astrazione selettiva: Un solo aspetto di una situazione complessa è il
focus dell’attenzione, e altri aspetti rilevanti della situazione sono
ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio
sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi.
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 Minimizzazione: le esperienze positive che sono in contrasto con la
visione negativa vengono trascurate o squalificate, come se non
fossero pertinenti o importanti
 Lettura del pensiero: interpretare, dando per scontato di sapere cosa
un’altra persona pensa senza chiederlo a lei o ad altri, ad esempio
convincendosi che una determinata persona ha una pessima
concezione di noi, senza accertarsene
 Riferimento al destino: reagendo come se le proprie aspettative
negative sugli eventi futuri siano fatti già stabiliti. Ad esempio,
mettere in atto il timore abbandonico come se ciò fosse già accaduto
perché “destinati a rimanere da soli”
 Catastrofizzare: percepire gli eventi accaduti come intollerabili o
aggravandone le conseguenze Spesso viene esagerata l’importanza
degli errori ed insuccessi, ritenendo che non potrebbe andare peggio,
che è terribile, insopportabile, irrimediabile. Ad esempio, disperarsi
dopo
un
esame
universitario,
vivendola
non
soltanto
come
imbarazzante, ma come decisivo per la carriera universitaria.
 Giudicare in base alle emozioni, dando per scontato che le emozioni
provate riflettano esattamente i fatti. “Mi sento giù, quindi le cose
vanno sicuramente male”. Sarebbe meglio non decidere solamente
sulla base delle emozioni, ma prestare attenzione a fatti e giudizi
obiettivi.
 Personalizzazione:
assumersi
l'intera
responsabilità
per
una
disavventura o una difficoltà. I fatti accadono per una lunga serie di
motivi, ma ci si prende interamente la responsabilità anche se la
propria parte è irrisoria.
 Doverizzazioni: l’uso di “dovrei”, “devo”, “bisogna”, si deve”, segnala la
presenza di un atteggiamento rigido e tendente alla confusione tra
“pretendere” e “desiderare”, e ciò è in diretta connessione con regole
personali. Ad esempio, il pensare che si debba essere ascoltati o che si
debba sempre piacere alle persone... oppure “Devo mostrarmi sempre
competente e adeguato in tutto quello che faccio”, “Devo avere chiare
19
manifestazioni di affetto e di approvazione da tutte le persone che
ritengo importanti per me”..
Gli errori del pensiero precedentemente analizzati comportano una
distorsione della realtà, ossia una difficoltà nel considerare oggettivamente
quanto accaduto o il considerare le varie ipotesi sulla causalità di un
determinato evento.
Ciò facilita la considerazione del punto di vista altrui, amplia il bagaglio
comportamentale utile alla soluzione di un problema e tende a far
decrementare l’intensità della risposta emotiva quando le emozioni sono
negative.
L’identificazione degli errori del pensiero comporta che la persona possa
creare affermazioni forti e positive su di sé, mettendo in evidenza le proprie
risorse.
6. Comunicazione verbale e non verbale
Qualsiasi
persona,
quando
comunica,
sia
consapevolmente
che
inconsapevolmente, usa delle tecniche che sono caratteristiche del suo stile
comportamentale (dominanza, sottomissione, eccetera) e che favoriscono il
passaggio dell'interazione, ossia del messaggio dal punto di vista verbale.
L'individuo attraverso la postura del corpo, l'espressione, il modo di
gesticolare, l'intonazione e il volume della voce ecc... stabilisce relazioni con
gli altri.
Sebbene la comunicazione sia legata al contenuto del messaggio, ossia a
“cosa” il mittente vorrebbe esprimere, essa riceve notevoli influenze dalle
componenti non verbali del messaggio, che ne determinano il “come”
l’emittente comunica.
La modalità comunicativa, dunque è legata al contenuto del messaggio ma
si declina in una serie di componenti rivelanti la qualità della relazione che
20
lega il mittente al destinatario, le emozioni connesse alla comunicazione ed
alla dinamica relazionale, i meccanismi di pro cessazione delle informazioni
ed attribuzione causale ecc...
Anche la persona non assertiva mette in atto tecniche di comunicazione non
verbale, che risultano però essere fonte di ansia in quanto non facilitano il
fluire e il crescere dell'interazione o addirittura la alterano. L'esame di
queste tecniche non verbali è utile per un nuovo apprendimento che
promuove una migliore assertività.
Di seguito verranno esaminati gli elementi di cui si compone la
comunicazione, focalizzando l’attenzione sugli elementi distintivi del
comportamento assertivo e di quello anassertivo, passivo ed aggressivo.
6.1. Comunicazione non verbale
Le abilita non verbali manifestano la loro importanza come segni autonomi
della comunicazione e fungono da supporto alla espressione verbale di cui
sono un complemento. La prima risposta ad una situazione imbarazzante è
generalmente non verbale: comuni sono il tremore della voce, l'agitazione
disordinata delle mani e dei piedi, l'incapacità di espressione verbale ed
alcune componenti di natura neurovegetativa quali il rossore e il pallore.
Gli studi di Mehrabian (1972), un socio-linguista, dimostrarono come gli
aspetti non verbali (i movimenti del corpo, la postura, la gestualità, le
espressioni e le microespressioni facciali) e paraverbali (tono della voce,
ritmo, velocità di parlata) della comunicazione hanno una grande
importanza nel veicolare i messaggi. Secondo tali studi l’influenza esercitata
dal linguaggio del corpo è pari al 55%, alla voce dell’emittente il 38%,
mentre soltanto il 7% è rivolta al contenuto del messaggio.
Ciò implica l’importanza del monitoraggio degli aspetti non verbali della
comunicazione, in modo che questi possano essere coerenti con il contenuto
del messaggio espresso mediante la comunicazione verbale.
21
1. Osservazione, poiché non siamo soltanto osservati, ma siamo anche
osservatori, protagonisti di ciò che accade intorno a noi
2. Contatto visivo o oculare, ossia gli sguardi reciproci che due persone
si scambiano durante un'interazione. L'importanza di questa abilità
basilare è legata al suo essere un doppio canale nella comunicazione.
Con lo sguardo si esprimono sentimenti ed emozioni e si colgono i
sentimenti e le emozioni altrui. Tali informazioni costituiscono
feedback che permettono la programmazione ed il riorientamento
comportamentale. L'inabilità nell'esercizio del contatto oculare può
esprimersi sia come carenza, cioè difficoltà di guardare gli altri, anche
per un tempo limitato o come eccesso, cioè invasione dell'altro con uno
sguardo troppo fisso e prolungato.
3. Mimica facciale comprende ogni variazione mimica, coerente con i
sentimenti e le emozioni che si vogliono esprimere. Tecnicamente si
manifesta con movimenti delle parti del viso: l'alzare o abbassare un
sopracciglio, la contrazione delle pupille, il movimento delle guance, il
piegarsi delle labbra.
4. La postura o posizione del corpo nello spazio conferisce importanti
informazioni sulla qualità relazionale e sul bisogno dell’emittente di
prevaricare l’altro o di rispettarlo, considerarlo... La postura, inoltre,
permette
l’espressione
della
compartecipazione
emotiva
o
il
disinteresse a quanto detto
5. Lo spazio corporeo è l'ambito spaziale dentro cui l'individuo si muove,
interagendo. Costituiscono lo spazio corporeo l’orientamento assunto
dal corpo e la distanza tra l’emittente ed il destinatario. L'uno e l'altro
di questi elementi sono influenzati da condizionamenti sociali e
culturali.
6. Nella comunicazione e nella relazione con gli altri la persona si
manifesta entrando in contatto, anche corporeo, per esprimere una
varietà di sentimenti ed emozioni: stringe la mano, abbraccia, pone la
mano su una spalla, accarezza... La stretta di mano, per esempio, può
22
essere troppo molle o sfuggente, a punta di dita, con le dita rivolte
verso il basso, troppo vigorosa, stritolante o prolungata oltre il
sopportabile, come una prova di forza.
7. Il tono e l’inflessione della voce, ossia le varianti comunicative
costituite dalla modulazione della voce, dell'accentuare delle sillabe,
dal tono... influenzano la relazione, poiché nell’interazione verbale le
modalità relative al “ come si dice” possono essere decisive sul
contenuto del messaggio.
Di seguito gli elementi della comunicazione non verbale, precedentemente
illustrati, saranno riportanti in riferimento a comportamenti di tipo passivo,
aggressivo ed assertivo (Tabella 2. Comunicazione non verbale anassertiva
ed assertiva)
CARATTER
I-STICHE
ANASSERTIVO
PASSIVO
 Curva
 Accasciata
Postura
ASSERTIVO
 Piegata
AGGRESSIVO
★ Eretta
★ Rilassata
★ Aperta
 Diretto verso il ★ Accogliente
basso
Sguardo
ANASSERTIVO
★ Diretto
 Rigida
 Pugni serrati
 Denti stretti
 Diretto
verso
l’interlocutore
 Sfuggente
all’interlocutor
 Provocatorio
 Contatto oculare
e
 Fisso/vitreo
sfuggente
★ Empatico
23
 Povera,
rigida, ★ Coinvolta
poco espressiva
Mimica
facciale
 Inadeguata
 Esagerata
 Inadeguata
★ Interessata
al ★ Sensibile
contenuto
al
contenuto
verbale
★ Comprensiva
verbale
 Mascelle serrate
 Movimenti scarsi

