Democrazia e cittadinanza attiva MAGGIO 2008 Rimotivazione, qualità, concetti di destra? • Laicità: intervista a Giuliana Sgrena • Disfonie: affettività e partecipazione • Massimiliano e il teatro • Corsi di recupero in eredità alla destra • La distruzione della scuola pubblica • Provare a leggere in rap • Dopo il vento, dopo la bufera • Olimpiadi, Tibet e diritti umani • Cina e Tibet: futuro nonviolento • Bolivia: intervista a Evo Morales • Il fascino discreto di Sarkozy • L’equo-insostenibilità dell’ecologia pura • Educazione ambientale, anno zero? • Palestina: intervista a Suad Amiry • Cantare le emozioni • Il personale è politico • L’importanza di avere due orecchie • Un vocabolario tutto per noi • Nuovi saperi • A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari • Oyoun Al Kalaam • Bum bum chi è? Munari • Determinismo e avventura illuminata • La sfinge ‘68 TEMA NUOVA SERIE NUMERO 69 - MAGGIO 2008 (2. 2008) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 5 EURO idee per l’educazione costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze NUMERO 69 MAGGIO 2008 Redazione via Magenta 13, 22100 Como tel. 031.4491529 [email protected] www.ecolenet.it Direttrice responsabile Celeste Grossi Vicedirettore Andrea Bagni Redattori Bianca Dacomo Annoni, Francesca Capelli, Paolo Chiappe, Maurizio Disoteo, Marisa Notarnicola, Cesare Pianciola, Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Giovanni Spena, Filippo Trasatti, Stefano Vitale Collaboratori Giovanna Alborghetti, Monica Andreucci, Guido Armellini, Antonella Baldi, Marta Baiardi, Antonia Barone, Gabriele Barrera, Annita Benassi, Giorgio Bini, William EDIT 3 Note dal sottosuolo • ANDREA BAGNI 4 6 Rimotivazione, qualità, concetti di destra? • PAOLO CHIAPPE INTERVISTA a GIULIANA SGRENA Senza laicità non c’è libertà • CELESTE GROSSI 8 9 11 12 14 15 16 17 Democrazia e cittadinanza attiva • A CURA DI STEFANO VITALE Lo spazio pubblico • ENZO SCANDURRA Educazione alla cittadinanza • GUSTAVO ZAGREBELSKY (a cura di Cesare Pianciola) Scuola, il grado zero della democrazia • PAOLO CHIAPPE Il processo di apprendimento • CLAUDIO BERETTA Cultura civica “ricostituente • ENZO MARZO Per un insegnamento di “cultura civica” nella scuola italiana La comunicazione politica nell’era di Internet • EDOARDO CHIANURA 19 21 22 23 24 25 Disfonie: affettività e partecipazione • ARIEL CASTELO, VALENTINA PESCETTI ESPERIENZE NARRATE Massimiliano e il teatro • BRUNA CAMPOLMI LE LEGGI Corsi di recupero in eredità alla destra • CORRADO MAUCERI La distruzione della scuola pubblica • CISP NUOVI ARRIVI Provare a leggere in rap • LIDIA GARGIULO NOTE IN CONDOTTA Dopo il vento, dopo la bufera • ANDREA BAGNI 26 27 28 30 Olimpiadi, Tibet e diritti umani • CELESTE GROSSI FACCIAMO PACE Cina e Tibet: futuro nonviolento • NANNI SALIO INTERVISTA A EVO MORALES Presidente campesino • FRANCESCA CAPELLI L’ERBA DEL VICINO Il fascino discreto di Sarkozy • PINO PATRONCINI 31 33 L’equo-insostenibilità dell’ecologia pura • MASSIMO FILIPPI Educazione ambientale, anno zero? • MONICA ANDREUCCI 35 6 37 38 38 40 40 41 41 42 INTERVISTA A SUAD AMIRY Palestina mon amour • MARIA LETIZIA GROSSI MUSICA Cantare le emozioni • NEREA ALBERINI CINEMA Il personale è politico • CELESTE GROSSI IL LIBRO L’importanza di avere due orecchie • STEFANO VITALE Un vocabolario tutto per noi • MONICA LANFRANCO LIBRI Nuovi saperi • EDOARDO CHIANURA DVD A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari • CELESTE GROSSI MUSICA Oyoun Al Kalaam • MARIATERESA LIETTI TEATRO Bum bum chi è? Munari • FABIO CANI ANNI VERDI Determinismo e avventura illuminata • STEFANO VITALE 43 48 La sfinge ‘68 • PEPPINO ORTOLEVA TREND • LORENZO SANCHEZ PRE TEMA IDEE PER L’EDUCAZIONE MAPPAMONDO DE RERUM NATURA MODI E MEDIA TEXT Bonapace, Franco Calvetti, Andrea Canevaro, Minny Cavallone, Edoardo Chianura, Angelo Chiattella, Rosalba Conserva, Vita Cosentino, Marina Di Bartolomeo, Lella Di Marco, Mauro Doglio, Lidia Gargiulo, Maria Letizia Grossi, Toni Gullusci, Monica Lanfranco, Mariateresa Lietti, Marco Lorenzini, Franco Lorenzoni, Francesca Manna, Raffaele Mantegazza, Corrado Mauceri, Cristina Meirelles, Alberto Melis, Luciana Mella, Bruno Moretto, Giorgio Nebbia, Filippo Nibbi, Enrico Norelli, Laura Operti, Carlo Ottino, Giuseppe Panella, Pino Patroncini, Vito Pileggi, Nevia Plavsic, Rinaldo Rizzi, Marcello Sala, Nanni Salio, Antonia Sani, Cosimo Scarinzi, Maria Antonietta Selvaggio, Angelo Semeraro, Scipione Semeraro, Rezio Sisini, Monica Specchia, Marcello Vigli Grafica e impaginazione Natura e comunicazione Como (Andrea Rosso con Marco Bracchi) Abbonamenti Attivazione immediata: tel. 031.268425, [email protected] Annuale: (4 numeri + 10 lettere telematiche + CDiario + 2 cd rom tematici): 45 euro Sostenitore: 70 euro Versamenti sul conto corrente postale n. 25362252 intestato a Associazione Idee per l’educazione, via Anzani 9, 22100 Como. Registrazione Tribunale di Como n. 1/2001 del 10 gennaio 2001 Stampa Fotocomp snc via Varesina 3, 22075 Lurate Caccivio (Como) tel. 031 494454 Proprietà della testata Associazione Idee per l’educazione. Sede legale: via Anzani 9, 22100 Como Consiglio di amministrazione Bianca Dacomo Annoni (vice presidente), Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Filippo Trasatti (presidente), Stefano Vitale costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze edit Note dal sottosuolo ANDREA BAGNI L a domanda obbligata è che c’entriamo noi della scuola con il disastro di oggi. Con il voto dei giovani ad esempio, con il deserto diffuso di politica e cittadinanza. E, sia chiaro, non parlo della scomparsa della sinistra dal parlamento: scompaiono le cose che non servono, che non hanno senso o non ce l’hanno più. Buffo ragionamento quello che diceva, votateci se no non ci saremo: logica tautologia suicida. Ma il fatto è che si è spostato qualcosa di fondo nella democrazia italiana. E per forza c’entra la scuola, l’educazione. Una classe è luogo politico, di confronto fra generi e generazioni diverse, di cura della collettività quasi. Proprio per questo coinvolto nella patologia. Abbiamo parlato tanto dell’educazione alla cittadinanza, del sapere come prerequisito della democrazia. Quello che vediamo invece è proprio la crisi radicale della partecipazione, almeno di quella “razionale” e laica, discorsiva – sintetizzata in un manifesto del social forum di Parigi: La lucidité est révolutionnaire. E nella crisi parla non un altro discorso ma un’altra lingua, la cui grammatica facciamo una fatica terribile a capire. Fra i giovani e la cittadinanza (almeno nel senso di voto, rappresentanza, istituzioni) sembra sia scavato un abisso. Il punto non è nemmeno per chi hanno votato. È come. A partire da cosa. A me sembra che ancora a scuola circoli un sapere che in qualche modo serva a vivere nel casino – per quanto da fuori si veda solo Youtube. Però è come se vivessimo una scissione o una schizofrenia: fra la vita nel casino politico e il casino della vita politica. Fra l’orizzonte dei grandi conflitti che conoscevamo (ideali valori bisogni) e la frammentazione delle persone in desideri più complicati e dagli orizzonti anche oscuri – comunque attratti dall’oscurità di odi facilmente spendibili. Ci sono altri esiti possibili per quella frammentazione? Domanda chiave. Il primo passo sarebbe riconoscerla e pensarla. I giorni prima del voto ero in una scuola del sud. Lo conosco poco il sud e sono rimasto sbalordito. C’è una cultura straordinaria e profonda, ma proprio profonda: luoghi sotterranei delle città, cantine recuperate come porti sepolti di Ungaretti; cultura della decrescita, sapere delle radici. E poi le ragazze e i ragazzi a scuola, un vulcano di energia, esplosivo di desideri e fantasia. Tuttavia sopra, alla superficie della città, le classi dirigenti hanno festeggiato e festeggiano il massimo del degrado. Nella rassegnazione generale, si direbbe. Cosmica. Fra i due livelli quasi nessun contatto. Ecco mi pare nelle scuole accada qualcosa del genere. Ciò con cui lavoriamo, la vita delle ragazze e dei ragazzi, la nostra vita, è come se non c’entrasse più nulla con la “cittadinanza”: con quella che abbiamo conosciuto e riconosciamo. Continuiamo a pensare la politica nell’economicismo e invece il conflitto fondamentale simbolico si è spostato altrove. Nei frammenti di territorio e nelle anime frammentate. Si porta altro sulla scena del voto o della rappresentanza – e la destra lo interpreta bene offrendo roba orrenda (affidamento, esclusione, radici di religione e sangue, polizia) ma all’altezza dell’immaginario. La sinistra resta ferma al materiale, e senza avere una straccio d’ idea in merito. Bisognerebbe forse ripartire da questa vita, intera. Dall’essere uomini e donne con un gran casino dentro. Ripartire da noi per vedere di capire le altre e gli altri. Perché non ci salverà la logica neutra maschile dei programmi, delle masse, degli obiettivi sociali, delle conquiste storiche. Quando si hanno mappe sbagliate conviene ripartire dai territori. Anche andando a tentoni. Il tatto ci può aiutare se si sta vicini. Mantenerci in contatto. Anche con noi stessi. pre GOVERNO Apologo: il popolo italiano, dopo aver riempito le scuole di asineria consumista e bullista spingendo migliaia di insegnanti al limite del burning-out e oltre, vota in maggioranza un governo di destra che promette di ripristinare nella scuola la serietà, e così facendo silura e umilia gli sforzi di pedagogisti e di maestre di alto livello che pensavano di avere scelto un mestiere di scarsa retribuzione ma di valore sociale ed egualitario e trovavano in questo Mariastella Gelmini senso e ricompensa. Quel popolo che ci deve tutto ora vota contro di noi. Che stupendo esempio di irriconoscenza! Scegliamoci un altro popolo… o chiediamoci dove abbiamo sbagliato Rimotivazione, qualità, concetti di destra? PAOLO CHIAPPE école numero 69 pagina 4 questi ultimi mesi da associazioni e gruppi dell’area moderata sia di centrodestra che di centro sinistra con una forte sovrapposizione di persone e di idee tra i due campi. L a nomina alla Pubblica Istruzione di Mariastella Gelmini, già coordinatrice lombarda di Forza Italia, rischia di essere tutt’altro che l’apparizione di una finora ai più sconosciuta giovane cometa, quasi un punto interrogativo, ma anzi potrebbe essere la tappa finale di un lungo percorso delle destre plurali che ora trovano una sintesi e che si sono fatte largo in questi ultimi tempi in un certo senso comune bipartisan degli addetti ai lavori e forse anche di una maggioranza silenziosa interna al mondo dell’istruzione: gli insegnanti non sono più un serbatoio spontaneo della sinistra e anche a livello linguistico il tema della qualità della scuola è stato di nuovo inglobato come cento anni fa nel discorso delle destre, accompagnate dal grandissimo codazzo di centro, tutti d’accordo che si deve uscire una buona volta dalla malefica età del Sessantotto. Forse non è inutile ricordare che nel programma elettorale del Pdl c’era scritto che si garantirà la «commisurazione degli aumenti retributivi a criteri meritocratici» con riconoscimenti agli insegnanti più preparati e in quello del Pd che sarebbe stata introdotta la «carriera professionale degli insegnanti». Questo è il disastro che noi sinistre scolastiche abbiamo lasciato accadere. La forza del semplicismo La qualità della scuola proposta dalle destre e loro soci è un concetto vuoto perché prescinde da qualunque domanda e riflessione sui contenuti e sui processi di apprendimento, è destinata anzi a peggiorare tutto perché il suo unico contenuto vero è quello di togliere ancora di più libertà, agio e stabilità agli insegnanti comuni, ribattezzando ciò «rimotivazione»: ma questo semplicismo è la sua forza, per ora, in parallelo con le trionfanti tematiche securitarie. La nuova titolare del ministero ha un disegno in testa come dimostra il progetto di legge su scuola, università e non solo che ha presentato alla Camera nel febbraio scorso [vedi il testo sul sito di école]. È un progetto di legge delega e prelettorale quindi anche propagandistico, ma ben articolato, concreto, e mette insieme aspetti molteplici che ora, in fase di governo, saranno magari affidati a una pluralità di atti: aspetti quali la valutazione delle scuole e dei singoli insegnanti, la fine della carriera per anzianità e l’introduzione della carriera premiale, il rafforzamento dei poteri organizzativi dei dirigenti scolastici e l’attribuzione a loro di un potere di valutazione influente ai fini della promozione di carriera, la nomina politica dei dirigenti apicali, il buono scuola per le famiglie, il rafforzamento dell’autonomia e della concorrenza tra le scuole mediante la ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo. Diciamo che ci sono lì dentro, ma rideclinati intorno al concetto di qualità-merito, tutti i temi delle destre sul sistema della scuola (e dell’università), tranne il federalismo. E per quanto riguarda gli studenti e la funzione sociale della scuola il progetto cita l’obiettivo esplicito dell’«aumento della selettività dei meccanismi di avanzamento scolastico», anche attraverso la reintroduzione degli esami di riparazione; concetti che in termini ufficiali non si erano sentiti dal 1923, mi pare. Scopo dichiarato di queste proposte: contrastare la crisi di fiducia e di speranza del sistema-paese tra le cui cause «si può annoverare la scarsa valorizzazione del merito come criterio di distribuzione delle opportunità e di valutazione delle persone». La mia tremenda professoressa del ginnasio di quarantacinque anni fa sottoscriverebbe in pieno. Un ciclo si chiude. Il buono scuola che un tempo nel programma delle destre liberiste era giustificato soprattutto in chiave cattolica dalla centralità delle famiglie, è presentato ora come parte di una visione che ha al cuore la qualità del sistema-paese. Questo mutamento di accenti, che