e poco espressivi
Minaccioso
 Viso teso
 Limitata
★ Aperta
 Ripetitiva
e ★ Mani che non
superano
monotona
l'altezza
dei
 Non correlata al
gomiti
significato della ★ Spalle diritte
 Sovrabbondanti
 Movimenti ampi
e vistosi
 Accusatoria
 Tesa
comunicazione
Gestualità
 Incerta, ambigua
 Assenso
accennato
col
capo
 Torcere le mani
 Gestualità
smaniosa
 Rapidi
e
sommari
 Reclinata
Spazio
avanti
sociale:
posizione
Distanza
in ★ Spazio
 Invadente
lo
interpersonale
spazio
 Dimessa
in relazione al
interpersonale
 Rigida
grado
dell’interlocutore
 Goffa
intimità
 In fuga
relazionale
★ Flessibile
24
di
 Ravvicinata
in
base ai feedback
sociali
 Bassa
 Incerta
 Tremante
Voce
★ Chiara
★ Rilassata
★ Amichevole
★ Ben calibrata
★ Non sforzata
 Alterata
 Concitata
 Con
prevalenza
di
toni acuti
 Volume alto
Tabella 2. Comunicazione non verbale anassertiva ed assertiva
6.2. Comunicazione verbale
Le abilità di comunicazione sono quelle che ci consentono di iniziare,
mantenere e terminare una conversazione, di saper porre domande, di dare
delle informazioni generiche o personali a seconda delle esigenze della
interrelazione verbale.
1. Domande chiuse, aperte e riflesse
La domanda CHIUSA è una domanda che richiede una risposta brevissima,
in genere un “ si” oppure un “ no”. Tali risposte possono permettere di
instaurare una relazione iniziale con l’interlocutore, ma non consentono uno
scorrere della conversazione, se non con ulteriori domande di tipo aperto
oppure tramite affermazioni o autoaperture. Es. “Hai letto il libro di
Giovanni?” “Si”.
Un uso continuato ed insistente costringe alla ricerca affannosa di nuovi
argomenti di conversazione e crea un'atmosfera da inquisizione e determina
un rapporto di squilibrio nella trasmissione e nello scambio di informazioni.
La domanda APERTA, al contrario, è strutturata in modo da ricavare una
maggiore quantità di informazioni dall'altro. Esse hanno il vantaggio di
25
stimolare attivamente il destinatario a fornire più informazioni, dalle quali
potranno essere tratti spunti utili a continuare il dialogo. Es. “Che cosa ne
pensi del libro di Giovanni?”. Le domande aperte possono cominciare con chi,
che cosa, quando, dove, come o perché ed elicitano spiegazioni piuttosto
dettagliate da parte dell'individuo, forniscono l'opportunità di maggiori
spunti per continuare la conversazione.
Nella domanda RIFLESSA il soggetto può riconoscere all'interno dei
segmenti finali dell'intervento altrui degli stimoli di aggancio intorno ai
quali costruire un'informazione da rilanciare. Es. “Hai letto il libro di
Giovanni? Anch’io. A me è piaciuto molto come ha trattato...”.
2. Libera informazione
L’informazione o eccede la domanda o viene data senza essere stata
sollecitata direttamente.
Solitamente tale strategia comunicativa si basa sull’offrire informazioni di
carattere pubblico o personale a cui l’interlocutore potrà riferirsi
in un
momento successivo, quando gli porremo la specifica domanda.
Solitamente viene utilizzata per abbassare le difese dell’interlocutore,
quindi solitamente gli argomenti trattati nella libera informazione saranno
di pertinenza ai suoi interessi o non colludono con le sue ideologie.
3. Autoapertura
E’ una informazione libera o sollecitata che noi diamo su noi stessi. Mette a
proprio agio l'interlocutore e crea un ambito relazionale rilassato. Sarà cura
dell’emittente decidere il livello di intimità a cui giungere mediante
l’autoapertura
4. Cambio di argomento/porre fine alla conversazione
La volontà di cambiare argomento oppure di concludere la conversazione
dovranno essere espresse con chiarezza e decisione. In particolare la seconda
non prevede il ricorso a false giustificazioni, ma una franca dichiarazione
della propria intenzione di porre fine alla comunicazione. È un bene far
26
precedere il congedo da una affermazione rassicurante e gratificante circa
l'incontro avuto. Es. “E’ un argomento molto interessante, ma al momento
penso di....” oppure “Le dispiace se cambiamo argomento?”
5. Gestione del silenzio
Tacere non è passività. Il silenzio è un momento in cui è possibile ascoltare
l’altro, riorientare o riformulare le nostre strategie interattive o dare del
tempo all’interlocutore per concettualizzare quanto espresso. Momenti di
pausa o di silenzio possono essere vissuti in modo ansiogeno da chi vi legge
il risultato della propria incapacità di relazione, anche se in realtà essi sono
parte integrante del dialogo ed hanno una loro pregnanza e valenza
semantica.
6. Gestione delle critiche
Le
critiche
possono
costituire
dei
feedback
circa
gli
effetti
del
comportamento e possono rappresentare un input per il miglioramento
personale e sociale, se sono percepite dal soggetto che le riceve come
costruttive.
Una risposta efficace alle critiche dipende dall’iniziale capacità di
analizzarle e di accettarle, parzialmente o totalmente.
I cambiamenti possibili sono quelli riferibili al comportamento o alle classi
di comportamento: le critiche rivolte alla personalità o alle caratteristiche
distintive
della
persona
dovrebbero
essere
declinate
nei
singoli
comportamenti per poter ipotizzare un cambiamento ed essere costruttive.
La differenza tra le critiche manipolative e quelle costruttive è costituita
dalla senso di imbarazzo, inadeguatezza, prevaricazione ed ansia generica
che le prime creano appositamente nella persona che ne è vittima, mentre le
critiche costruttive sono tese al miglioramento, al benessere dell’altro.
Un primo esame dovrebbe essere focalizzato sulla eventualità di un reale
cambiamento del comportamento e le relative conseguenze in termini di
vantaggi/svantaggi rispetto al comportamento criticato.
27
Di seguito vengono riportate alcune delle caratteristiche distintive delle
critiche manipolative:
 la critica viene rivolta alla persona nel suo insieme invece che ad un
singolo comportamento: “ Sei un fallito”
 risvegliano idee negative o distorte che una persona ha di sé: “ Senza
tuo padre non arriverai mai da nessuna parte”
 generalizzano in modo errato: “sei sempre troppo polemico”
 comprendono deduzioni arbitrarie: “lo hai fatto apposta a criticarmi
davanti a tutti”
 al loro interno troviamo un uso improprio di avverbi quantitativi e
qualitativi: “ Non mi ascolti mai”
 ostacolano e interrompono i tentativi di difesa “non mi interessa cosa
pensi, non dovevi permetterti di dirlo!”
 ingigantiscono gli errori “per colpa tua stiamo fallendo” “se tu non
avessi detto... noi saremo ancora felici insieme”
Mentre la risposta alle critiche data da un comportamento anassertivo
passivo è tesa alla ricerca della benevolenza altrui e spesso si manifesta con
l’accettazione della critica o con la ricerca di cambiare se stessi per
accondiscendere, la risposta aggressiva si declina con irascibilità o con una
ricerca forsennata di spiegazioni; le persone con un atteggiamento assertivo
cercano di trarre un vantaggio personale e relazionale dalle critiche.
6.1. Strategie di protezione o di difesa
Di fronte a una critica che può essere di tipo manipolativi o costruttivo ci
possono essere diversi modi di reagire. Il disagio si può vincere adottando
comportamenti di fuga, adattamenti passivi o reazioni di attacco: questi
comportamenti non sono validi a meno che non vengano scelti perché unica
soluzione possibile.
Per difenderci dalle critiche manipolative sono importanti alcuni passaggi:
28
1. riconoscere la critica come manipolativa;
2. comprendere
quali
possono
essere
le
ragioni
che
spingono
l’interlocutore ad esprimerla;
3. utilizzare le strategie di difesa più funzionali alla situazione
Le tecniche proposte in seguito possono combinarsi insieme e permettono di
mantenere il controllo della situazione. L'apprendimento di queste abilità
verbali di protezione richiede allenamento graduale quotidiano, nel provare
e riprovare, simulando di volta in volta le varie situazioni.
6.1.1. La persistenza
È chiamata anche “ disco rotto” perché consiste nel ripetere in modo quasi
coattivo ciò che si vuole, senza aggressioni o irritazioni, con tranquillità. È
molto importante durante l’adozione di questa tecnica non cadere nella
trappola logico manipolatoria, non concedendo agli altri spazi per
raggiungere ciò che essi desiderano. È bene quindi non fare domande di tipo
aperto, che iniziano ad esempio con “ perché?” o rispondere ai perché o alle
colpevolizzazioni altrui, con scuse, giustificazioni o spiegazioni.
6.1.2. Annebbiamento
Consiste nell'acconsentire in termini generali o di probabilità ad una parte
della comunicazione dell'altro, senza però cambiare il proprio punto di vista
o la propria decisione ed ha l’utilità di “annebbiare” la critica posta dalle
risposte. Es: “Comprendo la tua irritazione e mi dispiace molto, ma io...”.
Questa tecnica può essere utile nel diminuire il grado di ostilità
dell’interlocutore ed ha lo scopo di permettere al soggetto di esporre le
proprie motivazioni
6.1.3. L’asserzione negativa
Talvolta l'unico modo per fronteggiare l’errore è proprio quello di
ammetterlo senza ansia e senza diminuire la nostra immagine personale.
La persona criticata, dunque, ammette l’errore e si dimostra disponibile
verso un cambiamento. Spesso una soluzione molto elegante che risolve
29
facilmente il problema è quello di ammettere: “si è vero, avrei potuto stare
attento in questa circostanza, avrei potuto fare meglio”. Confermando
dignitosamente il nostro errore ed ammettendo la colpa possiamo dare
dimostrazione del nostro dispiacere e della nostra non intenzionalità
dell'accaduto, dichiarando il nostro impegno ad evitare il ripetersi
dell'evento ed il desiderio di porvi rimedio. Es. “Sei uno stupido” “si, è vero,
in questo caso non sono stato intelligente, avrei dovuto... la prossima volta lo
farò” oppure “sbagli sempre” “nessuno è perfetto, imparerò!”
6.1.4. L’inchiesta negativa
Consiste nel chiedere informazioni sulla critica. Se una persona pone una
critica di tipo generico, costruttiva o manipolativa, è possibile chiedere delle
informazioni più specifiche. Nel caso la critica sia costruttiva è possibile
ottenere importanti indicazioni per migliorare il nostro comportamento,
mentre se la critica è di tipo manipolativo potrà essere declinata in
comportamenti specifici. Lo scopo è quello di eliminare la tonalità emotiva
con cui le critiche vengono spesso condite per indicare con esattezza gli
elementi su cui vi è in disaccordo.
Es.: “Non sono per niente d’accordo su ciò che lei hai detto! Perché? Che cosa
non vi è piaciuto? Quale parte avreste voluto fosse approfondita?”.
6.1.5. La discriminazione selettiva
Permette di cogliere la parte del messaggio negativo su cui siamo disposti a
discutere oppure a dare spiegazioni. Questa tecnica si basa sulla distinzione
di singole parti all’interno di una domanda e della scelta di argomentare
esclusivamente una di esse.
Nelle tavole rotonde o nei dibattiti politici le persone sono molto esperte a
cogliere soltanto quella parte della domanda sulla quale hanno dei dati, a
cui possono rispondere
30
6.1.6. Il disarmo dell’aggressività
Si sviluppa opponendo a una critica o ad un appunto negativo nei confronti
del
nostro
comportamento
un
comportamento
di
estrema
calma,
condizionando la nostra partecipazione alla comunicazione a un decrescere
dell'aggressività dell'altro.
6.1.7. Tecnica del fogging
Dopo aver ascoltato attentamente ed oggettivamente la critica e gli elementi
di cui si compone, evitando di attribuire false interpretazioni, è possibile
rispecchiare ciò che è stato detto, mediante l’utilizzo di parafrasi o di una
sintesi personale.
Questa tecnica rivela la propria efficacia sia per chi è criticato, evitando il
coinvolgimento personale e dandogli il tempo per comprendere meglio il
messaggio, sia per l’interlocutore che è chiamato a chiarire la propria
posizione.
6.2. Fare una critica
E’ di fondamentale importanza denotare il singolo comportamento o la
classe di comportamenti target, in modo che il soggetto criticato possa
comprendere l’intento costruttivo e propositivo sottostante la critica.
La probabilità della realizzazione dell’eventuale cambiamento dipenderà
dalla capacità della critica di essere operazionale, dunque nella capacità di
descrivere il comportamento con precisione nella frequenza, nella tipologia e
nell’effetto che produce.
Eventuali esempi potranno rendere più facilmente comprensibili gli
elementi sottoposti a critica ed avranno l’effetto di normalizzare il
comportamento, che verrà vissuto come tipico di più individui. Di
fondamentale importanza sarà la congruenza tra la comunicazione verbale e
non verbale durante l’espressione della critica e l’utilizzo di espressioni
empatiche.
31
7. Conclusioni
L’assertività è un approccio di pensiero che permette la valorizzazione di se
stessi e di gestire in modo costruttivo le relazioni interpersonali. Può essere
declinata nell’apprendimento di specifiche tecniche, alla cui base si pone una
maggiore conoscenza di se stessi, dei propri diritti, dei propri pensieri e dei
propri sentimenti.
Sono state elencate una serie di modalità mediante le quali è possibile
rendere più efficace la propria comunicazione, però per potenziare la propria
assertività non
basta apprendere meccanicamente tali
tecniche.
È
necessario riflettere sui pensieri automatici che si attivano in noi e dai quali
dipendono le nostre reazioni, emotive e comunicative. Sono stati elencate le
principali classi di errori del pensiero, responsabili del nostro malessere
emotivo e delle modalità comunicative anassertive con cui talvolta
rispondiamo agli input sociali.
“Non solo è importante conoscere le tecniche per migliorare l'assertività, ma
occorre sviluppare nuove abitudini di comportamento e perfezionare
l'educazione dei sentimenti e delle emozioni. Familiarizzarsi con il mondo
dei sentimenti richiede, infatti, "un'educazione sentimentale". La struttura
concettuale dell'assertività è l'ordine che ciascuno pone nella propria vita,
quando con maggiore consapevolezza pensa a se stesso e interagisce con le
altre persone. Questo modo di agire permette di stabilire un rapporto attivo
e intelligente che si basa sulla valutazione corretta della situazione e
sull'avere a disposizione i mezzi adeguati per poter scegliere la soluzione più
appropriata.” (Domenico Di Lauro, 2011)
Una comunicazione è realmente efficace se la persona è in contatto con i
propri sentimenti, poiché affinché questi ultimi possano essere espressi è
necessario individuarli e monitorarne l’intensità. La probabilità di una
adeguata espressione dei propri sentimenti e dei propri pensieri sarà in
relazione ad una intensità emotiva media. Quando il termometro emotivo
32
segnala un’elevazione troppo accentuata, dunque l’emozione è forte o medio
forte, l’applicazione di tecniche specifiche sarà più difficoltosa.
L’assertività è quindi un’ abilità in grado di soddisfare i propri bisogni
emotivi, sociali, biologici e di proiettare all'esterno il proprio mondo
interiore. Le risposte assertive permettono alla persona di esprimere i propri
bisogni e sentimenti senza sviluppare ansia e lo mettono in grado di
acquistare o ristabilire espressività emozionale appropriata (Wolpe, 1958).
Bibliografia
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dire di no, Milano, Baldini Castaldi Dalai.
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Pedrotti, M. (2008), L’assertività, Psicologi in formazione n°1, pp. 90-120
Sanavio, E (1998) Psicoterapia cognitiva e comportamentale, Carocci ed
33
Wolpe, J. (1958) Psychoterapy by reciprocal inhibition, Stanford University Press,
Stanford, CA
34
STRESS E MALATTIA ONCOLOGICA:
UN INTERVENTO INTEGRATO
di Francesca Bernardini
Psicologa e psicoterapeuta
Il presente articolo descrive una ricerca effettuata presso il Centro
Oncologico Fiorentino (Sesto Fiorentino – FI) sul tema dello stress legato
alla malattia oncologica, proponendo i risultati di un intervento integrato,
secondo il modello della Psicologia Funzionale.
LA PSICOLOGIA FUNZIONALE
La Psicologia Funzionale (o Funzionalismo Moderno) nasce con gli studi, le
ricerche e le teorizzazioni del Prof. Luciano Rispoli nella Scuola di Napoli e
nella Scuola Europea di Psicoterapia Funzionale, da lui fondate negli anni
’80. Si è sviluppato con l’intento di costruire una cornice teorica, che
riuscisse a inquadrare in modo scientificamente corretto e nuovo i dati che
emergevano dalla pratica clinica e i risultati delle ricerche che si stavano
realizzando sui processi di terapia e sullo sviluppo evolutivo del bambino
(Rispoli, 2010).
Il pensiero Funzionale ha sistematizzato antiche e nuove conoscenze,
costruendo una base per una teoria globale del Sé che guardasse all’insieme
di tutti i processi Funzionali, con l’ipotesi di una loro presenza sin dall’inizio
della vita e di una loro profonda integrazione originaria (Rispoli, 1993).
Nel Funzionalismo moderno troviamo un vero e proprio salto epistemologico
e scientifico: viene sostenuta la complessità della persona, superando i
riduzionismi precedenti; vengono presi in considerazione tutti i fenomeni
che la riguardano, tenendo conto della sua unitarietà e interezza, senza
perdere, tuttavia, la possibilità di scendere nei dettagli ed arrivare a livelli
di analisi molto precisi. Questo modello teorico, infatti, permette di
osservare sia il macrofunzionamento che il microfunzionamento, superando
35
i concetti di ‘struttura’ e di ‘parti’ a favore di quelli di ‘organizzazione’ e di
‘Funzione’. L’individuo viene inteso come un’organizzazione integrata di
diverse Funzioni in relazione reciproca ed in costante adattamento ed
espansione verso l’ambiente (Rispoli, 2010).
Il Funzionalismo moderno considera il Sé come organismo integrato. Il Sé
non è costituito da parti contrapposte, ma è “.. un’organizzazione di Funzioni,
tutte egualmente importanti, tutte circolarmente allo stesso livello. Nessuna
è gerarchicamente più importante, nessuna gestisce tutte le altre in senso
piramidale” (Rispoli, 2010, 28).
Accanto all’idea di “Funzione”, il pensiero Funzionale introduce un altro
importante concetto: le “Esperienze di Base del Sé” (EBS) o “funzionamenti
di fondo”, che il bambino sperimenta nell’interazione complessa con
l’ambiente e con le figure significative di riferimento. Ad esempio, la
capacità di Contatto, di Amare, la Tenerezza, l’essere Tenuto, la capacità di
modulare il Controllo, di Lasciare, la possibilità di sperimentare la propria
Forza etc. La Psicologia Funzionale ha messo in evidenza circa 20
funzionamenti di fondo (Figura 1). Essi sono alla base della nostra esistenza
e producono comportamenti, pensieri, emozioni, gesti e atteggiamenti
specifici, nelle varie e differenti situazioni (Rispoli, 2010).
Tenuti
Essere tenuti: contenuti, fermati
Essere Presi
Condivisione
Aprirsi: raccontare di sé
Condividere: cointeressarsi,
scambiare
Essere Portati: guidati
Alleanza: l’altro dalla propria
parte
Essere protetti
Piacere
all’altro:
mostrarsi,
migliorarsi per l’altro
Considerati
Vitalità
Essere visti: ascoltati, capiti
Gioia: guizzi, slancio
Essere valorizzati: apprezzati
Vitalità: attivarsi, energia,
passione
Lasciare
Giocare: umorismo
Lasciare: allentare muscolatura, Osare: andare oltre
incantarsi
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Fidarsi: affidarsi, fiducia
Abbandonarsi all’altro
Calma
Calma: tranquillità
Aspettare: pazienza
Creatività
Creatività (immaginazione)
Gusto del bello
Piacere
Piacere: eccitazione, godersi le
cose
Stare:oziare
Desiderare
Controllo
Piacere dell’altro: trarre piacere
dall’altro
Concentrarsi: attenzione
Benessere: armonia, interezza,
vagotonia
Attenzione morbida
Forza
Allentare controllo: sciogliersi,
Forza originaria: distaccarsi,
perdersi
farsi spazio
Perdere
controllo:
buchi, Forza morbida
esplosioni, crolli, trasgredire
Sensazioni
Forza calma: affrontare,
fronteggiare, potenza
Sensazioni: sentirsi, conoscersi
Forza aperta: buttare via
Percepire: percepire l’altro, la
Aggressione
realtà, percezione ampia o
concentrata, esplorare
Stupore: meraviglia, vedere il
Aggressione affettuosa: giocosa
noto nel non noto
Contatto
Aggressione: per difendersi,
attaccare
Contatto: vicinanza, fusione,
Consistenza
empatia
Contatto ricettivo
Presenza: visibilità, espandersi
Essere nutriti: ricevere, assorbire Consistenza: sicurezza, avere
peso, fierezza, valorizzarsi
Chiedere: per ricevere,
Affermazione
richiamare
Contatto attivo
Assertività: affermazione delle
proprie idee
Prendere: sedurre, portarsi l’altro Determinazione: tenacia, andare
in fondo
Tenersi l’altro: pazienza
Scegliere: decidere
Cambiare l’altro: muovere,
Autoaffermazione
trasformare
Dare: abbracciare, regalare
Autoaffermazione
37
Amore
Progettare: per concretizzare
sogni
Essere amati: portati dentro
Realizzazione: soddisfazione
Amare: portare dentro, darsi, Competere: voler vincere
appartenere all’altro
Continuità
positiva:
ricordi, Negatività
aspettativa positiva
Amarsi: dare a sé, piacersi,
Rabbia
autoconsolarsi, sistemarsi
Tenerezza
Odio: cattiveria
Tenerezza: dolcezza, morbidezza
Autonomia
Cedere: accettare, tollerare
Opporsi: rifiuto
Necessità dell'altro: fragilità
Separarsi: distacco
Autonomia: star bene soli, non
dipendenza
Figura 1. Le Esperienze Basilari del Sé o Funzionamenti
di fondo dell’individuo
Le Esperienze di Base più consolidate nello sviluppo diventano capacità
acquisite, solide. Per questo devono essere attraversate nell’infanzia più
volte, in modo pieno, positivo e soddisfacente. Solo in questo modo
costituiranno “..il serbatoio a cui possiamo attingere ogni qualvolta ne
abbiamo bisogno” (Rispoli, 2004, 65). Al contrario, la non positività di
un’Esperienza, la non pienezza, la carenza con cui viene vissuta, può
condurre all’alterazione dell’EBS che diventa non più disponibile per la
persona o inquinata da modalità che non sono caratteristiche di quella EBS.
I funzionamenti di fondo (chiamati EBS in età evolutiva) sono soggetti ad
alterazioni per tutto l’arco della vita. E’ evidente che, in età evolutiva, la non
indipendenza produce una maggiore vulnerabilità.
In sintesi, il pensiero Funzionale permette di leggere e di cogliere, al
contempo, sia i particolari specifici di funzionamento sia l’organizzazione
complessiva dell’organismo vivente, in un’ottica multidimensionale (Rispoli,
2010).
38
LO STRESS
Il fenomeno dello stress è il più emblematico e significativo quando si
vogliano
comprendere
i
fattori
molteplici
che
intervengono
nella
conservazione o nella perdita della salute, e ci permette di affrontare la
complessità dell’unitarietà mente-corpo dell’individuo, senza però rimanere
nel vago e nel generico. Esso è rappresentativo di un processo complesso che
non può essere letto solo da alcune angolazioni, ma che necessariamente
prevede una valutazione e un intervento multidimensionale (Rispoli, 1999).
Tutte le ricerche sono concordi nel confermare il legame tra l’organismo
cronicamente stressato e la malattia: lo stress permanente, cronico, negativo
è in connessione a patologie quali il cancro, le cardiopatie, il diabete, il calo
delle difese immunitarie etc. (Rispoli, 2004).
Possiamo definire lo stress come un’attivazione momentanea e costruttiva
utile a gestire l’impatto di un evento. Per questo motivo, lo stress non è da
considerarsi necessariamente come una condizione patologica. Tuttavia può
determinare
malattie
se
sussistono
alcune
condizioni:
l’attivazione
dell’organismo può permanere indipendentemente dalla presenza dello
stimolo se il Filtro del soggetto, su cui “impatta” l’evento stressante, è
alterato, per cui l’individuo perde la capacità di disattivazione, di tornare
alla calma. Lo stress dunque si cronicizza, e inizia un processo di
logoramento dell’organismo.
Le evidenze cliniche sul rapporto tra stress (dannoso, cronico) e cancro sono
molte e le ricerche, in generale, hanno evidenziato come interventi di
gestione e/o riduzione dello stress cronico conducano ad una maggiore
sopravvivenza dei pazienti oncologici, ad una maggiore qualità della vita e
ad una minore frequenza di recidive (Spiegel, 2002; Lutgendorf, et al., 2007;
Andersen et al., 2008).
LA VISIONE DELLA PSICOLOGIA FUNZIONALE
Il contributo della Psicologia Funzionale sullo stress ha portato a definire in
maniera più precisa il “circuito stress-benessere” e il ruolo del “Filtro
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Funzionale percettivo” nella determinazione soggettiva delle risposte allo
stress. Gli eventi stressanti producono un impatto su tutto l’organismo. Tra
l’organismo e lo stressor si interpone il “Filtro Funzionale della percezione”
(definito Funzionale perché costituito dall’insieme organizzato delle
Funzioni attivate), un sistema di filtraggio degli stimoli esterni mediato da
una “percezione” non solo cognitiva, ma globale e complessiva e, quindi,
sensoriale, visiva, uditiva, emotiva etc. (Di Nuovo, Rispoli, 2011).
Di fronte ad uno stimolo/evento stressante tutte le risorse della persona
vengono
messe
in
moto
(da
precisi
meccanismi
neuroendocrini
e
neurovegetativi) per attivarsi al massimo: si è allora concentrati, lucidi,
pieni di energia, capaci di agire. Lo stress, dunque, è “..altamente benefico,
stimola processi vitali e ci fa sentire bene” (Di Nuovo, Rispoli, 2011, 7), è
temporaneo, e perciò può essere chiamato anche eustress. Una volta risolto
il problema, è possibile ritornare ad una altrettanto piacevole condizione di
allentamento
neurofisiologico,
emotivo,
posturale,
che
permette
di
recuperare energie, per affrontare e gestire un altro momento difficile.
Quando però l’attivazione permane, indipendentemente dalla presenza di
ostacoli esterni, si realizza la condizione di stress cronico o distress:
l’organismo non può reggere ad una attivazione costante e inizia a logorarsi,
per cui i suoi funzionamenti biologici profondi vengono compromessi.
La diagnosi di tumore rappresenta un evento stressante, per cui le Funzioni
del Sé della persona si mobilizzano verso una direzione che permette di
fronteggiare lo stato di allarme. Possiamo immaginare l’intero percorso di
malattia come un alternarsi di reazioni di stress (rispetto ad uno stimolo
reale di pericolo) e di allentamento, in cui la persona può tornare alla calma
e trovare momenti di benessere. Il rischio è rappresentato proprio da una
cronicizzazione della reazione di allarme da parte dell’organismo, a seguito
di un’alterazione Funzionale permanente.
Infatti, le caratteristiche del Filtro, che orientano l’esperienza in una
direzione o nell’altra, risentono delle antiche esperienze del Sé, della storia
della persona. Se il Filtro Funzionale della percezione non è eccessivamente
alterato e se il contesto attorno al paziente oncologico è adeguato, l’evento
40
tumore
produce
uno
stress
temporaneo,
con
un’attivazione
solo
momentanea, per quanto prolungata nel tempo: l’individuo può reagire
adeguatamente e gestire l’evento. Al contrario, nella sua condizione alterata,
o in mancanza di un ambiente che aiuti il paziente a fronteggiare l’evento, il
Filtro porta il soggetto a percepire in maniera inadeguata l’evento malattia
e ad una precisa sensazione di incapacità di gestire le situazioni: si approda
direttamente allo stress cronico e l’attivazione del circuito permane anche in
assenza dello stressor.
L’INTERVENTO FUNZIONALE IN AMBITO ONCOLOGICO
Da quanto detto, emerge che il paziente oncologico necessita di un sostegno
e un intervento completo, integrato, che agisca su tutti i sistemi integrati
dell’organismo
(neurovegetativo,
neuroendocrino,
emotivo,
sensoriale,
cognitivo, motorio, posturale) che sono profondamente interconnessi in uno
stato di salute, di benessere, di funzionamenti pieni e sani (Rispoli, 2010).
La Psicologia Funzionale propone:

una valutazione accurata dell’entità e della specifica configurazione
dello stress, attraverso strumenti diagnostici specifici;

un intervento integrato sui funzionamenti di fondo maggiormente
alterati nell’evento malattia, finalizzato a riequilibrare l’organismo e
recuperare un naturale alternarsi di attivazione/eccitazione a
momenti di rilassamento/riposo (Di Nuovo, Rispoli, 2011).
L’intervento Funzionale è un intervento su tutta la persona, orientato ad
una migliore qualità di vita e a mantenere o recuperare un livello di
benessere che possa sostenere il paziente nell’affrontare la propria malattia.
I principali funzionamenti di fondo su cui si interviene con i pazienti
oncologici sono: Lasciare, Controllo, Sensazioni, Piacere, Vitalità, Essere
Tenuti, Tenerezza.
È fondamentale che il paziente possa sentirsi totalmente preso in carico,
sentire che può essere accolto, Essere Tenuto, contenuto senza viverlo come
41
una debolezza. Normalmente il paziente oncologico è immerso in una
situazione di allarme, paura, preoccupazione continua, è sottoposto a
persistenti controlli medici ed è inserito in programmi di cura che prevedono
terapie molto forti, con effetti collaterali importanti, che danno un generale
senso di malessere e di pesantezza. E’ importante, dunque, che il paziente
abbia la possibilità di recuperare la capacità di Lasciare, di allentare il
Controllo, di aprire le Sensazioni positive, spesso chiuse per non sentire il
dolore e la sofferenza. E’ importante accompagnarlo nel ritrovare la capacità
di sentire il Piacere e il benessere, nonostante le terapie ed i loro effetti,
come anche recuperare una certa Vitalità nei movimenti, nei ricordi, nelle
emozioni. E’ importante, inoltre, per il paziente contattare la propria
Tenerezza, senza per questo perdere la forza, sentire la propria fragilità e il
bisogno dell’aiuto degli altri, per smussare la durezza a cui spesso si trova
costretto, per essere forte e affrontare la malattia.
LA RICERCA
È stata effettuata presso il Centro Oncologico Fiorentino (C.F.O.), una realtà
sanitaria che si occupa di prevenzione, diagnosi, cura, ricerca e formazione
in campo oncologico.
Nello specifico, è stato preso in considerazione il Progetto Zefiro che prevede
interventi antistress di gruppo, con la metodologia della Psicologia
Funzionale. Il gruppo antistress è una terapia focalizzata che ha l’obiettivo
di accompagnare il paziente a vivere l’evento malattia usando al meglio le
proprie risorse.
Obiettivi
 Valutare l'efficacia dell’intervento Funzionale di un gruppo antistress
progettato ad hoc per la riduzione dello stress correlato all’evento
malattia oncologica;
42
 Valutare un cambiamento nei sintomi specifici, considerati associati al
programma di cura seguito dalle pazienti;
 Valutare un cambiamento rispetto allo stato di salute ed ai vissuti nei
confronti della malattia delle pazienti;
 Raccogliere dati ed evidenze scientifiche sugli effetti positivi di un
intervento psicologico multidimensionale e limitato nel tempo, nella
prospettiva che, insieme alle cure mediche, possa entrare sempre di più
nei protocolli terapeutici.
Campione
È costituito da 13 pazienti, donne, di età compresa fra 32 e 65 anni, con
diagnosi di tumore alla mammella. Le pazienti sono tutte operate ed a
diversi stadi di trattamento chemioterapico, radioterapico o terapia
ormonale. Il campione è stato suddiviso in:
 gruppo sperimentale: pazienti (n. 7) sottoposte a trattamenti antistress di
gruppo, con metodologia Funzionale, a cadenza settimanale. E’ stato
valutato il livello di stress prima del percorso e dopo un minimo di 6
incontri (massimo 10 incontri) svolti nell’arco di tre mesi;
 gruppo di controllo: pazienti (n. 6) che hanno scelto di non usufruire di
trattamenti antistress. E’ stato valutato il livello di stress in una fase
iniziale e dopo 3 mesi dalla prima valutazione.
Strumenti

Questionario M.S.P. - Misura dello Stress Psicologico (Rispoli, 2000)

Scheda di rilevazione del Respiro e dell’Atteggiamento corporeo
(Rispoli, 1997)

Colloquio strutturato con i pazienti oncologici (Rispoli, 2007)

Scheda disturbi e sintomi (Rispoli, 2008)
43

Scheda sullo stato di salute e sui vissuti sulla malattia (Rispoli 2008)
Analisi dei dati
I dati ottenuti dalla somministrazione dell’MSP e dalla rilevazione del
Respiro e Atteggiamento corporeo sono stati inseriti all’interno del
programma M.I.S. (Rispoli, Di Nuovo, 2000) ottenendo il valore dell’ Indice
Integrato dello stress, che può variare da 0 (Benessere) a 10 (Stress).
Il Colloquio strutturato e la Scheda Disturbi e Sintomi sono stati analizzati
calcolando le frequenze delle risposte A+B (buon livello di funzionamento) e
C+D (funzionamento alterato) e le percentuali delle risposte C+D, sia nel
gruppo sperimentale che nel gruppo di controllo.
Per la scheda Stato di salute e vissuti sulla malattia sono state calcolate le
percentuali rispetto al punteggio totale ottenuto da ogni paziente, per cui
valori alti coincidono con maggior benessere, mentre valori bassi indicano
un peggior stato di salute
Risultati
Verranno di seguito presentati i risultati delle valutazioni effettuate, con i
cinque strumenti presentati precedentemente, sul gruppo sperimentale e sul
gruppo di controllo. Per tutelare la privacy dei pazienti, sono stati utilizzati
dei nomi fittizi.
Per quanto riguarda i valori dell’Indice integrato del livello di stress (Grafico
1), tratti dal Questionario M.S.P. e dalla Scheda di rilevazione del Respiro e
Atteggiamento corporeo, è evidente un notevole miglioramento nel valore
dell’Indice integrato dello stress del gruppo sperimentale (da 6,55 a 3,95)
che possiamo attribuire al trattamento antistress effettuato dalle pazienti (il
Test T di Student è risultato significativo per questo gruppo); nel gruppo di
controllo, il valore del livello di stress scende lievemente da 5,77 a 5,29, ma
44
per motivi legati presumibilmente al caso (il Test T di Student non è
risultato significativo per questo gruppo).
Media Indice integrato
10
5
0
6,55 3,95
5,77 5,29
Gruppo
sperimentale
Gruppo
Controllo
I valutazione
II valutazione
Grafico 1. Media Indice integrato: differenze fra gruppo sperimentale e
gruppo di controllo tra la I e II valutazione
Dunque, dai primi dati relativi alla misura integrata del livello di stress,
emerge un miglioramento importante sulle pazienti che hanno partecipato
ad interventi antistress Funzionali di gruppo, confermando l’efficacia e
l’importanza di un intervento altrettanto integrato.
Il Colloquio strutturato con il paziente oncologico (Grafico 2) ci conferma
ulteriormente questi dati. La scheda è composta da 8 scale, ciascuno
orientato a valutare determinati funzionamenti, nelle loro polarità
(Progettualità/Chiusura;
positive/Fant.negative;
Forza
calma/Rabbia;
Leggerezza/Pesantezza;
Fantasie
Serenità/Tristezza;
Movimenti ampi/Mov. morbidi; Contatto/Isolamento; Piacere/Doverismo).
Nel post trattamento del gruppo sperimentale emerge una notevole
riduzione dei funzionamenti alterati (C+D), che vengono quasi totalmente
sostituiti da funzionamenti sani (A+B); diversamente avviene nel gruppo di
controllo che, anche nella II valutazione, presenta frequenti alterazioni.
L’unico funzionamento non alterato risulta essere quello del Contatto, per
45
cui i pazienti dei due gruppi mostrano una buona capacità di entrare in
Contatto, sia nella I che nella II valutazione. Nel gruppo sperimentale si
evidenzia, nella II valutazione, un miglioramento su tutti i funzionamenti:
si riducono molto le fantasie negative facilitando un aumento di quelle
positive; scompare la tristezza e l’angoscia a favore di una maggiore
serenità, aumentano i movimenti piccoli e morbidi; anche il “doverismo”,
caratteristica tipica del paziente oncologico, viene soppiantato dalla
possibilità
di
vivere
con
maggior
piacere
e
divertimento.
Due
Funzionamenti, in particolare, risultano nettamente migliorati passando da
un 100% di alterazione ad un 100% di buon funzionamento: la Rabbia,
inizialmente
difficile
da
accettare,
chiusa,
irrigidita,
si
modifica
profondamente, attraverso l’apertura e la condivisione all’interno del
gruppo, a favore di una maggiore accettazione e di una Forza calma; anche il
senso di Pesantezza e drammaticità viene totalmente sostituito da una
maggiore capacità di vivere con “Leggerezza”.
Grafico 2. Percentuale di risposte C+D (funzionamenti alterati) del
Colloquio strutturato nel gruppo sperimentale (blu) e nel gruppo di controllo
(arancio), nella I (tinta unita) e nella II valutazione (rigate). Nel gruppo
46
sperimentale
valutazione.
le
alterazioni
scompaiono
quasi
totalmente
nella
II
Per quanto riguarda la Scheda disturbi e Sintomi (Grafico 3) sono stati
considerati i sintomi maggiormente legati alle terapie seguite dalle pazienti
(nausea, vomito, dolori generalizzati, stanchezza, disturbi del sonno,
variazione del peso, modificazione della funzione intestinale). In generale,
possiamo notare che non ci sono differenze significative tra il gruppo
sperimentale e il gruppo di controllo nelle due valutazioni. Nel gruppo
sperimentale emerge che i disturbi più frequenti nella I valutazione sono i
Dolori, il senso di Stanchezza e di mancanza di energia e i Disturbi del
sonno; nella II valutazione migliora lievemente la Stanchezza e, in
particolare, i Disturbi del sonno, tuttavia, nel quadro complessivo, non vi
sono differenze rilevanti tra le due valutazioni. Nel gruppo di controllo è
evidente, nella I valutazione una presenza consistente di quasi tutti i
disturbi; nella II valutazione la situazione complessiva migliora lievemente,
ma senza variazioni significative. Questi dati vanno spiegati tenendo conto
del fatto che non c’è omogeneità nei gruppi rispetto alle terapie seguite:
tutte le pazienti erano sottoposte, nel corso delle due valutazioni, a
trattamenti differenti ed a diversi cicli, di chemioterapia, radioterapia e/o
terapia ormonale.
47
Grafico 3. Percentuale di risposte C+D (funzionamenti alterati) della Scheda
Disturbi e Sintomi nel gruppo sperimentale (blu) e nel gruppo di controllo
(arancio), nella I (tinta unita) e nella II valutazione (rigate). Considerando
la non omogeneità dei gruppi rispetto alle terapie cui le pazienti erano
sottoposte (chemioterapia, radioterapia o terapia ormonale), il grafico
mostra, sia nel gruppo sperimentale che nel gruppo di controllo, una
permanenza delle alterazioni nella II valutazione.
Riguardo la Scheda sullo stato di salute e sui vissuti sulla malattia, infine, i
risultati mostrano un aumento dei punteggi medi (3,6%) per il gruppo
sperimentale (Grafico 4), e quindi un miglioramento dello stato di salute e
dei vissuti sulla malattia. Viceversa, per il gruppo di controllo (Grafico 5), si
assiste ad una riduzione (1,5 %) di questo valore.
48
Vissuti malattia gruppo
sperimentale
100%
57,8%
54,2%
50%
0%
I valutazione
II valutazione
Grafico 16. Percentuali dei valori relativi allo Stato di salute e ai vissuti
sulla malattia del gruppo sperimentale nella I e II valutazione
Vissuti malattia gruppo di
controllo
100%
50%
0%
34,1%
35,6%
I valutazione
II valutazione
Grafico 5. Percentuali dei valori relativi allo Stato di salute e ai vissuti sulla
malattia del gruppo di controllo nella I e II valutazione
CONCLUSIONI
Questa ricerca vuole essere un piccolo contributo ad un grande lavoro. I dati
confermano che un intervento integrato può essere importante, non solo
come strumento di riduzione dello stress, ma soprattutto perché considera la
possibilità di sostenere pienamente la categoria dei pazienti oncologici; e
non solo per il numero crescente di malati, ma anche come testimonianza
della possibilità di poter lavorare, nel percorso di cura ospedaliero, anche sul
Benessere e sul recupero di funzionamenti di fondo. Funzionamenti che tutti
49
noi possediamo e che ci permettono di migliorare la qualità della vita, anche
e, soprattutto, laddove la vita è minacciata dalla malattia.
Dai risultati emergono modificazioni importanti dei funzionamenti di fondo,
che ci confermano l'utilità dell’intervento Funzionale, un intervento che dà
la possibilità ai pazienti di sfruttare al meglio le proprie risorse, vivendo
pienamente la malattia e non semplicemente accettandola.
BIBLIOGRAFIA
Andersen B.L., Yang H.C., Farrar W.B., Golden-Kreutz D.M., Emery C.F, Thornton
L.M., Young D.C., Carson W.E. (2008). Psychological intervention improves
survival for breast cancer patients. Cancer, Dec 15.
Di Nuovo S., Rispoli L. (2011). L’analisi funzionale dello stress. Dalla clinica alla
psicologia applicata. Franco Angeli, Milano.
Lutgendorf,
S.,
Costanza,
E.S.,
Siegel,
S.D.
in
Ader,
R.
(2007).
Psychoneuroimmunology, IV ed., Academic Press, Amsterdam.
Rispoli L. (1993). Psicologia Funzionale del Sé. Astrolabio, Roma.
Rispoli, L. (1999). La valutazione integrata dello Stress. Articolo non pubblicato.
Rispoli L. (2004). Esperienze di base e sviluppo del Sé. Franco Angeli, Milano.
Rispoli L. (2010). Il manifesto del Funzionalismo Moderno . S.E.F. edizioni.
Spiegel D. (2002). Effects of psychoterapy on cancer survival. Nature Reviews
Cancer, may vol. 2: 1-7
50
RELAZIONE TRA ATTACCAMENTO E COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
NELL’ETÀ DELLO SVILUPPO
di Isacco Cannas
Potessimo essere portatori di tutto lo scibile umano questo non basterebbe
per comprendere in pieno l’origine e il significato dell’aggressività umana,
un tema vecchio quanto le origini dell’uomo stesso.
Basterebbe gettare uno sguardo sulla mole degli studi intrapresi per capirne
la vastità, la complessità e l’intangibilità. Da teologi a filosofi, da biologi ad
antropologi, da psicologi a sociologi, da giuristi ad economisti, gli studi
talvolta si incontrano e talvolta si scontrano. Indice del fatto che il fenomeno
dell’aggressività può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie.
Infatti reputiamo aggressivo tanto il bambino che prende a calci un’ oggetto
o inveisce contro un compagno quanto una nazione che entra in guerra.
Si tratta evidentemente di comportamenti molto diversi tra loro, sia per la
gravità e le conseguenze che possono avere, sia per le motivazioni che li
hanno originati.
Appare quindi subito chiaro che il termine aggressività viene usato per
designare una vasta gamma di comportamenti molto diversi tra loro.
Ma se la comprensione di questo fenomeno è costellata ancora di molti punti
oscuri, per lo meno, nel corso dei secoli, siamo arrivati a definirne alcune
caratteristiche, punti di partenza su cui lavorare.
Il maggior dilemma che si sono posti gli studiosi sull’aggressività è sempre
stato quello della sua origine. Se l’aggressività è connaturata nell’uomo, sia
essa di origine diabolica, genetica o pulsionale, o se l’uomo sia come una
tabula rasa aperta alle incisioni del mondo esterno.
Partendo da un’attenta analisi etimologica notiamo che la parola
aggressività viene dal latino aggredior, quindi dalla preposizione ad, con
significato di “verso”, “contro”, “allo scopo di”, “per”, e dal verbo gradior, con
significato di “andare”, “procedere”, “avanzare”, “camminare”, “aggredire”.
51
Aggredior assume quindi sia il significato di “assalire” sia di “andare verso”,
“intraprendere”, “cominciare”, “cercare di ottenere”.1
In questo senso si può considerare l’evoluzione di un comportamento
aggressivo come un pensiero che nasce da uno spazio “interiore” e viene
spinto all’esterno a seguito di una determinata elaborazione cognitiva.
Molti autori concordano nel ritenere come condizione necessaria la presenza
della componente “intenzionalità”.
Non necessariamente, poi, questa spinta, questo “andare verso” conduce in
un comportamento vistoso.
Può, altresì, manifestarsi in forme mascherate come il sarcasmo o la critica
intellettuale aspra, in forme ritualizzate come le querele che arrivano in
tribunale o addirittura può consumarsi nelle fantasie e nei sogni, fino ad
assalire anche la propria persona, dalla patologia psicosomatica al suicidio.
L’ “altro” da “assalire” può essere rappresentato quindi da una persona, da
un'oggetto (un asta da superare in una gara di salto in alto, un “re” in una
partita di scacchi, libri o cibo da “divorare”) o da una situazione (un esame
all’università, incassi di vendite da superare).
In questo caso la manifestazione della condotta aggressiva si fa simbolo
dell'affermazione dell'Io, come fanno notare molti psicoanalisti.
Vediamo quindi come questa, per esempio, diventi importante per superare
un sentimento di inferiorità (Adler), per conseguire una certa autonomia
personale (Storr), per ricercare autostima (Fenichel) o altri vantaggi (Buss).
Ma quando questa spinta incontra una frustrazione (Reich, Dollard,
Fairbain), un trauma (De Zulueta), un abbandono (Spitz), causato
dall'ambiente esterno, che sia la società (Fromm) o il gruppo (Lewin) o i
genitori, si genera “rabbia narcisistica” (Kouth) che può assumere connotati
di distruzione.
In accordo con Bandura, come già avevano spiegato anche Sears e Miller, la
frustrazione non implica necessariamente una reazione violenta; le persone,
sostiene Bandura dopo accurate ricerche, non nascono con repertori
1
S.Bonino, G.Saglione, “Aggressività e adattamento”, Edizioni Boringhieri, Torino 1978.
52
preformati del comportamento aggressivo ma lo apprendono attraverso
processi sociali che si basano sull'osservazione e sull'imitazione di modelli.
In questo caso dispensatori di modelli comportamentali diventano la
famiglia, il gruppo sociale di appartenenza ed i mezzi di comunicazione di
massa.
Kurt Lewin, di formazione gestaltita, insiste sul potere determinante del
gruppo inteso come un tutto, e più precisamente come un “campo” entro cui
un soggetto opera. Le caratteristiche comportamentali del singolo, secondo
Lewin, si plasmano in funzione dell'assetto complessivo del gruppo. Un po'
come succede ad una carica elettrica che si muove a seconda delle
caratteristiche dinamiche del campo elettromagnetico in cui si trova. Il
diverso comportamento del gruppo poi dipende dal complessivo “clima”
relazionale in cui vi si trovano immersi i membri.
Bisogna comunque fare attenzione a non considerare l'uomo esclusivamente
in balia degli agenti esterni.
Le diverse teorie di stampo psicologico hanno considerato una sola faccia di
quella realtà poliedrica che è l’aggressività nell’uomo. Così l’etologia ha
considerato soprattutto le origini filogenetiche dell’aggressività, mentre
comportamentisti
e
psicologi
sociali
hanno
prevalentemente
volto
l’attenzione allo studio degli stimoli ambientali che possono attivare o
inibire il comportamento aggressivo. All’interno della psicoanalisi si sono
affermate concezioni diverse, che hanno studiato ora la radice innata
dell’aggressività ora l’influenza ambientale e la funzione mediatrice dell’Io.
Le differenti posizioni, pur partendo da diverse concezioni teoriche e pur
considerando aspetti differenti, sono confrontabili ed hanno punti di
contatto.
Si riconosce oggi sempre di più che il comportamento umano è il risultato
dell’interazione reciproca tra potenzialità biologiche e influenze sociali e
ambientali.
53
Anche Erikson fonda la propria analisi dello sviluppo su “quel reciproco
compenetrarsi del biologico, del culturale e dello psicologico”2 che costituisce
la base della sua teoria.
La concezione freudiana dell’aggressività è stata ampiamente criticata non
solo per il suo rigido istintivismo ma anche poiché ipotizza l’esistenza di un
impulso alla distruzione, il che libererebbe il genere umano “dalle
responsabilità personali della crudeltà e della distruttività”.3
È proprio su questa concezione essenzialmente negativa dell’aggressività
che si sono appuntate le maggiori critiche degli stessi psicoanalisti che
hanno invece riconosciuto l’aggressività come volta tendenzialmente alla
vita e alla sua conservazione (che sia individuo o gruppo sociale), e che solo
alcune condizioni e situazioni particolari la trasformano in distruttività.
Ammon, Adler, Storr, Fromm, e gli etologi vanno in tal senso.
Se la concezione freudiana ha considerato l’aggressività come una pulsione
capace di tradursi in un comportamento distruttivo, comportamentisti ed
alcuni psicoanalisti hanno commesso l’errore opposto. La loro concezione
dell’aggressività si inserisce in una visione dell’uomo alquanto riduttiva,
essendo la persona considerata un’entità inerte, plasmabile via via secondo
il gioco delle influenze ambientali.
Interpretare il comportamento umano unicamente in termini di influenza
culturale e ambientale non fa che spostare il problema. La cultura e la
società non sono forse un prodotto dell’uomo? Il ricondurre ogni spiegazione
alla cultura richiude la ricerca psicologica in un circolo vizioso, in cui si va
alternativamente dall’uomo alla cultura e dalla cultura all’uomo.
Possiamo quindi considerare l’aggressività come una pulsione innata,
radicata nell’evoluzione filogenetica che si evolve e manifesta in modi
diversi, in rapporto alle situazioni ambientali ed alle influenze socio
culturali ed alla storia personale dell’individuo.
2
Erik H. Erikson, “infanzia e società”, Armando Editore, Roma, 1988, pag.99.
F.de Zulueta , “Dal dolore alla violenza: le origini traumatiche dell’aggressività”, Cortina
Editore, Milano 1999.
3
54
Secondo Piaget “la maturazione del sistema nervoso apre semplicemente
una serie di possibilità (.....) ma senza che tali possibilità diano luogo a
un’immediata attualizzazione, fino a che le condizioni di esperienza concreta
o d’interazione sociale non comportino quest’attuazione”.4
J. P. Scott parla di un “meccanismo fisiologico che deve solo essere stimolato
per produrre un comportamento aggressivo” .5
Spiegare però il comportamento aggressivo unicamente in termini
neurofisiologici sarebbe alquanto riduttivo. Le ricerche sulla stimolazione
elettrica del cervello e sulla rimozione di alcune aree cerebrali si limitano in
realtà a considerare gli aspetti emotivi dell’aggressività, quali l’ira, la
rabbia, la collera. Ma l’aggressività umana non si limita, nemmeno nel
bambino, a queste emozioni. Non si constatano variazioni fisiologiche tipiche
dell’ira nell’uomo che sgancia da un aereo una bomba all’idrogeno su un
paese “nemico”; eppure si tratta di un atto aggressivo e distruttivo,
tipicamente umano.
L’aggressività può quindi costituire una delle componenti di base della
persona, allo scopo di permetterle un rapporto più adattivo con la realtà.