segna anche il probabile superamento di uno dei punti più effimeri e forzati del progetto morattiano, il portfolio individuale, può essere un fatto di dettaglio, comunque corrisponde al nuovo ruolo di governo delle destre (non hanno più tanto bisogno di usare il tema della famiglia come cavallo di Troia) ed è influenzato da un certo dibattito dedicato alle proposte per la scuola sviluppato in Moderati - modernizzatori Si è costituita una specie di costellazione di gruppi di pensiero moderati-modernizzatori poco noti al vasto pubblico ma forse non per questo meno efficaci nell’orientare, dato il comune sentire di fondo, l’azione del nuovo governo nel campo della scuola, il cui principale ostacolo ora potrebbe essere solo di carattere finanziario, dato che anche le riforme tese a incentivare lo sfruttamento e l’autosfruttamento è difficile che sfondino senza una certa dotazione iniziale di liquidità fresca aggiuntiva. Tra questi gruppi di pensiero convergenti e attivi sono da citare l’associazione Treellle di Attilio Oliva (www.treellle.org), la Confindustria, l’Anp (Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola), in modo molto più strano e contraddittorio il cosiddetto Gruppo di Firenze (Gian Luigi Beccaria, Giovanni Belardelli, Remo Bodei, Piero Craveri, Giorgio De Rienzo, Giulio Ferroni, Ernesto Galli Della Loggia, Sergio Givone, Giorgio Israel, Mario Pirani, Lucio Russo, Giovanni Sartori, Aldo Schiavone, Sebastiano Vassalli e Salvatore Veca) che nel marzo 2008 ha pubblicato una lettera aperta per dire «basta» al falso egualitarismo e al buonismo a scuola (e credono questi professori con la testa nelle nuvole che questa loro presa di posizione sia contraria «all’ideologia demente della scuola-azienda»), infine il Gruppo del buonsenso (Vittorio Campione, Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio Gentili, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi, Silvano Tagliagambe, Stefano Versari) che ha fatto lo stesso il 27 marzo. Una cosa interessante è che molte delle tematiche condivise con diversi accenti da questi gruppi erano già presenti nel Quaderno bianco sulla scuola (settembre 2007) realizzato dagli esperti dei ministeri della Pubblica istruzione e dell’Economia del passato governo Prodi. Le idee di queste associazioni meritano di essere presentate e analizzate in modo dettagliato. Vi si può trovare anche qualche perla di intelligenza, qualcosa da cui la sinistra può imparare: per esempio Treellle propone la riduzione del tempo scuola nelle superiori a trenta ore settimanali. Tutto bruciato allora il terreno per una visione democratica della scuola? Direi proprio di no dato che le proposte delle destre riguardano solo questioni di contorno al contenuto dei saperi e alla forma del processo di insegnamento-apprendimento e sono applicabili quindi solo agli aspetti gestibili da un potere manageriale standardizzato che considera la scuola come una qualunque attività produttiva seriale di mercato, il che nella concretezza delle scuole si tradurrà in relazioni clientelari senza qualità. école numero 69 pagina 5 INTERVISTA «La visione laica della società, anche nella scuola, sta venendo meno». «La perdita di laicità mi preoccupa perché i fondamentalismi, qui, come in qualsiasi altro luogo si sconfiggono con una cultura laica». Una incontro con Giuliana Sgrena sui pericoli connessi alla perdità di laicità e sugli errori della sinistra nell’affrontare la questione “sicurezza” Senza laicità non c’è libertà CELESTE GROSSI H o incontrato Giuliana Sgrena il 18 aprile. Pochi giorni dopo le elezioni politiche che hanno consegnato l’Italia alle destre è stato naturale commentare il voto. Dopo il risultato elettorale non c’è più una forza laica in Parlamento... Alcune forze si definiscono laiche, ma sono subalterne al Vaticano. La perdita di laicità è stata evidente fin dalla campagna elettorale. Insieme ad altri temi, come pace, guerra, politica estera è stata marginalizzata. Un po’ di più si è parlato dei diritti delle donne, ma erano comunque decontestualizzati. Caduti valori e ideologie si recupera una visione del mondo che si rifà alle religioni. Anche la sinistra italiana appoggia il papa quando si scaglia contro il consumismo, rimanendo isolata quando tutti si alleano contro i diritti delle donne. Si è persino persa la parola laico, ormai è si usa il termine laicista. Io non penso di essere laicista, sono laica. La perdita di laicità mi preoccupa perché i fondamentalismi, qui, come in qualsiasi altro luogo si sconfiggono con la laicità. Invece in questo momento si ha paura a prendere posizione. Si possono tracciare dei parallelismi tra la crescita dei fondamentalismi nei paesi musulmani e la crescita delle destre qui in Italia? In qualche modo sì. La crisi economica porta a votare a destra. Le destre italiane e la Lega école numero 69 pagina 6 hanno affinità con movimenti come Hamas ed il Fis algerino le cui parole d’ordine sono le stesse: diminuzione delle tasse e liberalismo economico. Chi si sente minacciato si affida alle destre. Perfino molti immigrati votano a destra. A Roma un Partito di immigrati ha esplicitamente appoggiato Alemanno. Conosco una donna marocchina che è stata eletta per Alleanza nazionale, suo padre socialista non le parla più, ma lei dalla sinistra non è stata ascoltata e ha aderito al partito di uno dei firmatari della Bossi-Fini. Un paradosso, ma non è l’unico. In Palestina, una nazione di cultura laica, perfino molte donne e uomini cristiani hanno votato per una forza politica islamista come Hamas. Perché? Perché Hamas è molto radicata socialmente; ha promesso di diminuire le tasse, di lottare contro la corruzione… In Italia il voto di protesta contro la corruzione è andato alla Lega, ma in parte anche all’Italia dei valori di Di Pietro, un giustizialista. Pensi che abbia contato anche la questione “sicurezza”? Penso di sì. Per rispondere alla destra che considera tutti gli immigrati dei delinquenti, la sinistra ha operato una discriminazione di segno opposto: tutti gli immigrati sono persone per bene. Al problema le destre, ma anche il Pd, hanno Giuliana Sgrena dato risposte repressive. La sinistra lo ha cancellato e non è stata in grado di dare risposte differenti. Ritengo che l’unico modo per evitare la paura degli altri sia conoscerli, ma conoscerli davvero. Mi sembra che in Italia, come nel resto dell’Europa stiamo assistendo a una regressione nei comportamenti che le comunità di immigrati impongono alle donne ma anche agli uomini. Pensi che questa possa essere una reazione alla mancata accoglienza dei “vecchi cittadini” da parte dei nuovi arrivati? Può essere questo il motivo che porta gli stranieri ad arroccarsi a identità legate principalmente all’appartenenza religiosa? Sì credo che sia così. Quando ci si trova in un ambiente diverso e “ostile” si recuperano le forme più arretrate delle proprie tradizioni e si tende a non contaminarsi e farsi contaminare da una