Questa aggressività, presente fin dalla nascita (se non prima, nei movimenti
fetali), consente al bambino di conquistarsi il suo spazio nell’ambiente.
Ambiente che, allo stesso tempo, sarà determinante nella modulazione del
comportamento del bambino, creando così un circolo azione-reazione che
accompagnerà il neonato nel suo processo di crescita.
I punti
d'incontro delle diverse
teorie
sull'aggressività,
da
quelle
psicoanalitiche a quelle comportamentiste sono resi più evidenti alla luce
delle teorie sull'attaccamento.
Queste ci insegnano come fin dalla nascita, o meglio fin dalla gravidanza, il
“piccolo uomo” sia legato al mondo esterno.
Il primo legame è con la figura materna, sia fisicamente tramite la placenta,
sia sopratutto attraverso una rete di sensazioni e di emozioni che il piccolo si
4
5
J.Piaget, “Lo sviluppo mentale del bambino”, Einaudi, Torino, 1967, p.123.
J.P.Scott, “Aggressività", Giunti Barbera, Firenze, 1974, p.74.
55
scambia con la madre, dalle prime fantasie al primo abbraccio, tra il dare e
il ricevere protezione e amore.
Successivamente entreranno in queste dinamiche altre figure significative, a
partire dal padre, in un percorso che non è unilaterale ma che si basa su un
reciproco scambio, su un reciproco alternarsi ed influenzarsi.
È in questa interdipendenza che l’aggressività, vista come potenziale che
permette l’adattamento, la propria affermazione ed autonomia, si traduce e
si plasma, anche alla luce del successivo sviluppo psico-fisico del bambino, in
una molteplicità di comportamenti, compreso quello violento e distruttivo.
Greenberg, Speltz, e De Kleyn (1993) hanno elaborato un modello che pone
quattro fattori all’origine dei disturbi del comportamento aggressivo nel
bambino6:
- le caratteristiche individuali come il temperamento del bambino o
eventuali problemi neurologici,
- la presenza di fattori di stress all’interno e all’esterno della famiglia quali
la presenza di nonni o di altre figure, le condizioni socio-economiche,
patologie psichiatriche, condizioni di alcolismo o tossicodipendenza in
famiglia, il particolare contesto storico-culturale in cui vi si trova immersa, i
mass-media, la scuola, ecc...
- Il tipo di disciplina, ossia gli stili educativi parentali, tra autorità e
permissivismo,
- la relazione di attaccamento
Tutte queste condizioni e molte altre saranno per il bambino ostacolo o
vantaggio nel suo processo di crescita.
In questo contesto ho voluto dare importanza primaria alla relazione di
attaccamento tra il bambino e le figure che si prendono cura di lui. Per due
motivi principali:
Innanzitutto l’attaccamento permette ciò che l’ambiente non può fare, e cioè
creare un dialogo tra due mondi affettivi.
6
Greenberg M.T., Speltz M.L. and DeKlyen M. (1993) “The role of attachment in the early
development of disruptive behavior problems”. Development and Psychopathology 5, pp. 191-213.
56
Un dialogo “interno”, dapprima nel ventre materno, in cui le più svariate
emozioni, frutto delle esperienze della madre, possono scatenare alterazioni
nell’equilibrio placentare che verranno “percepite” dal futuro nascituro.
In seguito, alla nascita, questo dialogo continuerà tramite una serie di
comportamenti non verbali (sguardi, piccoli gesti, tono e ritmo della voce…)e
con tutto ciò che possono percepire i cinque sensi.
A seconda del tipo di atteggiamento dei genitori e sulla base delle emozioni
provate, il neonato modellerà il proprio comportamento, permettendo una
certa intesa nel dialogo.
Qui spetterà alle figure genitoriali sperimentare la comunicazione più
efficace per accompagnare il bambino nel suo adattamento all’ambiente
esterno.
Ciò ci fa comprendere l'altro importante motivo per cui la relazione
d’attaccamento è di primaria importanza: le figure che si prendono cura di
lui sono esse stesse “portatrici” (“sane” o “malate” ) dell’ambiente che
circonderà il bambino e al tempo stesso fungono da “medici”.
Saranno loro ad “accompagnare” il bambino, con tutto il suo bagaglio
temperamentale, attraverso l’ambiente (“malato” o no che sia).
In questo percorso di crescita, e quindi di regolazione dell’aggressività,
prenderanno vita i comportamenti del bambino che, se ben “accompagnato”,
potrà superare gli ostacoli che si presenteranno, per un buon adattamento
all’ambiente.
Secondo Bolwlby l'attaccamento nasce come manifestazione pulsionale, ma
si sviluppa in seguito come fenomeno interazionale.
I
primi
comportamenti
istintuali
danno
moto
alle
dinamiche
di
attaccamento. In seguito, attraverso l'interiorizzazione dei sentimenti e
delle modalità affettive delle figure genitoriali, si organizzano i primi
modelli operativi interni, fondati sui processi mentali di attenzione,
percezione e memoria.
Fonagy, poi,
spiega che una buona interpretazione dei bisogni e delle
intenzioni del bambino e una comunicazione comprensibile dei propri
57
processi mentali sono fondamentali per lo sviluppo di un “Sé riflessivo”,
importante per cogliere il proprio e l'altrui stato mentale.
Potremmo ipotizzare che una mancata strutturazione del “Sé riflessivo”
potrebbe porsi alla base del processo di “disimpegno morale”, delineato da
Bandura, che tiene al riparo dal senso di colpa che procurerebbe la condotta
aggressiva.
Un attaccamento insicuro o disorganizzato o una comunicazione inefficace o
distorta diventeranno causa di sviluppo di future forme adattive,
comportamentali e relazionali, distorte.
Si potrebbe così generare una condotta aggressiva che, a seconda delle
situazioni, il bambino riverserà al proprio interno, dando vita a svariati
disturbi psichici, o all’esterno, laddove più lo scontro con una situazione
imprevista, o difficile, è forte, più prenderà vita un comportamento
distruttivo (subdolo o manifesto).
Molti studi hanno dimostrato come in molti ragazzi, che hanno avuto un
attaccamento di tipo insicuro, vi sia una prevalenza di ostilità e difficoltà a
gestire la rabbia.
Zimmermann e Grossmann7 rilevano, in una serie di ricerche, una scarsa
capacità di regolazione degli affetti, con l’utilizzo particolare di emozioni
negative e dell’aggressività, da parte di bambini classificati evitanti all’età
di dodici mesi con la Strange Situation.
L’attaccamento disorganizzato è invece caratterizzato da modelli operativi
frammentari e reciprocamente incompatibili, anche definiti da Bowlby come
multipli. Ciò può costituire un importante fattore di rischio, in età adulta, di
psicopatologie che implicano processi ed esperienze di dissociazione, come i
disturbi borderline e dissociativi, sopratutto se determinato da traumi
psicologici nel corso dello sviluppo (Liotti, 2001).8
Nella relazione di attaccamento entrano quindi in gioco svariati fattori.
7
P.Zimmermann, K.E.Grossmann, (1994). “Attaccamento, emozioni e comportamento
aggressivo”, Età Evolutiva, 47.
8
G.Liotti, “Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivoevoluzionista”,
Cortina Raffaello Editore, Milano, 2001.
58
Vulnerabilità, esplorazione, adattamento, autonomia, protezione, sono
espressi attraverso quattro livelli: comportamentale (non verbale), cognitivo
(verbale), emotivo-affettivo e simbolico ( legato a esperienze e cultura). La
loro interazione sarà determinante nell’indirizzare lo sviluppo del bambino
verso percorsi adattivi o verso manifestazioni patologiche.
Caregiver incoerenti, con traumi irrisolti, ipercontrollanti o evitanti danno
moto a determinati meccanismi cognitivi e affettivi che possono provocare
nel bambino manifestazioni di attaccamento insicuro o disorganizzato.
Bowlby
spiega
il
comportamento
atteggiamento di protesta per
aggressivo
del
bambino
come
situazioni di deprivazione, separazione o
perdita delle figure di attaccamento.
L'angoscia e la “collera” che si vengono a creare in situazioni del genere,
quando non trovano libero sfogo verso le figure scatenanti, può finire col
dirigersi verso altre persone, oggetti o eventi, attraverso un'ampia gamma di
comportamenti, compreso quello distruttivo.
Assume quindi grande importanza, durante la gravidanza, il sostegno
psicologico ai genitori. Accompagnare e sostenere una coppia, per la sua
futura relazione con un neonato, soprattutto in questa società, piena di
incertezze, diventa indispensabile per rompere quel circolo vizioso di
esperienze negative che si trasmettono da una generazione all’altra.
Una
qualità
della
relazione
costellata
di
attenzione,
sensibilità,
soddisfazione reciproca e amore diventa quindi la base per un futuro
equilibrio con l’ambiente.
Nota Bowlby: “Fare il genitore con successo è una chiave di volta per la
salute mentale delle nuove generazioni; abbiamo bisogno di sapere tutto il
possibile riguardo alle molteplici condizioni sociali e psicologiche che
influenzano in senso positivo o negativo lo sviluppo di tale processo ”.
E ancora: “ la caratteristica più importante dell’essere genitori è quella di
fornire una base sicura da cui il bambino o l’adolescente possa partire per
affacciarsi al mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che
sarà benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste,
59
rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere
disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e
dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente
necessario”.
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Englewood Cliffs, New Jersey, 1973.
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60
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61
DIPENDENZA DA CIBO,
DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE E OBESITÀ:
UNA REVIEW DELLA LETTERATURA INTERNAZIONALE
di Eleonora Sirsi
Introduzione
L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive il concetto di
dipendenza patologica o di sindrome della dipendenza come “quella
condizione psichica e talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un
organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte
comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno
compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo
scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della
sua privazione” (Pigatto, 2003).
In modo simile, l’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei
disturbi mentali (DSM-IV-TR, 2001) dà una definizione di dipendenza che
prende in considerazione esclusivamente la dipendenza da sostanze
psicoattive, mettendo in evidenza i sintomi cognitivi, comportamentali e
fisiologici dovuti alla modalità d’uso patologica delle diverse sostanze.
Negli ultimi anni, la nozione di dipendenza, da un punto di vista clinico,
include anche quadri sintomatologici in cui l’oggetto stesso della dipendenza
non è una sostanza chimica, bensì comportamenti o attività più o meno
accettati (in qualche caso addirittura promossi) dalla società moderna.
Recentemente si sono diffuse dipendenze da attività legali e diversi autori
hanno coniato nuove definizioni, quali technological addictions (Griffiths,
1995) e dipendenze da comportamenti (Rigliano, 1998). Esse non possono
essere inserite nel DSM-IV-TR sotto la categoria diagnostica dei disturbi da
62
abuso di sostanze, perché ciò che viene abusato non è più una sostanza
chimica, ma un comportamento o un’attività, così vengono definite con il
generico termine di “Nuove Dipendenze” o “New Addictions” (Caforio, 1999).
Alonso-Fernandez
(1999)
sostiene
che
sia
possibile
distinguere
le
dipendenze sociali (ad esempio attività quali mangiare, giocare, lavorare) o
legali (sostanze quali tabacco, caffè, alcol), da quelle antisociali o illegali (che
invece fanno riferimento alle classiche dipendenze da sostanze quali
cocaina, oppiacei…). L’autore sostiene che nella prima categoria, le nuove
forme di dipendenza senza droga sono agevolate dall’innovazione tecnologica
e dalla nuova civiltà che, da una parte genera stress, vuoto e noia, e
dall’altra stimola la tendenza all’immediata gratificazione, fornendo sempre
gli strumenti appropriati.
Mulè (2008) con il termine “nuove dipendenze” definisce un gruppo di
disturbi eterogenei che implicano un coinvolgimento in una abitudine
ripetitiva e persistente, tesa a modificare lo stato di coscienza dell’individuo,
e che a lungo termine comportano una compromissione significativa della
sfera lavorativa, affettivo-relazionale e sociale del soggetto.
Questo lavoro si concentra sulla dipendenza da cibo, o food addiction, ossia
una condizione in cui una persona desidera il cibo in maniera continua e
intensa, ma di fatto non rimane gratificata dal pasto, anzi un residuo umore
negativo rappresenta la regola post-prandiale: il cibo per queste persone è
considerato gratificante per la propria vita, ma nel contempo rappresenta
un pensiero ossessivo da rimuovere. In particolare, verrà indagato il
rapporto tra la dipendenza da cibo e altri disturbi mentali, come classificati
dal DSM-IV-TR, cioè i disturbi correlati a sostanze e i disturbi
dell’alimentazione.
La dipendenza da cibo risulta essere a cavallo tra i due tipi di dipendenze
evidenziati sopra, in quanto è possibile considerare il cibo come una
63
sostanza, in quanto viene ingerita e provoca delle modificazioni a livello
corporeo, ma non è illegale e non dà, in quantità adeguate, nessuna
complicanza fisica, anzi è necessaria alla sopravvivenza.
Che cos’è la dipendenza da cibo?
Il concetto di dipendenza da cibo ha recentemente guadagnato attenzione
sia da parte dei media che della letteratura scientifica. La dipendenza da
cibo è implicata nel craving (termine solitamente utilizzato per indicare una
forte pulsione soggettiva ad utilizzare una sostanza), nelle abbuffate e
nell’obesità. È dunque un concetto pervasivo.
Tuttavia, secondo Corwin e Grigson (2009) il concetto di dipendenza da cibo
è tutt’oggi controverso. Nonostante la massiccia presenza di reports
aneddotici, pochi studi hanno tentato di determinare la capacità di creare
dipendenza del cibo usando rigorosi criteri scientifici.
Secondo le autrici, uno dei problemi principali risulta essere il fatto che il
cibo è necessario alla sopravvivenza di tutti gli esseri umani. Dunque risulta
difficile definire il cibo (in un’accezione negativa) come qualcosa che crea
dipendenza, dal momento che la vita dipende dal cibo (in modo positivo e
sano). Allo stesso modo, Gearhardt e colleghi (2012) evidenziano che il
concetto di dipendenza da cibo rappresenta un tema controverso in quanto,
il cibo, diversamente dalle droghe (per le quali il termine dipendenza è
assolutamente adeguato), è richiesto per la sopravvivenza. In quest’ottica,
risulta non solo difficoltoso, ma anche rischioso, definire dei criteri per
distinguere un “uso” sano del cibo da uno disfunzionale.
È necessario, per avere una visione più completa della situazione, riportare
la distinzione che, nella lingua inglese, esiste tra i termini dependence e
addiction (Maddux e Desmond, 2000): il primo indica la dipendenza fisica e
chimica, il secondo prende in considerazione come ogni aspetto della vita del
64
soggetto risulti danneggiato dal fatto di avere una dipendenza. Dunque,
proprio per il fatto di poter sviluppare una dipendenza nei confronti di
un’attività, e non solo di una sostanza, è chiaro che in alcuni casi si possa
parlare di addiction senza dependence e vice versa (Shaffer, 1996).
Come sostenuto da Gearhardt e colleghi (2012), le difficoltà sopra esposte
sono rese evidenti dalla mancanza di una definizione largamente accettata
di “dipendenza da cibo”. Infatti, ad oggi, non esiste una definizione univoca e
condivisa di food addiction, sebbene sia possibile rintracciare delle proposte
valide.
Gold e colleghi (2004) definiscono la dipendenza da cibo come un problema
cronico e tendente alla ricaduta causato da vari fattori che incoraggiano il
craving per il cibo per ottenere uno stato di grande piacere, energia o
eccitazione.
Gearhardt e colleghi (2011, 2012) hanno proposto di utilizzare i criteri
diagnostici per la dipendenza da sostanze così come descritti nel DSM-IV-TR
ed applicarli al comportamento alimentare. Da questa idea è così nata la
Yale Food Addiction Scale (YFAS) (Gearhardt et al., 2009) come tentativo di
operazionalizzare il concetto di dipendenza da cibo.
Gearhardt e colleghi difendono la scelta di utilizzare i criteri diagnostici
della dipendenza da sostanze per la food addiction sulla base del crescente
numero di ricerche che lega l’eccessivo consumo di cibo con la dipendenza.
Gli autori mettono in evidenza la comune attivazione dei sistemi della
dopamina e degli oppioidi sia grazie all’assunzione di cibo che all’uso di
droghe.
Per quanto riguarda gli studi sugli essere umani, Wang e colleghi (2010)
hanno messo in evidenza che il cibo e l’uso di droga producono lo stessi
risultato a livello cerebrale, ossia un rilascio di dopamina nelle regioni
65
mesolimbiche. La quantità di dopamina rilasciata correla con il grado di
percezione soggettiva di ricompensa proveniente dal cibo o dalla droga.
Inoltre, Wang e colleghi (2001), grazie a studi condotti tramite PET per
immagini, hanno trovato che un numero ridotto di recettori D2 per la
dopamina è associato sia a obesità che a abuso di droghe, identificando così
una potenziale base neurochimica comune per la tolleranza in questi due
gruppi di persone (necessità di maggiore sostanza/cibo per avere l’effetto
desiderato).
Gearhardt e colleghi (2011) hanno osservato che pattern simili di
attivazione neurale sono implicati nella dipendenza alimentare e nella
dipendenza da sostanze: in particolare si nota un’elevata attivazione delle
regioni della ricompensa in risposta a stimoli scatenanti riguardanti il cibo e
allo stesso tempo un’attivazione ridotta delle regioni deputate all’inibizione
del craving in risposta all’assunzione di cibo.
Infine, Gearhardt e colleghi (2009) hanno evidenziato come molti degli
indicatori comportamentali di dipendenza sembrano essere comuni anche
nei comportamenti alimentari problematici, come ad esempio la perdita di
controllo, l’uso continuato nonostante le conseguenze negative e l’incapacità
di ridurre o eliminare l’uso problematico.
Gli studi sugli animali prendono in considerazione non solo gli indicatori
biologici, ma anche quelli comportamentali della dipendenza da cibo.
In primo luogo, Avena, Rada e Hoebel (2008) hanno scoperto che cavie a cui
era stato dato libero accesso a zuccheri, grassi o cibo raffinato mostravano