cultura diversa. Tante donne che arrivano in Italia senza velo vengono incoraggiate dalla loro comunità a metterlo. Ho chiesto a molte di loro: «ma perché dopo un po’ mettete il velo, se non lo mettevate nel vostro paese di origine?». «Per avere il rispetto della mia comunità» è la risposta più frequente. È la comunità che impone loro un certo comportamento, una visione più rigida della pratica religiosa rispetto a quella che avevano nel loro paese. Insomma anche in Italia stiamo assistendo a una regressione rispetto alla pratica dell’Islam. Non è ancora una vera islamizzazione. In Francia e in altri paesi europei l’islamizzazione è molto più evidente [Se ne parla diffusamente nel recente libro di Sgrena, Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne, vedi la recensione qui a lato ndr]. Cosa si può fare per contrastare questa tendenza? Cosa può fare la scuola? Si è persa una dimensione laica della società e anche nella scuola è venuto meno un certo tipo di insegnamento capace di proporre una visione della società al di sopra delle religioni. Pensiamo all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche che nessuno più mette in discussione, all’esposizione del crocifisso nelle aule, all’aumento dei finanziamenti alle scuole confessionali… E non è certo una pratica laica quella di concedere ai musulmani di fare delle scuole craniche, solo perché non si vuole smettere di finanziare le scuole cattoliche. Cosa pensi dell’abolizione per legge di simboli religiosi nelle scuole e negli altri luoghi pubblici? Ho seguito da vicino la questione del divieto di esibire simboli religiosi nelle scuole in Francia. All’inizio mi sono chiesta se una coercizione fosse un modo efficace di affrontare la questione. Ma poi sono andata in Francia, nel dicembre 2005, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della proibizione e il problema del velo nelle scuole era quasi del tutto risolto. Le ragazze musulmane che io ho intervistato erano ben felici che la legge esistesse perché le metteva al riparo dal ricatto, non tanto ai loro genitori, quanto dei leader religiosi delle loro comunità che tramite l’imposizione del velo tendevano a controllare i loro comportamenti. Lì l’obbligo di legge ha funzionato, ma lì la scuola è laica. In Italia non è proponibile perché bisognerebbe cominciare dall’eliminazione dei crocifissi dalle aule. Dovremmo cominciare a essere più laici noi, prima di imporre agli altri di essere laici. Qui preferiamo andare avanti con posizioni ambigue che alimentano e avvantaggiano solo gli integralisti. Noi laici siamo pochi e non abbiamo reti di collegamento, i fondamentalisti sì. Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne A tredici anni dalla pubblicazione di La schiavitù del velo. Voci di donne contro l’integralismo islamico (da lei curato per manifesto libri), Giuliana Sgrena torna a occuparsi di chador, burqa, niqab... insomma delle tante vesti che il velo assume nei vari paesi musulmani. Quel pezzo di stoffa «rappresenta, e non solo simbolicamente, l’oppressione della donna nel mondo islamico». Attraverso l’imposizione del velo passa il tentativo di reislamizzazione e di controllo del corpo delle donne e di affermazione di consuetudini che spesso risalgono a prima della tradizione islamica, «ma che si incrociano perfettamente con un “nuovo” ritorno all’ordine maschile e reazionario». Nel libro-inchiesta Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne (Giangiacomo Feltrinelli Editore, collana “Serie Bianca”, pp. 160, euro 13, Milano, febbraio 2008), Sgrena esplora molti paesi a maggioranza islamica, dal Marocco all’Algeria, dalla Tunisia all’Egitto, dall’Arabia Saudita all’Iran, dalla Turchia all’Iraq, dalla Palestina al Kurdistan, ma anche paesi europei come la Bosnia-Erzegovina e la Romania, e le periferie della grandi città britanniche, francesi, italiane… Ed è forse questa la parte che più ci interroga e ci sollecita ad assumere consapevolezza dei danni che il relativismo culturale può fare anche qui da noi, dove, con l’alibi di rispettare le culture tradizionali, anche persone impegnate nelle lotte contro il razzismo e la xenofobia rischiano di lasciare che le donne della porta accanto alla nostra siano «ostaggio del loro gruppo di origine» e rimangano intrappolate nella Umma, la comunità islamica, che veglia sulla loro fedeltà a presunti principi religiosi, perché «l’onore dell’uomo deve essere garantito dal pudore della donna». Bisogna strappare dall’isolamento «tutte le donne musulmane che vivono, in Italia e in Europa, la doppia discriminazione di immigrate e di donne appartenenti a una comunità che non riconosce i loro diritti». Filo conduttore del libro-reportage – che raccoglie interviste a donne che hanno posizioni importanti nella società, donne di associazioni impegnate nella lotta per i diritti umani, ma anche a donne meno consapevoli – è quello di cercare i punti in comune ma anche le tante differenze che esistono tra le diverse realtà. Obiettivo dell’autrice «non è tanto la denuncia delle violazioni dei diritti delle donne nel mondo islamico […] bensì fare luce su una realtà poco nota e poco raccontata: la presenza nei paesi musulmani di donne (ma anche di uomini) che si battono per affermare quei valori universali, vanto del mondo occidentale, che vengono ancora negati in tanti luoghi, spesso con la nostra complicità». Perché Giuliana Sgrena è convinta che «più dei carri armati americani, sono le donne, e le loro organizzazioni, come dimostra l’esperienza algerina, a poter fermare l’imponente ondata illiberale che sta per prendere il sopravvento nei paesi islamici». E allora auguriamoci che qui in Italia, come nel resto del mondo, le donne possano presto «godersi il vento nei capelli, un segno di massima trasgressione, [perché] vuol dire non portare il velo e scegliere la libertà». C. G. école numero 69 pagina 7 TEMA DEMOCRAZIA E CITTADINANZA ATTIVA A CURA DI STEFANO VITALE Fanatismo, noia e distrazione sembrano affossare la prospettiva di una democrazia rifondata dal basso ma agganciata al senso del bene comune e delle istituzioni democratiche. Al di là dei giudizi sul destino politico di questo o quel partito, resta il fatto che la democrazia partecipativa può e deve avere un suo spazio. Forse è proprio questo tipo di democrazia che va meglio coltivata, anche e a maggior ragione nella scuola e nell’educazione, terreni su cui noi lavoriamo C’ è un vuoto di formazione, c’è un vuoto di partecipazione, è chiaro: e anche la sinistra è vittima di una delegittimazione della politica come “campo di crescita” di nuove figure, di nuove intelligenze. Eugenio Scalfari usa spesso la metafora dello specchio rotto per indicare la frammentazione politica e culturale in cui versa oggi l’Italia. E non è solo un’immagine per indicare uno stato di fatto, ma direi anche per additare uno scopo: quello di tentare di ricomporlo. La pluralità dei punti di vista è il sale della democrazia, ma