alterati meccanismi neurali collegati alla ricompensa che sono solitamente
implicati nelle dipendenze.
Johnson e Kenny (2010) hanno inoltre dimostrato che queste cavie
mostravano segni di dipendenza quali tolleranza, astinenza, abbuffate e
66
continuavano a nutrirsi di questi cibi nonostante fossero collegati a
conseguenze negative (ad esempio, scosse elettriche).
Altri studi (Colantuoni et al., 2005, Wideman et al., 2005) hanno trovato che
quando l’accesso agli zuccheri era limitato agli animali con una dieta con
molti zuccheri, la temperatura del corpo si abbassava e si evidenziavano
cambiamenti comportamentali tipicamente associati con l’astinenza, come
movimenti nervosi e agitati.
Gearhardt e colleghi (2009) analizzano tutti i criteri diagnostici per la
dipendenza da sostanze mettendoli in relazione al cibo e valutando a che
punto si trova la ricerca internazionale a proposito di questo specifico
argomento. Da questa revisione è messo in evidenza che sono necessari
molti altri studi sul potere che il cibo ha di dare dipendenza, in quanto solo
recentemente la letteratura si è interessata a questo argomento e solo alcuni
cibi sono oggetto di studio (gli zuccheri). Sono stati riportati fenomeni di
tolleranza e astinenza per dolci ad alto contenuto di grassi. Il criterio per cui
molto tempo sarebbe speso per ottenere, usare e riprendersi dall’eccessivo
consumo di cibo potrebbe non sembrare rilevante (tuttavia è necessario
sottolineare la grande quantità di tempo che le persone spendono per le
diete, per comprare cibi dietetici e per preoccuparsi del loro peso. Inoltre
persone con bulimia nervosa o disturbo da alimentazione incontrollata, nelle
quali la dipendenza da cibo è una delle caratteristiche fondamentali,
passano molto tempo a fare i conti con le conseguenze fisiche e soprattutto
psicologiche dell’eccessivo consumo di cibo). Un criterio della dipendenza da
sostanze che sembra andare controcorrente rispetto alla dipendenza da cibo
è quello relativo al grado con cui importanti attività sono abbandonate a
causa dell’iperalimentazione, alla luce della natura “sociale” e altamente
accessibile del cibo. È necessario però evidenziare che, soprattutto in alcune
malattie, l’eccessiva alimentazione può portare a nascondersi e a isolarsi,
67
rinunciando così a molti aspetti della propria vita. Ci sono prove evidenti del
fatto che alcune persone perdono il controllo sul loro consumo di cibo,
desiderano e tentano ripetutamente e infruttuosamente di ridurre o
controllare l’uso del cibo e sono incapaci di astenersi da alcuni tipi di cibi o
di ridurne l’uso a fronte delle conseguenze negative. Queste ultime
considerazioni sostengono l’ipotesi per la quale il cibo possa rappresentare
una sostanza in grado di dare dipendenza e sottolineano ancora una volta la
necessità di ulteriori ricerche in merito.
Ifland e colleghi (2009) hanno proposto una definizione simile a quella di
Gearhardt e colleghi, in quanto vengono presi in considerazione i criteri per
la dipendenza da sostanze secondo il DSM-IV-TR e applicati alla dipendenza
da cibo. Tuttavia, gli autori avanzano l’ipotesi che cibi molto raffinati con
alte concentrazioni di zuccheri, dolcificanti, carboidrati complessi, grassi,
sale e caffeina siano effettivamente sostanze in grado di dare dipendenza e
dunque alcune persone possano perdere il controllo sulla loro capacità di
regolare l’assunzione di tali sostanze.
Quali cibi danno dipendenza?
Alla luce dei dati sopra indicati, il cibo può essere considerato a tutti gli
effetti una sostanza che dà dipendenza. A questo punto sembra necessario
indagare in modo più approfondito se e quali cibi siano in grado di indurre
questo stato in modo più incisivo e, in particolare, quali componenti di esso
abbiano un maggiore effetto.
Anche secondo il senso comune, è possibile rintracciare alcuni cibi
maggiormente in grado di indurre dipendenza rispetto ad altri, ad esempio
cioccolata e dolci molto appetibili.
Gearhardt e colleghi (2009) evidenziano che la ricerca si è focalizzata fino ad
oggi su un nutriente in particolare, cioè lo zucchero, e dunque la naturale
68
prosecuzione di questi studi dovrebbe essere la categoria dei grassi. Una
categoria di sostanze che vale la pena studiare sembra essere quella degli
aromi e dei conservanti, ossia quelle sostanze che l’industria alimentare
chiama “esaltatori di sapidità”. Gli autori mettono in evidenza che cibi molto
saporiti ricchi di grassi, zuccheri e/o sale, potrebbero avere una maggiore
capacità di dare dipendenza rispetto a cibi più tradizionali, come la frutta, la
verdura, la carne magra.
Avena e Gold (2011) sottolineano che, sulla base di studi sul comportamento
alimentare, è noto che nutrienti diversi possono avere effetti su specifici
sistemi di neuropeptidi e di neurotrasmettitori del cervello. Inoltre, studi
pre-clinici suggeriscono che introdurre zuccheri in eccesso produca
comportamenti simil-dipendenti diversi rispetto all’assunzione eccessiva di
grassi. Infine, c’è una specificità legata ai nutrienti nell’effetto che alcuni
trattamenti farmacologici hanno sulla riduzione dell’iperfagia.
Tuttavia, Pelchat (2009) evidenzia che, sebbene l’appetibilità dei cibi
incrementi la loro introduzione nel breve termine, non è sicuro che questa lo
faccia anche nel lungo termine. Infatti, alcuni studi evidenziano che il
trattamento con naltrexone (farmaco che riduce l’appetibilità dei cibi senza
ridurre la fame) non è associato con una maggiore perdita di peso (Mitchell
et al., 1987). Inoltre, soggetti sottoposti ad una dieta monotona hanno
dimostrato di imparare a desiderare fortemente (craving) un cibo non molto
appetibile come supplemento alla dieta (Pelchat et al., 2000). Dunque,
secondo questi studi, non è indispensabile che il cibo sia iper-appetibile
perché si sviluppi il craving, ma questo può essere frutto di un
apprendimento.
69
Qual è la relazione tra dipendenza da cibo e disturbi dell’alimentazione?
I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati, secondo il DSM-IV-TR,
dalla presenza di grossolane alterazioni del comportamento alimentare e
comprendono l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN).
L’obesità, inclusa nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD10) tra le condizioni mediche generali, non compare nella classificazione del
DSM-IV-TR, poiché non è stata accertata l’associazione costante con alcuna
sindrome psicologica o comportamentale.
Il disturbo da alimentazione incontrollata (BED o DAI) non risulta incluso
nel DSM-IV-TR, se non nella categoria dei Criteri e Assi utilizzabili per
ulteriori studi. Attualmente, sembra verosimile che questo disturbo sarà
inserito nel DSM-V.
Per i fini di questo lavoro, i disturbi che verranno presi in considerazione
saranno la bulimia nervosa, l’obesità e il disturbo da alimentazione
incontrollata.
La bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate,
seguiti dall’adozione di mezzi inappropriati per controllare il peso, come il
vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici, il digiuno. Questi
comportamenti iperfagici con condotte compensatorie si verificano in media
almeno 2 volte alla settimana per tre mesi. Infine, il livello di autostima
della persona è indebitamente influenzato dalla forma e dal peso corporei. Il
DSM-IV-TR propone una suddivisione in due sottocategorie del disturbo
bulimico. La prima presenta la messa in atto di condotte di svuotamento,
mentre la seconda le sostituisce con altri comportamenti compensatori
inappropriati, quali il digiuno o l’eccessivo esercizio fisico.
La bulimia non esordisce soltanto in soggetti normopeso, ma anche in quelli
sottopeso, come conseguenza di una fase anoressica, oppure in persone
70
sovrappeso ed obese, a seguito di un periodo di restrizioni alimentari (ipotesi
della restrizione).
L’obesità è un disturbo dall’eziopatogenesi complessa, che consiste in
un’alterazione della composizione del corpo, caratterizzata da eccesso di
grasso, con conseguente peggioramento della qualità della vita e sviluppo di
complicazioni che possono condurre alla morte (Scopinaro, 2000). Gli indici
che la medicina moderna utilizza per classificare questa patologia sono
l’eccesso ponderale e l’indice di massa corporea.
L’eccesso ponderale è un concetto importante perché serve a stabilire oltre
quali limiti un eccesso di peso risulta patologico. Tali limiti sono fissati in
relazione ad un peso ideale. Quest’ultimo è un’entità statistica, specifica per
i due sessi e per ogni statura, a cui corrisponde la minore mortalità, rilevata
nelle casistiche delle grandi compagnie assicurative americane.
Un altro indice di facile utilizzo è il Body Mass Index (BMI), cioè l’indice di
massa corporea, ottenuto dal rapporto tra peso espresso in kg e altezza
espressa in metri quadrati. Per stabilire quale sia il limite oltre il quale si
può parlare di sovrappeso grave, quindi di patologia, si deve far riferimento
ad un abbassamento notevole della qualità e della durata della vita. Le
statistiche sembrano concordi nello stabilire che il suddetto limite sia
coincidente con un indice di massa corporea equivalente a 30 kg/m2.
Il disturbo da alimentazione incontrollata è caratterizzato da ricorrenti
episodi di alimentazione impulsiva, associata con indicatori soggettivi e
comportamentali di perdita di controllo (abbuffata). Questi episodi sono poi
accompagnanti da almeno tre dei seguenti sintomi: mangiare molto più
rapidamente del normale, mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieni,
mangiare grandi quantitativi di cibo, anche se non ci si sente fisicamente
affamati, sentirsi disgustati verso se stessi, depressi o molto in colpa dopo le
71
abbuffate. Tale comportamento incontrollato deve manifestarsi per almeno
due giorni a settimana in un periodo di sei mesi.
Il binge eating disorder (BED) è ritenuto da Cuzzolaro (2004) un disturbo
trasversale ai disturbi
alimentari elencati sopra: obesità, anoressia e
bulimia. Si caratterizza, infatti, per la presenza di un comportamento
iperfagico, tipico anche di alcuni tipi di anoressia e della bulimia. Tuttavia,
mentre in queste ultime l’episodio di abbuffata è seguito da condotte di
svuotamento improprie, nel BED ciò non accade e neppure nel caso di
obesità. Inoltre, la presenza di sovrappeso, rende il BED più affine
all’obesità che agli altri disturbi.
Come messo in evidenza da Umberg e colleghi (2012), la bulimia nervosa
presenta un’elevata comorbilità con l’abuso di droghe e può essere
considerata essa stessa un disturbo da dipendenza da sostanze, in quanto
potenzialmente soddisfa tutti e 7 i criteri del DSM-IV-TR per questo
disturbo. In particolare gli autori sostengono che lo specifico pattern
alimentare della bulimia (cioè abbuffate con condotte compensatorie) sia in
grado di dare dipendenza secondo diverse modalità.
In primo luogo, l’assunzione di cibo fa sì che sia rilasciata dopamina, in
particolar modo nel nucleus accumbens. Inoltre, maggiore è la dolcezza del
cibo e maggiore è la quantità di dopamina rilasciata. Dunque, dal momento
che persone bulimiche sembrano essere più responsive ai sapori dolci e dato
che i cibi dolci sono più rinforzanti, gli individui con bulimia nervosa
sarebbero più predisposti ad abbuffarsi di questi cibi e, in ultima analisi, ad
essere dipendenti da questi cibi. Inoltre, anche le condotte compensatorie
potrebbero rinforzare il comportamento bulimico, dando dipendenza. Nello
specifico, il vomito incrementa in modo acuto il rilascio di oppioidi endogeni
nelle persone bulimiche, rinforzando così questo comportamento.
72
In secondo luogo, nella bulimia si nota lo sviluppo di tolleranza dopo qualche
tempo dall’inizio del disturbo, così che dosi sempre maggiori di cibo sono
introdotte, in particolar modo dolci, forse per una ridotta sensibilità ai
sapori dolci. Ciò contribuisce a mantenere la dipendenza da questi cibi.
Si evidenziano inoltre sintomi fisici e psicologici di astinenza nelle persone
bulimiche che tentano di ridurre l’uso di cibo, che potrebbero essere una
valida spiegazione delle frequenti ricadute durante il trattamento di questo
disturbo.
La relazione tra obesità/BED e dipendenza da cibo sembra seguire un
percorso simile. Come detto sopra, il binge eating disorder e l’obesità
presentano tratti molto simili tra loro ed hanno in comune con la bulimia
nervosa la presenza di abbuffate, la perdita di controllo e, in alcuni casi, il
sovrappeso. Gearhardt e colleghi (2012), attraverso uno studio condotto con
uno strumento di loro creazione, la Yale Food Addiction Scale, hanno messo
in evidenza che dipendenza da cibo, come da loro definita, e BED sono
costrutti altamente correlati, ma non si sovrappongono tra loro, in quanto
alcune persone possono presentare una diagnosi, ma non l’altra. Gli autori
sostengono inoltre che la dipendenza da cibo in pazienti obesi con BED
potrebbe essere associata con una frequenza più alta di abbuffate a causa
della necessità di fare i conti con emozioni negative e bassa autostima (che
si sono dimostrate molto frequenti in questi pazienti), piuttosto che come
risultato di una dieta troppo restrittiva (ipotesi della restrizione). Questo
risultato potrebbe essere molto importante per comprendere meglio anche la
bulimia nervosa.
Da quanto detto fino ad ora, è possibile sostenere che i concetti di bulimia
nervosa, obesità, disturbo da alimentazione incontrollata e dipendenza da
cibo risultano essere separati gli uni dagli altri, ma spesso si sovrappongono.
La dipendenza da cibo sembra essere una componente fondamentale di tutti
73
questi disturbi, sia essa vista come apprendimento (cibo → rilascio di
dopamina → piacere), come modalità di far fronte a emozioni negative
(stress, dolore, noia sono attutiti dal cibo, che viene utilizzato come un
calmante o un antidepressivo), o come condizionamento da parte della
società (che da una parte spinge ad essere perfetti e dall’altra a non faticare
per raggiungere gli obiettivi, mettendo tutto alla portata di molti). Tuttavia,
essa sembra esplicarsi in modo diverso a seconda della condizione in cui si
presenta: si può essere dipendenti dal cibo facendo abbuffate come nel BED
e nella BN. Si può mangiare “poco”, ma continuamente per tutta la giornata,
come in alcune persone obese. Si può essere dipendenti da alcuni cibi in
particolare, ma non mostrare alcun interesse per altri. Infine, si può essere
dipendenti dal cibo, ma essere, per dirla alla maniera del DSM-IV-TR,
sottosoglia, ossia non soddisfare i criteri per nessun disturbo, pur
presentando alcuni sintomi.
Evidentemente esistono dei meccanismi cerebrali per cui si può sviluppare
una dipendenza dal cibo, anche per il fatto che il corpo umano permette
l’eccessivo introito di cibo con una certa facilità, ma non sostiene altrettanto
facilmente un ridotto apporto di cibo, perlomeno nel breve termine. Questa
osservazione può essere spiegata dal fatto che il corpo umano, nel corso
dell’evoluzione della specie, ha sviluppato dei meccanismi per difendersi
dalla perdita di peso e, possibilmente, dalla morte. Ad esempio, come
evidenziato da Dalle Grave (2002), più scarse sono la quantità di cibo e le
calorie che vengono fornite all’organismo e più esso si adatta consumando il
meno possibile e conservando energia. Inoltre, in assenza o scarsità di cibo, i
meccanismi di controllo della fame e della sazietà sono alterati, spingendo la
persona a mangiare di più. Invece, un maggiore introito di cibo è sostenuto
dal corpo senza problemi, in vista anche di periodi di carestia nei quali del
“grasso” in più può essere necessario alla sopravvivenza. Tuttavia, mentre il
74
corpo umano pensa in termini “antichi” dal punto di vista evolutivo, le
persone vivono e pensano nel presente. Oggi, diversamente dalla preistoria o
anche solo da 100 anni fa, sono disponibili cibi ipercalorici, molto appetibili e
poco costosi che attivano processi sia biologici che psicologici particolari.
Questi cibi, in particolare per la dipendenza da cibo, ma anche per gli altri
disturbi sopra evidenziati, creano una vera e propria dipendenza in quanto
seguono il tipico percorso delle dipendenze di abbuffata, astinenza, craving.
Conclusioni
La dipendenza da cibo è un concetto che necessita di approfondimenti per
alcuni motivi.
In primo luogo, da quanto emerge dalla letteratura internazionale, sembra
che questa condizione segua lo stesso percorso biologico e comportamentale
delle principali dipendenze da sostanze, quali tabacco, droghe illegali, alcol.
Da questo punto di vista, la comprensione più profonda di tutti i meccanismi
alla base di questa nuova dipendenza potrebbe far sì che il suo trattamento
segua le orme di quelli, ormai ben validati, delle dipendenze classiche. In
particolar modo, come evidenziato da Gearhardt e colleghi (2009), l’interesse
per la dipendenza da cibo dovrebbe seguire quello mostrato per il tabacco.
Esaminando la cultura americana, è possibile osservare che l’alcolismo è
visto come una malattia. Questo modello in parte riduce lo stigma sociale
associato all’alcolismo, togliendo la colpa dalla persona singola, ma in parte
riduce anche le responsabilità delle industrie degli alcolici. Infatti, l’alcol è
visto come qualcosa che tutti possono usare con moderazione e che
rappresenta un problema solo per pochi individui ed è su questi che ci si
dovrebbe
concentrare,
tralasciando
75
del
tutto
la
parte
relativa
all’informazione e alla prevenzione. Per quanto riguarda il tabacco, invece,
esso è visto come una sostanza che porta alla dipendenza per tutte quelle
persone che ne fanno uso. Questa diversa visione ha portato a significativi
cambiamenti nel modo di pubblicizzare e utilizzare la nicotina, tanto da far
ridurre i livelli di fumo e da portare avanti un’adeguata campagna di
prevenzione. Per questo motivo, il trattamento della dipendenza da cibo
dovrebbe ricalcare i passi di quello per il fumo e iniziare da un’adeguata
educazione alimentare e psicologica, continuare con una buona campagna di
prevenzione e, in ultima analisi, pervenire ad un trattamento vero e proprio
nei casi dove si riveli necessario.
In secondo luogo, secondo fonti nazionali e internazionali (World Watch
Institute, ISTAT, Ministero della Salute) sostengono che:

1 miliardo e 200 milioni di persone in tutto il mondo hanno problemi
di peso,

L’obesità è un’epidemia globale perché interessa oltre il 50% della
popolazione adulta delle civiltà industrializzate,

23 miliardi di dollari è la spesa sanitaria annua per i soggetti con
BMI > 29, 6 miliardi per i normopeso,

l’obesità è una malattia riconducibile per il 50% a fattori genetici e
per il 50% a fattori ambientali.
Per questi motivi, l’obesità non è solo un problema della persona, ma
diventa una questione che coinvolge l’intera società, sia per quanto riguarda
il benessere generale che la spesa pubblica. Dal momento che la dipendenza
da cibo risulta associata con l’obesità, sembra necessario approfondire in
questo senso la conoscenza di questa condizione.
Infine, sembra necessario prendere in considerazione anche quei casi dove
la situazione psicologica e fisica della persona non è così grave da far
76
propendere per la presenza di una malattia, ma comunque si evidenziano
comportamenti o affetti ricorrenti propri della dipendenza da cibo.
Si tratta di quei casi in cui si riportano saltuarie abbuffate, sentimenti di
colpa dopo aver mangiato più di quanto si era previsto, vergogna nel far
sapere agli altri quanto si è mangiato, sensazioni fisiche di astinenza e
craving. Questi episodi non si verificano con la frequenza o l’intensità simili
a quelli di un disturbo, ma in alcuni casi, se non se ne capisce la causa,
possono essere un fattore di rischio molto importante.
Per questo motivo è necessario, come spiegato sopra, dare molta importanza
alla prevenzione, unendo alle spiegazioni biologiche alla base delle
dipendenze, un’educazione “psicologica”, riguardante emozioni, cognizioni e
comportamenti, e una discussione critica sui modelli e i valori della società
attuale.
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79
IL FENOMENO DELLA DE-UMANIZZAZIONE
di Claudia Spolverini
Introduzione
L’essere umano, per sua natura, ha bisogno di riconoscimento sociale, in
quanto vive ed agisce all’interno di un preciso contesto, e non in una
condizione di vuoto semantico. L’uomo, come un animale sociale, è
un’affermazione già formulata da Aristotele nell’antichità. Molti secoli più
tardi, lo psicologo sociale Kurt Lewin (1935) riprese quest’affermazione di
Aristotele, che in un suo scritto Psychosociological problems of a minority
group, ha sostenuto che, all’interno di ogni gruppo, accadono fenomeni
collettivi. Anzi, è attraverso questi ultimi che gli individui interagiscono,
operano e si collocano correttamente nel processo di interazione e
comunicazione. Dunque l’uomo diventa persona se entra in relazione con
l’altro.
Ma è possibile un processo inverso, di spersonalizzazione, una regressione,
come la chiamerebbe Freud, nel processo di socializzazione?
Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un vero e proprio fenomeno di deumanizzazione. Una definizione di questo termine indica un processo
secondo cui un gruppo asserisce e provoca l'inferiorità di un altro attraverso
atti e strategie mirate; la de-umanizzazione ha lo scopo di creare gerarchie,
dove chi sta più in alto ha un livello di dignità maggiore di chi si trova più in
basso.
80
Ma questa definizione, secondo il mio pensiero, non è onnicomprensiva nella
spiegazione di questo fenomeno.
Per de-umanizzazione intendo il fenomeno per cui l’essere umano tende ad
isolarsi dalla società, non ricoprendo più il ruolo di animale sociale,
richiudendosi in sé stesso, come in una sorta di “bozzolo autistico”. La deumanizzazione è la logica conseguenza di una società globalizzata,
conformista ed egoista, che tende a sopprimere la libertà di espressione di
ognuno, a favore dell’omologazione di tutti. Ed in questo scenario, le
relazioni interpersonali tendono sempre più a cristallizzarsi in scambi
asettici di informazioni, privi di reali emozioni ed interessi. Questo tipo di
situazione ha senza ombra di dubbio spianato la strada ad altri tipi di
problematiche. Ad esempio, nell’era della de-umanizzazione, le persone si
relazionano
attraverso
le
moderne
tecnologie:
telefoni
cellulari,
videochiamate, social networks, chat ecc …, facendone un uso spropositato.
Per meglio rendere comprensibile questo concetto: per esprimere la mia
felicità rispetto ad un evento, utilizzo una emoticon (una faccina sorridente
già pre-impostata nel cellulare o nelle chat) piuttosto che esprimerla
esplicitamente (abbracciare qualcuno per la felicità, saltare di gioia, urlare
di felicità, piangere di gioia …). Tutto dunque viene ridotto ad un semplice
simbolo, che una volta inviato, ha riassunto il tuo stato emozionale in meno
di un secondo. Il mio intento in questo articolo non è certo quello di
demonizzare la tecnologia, che ritengo una cosa preziosa, che se utilizzata
per i fini per i quali è stata creata, può sicuramente renderci la vita più
facile, ma piuttosto indurre i lettori ad una riflessione. È la tecnologia a
provocare questa de-umanizzazione? Oppure è l’uomo che se ne serve per
divenire un animale anti-sociale?
81
La diatriba
L’ecologia umana è una sottodisciplina dell’ecologia, che si occupa degli
esseri
umani.
Più
in
generale,
è
uno
studio
interdisciplinare
e
transdisciplinare del rapporto tra gli individui e il loro ambiente naturale,
sociale e quello che sono in grado di costruire.
Il termine “human ecology” apparve per la prima volta nel 1907, in uno
studio che riguardava le pratiche sanitarie a domicilio. La filosofia
scientifica dell’ecologia umana ha una storia correlata ai progressi della
geografia, della sociologia, della psicologia, dell’antropologia, della zoologia,
della famiglia, della scienza del consumatore e dell’ecologia naturale. In
generale, i teorici della “human ecology” tradizionale, enfatizzano il ruolo di
base della competizione (e quindi delle variabili quasi strutturali che la
coinvolgono: densità sul territorio ecc …), ed hanno finito col trascurare il
ruolo delle variabili più propriamente sociali e culturali e col dare
l’impressione di un vero e proprio determinismo bio-geografico sulla vita di
una comunità (Gettys, 1940).
Queste critiche sono oggi in gran parte superate nell’ambito di quelle aree
disciplinari che dall’ecologia umana hanno ricevuto molti input: la sociologia
dell’ambiente, la sociologia urbana, la psicologia ambientale, le quali
tengono tutte conto di un ambiente definito non soltanto dalle sue
caratteristiche strutturali ma anche, e soprattutto, da quelle sociali,
culturali e psicosociali.
Particolarmente interessante è la ripresa della “human ecology” in
quell’ecologia psicologica che diviene una delle basi essenziali della
psicologia di comunità, un’ottica che la psicologia ha sviluppato avendo a
82
disposizione praticamente un solo modello ispiratore, costituito dalla field
theory di Kurt Lewin.
Una caratteristica importante della psicologia di comunità è l’enfasi posta
sulla cosiddetta << prospettiva ecologica >> (Rappaport, 1977), consistente
nell’interesse per le relazioni degli individui tra loro in quanto comunità,
raggruppamento sociale differenziato con sistemi elaborati di relazioni
formali
ed
informali
(Mann,
1978).
Secondo
tale
prospettiva,
il
comportamento umano è visto in termini di adattamento della persona alle
risorse e alle circostanze: si possono correggere gli adattamenti malriusciti
modificando la disponibilità delle risorse, si possono cioè creare nuovi
servizi, scoprire la forza di reti sociali esistenti, creare le condizioni per
rafforzare l’uso di tali risorse. L’ecologia diventa nella psicologia di comunità
una metafora fondamentale, che comprende sia un paradigma scientifico sia
un set definito di assunzioni generali. Vi è, ad esempio, l’opinione che
l’ambiente abbia effetti significativi sul comportamento umano e che perciò
le persone possano spiegare e anche controllare il proprio comportamento
mediante una comprensione maggiore delle influenze ambientali specifiche.
Un altro aspetto è che, una volta raggiunta la comprensione, il soggetto ha
l’obbligo di tradurla in azioni per migliorare la qualità di vita delle persone.
Per Brofenbrenner (1979), invece, la comprensione del comportamento
umano richiede l’esame di sistemi di più persone in interazione non limitata
ad un solo contesto, e deve tener conto di aspetti dell’ambiente che vanno al
di là della situazione immediata di cui fa parte il soggetto. Ciò che
costituisce il cuore dell’orientamento ecologico così inteso, l’ecologia dello
sviluppo umano, è l’interesse per il progressivo adattamento tra l’organismo
umano che cresce e il suo ambiente immediato, nonché per il modo in cui
tale relazione viene mediata da forze che derivano da ragioni più remote,
83
appartenenti ad un ambiente fisico e sociale più ampio. Lo scopo dell’autore
è quindi di ampliare il concetto di “ambiente ecologico”, rispetto alle
definizioni precedenti, vedendolo come una serie ordinata di strutture
concentriche, incluse l’una nell’altra, simili ad una serie di matriosche,
denominate microsistema, mesosistema, ecosistema e macrosistema.
Il microsistema è quel complesso di relazioni esistenti tra la persona e
l’ambiente di cui la persona ha esperienza diretta, quali ad esempio la casa,
la scuola, il gruppo di lavoro. Include gli oggetti e le persone con cui
l’individuo interagisce e le connessioni che si svolgono in tale ambiente tra le
altre persone. Il mesosistema è definito un sistema di microsistemi, in
quanto comprende due o più contesti ambientali, a cui l’individuo partecipa
in modo attivo, e le loro connessioni. Le ricerche condotte a questo livello
consentono di indagare gli effetti congiunti dei processi che si verificano in
più microsistemi. Esempi sono le ricerche che analizzano i rapporti tra la
famiglia e il gruppo dei pari, le relazioni tra famiglia e scuola, oppure, per
un adulto, tra famiglia, lavoro e vita sociale. L’esosistema è costituito da una
o più situazioni ambientali a cui l’individuo non partecipa direttamente, nei
quali però si verificano eventi che influenzano l’ambiente con cui la persona
ha contatto. Esempi tipici sono, nel caso di un bambino piccolo, il rapporto
tra i processi intrafamiliari ed il posto di lavoro dei genitori (si pensi agli
effetti dell’insoddisfazione del lavoro materno sulle relazioni madrebambino). Il macrosistema rappresenta il contesto sovrastrutturale che
condiziona i sistemi di livello più basso ed è legato a culture, subculture e
organizzazioni sociali più ampie, con i relativi sistemi di credenze, norme,
ideologie. Questi complessi di credenze e norme comportamentali vengono
trasmessi
da
una
generazione
all’altra
attraverso
i
processi
di
socializzazione condotti dalle varie istituzioni della cultura, come la
84
famiglia, la scuola, la chiesa, il luogo di lavoro e le strutture politicoamministrative.
In sostanza, la prospettiva di Brofenbrenner sul problema individuoambiente è molto articolata, in quanto cerca di recuperare nell’ambito
dell’approccio ecologico, la prospettiva sistemica, e quindi interattiva ed
olistica. Viene proposta una concezione di ambiente sociale che comprende
la dimensione soggettiva, cioè i modi in cui l’individuo vive il proprio
ambiente e contribuisce a costruirlo intorno a sé. Le caratteristiche
biologiche, cognitive e di personalità dell’individuo partecipano a definire
alcune caratteristiche dei contesti con cui l’individuo interagisce nel corso
del suo sviluppo. Tali contesti, dal più vicino al più remoto, vengono
analizzati nelle loro dimensioni più generali e nelle loro interconnessioni,
nelle loro trasformazioni relative sia al ciclo di vita, sia alle modificazioni
più ampie storiche e culturali, in cui gli individui sono coinvolti. Questa
prospettiva porta l’autore ad elaborare il concetto di <<nicchie ecologiche >>,
definite come quelle regioni dell’ambiente che sono particolarmente
favorevoli o sfavorevoli per lo sviluppo di individui che hanno determinate
caratteristiche. La definizione delle combinazioni di fattori personali ed
ecologico-sociali, che operano congiuntamente nel produrre risultati
evolutivi, nonché l’individuazione delle relative nicchie ecologiche è di
grande importanza, come sottolinea Varin (1995), per lo studio dei gruppi a
rischio di sviluppo, specie se vengono condotte ricerche di tipo longitudinale.
Dalla letteratura, emerge quasi in maniera uniforme, la tendenza a
sottolineare che l’ambiente abbia effetti significativi sul comportamento
umano.
85
Dunque ogni essere umano viene influenzato dall’ambiente che lo circonda,
in tutte le azioni che egli mette in atto. Questo potrebbe essere uno dei
motivi alla base della de-umanizzazione.
Se l’individuo si dovesse imbattere in “nicchie ecologiche” particolarmente
sfavorevoli per l’individuo, questo porterebbe indubbiamente a manovrare il
comportamento dell’individuo stesso. La spersonalizzazione che vive la
società odierna è figlia di una società che sta pietrificando la socializzazione,
sostituendola con altri processi, come l’omologazione, il conformismo e quello
che io chiamo qualunquismo, ovvero una perdita parziale o totale della
propria identità, dei propri valori, del proprio Sé. Oggi viviamo in un’epoca
dove non viene favorito il processo di costruzione della persona. Ogni
individuo deve continuamente lottare per far rispettare i propri doveri, i
propri diritti, la propria unicità! Da questo deterioramento sociale, ne
consegue un più generale deterioramento di tutte le relazioni dell’individuo
all’interno
del
suo
ambiente
di
vita.
Molte
situazioni
della
vita
contemporanea portano alla spersonalizzazione e alla de-umanizzazione
(Bernard, Ottember e Redl). La burocrazia, l’automazione, l’urbanizzazione
e la forte mobilità geografica portano a rapporti reciproci anonimi,
impersonali. Per di più, le pratiche sociali che dividono le persone in membri
accettati o non-accettati dai gruppi producono un effetto di estraniamento
che incoraggia la de-umanizzazione.
La denuncia di una de-umanizzazione crescente dei rapporti non viene solo
dal mondo sociale, ma anche da ambiti autorevoli e importanti come quello
creativo (arti visive, cinema, letteratura), quello della riflessione filosofica e
spirituale.
Mondi diversi, approcci filosofici tra loro estremamente lontani, personalità
impegnate su fronti in apparenza non comunicanti ci mettono di fronte alla
86
tragedia sociale costituita dalla spersonalizzazione, ovvero dal privare una
persona dell’identità che la distingue. Le parole di una critica d’arte come
Bice Couriger, la studiosa svizzera curatrice della Biennale d’arte di Venezia
del 2011, e quelle di un pastore e teologo come il cardinale Dionigi
Tettamanzi, già arcivescovo di Milano, dall’altra, approdano a conclusioni
veramente simili. In sintesi, entrambi sostengono che solo una veloce
inversione di rotta, che ponga al centro di ogni attenzione la persona, potrà
salvarci dall’autodistruzione. C’è bisogno, per contrastare la crescente
spersonalizzazione e de-umanizzazione della nostra società, di illuminazioni
in campo artistico, certo, ma anche in campo sociale; è necessario in tutti gli
ambiti celebrare il potere dell’intuizione, la possibilità di esperire attraverso
il pensiero favorito dall’incontro con la bellezza e con la sua capacità di
affinare gli strumenti di percezione. C’è forse bisogno, anche, di un ritorno
ad apprezzare le cose semplici, la grandezza e l’unicità del condividere con
gli altri le proprie emozioni, paure, la propria speranza in un futuro
migliore, piuttosto che isolarsi in sé stessi, ed utilizzare le tecnologie come
forma di comunicazione prevalente. Non a caso, la maggior parte degli 84
artisti di tutto il mondo a Venezia per Illuminations ha evidenziato, nelle
proprie opere, il buio di società indifferenti e disumane, un buio rischiarato
solo dal punto di luce costituito dall’ illuminazione di chi sa e vuole
imboccare strade nuove, di chi sceglie consapevolmente di non volersi
omologare, di voler difendere la propria unicità e la diversità, come valore
aggiunto per l’intera società.
Nel suo libro De-umanizzazione. Come si legittima la violenza (2011),
Chiara Volpato tratta il tema della spersonalizzazione dell’altro e delle sue
conseguenze. La sua tesi è ormai entrata nel patrimonio culturale di chi
studia queste tematiche già da molti anni, e si può racchiudere nell’ idea
87
della strutturale inclinazione alla sottrazione di qualità umane all’oggetto di
violenza o di una discriminazione, intendendo questo processo sia come
fattore generatore, sia come condizione indispensabile dell’atteggiamento
conflittuale-escludente.
criminologia
alla
Studi
storiografia,
interdisciplinari
dalle
scienze
che
oscillano
psico-sociali
a
dalla
quelle
pedagogiche, hanno elaborato a più livelli la fenomenologia del processo di
disumanizzazione, o de-umanizzazione. È stato notato spesso come un serial
killer manifesti quasi sempre il bisogno di coprire o sfigurare il volto della
sua vittima, per poter sopportare il peso morale della violenza perpetrata.
Nel vivere quotidiano, riusciamo a nostra volta a giustificare un nostro
comportamento discriminatorio o dannoso nei confronti di altri soggetti,
soltanto rappresentandoli come inferiori, inetti, ignobili. Ciò accade
palesemente nei fenomeni di bullismo. Ingenuamente i ragazzi, testati su
questo tema, lasciano trapelare la loro idea della vittima come definita da
tratti personali che ne segnano la vocazione alla subalternità.
I gruppi sociali indugiano spesso in strutture lessicali disumanizzanti.
Penso, ad esempio, alla definizione dei giovani anticonformisti come "zecche"
da parte dei figli della borghesia, e, viceversa, il paragone tra i fascisti e i
"topi", il cui destino sarebbe quello del ritorno nelle fogne. Un primo grado di
de-umanizzazione è senz'altro quello che sta alla base delle letture dei
rapporti inter-umani sulla base di una chiave xenofoba. Il gruppo sociale
ostile è privato di pensieri e sensibilità "umane", e dunque è più facilmente
aggredibile, ed è così più agevole sostenere il peso dei propri comportamenti
distruttivi. Non a caso, la rappresentazione del nemico in chiave zoologica è
propria dei contesti bellici, dove pure si ricorre con frequenza alla metafora
igienico-sanitaria, per cui gli "altri" sono equiparati a pidocchi, parassiti,
virus da debellare attraverso un'operazione di igiene sociale. Si riconosce
88
bene la pervasività di questo linguaggio, verbale e grafico, nella propaganda
nazista e fascista (ad esempio nella rivista Difesa della razza). Si intrecciano
in questa tematica problemi diversi, che richiedono differenti e strutturate
ricostruzioni storiche e culturali, e che qui vengono schiacciate un po' troppo
sulla dinamica psicosociale, che attraversando disinvoltamente le epoche
della storia all'insegna di un elemento di convergenza tra fenomeni assai
eterogenei, rischia di rompere uno dei fattori più qualificanti della psicologia
sociale stessa, cioè il suo radicamento alle culture di riferimento. Gli autori
ai quali si ispira il discorso dell'autrice, sono principalmente Zimbardo, noto
per le sue ricerche psicosociali sugli abusi di potere e sul conformismo, e
Bandura,
uno
degli
psicologi
più
importanti
del
Novecento,
e
metodologicamente più innovativi. Ma questi autori non possono essere
sufficienti a cogliere, neanche in parte la problematica - ad esempio - della
Shoah.
Dopo aver illustrato i principali riferimenti teorici nell’ambito della
spersonalizzazione e della de-umanizzazione, resta ancora da chiarire se
questi processi siano la causa del deterioramento nel processo di
socializzazione oppure siano essi stessi causati da esso. Dunque, non vi è
dubbio che il deterioramento sociale sia correlato della de-umanizzazione,
ma ad oggi probabilmente non siamo ancora in grado di stabilirne i rapporti
di causa-effetto che legano questi due fenomeni. Questa diatriba ricorda
molto quella tra il fenomeno della de-umanizzazione e l’uso spropositato
delle tecnologia. Come rispondere alle domande: È dunque la tecnologia a
provocare questa de-umanizzazione? Oppure è l’uomo che se ne serve per
divenire un animale anti-sociale?È il deterioramento, la crisi della società a
provocare questa de-umanizzazione o viceversa?
89
Rispondere a queste domande è veramente molto difficile, perché siamo in
grado solo di dimostrare che esiste una correlazione oggettiva, ma non
possiamo stabilirne i nessi di causa-effetto.
La mia personalissima opinione, in merito a questo argomento, è che la crisi
profonda della nostra società, questo deterioramento e disgregamento della
sua identità comunitaria, sia alla base di questa de-umanizzazione e
spersonalizzazione.
Sarebbe troppo facile, e anche fin troppo comodo, trovare dei capri espiatori
per dar loro la colpa dei nostri fallimenti come società. Lo sferrarsi contro la
tecnologia, perché ritenuta colpevole di indurre dipendenza negli esseri
umani (dipendenza da internet, da videogiochi, dai social networks), non è
altro che un modo per spostare l’attenzione dal problema, e per non
affrontarlo direttamente. La società odierna porta l’individuo a rinchiudersi
in sé stesso, a diffidare degli altri, a mantenere i propri rapporti sociali al
minimo, spesso basati su scambi di convenienza, ed in questa perdita
generale del piacere di condividere con gli altri le proprie emozioni e la
propria vita, in quanto animale sociale, l’uomo si trova a doversi adattare
nuovamente ad una situazione per lui estranea, e lo fa scegliendo di
astenersi dal vivere sociale, regredendo così ai primordi dell’evoluzione, dove
forse qualche nostro antenato viveva in delle caverne, isolato dal resto del
mondo, una vita solitaria. Con l’aumentare del progresso, quando ci
sarebbero dunque le condizioni favorevoli per vivere in una società
migliorata qualitativamente da questo incessante sviluppo evolutivo e
tecnologico, si manifesta invece una regressione nell’uomo, nel costruirsi
come persona.
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Conclusioni
In questo articolo è stato trattato il fenomeno della de-umanizzazione da
diversi punti di vista, cercando di indurre e spronare i lettori ad una
riflessione profonda, nella propria intimità, riguardo a questa tematica.
Personalmente, ritengo che solamente con la collaborazione di tutti si possa
migliorare la nostra società, e renderla un luogo di confronto e di
condivisione, e non solo di scontro ed isolamento, e che grazie al lavoro di
tutti, si possa provare ad arrestare quest’ incessante regressione. Dunque,
credo che dovremmo finalmente scegliere da quale parte stare: esseri umani
o disumani?
Bibliografia
Amerio, P. (2000). Psicologia di Comunità. Il Mulino, Bologna
Amerio, P. (2007). Fondamenti di psicologia sociale. Il Mulino, Bologna.
Lewin, K. (1935). Psycho-sociological problems of a minority group. The Journal of
Personality, 175-187.
Orford, J. (1995). Psicologia di Comunità. FrancoAngeli Editore, Milano.
Volpato, C. (2011). Deumanizzazione. Come si legittima la violenza . Editori
Laterza, Roma.
Zani, B., Palmonari, A. (1996). Manuale di Psicologia di Comunità. Il Mulino,
Bologna.
Zani B. a cura di (2012). Psicologia di comunità: Prospettive, idee, metodi. Carocci,
Roma.
91
STORIA DI GIANNA
di Alessandra Turchetti
E’ stato un incontro toccante quello con Gianna Jessen, la ragazza
americana, oggi trentacinquenne, sopravvissuta all’aborto a cui sua madre
decise di sottoporsi al settimo mese di gravidanza, e che ora attraversa i
continenti per dare la sua testimonianza di vita. Ho avuto il piacere di
conoscerla in occasione del convegno organizzato per la 35° Giornata per la
vita dal Movimento per la Vita fiorentino dal titolo “La vita è bella, insieme
bellissima”.
Comunque la si pensi sull’aborto, le sue parole attraversano il cuore.
Qualcosa non è andato per il verso giusto quel giorno, o, come racconta
Gianna, è andato tutto meravigliosamente bene, lasciando trapelare da
subito un forte sentimento di fede. “Sono qui per dire che ognuno di noi è
immensamente amato da Dio. Questo è il mio messaggio numero uno. Tutto
quello che dobbiamo fare è lasciarci semplicemente amare da Lui”.
Ma cosa è successo esattamente? La mamma biologica di Gianna decide di
abortire nel 1977, a soli diciassette anni, la stessa età del padre, ma è ormai
è già al terzo trimestre di gravidanza, e dai medici di una delle maggiori
cliniche americane per aborti le viene consigliato di sottoporsi alla
procedura del cosiddetto “aborto salino tardivo”. La pratica è diffusa e
consiste nell’iniettare nell’utero materno una soluzione salina che provoca
ustioni esterne ed interne al feto fino a soffocarlo. Gianna viene però
partorita viva nonostante la somministrazione 24 ore prima della soluzione.
“Devo la mia vita al fatto che quel giorno il medico abortista non era ancora
entrato in servizio”, racconta Gianna. “Se non fosse stata l’infermiera
presente che ha immediatamente chiamato i soccorsi, io non sarei qui. Dopo
18 ore ero ancora viva, e così è cominciata la mia avventura umana”.
Fino al 2002, in America era concesso di sopprimere la vita di un bambino
sopravvissuto
all'aborto
mediante
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strangolamento,
soffocamento
o
lasciandolo in disparte fino al momento della morte. Il governo Bush ha
emanato nel 2002 il "Born Alive Infants Protection Act", una legge che
assicura l’assistenza e le cure al sopravvissuto di qualunque pratica
abortiva.
“Chiunque al mio posto ora si salverebbe, ma allora, è stato solo un ritardo
nell’entrata in servizio del medico di turno a darmi la possibilità di vivere”,
ha continuato. “La verità è che io vivo grazie a Colui che ha voluto che mi
salvassi e testimoniassi che i progetti umani non contano nulla di fronte al
Suo amore”.
A 17 mesi Gianna viene adottata. Gli effetti dell’aborto sono una paralisi e
trauma cerebrale ma, nonostante i medici continuino a ripetere che non ce
l’avrebbe fatta a curare le sue disabilità, la bambina migliora grazie alle
tante ore di fisioterapia fatte insieme a mamma Penny che si dedica al suo
recupero con grande impegno. “Devo tutto a mia madre - spiega Gianna che ha creduto nella mia guarigione, al fatto, ad esempio, che prima o poi
sarei riuscita anch’io ad alzare la testa. A tre anni sono stata in grado di
camminare grazie a dei tutori e ad un deambulatore. Ho avuto due
operazioni chirurgiche ma la situazione ora è molto buona”. Gianna, infatti,
si sposta autonomamente e riesce a viaggiare. “Zoppico, come vedete, ma va
bene”, aggiunge. “Il problema vero, credetemi, non è questo, anzi, la vita è
addirittura più interessante così. Quello che mi preme dire è: se l’aborto è
una questione dei diritti delle donne, dove erano i miei diritti quel giorno?”.
Il tono della voce si alza quando afferma che è terribile arrogarsi il diritto di
decidere della vita di un’altra persona. “Pensiamo ai disabili. Se si vede
dall’ecografia che il bambino nascerà disabile, per intendersi, meglio
interrompere la gravidanza, come se la qualità della vita e l’anima
dipendessero dalla forma del corpo. Sono i deboli, sempre messi in disparte,
a possedere la luce di Dio”.
L’entusiasmo di Gianna è così forte da farle girare il mondo per portare un
messaggio di speranza. “Nessuno può dirvi chi siete e che cosa potete o non
potete fare, come i medici che negavano qualsiasi possibilità di progredire a
93
mia madre. La mia missione è questa: dire a chi ha il cuore spezzato che non
è dimenticato, che può essere libero e opporsi alla violenza, al dolore, alla
crudeltà che spesso sono nel mondo”.
La “bambina di Dio” lascia il segno. “Dalle avversità può nascere una grande
gioia. Io non posso stare in questo mondo senza testimoniare l’amore di
Cristo che ogni giorno ringrazio per il dono della vita che mi ha voluto fare.
L’odio degli uomini non ha vinto, ben poca cosa rispetto alla Sua
misericordia”, ha concluso Gianna.
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LA CURA SCHOPENHAUER DI IRVIN D. YALOM E S. PRINA
Recensione di Elisa Selmi
La cura Schopenhauer è un bel libro, se non ne sapete niente di filosofia, di
psicanalisi e di voi stessi. Avvincente, coinvolgente, colorato. Superficiale,
consumistico, americano. Tutti questi aggettivi si adattano benissimo al
romanzo. Decidete voi da che parte stare. A me è sembrato di leggere una
grossa copia di un'opera d'arte: con spirito tutto a stelle e strisce, l'autore
prova a rendere semplice ciò che per sua natura è profondo e complicato ed il
risultato è il fast food, o meglio, il fast-philosophy che può piacere solo a chi
la filosofia vera non l'ha mai mangiata. Lo so, giudizio severo ed
integralista, ma potendo scegliere, chi mangerebbe la mozzarella dell'Ohio
piuttosto che quella di Caserta? Personaggi carini, a volte un po' confusi:
situazioni cliché un po' stile Hollywood. Il libro l'ho letto volentieri e sono
arrivata fino in fondo, proprio perché i temi affrontati sono talmente
universali che anche solo superficialmente sono interessanti. Insomma, se
siete sotto all'ombrellone, questo libro non solo sarà una lettura piacevole,
ma servirà a farvi sembrare un grande intellettuale con il vicino di lettino.
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UNA PICCOLA RIFLESSIONE SU TANIZAKI,
CASANOVA E LA VITA
di Paolo Cardoso
“Sarebbe un grosso sbaglio concludere che, poiché non riesco più a scrivere,
ho esaurito il mio talento. La mia creatività non è nella scrittura, ma nella
vita stessa, è in essa che si realizza la mia vera arte.”
Jun’chiro Tanizaki “ Jotaro”
Può sembrare strano l’associazione del titolo, ma io che sono un grande
amante di Giacomo Casanova scrittore, che attraverso i suoi scritti ci ha
lasciato un quadro bellissimo di cos’era la vita in Europa nel ‘700, e che ho
letto molti saggi e libelli scritti su di lui, ho sempre avuto la sensazione che
mi sfuggisse qualcosa.
La sua vita avventurosa, i suoi sbagli, l’aver dissipato fortune ed essere
finito poi a morire in miseria nello sperduto castello di Dux.
Si potrebbe e lo hanno già fatto scrivere interessanti studi psicologici su di
lui. L’essere stato in pratica trascurato dai genitori, il non essere nato nobile
vivendo in un ambiente di nobili. Lui alla fine ha frequentato tutte le Corti
d’Europa, ma è stato sempre un protagonista marginale, accolto solo per la
sua prestanza e per la sua intelligenza, non per il suo status di nascita.
Poi ho letto Jotaro di Tanizaki ed ho trovato la frase che ho scritto all’inizio.
D’un tratto ho capito ciò che mi girava nella testa senza manifestarsi.
Ovvero che l’aspetto veramente affascinante di Casanova non è la sua
ricerca continua delle conquiste femminili, né la ricchezza, né la passione
per il gioco. Era, molto più semplicemente, il sentirsi davvero vivo solo
quando metteva in atto la sua creatività. Quando si gettava a capofitto nelle
sue conquiste, nell’architettare modi per ingannare le ricche signore.
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Quando riconcorreva la fortuna al gioco. Quando scriveva e passava da un
genere letterario ad un altro.
La sua fuga dai Piombi fu un impresa unica ed epica, ed invece di arrendersi
all’avversa sorte si gettò con tutto se stesso nel trovare un modo per
realizzare ciò che nessuno, prima di lui, era riuscito a fare.
La sua insaziabile curiosità, un po’ tipica dell’uomo colto del ‘700, lo spinse a
spaziare in ogni campo: in quello musicale, militare, di scrittore e
traduttore, di analista politico, di giocatore e si potrebbe proseguire per
molto.
In effetti “l’Histoire de ma vie” e “La mia fuga dai Piombi” sono due
capolavori, due opere di arte letteraria.
Giacomo
Casanova
e
Jun’chiro Tanizaki
semplicemente
vivendo
e
rincorrendo sé stessi hanno creato la loro opera d’arte.
Oggi, purtroppo, la vita ci lascia meno spazi e meno opportunità, rispetto a
loro.
Però è solo rendendosi conto che ciò che ognuno deve fare, per dirla con
Nietzsche, è “diventare sé stessi”. L’unico modo che esiste per fare l’arte è
essere l’artista di sé stesso. E’ rincorrere a qualsiasi costo, i nostri sogni e
non permettere a niente e nessuno di fermarci o distrarci.
In oriente dicono che la vita che ci è data è un grande privilegio ed ognuno di
noi si dovrebbe porre la domanda se davvero sta vivendo la sua vita o se la
sta facendo scivolare addosso.
Forse il senso del tempo che passa è proprio questo. Nessuno sa quanto ne
ha ancora, per cui nessuno può permettersi di non viverlo.
Io credo però che, per vivere veramente, bisogna anche avere una grande
attenzione a chi ci circonda ed al mondo in cui viviamo, che è poi il
messaggio che in ogni sua opera Erich Fromm ha mandato.
Se noi riusciamo ad essere noi stessi, a sentire e vivere i propri sentimenti,
ad ascoltare ed aver cura degli altri, noi creiamo la nostra opera d’arte.
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L’Associazione Erich Fromm Firenze propone un incontro
su:
"Le patologie da stress lavoro correlato:
difficoltà della diagnosi clinico eziologica"
giovedì 4 aprile 2013, ore 15
Presso CESVOT
Via Ricasoli 9 – Firenze
Ore 15,00
Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, Psicoterapeuta e psicologo del lavoro
Ore 15,30:
"Le patologie stress lavoro correlate: la diagnosi di malattia professionale"
Dott. Rodolfo Buselli
Ambulatorio per lo Studio del Disadattamento Lavorativo U.O. Medicina Preventiva del Lavoro
Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana
Ore 16:
“Stress lavoro-correlato: il punto di vista dell’INAIL”
Dott. Marco Roggi - Dirigente Medico di II livello INAIL Firenze.
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Ore 16,30:
“L’esperienza di un RSPP in azienda.”
Arch. Nicole Antoniozzi - RSPP.
Ore 17,00
“La valutazione dei rischi come primo elemento di analisi per la gestione del rischio stress
correlato al lavoro”
Dott. Pier Luigi Faina - Dirigente medico U.F.PISLL Zona Mugello Dipartimento di prevenzione
Asl 10 Firenze
Ore 17,30 Domande del pubblico
Con il patrocinio dell’Ordine Provinciale dei Medici- Chirurgi ed Odontoiatri di Firenze
99
L’Associazione Erich Fromm Firenze propone un incontro
su:
"Le Nuove Dipendenze"
giovedì 18 aprile 2013, ore 15
Presso CESVOT
Via Ricasoli 9 – Firenze
Ore 15:
Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, psicoterapeuta e psicologo del lavoro
Ore 15,30:
" Gli adolescenti, la scuola e le nuove dipendenze “
Dott.ssa Elisa Romolini, psicologa
Ore 16:
“ Gli interventi del Volontariato: la Formazione dei Volontari ”
Dott.ssa Claudia Spolverini, psicologa
Ore 16,30:
“ Gli interventi del Volontariato: i Servizi del Volontariato “
Dott.ssa Eleonora Sirsi, psicologa
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Ore 17,00:
“Disturbo Ossessivo Compulsivo e dipendenza da cybersex”
Dott. Giampaolo La Malfa, psichiatra, neurologo, psicoterapeuta - Università degli Studi di
Firenze
Ore 17,30: Domande del pubblico
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7 maggio 2013 dalle 16 alle 18
Presso Il Quartiere 2 Villa Arrivabene
P.za Alberti 1/a
Memoria , attenzione e concentrazione
nella terza età:
normale decorso o iniziale malattia?
Saluti del presidente Associazione E. Fromm: Dott. Paolo Cardoso
Introduzione
a cura della Dott.ssa S. Gnaldi, psicologa - psicoterapeuta