quel che sembra latitare oggi è il senso della democrazia in quanto forma della partecipazione di tutti, in quanto struttura profonda del rispetto delle istituzioni quale spazio pubblico di garanzia di esercizio quotidiano dei diritti. In Italia manca, purtroppo, una sinistra capace di coniugare l’affermazione della laicità dello Stato e l’allargamento dei diritti (salute, cittadinanza, istruzione, unioni civili, ecc.) con l’elaborazione di una gestione dell’economia che sia garante del benessere equo e solidale dei cittadini. Di certo la politica in Italia non è più, almeno a sinistra, affermazione di “identità alte” e autoreferenziali. E questo non mi pare un dramma, anzi è forse un bene. Mi pare invece più problematica la perdita di un “orizzonte di promozione sociale”, così come lo ha definito Mario Pianta su Il manifesto del 1° maggio 2008. La perdita di una visione dell’economia fondata sulla redistribuzione equa della ricchezza prodotta ha dato via libera a ritorsioni populiste ed identitarie e localiste, inquinate dall’ideologia della “sicurezza” del proprio orticello. E mi pare altamente problematica l’ondata di “antipolitica” che ha visto in Grillo il suo alfiere più noto. Anche i girotondi erano una sorta di reazione alla politica, ma restavano in un orizzonte di “parte”. Ora invece è uno sparare contro tutti, senza proposte precise se non quella di esigere, e qui c’è qualcosa di buono, dei politici più vicini alle realtà locali. Sappiamo bene come l’attuale legge elettorale, che nessuno ha saputo e voluto cambiare, sia responsabile di uno svuotamento della partecipazione democratica annullando di fatto il ruolo del meccanismo delle preferenze che ha dato via libera a candidature di partito calate dall’alto ed a liste “di amici degli amici decise dal capo”. C’è un vuoto di formazione, c’è un vuoto di partecipazione è chiaro: ed anche la sinistra è vittima di una delegittimazione della politica come “campo di crescita” di nuove figure, di nuove intelligenze. La mentalità della politica spettacolo, della politica fatta con le televendite, i quiz immortali e le migliaia di trasmissioni dove il pubblico più becero è protagonista hanno fatto il resto. Siamo arrivati alla politica del “supermercato”: proviamo questo prodotto, sembra nuovo. Siamo ridotti entro i limiti del linguaggio calcistico e delle sue più trucide manifestazioni. [S. V. ] école numero 69 pagina 8 Lo spazio pubblico Quando una parola di nobili origini, come democrazia, ha bisogno di essere specificata da un aggettivo, come quello di “partecipata”, allora vuol dire che il concetto che quella parola rappresentava ha perso gran parte della sua efficacia, è diventato un concetto “debole” ENZO SCANDURRA * L a questione della democrazia è una di quelle questioni che ha attraversato la storia politica almeno dai tempi di Marx ad oggi, passando per Rousseau, Tocqueville e così via. Se si dovesse riassumere in una sola frase il senso di questo dilemma, si potrebbe efficacemente citare Hannah Arendt (Sulla rivoluzione): «L’alternativa tradizionale fra la rappresentanza come semplice sostituto dell’azione diretta del popolo e la rappresentanza come governo, controllato dal popolo, dei rappresentanti dei cittadini sul popolo stesso costituisce uno di quei dilemmi che non consentono soluzione. Se i rappresentanti eletti sono legati dalle istruzioni ricevute al punto di riunirsi solo per tradurre in atto la volontà dei loro elettori, possono ancora scegliere se considerarsi fattorini in abiti da cerimonia o esperti pagati come specialisti per rappresentare, al pari degli avvocati, gli interessi dei loro clienti […]. Se al contrario si intende che i rappresentanti abbiano, per un periodo limitato, il compito di governare coloro che li hanno eletti […] la rappresentanza significa che gli elettori rinunciano al loro potere, anche se volontariamente, e che il vecchio adagio “tutto il potere risiede nel popolo” è vero solo per il giorno delle elezioni». La riflessione di Hannah Arendt, scritta 60 anni fa, esprime assai bene il dilemma tra democrazia partecipativa e democrazia diretta e pone crudamente la questione dello spazio pubblico inteso come il luogo dove i singoli individui, uno per uno, possono prendere la parola e contribuire, uno per uno, alla decisione pubblica. La riflessione lapidaria della Arendt mostra, ovviamente, i segni del suo tempo. Ai nostri giorni assistiamo a interes- santi esperimenti, in tutto il mondo, di forme di gestione delle decisioni in cui a momenti di tipo assembleare, di indirizzo e di controllo, si alternano momenti operativi limitati a un più ridotto numero di partecipanti (delegati). In altri termini, si manifestano sempre più decise forme di superamento della democrazia rappresentativa attraverso innesti, spesso sperimentali ed effimeri, di forme di democrazia diretta. L’ascia del nonno La democrazia rappresentativa è una grande conquista dell’Occidente ma essa oggi non riesce più a rappresentare una società che si è fatta via via più complessa. Nei fatti, come ha ben sottolineato lo storico Paul Ginsburg in occasione del Social forum di Firenze del 2002, la democrazia rappresentativa è in crisi in tutti i paesi dove essa costituisce la forma di governo data; nella Gran Bretagna come anche nella Svezia. Un grande paradosso: proprio nel momento della massima espansione, viene la massima crisi, la massima astensione dal voto, il massimo senso di cinismo ver- so la politica generale e persino verso la democrazia. Noi non possiamo rinunciare a questo strumento né siamo in grado di sostituirlo; possiamo però migliorarlo e adeguarlo “affiancandolo” con una democrazia organizzata sulla partecipazione diretta dei cittadini. Ho usato, non a caso, il verbo “affiancare”, proprio a rimarcare la non sostituibilità della democrazia rappresentativa (non conosciamo uno strumento “migliore”). Sono molti e diversi i motivi della perdita di efficacia di questa forma di organizzazione della convivenza. Da una parte oggi tutte le democrazie mature, in Occidente, vedono aumentare istituti d’autorità che non hanno alcuna legittimazione elettiva. Per esempio la Banca mondiale, il Wto, l’autorità della privacy, quella per le comunicazioni e così via. Noi sappiamo a chi rispondono gli eletti, ma in questo caso a chi rispondono queste autorità se non sono state suffragate dal voto? Mi ricordo di una storiella che diversi anni fa raccontò il filosofo Salvatore Veca in un convegno che si svolse a Napoli. Immaginate, egli disse, che in école numero 69 pagina 9 una casa ci sia una stanza e che in questa un punto identitario rappresentato dall’ascia che apparteneva al nonno. Immaginate ora di ricevere un ospite e di mostrare a lui l’ascia del nonno aggiungendo: «Guarda che meraviglia l’ascia del nonno! È una cosa ereditata a cui teniamo tantissimo. Papà le ha cambiato il manico perché era stato mangiato dai tarli e io le ho cambiato la lama che si era