Invecchiamento e longevità;

Stabilità e cambiamento della persona: guadagni e perdite funzionali con
l’invecchiamento.

Qualità della vita come mantenimento dello stato cognitivo e funzionale.
Aspetti cognitivi
a cura della Dott.ssa C.Gambetti, psicologa - neuropsicologa

Le capacità cognitive: descrizione e funzionamento.

L’invecchiamento: come si sviluppa la funzionalità del cervello e il limite fra
normale decorso e malattia.

Pseudodemenza o Neurodegenerazione? L’importanza dei fattori depressivi.

Adattamento al contesto: come modificare l’ambiente, la casa e il
comportamento in caso di difficoltà.
102
Aspetti psicologici
a cura della Dott.ssa S.Gnaldi, psicologa - psicoterapeuta

Vissuto emotivo del cambiamento

Caratteristiche della nuova relazione
Proposte di intervento
a cura della Dott.ssa Gambetti, psicologa - neuropsicologa
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L’Associazione Erich Fromm Firenze
In collaborazione con
Vi invita all’incontro sul tema:
"I vantaggi economici per le aziende di una
corretta valutazione dello stress lavoro
correlato"
venerdì 17maggio 2013, ore 15
Presso CESVOT
Via Ricasoli 9 – Firenze
Ore 15:
Introduzione del Presidente dott. Paolo Cardoso, Psicoterapeuta e psicologo del lavoro
Presentazione AISL_O: dr.ssa Maria Grazia De Angelis, Presidente AISL_O
104
Ore 15,45: "Metodologie di valutazione dello stress lavoro correlato: sostenibilità e vantaggi
per le aziende”
Dr.ssa Patrizia Deitinger, Psicologa del lavoro, Primo Ricercatore ex-ISPESL e socia AISL_O
Ore 16,30:
“Indagine sulla valutazione dello stress lavoro correlato: il punto di vista degli RLS”
Dott.ssa Paola Mencarelli, Psicologa del lavoro e psicoterapeuta Uil Milano e Lombardia.
Ore 17,00:
Domande del pubblico
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