arrugginita». Ora provate a sostituire l’ascia del nonno con la democrazia rappresentativa e… il gioco è fatto. Diversità e governamentalità Più recentemente un’interessante intervista a Giorgio Agamben mi ha fatto riflettere sulla crisi della rappresentanza. Il filosofo Agamben sostiene che tutte le società occidentali si stanno orientando verso un modello da lui stesso definito della “governamentalità”. Di cosa si tratta? La tradizione occidentale della democrazia moderna si fonda sull’idea di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito. Si ha democrazia, afferma Agamben, quando il sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che non è semplicemente esclusa. Ma se il potere costituito pretende invece di governare il potere costituente e di includerlo in sé, la base stessa della democrazia viene meno. La governamentalità è proprio questa degenerazione della democrazia, ovvero la pretesa di eliminare il conflitto fino alla ricerca del consenso alle scelte già fatte da parte degli eletti. È da qui, continua Agamben, che nasce il primato dell’economia e del diritto sulla politica. La democrazia, infatti, diventa sinonimo di gestione razionale degli uomini e delle cose. Le guerre, ad esempio, diventano operazioni di polizia e la volontà popolare un sondaggio di opinione. école numero 69 pagina 10 Questo cosa ha a che vedere con la partecipazione? Diciamo pure che molte esperienze partecipative si sono trasformate in dispositivi meccanici di ricerca del consenso dei cittadini e, dunque, senza apportare miglioramenti al sistema della democrazia rappresentativa. In altri casi l’esperienza partecipativa ha consentito, al contrario, di non chiudere il conflitto ma di trovare soluzioni diverse da quelle che in origine apparivano come le più probabili o le uniche compatibili con i vincoli economici e giuridici. L’esperienza della partecipazione quando non è manipolata o indotta dall’alto fa crescere l’autostima dei singoli soggetti, li educa a cercare insieme le soluzioni ai problemi (e fare politica significa cercare insieme le soluzioni), rompe le solitudini anguste e innesca circoli virtuosi che incrementano curiosità e conoscenza, fa acquisire consapevolezza della propria forza e dei propri limiti. Ma perché questo avvenga occorre che il potere costituito accetti di lasciare aperto il conflitto, si esponga al rischio di essere contestato. È bene cioè che sempre i due poteri, quello costituente e quello costituito, mantengano alta la dialettica del confronto evitando pericolosi e dannosi corti circuiti. Non c’è nessuna esperienza più bella di quella nella quale le differenze si incontrano e riconoscono ognuna le ragioni dell’altro senza rinunciare alle proprie. Cittadinanza cosciente Una cittadinanza che si dica attiva non dovrebbe né colludere con i partiti politici tradizionali e neppure pensare di sostituirsi ad essi. Semmai essa, dovrebbe “farli ballare”, tenerli sulla corda ricordandogli che la delega loro concessa (attraverso il meccanismo del voto) è sempre ritrattabile. Il non-voto è sempre un’espressione di rinuncia e di rassegnazione. Bisogna dirlo con fermezza: la col- pa non è soltanto dei partiti perché anche i singoli cittadini sono portatori di responsabilità. Noi dobbiamo tendere a costruire contesti dove si produca una cittadinanza cosciente, per far crescere persone che capiscono i problemi del mondo, che possono decidere in un modo o in un altro, per conto loro, informati, perché sono stati coinvolti e non esclusi. La dialettica tra cittadini attivi e partiti politici non è facile, non si esaurisce nel solo giorno del voto. Due anni fa assistemmo, in diretta televisiva, ad uno spettacolo indimenticabile: sulla spiaggia di Bari, dopo che i cittadini avevano manifestato per anni contro lo scempio di Punta Perotti, finalmente quella mostruosa barriera che divideva il paesaggio costiero come un gigantesco muro, fu fatto esplodere dagli artificieri. Le persone sulla spiaggia guardavano quello spettacolo che coronava il senso di una esperienza fatta insieme, vissuta non nella solitudine disperata di chi pensa che questo è il migliore dei mondi, vissuta non nella rassegnazione di chi pensa che cambiare non si può, ma vissuta come conquista di una comunità che non si rassegna ma che neppure delega interamente ai partiti il proprio destino, il destino dei luoghi dove i singoli della comunità sono cresciuti, luoghi da loro amati, luoghi cari entrati ormai nelle memorie dei singoli così come della comunità. A coloro che fossero sul punto di rassegnarsi, a coloro che stessero per cedere alle sirene del cinismo e dello “spirito del tempo”, all’epoca delle passioni tristi, consegno questo splendido messaggio di Pier Paolo Pasolini: «piange ciò che muta per farsi migliore». In questa frase c’è la cifra del cambiamento che è sempre personale, prima ancora che collettivo, così come sempre esso è anche inevitabilmente doloroso. * Università “La Sapienza”, Roma. Gustavo Zagrebelsky: educazione alla cittadinanza Pubblichiamo una sintesi (a cura di Cesare Pianciola), basata sulla registrazione audio, dell’intervento che il professor Gustavo Zagrebelsky ha pronunciato al Convegno “Insegnare laicamente. Ambiti disciplinari e saperi per una formazione critica”, organizzato dal Comitato Torinese per la Laicità della Scuola in collaborazione con Cemea Piemonte, CIDI, Fnism. Gli atti del convegno sono pubblicati su “Laicità”, n. 2, giugno 2008, disponibile anche sul sito www. arpnet.it/laisc V orrei segnalare l’Appello per un insegnamento di cultura civica che anch’io ho sottoscritto1. In Spagna la Chiesa si è opposta all’introduzione di un insegnamento simile ritenendosi spossessata di una sua prerogativa: dietro questa opposizione c’è l’idea che il buon cittadino sia solo quello educato ai principi del cattolicesimo romano. Il presidente francese Sarkozy, quando è stato recentemente ricevuto dal papa, ha detto una cosa analoga, suscitando le ire dei custodi della tradizione repubblicano-laica in Francia. Se l’educazione civica non si è diffusa e radicata in Italia è forse anche a causa di una sorda resistenza che ha presupposti di questo tipo. Cosa significa essere laici? Da giurista direi due cose. Ricorderei l’articolo 1 della Costituzione romana del 1848 che diceva: «Il potere del papa è abolito». E ricorderei anche che in una riunione del Parlamento italiano dopo l’unificazione, quando venne proposta una questione di teologia politica, un deputato propose una mozione che fu approvata e che diceva: «nulla curandosi dell’infallibilità del papa, il Parlamento passa all’ordine del giorno». Primo punto: fine della potestas diretta o indiretta della Chiesa in temporalibus e secondo punto: nelle questioni che riguardano la convivenza civile non c’è spazio per nessuna forma di infallibilità, papale o di altro genere. Sottotraccia In Italia le cose però avvengono sottotraccia. In Italia non è mai stato detto chiaramente quello che è stato detto nel 1984 dalla Conferenza episcopale spagnola all’epoca del governo del socialista Gonzales: la Chiesa dispone della verità e la verità sta sopra la Costituzione e sta sopra l’ordinamento giuridico. Forse le dichiarazioni più impegnative in questo senso si trovano nella Dominus Jesus della Congregazione della Fede, allora presieduta dal cardinale Ratzinger. Ma la pretesa di disporre della verità, non della verità che attiene alla sfera della fede ma di quelle verità che hanno una ricaduta sui comportamenti sociali e delle traduzioni giuridico-costituzionali, è continuamente presentata dalla Chiesa di Roma come servizio alla comunità civile, è presentata come offerta di valori a una società che ne sarebbe priva, in quanto precipitata nel relativismo e nel nichilismo. Quando si insegna l’educazione civica si pensa che il testo di riferimento sia la Costituzione, ma la risposta che proviene dalla Chiesa cattolica alla domanda su cosa tiene insieme la società è diversa: ciò che la tiene insieme è il complesso dei valori etici secondo il punto di vista cristiano-cattolico. I tempi di Bobbio sono lontanissimi: le questioni che si dibattevano nel confronto tra laici e clericali in fondo erano marginali, non mettevano in questione il rapporto tra Stato e Chiesa. L’ora di religione a scuola, il riconoscimento nell’ordinamento civile del matrimonio canonico e delle sentenze ecclesiastiche di annullamento, il finanziamento della scuola privata: queste erano le questioni. Oggi la Chiesa cattolica avanza una pretesa molto più grande, non si accontenta di essere una istituzione che, come dice il preambolo del Concordato del 1984, collabora con lo Stato per il bene dell’essere umano. Oggi vuole essere la base e dare un fondamento alla convivenza civile e pretende di controllare la vita nei suoi diversi momenti, dalla nascita alla morte. E viene ascoltata anche perché la Chiesa si presenta come un deposito di certezze rispetto alle insicurezze e alle paure che derivano dalle nuove conoscenze scientifiche e dalle biotecnologie. Certo non c’è nulla di veramente nuovo. Basta ricordare la polemica di Agostino contro Varrone, il quale sosteneva che ci si rivolge alla religione per rafforzare gli stati appena fondati, sicché nasce una politica teologi- ca. Per sant’Agostino, al contrario, prima degli Stati c’è la religione e quindi la teologia politica ha la priorità rispetto alla politica teologica. Che la religione serva a rafforzare la convivenza civile è una tesi fondamentale del costituzionalista cattolico Ernst Wolfgang Böckenförde, il quale nel saggio La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione del 1967 dice una frase famosa che è tornata poi nel confronto tra Habermas e Ratzinger: «Lo Stato secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire». Böckenförde si chiede: «Fino a che punto i popoli riuniti in Stati possono vivere sulla base della sola libertà, senza un legame unificante che preceda tale libertà?». Secondo questo scritto lo Stato basato sulla libertà è quello che garantisce a tutti di avanzare richieste a uno Stato sociale, uno Stato del benessere, che non pone limiti alle pretese. Le risposte non potranno che alimentare altre domande, ma c’è un limite degli Stati a soddisfare tali richieste, e a un certo punto si arriva alla crisi: quando Böckenförde faceva queste affermazioni si parlava della “crisi fiscale dello Stato”. Per soddisfare le domande in tema di istruzione, sostegni, benessere ecc. lo Stato non può che avvolgersi nella crisi. Insomma la libertà è disgregatrice e abbiamo bisogno di qualcosa che ponga un freno alla libertà. Le proposizioni di Böckenförde sono state interpretate in modi diversi. Nelle ultime pagine egli auspica una partecipazione dei cattolici alla vita politica perché mettano a disposizione il loro ethos per la rivitalizzazione dell’ethos comune. Sono pagine che dovevano essere uno stimolo alla partecipazione dei cattolici in Germania. Ma dicendo “precede” sembra pensare a un legame anteriore alla stessa libertà e a un privilegio di etiche pubbliche di ispirazione religiosa che dovrebécole numero 69 pagina 11 bero permeare capillarmente la società. Certe affermazioni di “nuova”, “sana” laicità hanno una ispirazione di questo genere. Laicità Negli scritti sulla democrazia di Gaetano Salvemini negli Stati Uniti, pubblicati ora da Bollati, c’è una pagina in cui denuncia la critica della democrazia senza aggettivi da parte dei regimi comunista e nazifascista come malsana, cui essi contrapponevano una democrazia “nuova” o “reale” o “sana”. La sana laicità che sentiamo oggi spesso invocare smentisce un caposaldo dello stato liberaldemocratico: l’equidistanza tra le varie concezioni e posizioni. In un recente convegno, svoltosi a Roma, Böckenförde ha detto che i non cattolici devono rassegnarsi a vivere «come nella diaspora», cioè come ospiti in casa altrui. Queste proposizioni sulla “sana laicità” hanno molte ricadute: dalla richiesta di limitare l’immigrazione a persone di religione cristiana alla pressione per introdurre nella Costituzione europea le cosiddette “radici giudaico-cristiane”. Si invoca una legittimazione speciale a chi appartiene a un certo filone religioso e culturale. Questo modo di pensare mette in discussione sia l’equidistanza dello Stato nei confronti di tutte le confessioni religiose e dei cittadini che non professano alcuna fede religiosa, sia l’eguaglianza di tutti i cittadini. Noi dovremmo insistere sul fatto che il fondamento della cittadinanza non può essere che un fondamento che si basa sulla libertà, cioè il modo di essere e di vivere dei cittadini non può essere stabilito che attraverso una discussione pubblica in cui ognuno riversa le sue convinzioni etiche e di valore, e in cui si assume la pluralità delle posizioni non come un difetto ma come una ricchezza della democrazia, creando così un ethos nel quale le nostre “verità” quando entrano nel dibattito pubblico diventano opinioni. Questo un uomo di fede difficilmente lo ammette perché ciò che è verità per lui ha una priorità assoluta che si trasforma facilmente in intolleranza, e che produce anche una inevitabile reazione di intolleranza in chi non è disposto a lasciarsi sopraffare da queste pretese verità indisponibili. Il problema non sono i postulati di valore che tutti hanno, credenti e non credenti, ma è come questi diversi valori si riversano nella cittadinanza democratica. Questo è il compito della scuola: creare delle piccole comunità in cui c’è un attaccamento ai propri postulati di valore, in cui non si è rinunciatari e indifferenti, ma nello stesso tempo c’è l’abitudine ad argomentare le proprie convinzioni in maniera tale che risultino accettabili anche da chi parte da postulati diversi, e in cui si è anche disposti a cambiare opinione sulla base del confronto e del convincimento reciproco. Questa secondo me è l’essenza dell’educazione alla cittadinanza. NOTA 1. Lo trovate a pagina 16. école numero 69 pagina 12 Scuola, il grado zero della democrazia Ha ancora senso parlare di democrazia nella scuola oggi? Nella scuola italiana attuale non esiste ormai quasi traccia di democrazia rappresentativa, oltre che di democrazia partecipativa. È abbastanza irrilevante allora che quest’ultimo termine si usi nel senso di democrazia diretta o che lo si intenda in modo più limitato come prassi di consultazione pubblica degli interessati: studenti, genitori, personale e cittadini PAOLO CHIAPPE N ormativa e discipline È citato nelle norme, è vero, a ogni passo il principio democratico della trasparenza, ma è subito contraddetto e bloccato, ridotto a semplici ludi cartacei dall’altrettanto onnipresente tema-pretesto della privacy. Esiste qualche caso in cui sia stato pubblicato l’elenco dei compensi aggiuntivi percepiti dal personale? Esiste ma raro. È cosa troppo nota lo svuotamento della pur imperfetta e limitata gestione collegiale del 1974 che è andato di pari passo, guarda caso, con l’aumento della percentuale di spese discrezionali (progetti e consulenze). Quando non c’era nulla da decidere si facevano cerimonie deliberative solenni, ora che da decidere qualcosina c’è, i processi sono privatizzati o come dice qualcuno, non a torto, feudalizzati. E questo svuotamento riguarda i momenti centrali, quelli delle singole istituzioni scolastiche e l’uso che si fa del diritto di assemblea e del diritto di tribuna. Ancora di più: non sono le singole norme ad essere svuotate, è venuto meno il loro stesso presupposto, l’essere la scuola una agorà e un luogo di cooperazione educativa, l’idea sociale che l’educazione sia un correttivo all’influenza della famiglia e l’idea liberaldemocratica che l’educazione sia educazione alla libertà. Sul piano giuridico, poi, l’autonomia fondata sul dirigente-manager equiparato al datore di lavoro, responsabile unico dei risultati, benché nei fatti, per la natura del lavoro educativo, non attuabile al cento per cento, è l’esatto opposto della democrazia. I residui della legislazione precedente in contraddizione logica con quella più recente non sono del tutto aboliti ma confinati in un limbo, rami secchi in attesa di resecazione, a cui non mancherà di provvedere la nuova maggioranza. Le normative disciplinari inserite per decreto e relative alla sospensione cautelativa di insegnanti senza consultazione di organi collegiali – già applicate a scopo esemplare e propagandistico in casi molto, ma molto discutibili – ci hanno fatto rimettere un piede nell’era della scuola illiberale: non c’è molto di peggio da aspettarci dai berlusconiani sotto questo punto di vista. Se mai la scuola pubblica del 2008 ha in comune con il mondo privato aziendale del neoliberismo una sana mancanza di ipocrisia, avendo proprio cancellato dal lessico gestionale anche la parola democrazia, oltre che il fatto. Perfino la cogestione è un concetto obsoleto. Qualche traccia della vecchia retorica rimane nei documenti che trasmettono le direttive di Bruxelles e Strasburgo. Proprio questa sparizione del concetto di democrazia dalle questioni di gestione della scuola (più che dai vaghi obiettivi umanistici dell’educazione) è l’elemento forse più rivelatore, dato che la retorica della democrazia si spreca in altri settori come dimostra il caso ben noto della politica estera. Cercare una ragione Come spiegare questa letterale damnatio memoriae? La prima spiegazione potrebbe es- sere che i documenti (leggi, direttive ecc.) riguardanti la scuola sia di parte governativa sia dei grandi partiti e sindacati sono sempre meno scritti da insegnanti e genitori e perfino politici e pedagogisti, e sempre più invece da dirigenti scolastici cooptati in modo privilegiato nelle commissioni consultive e negli staff ministeriali. La seconda e più tragica causa potrebbe essere che anche dal basso ormai c’è una accettazione profonda del principio tecnocratico di delega. Percorrendo il sito ministeriale della pubblica istruzione, che rispecchia ancora a fine aprile la passata gestione di centrosinistra, la parola democrazia, per non parlare di quell’altro concetto che la dovrebbe sostanziare, ovvero libertà (del tutto assente), non compare quasi mai né come obiettivo né come metodo in riferimento alla vita scolastica, ma solo come qualcosa a cui la scuola deve “preparare”. Le parole ricorrenti sono invece: cittadinanza (educazione alla), cittadinanza attiva, coinvolgimento attivo, collaborazione attiva, corresponsabilità, cooperazione (educazione alla), convivenza (educazione alla), e il brutto prosocialità. Rispetto alle forme gestionali e agli obiettivi della scuola compaiono il supporto, i referenti, la programmazione, le pari opportunità, l’intercultura. Sto esaminando non le pratiche, ma solo il lessico della retorica governativa di questi ultimi anni, però questo lessico deve pur avere un qualche rapporto con gli obiettivi educativi e la stessa forma-scuola che ha avuto in mente l’appena defunta maggioranza e in particolare quell’ala cattolica a cui è stata affidata la gestione del ministero. Il ministro Fioroni, nonostante la scelta di basso profilo legislativo della politica del cacciavite, ha cercato di segnare l’istituzione con una chiara impronta e questo soprattutto nell’ambito valoriale e quindi del linguaggio usato. Ricordo in proposito che la ministra Falcucci pretese la sostituzione della parola “fanciullo” alla parola “bambino” nei programmi dell’85 per le elementari. Ebbene, se si va a vedere che cosa sta scritto sotto le parole-chiave citate, il linguaggio usato da Fioroni rinvia a un ideale funzionalistico e comunitario in cui le singole persone da educare sono prese in carico per assicurargli un benessere che coincide con l’accettazione da parte loro delle regole del gruppo e in questa visione il conflitto compare solo come espressione di disagio, di egoismo asociale tendente al bullismo, come un disordine da prevenire e curare. Garante suprema contro l’incombente disordine è la filiera ministro-direttori-dirigenti, con un forte accento prefettizio sui direttori regionali, titolari di un rinnovato e discrezionale potere di sospensione verso gli insegnanti. Un potere istituito a freddo, senza nemmeno episodi che giustificassero un qualche tipo di allarme sociale strumentalizzabile in senso securitario o moralistico, e nella più totale distrazione delle forze governative di sinistra. Il tentativo di ripristinare la “severità” ver- so gli studenti invece è naufragato per ora nelle assurdità della organizzazione burocratica dei corsi di recupero e sarà cancellato a quanto pare dal governo di centrodestra per essere sostituito da qualcosa di peggio (voto di condotta che fa media) ma sempre nella stessa direzione punitiva e fondata sul semplicismo. Una questione europea, una questione politica Nel 2006 è uscita peraltro sulla democrazia una decisione del parlamento e del consiglio europeo che istituisce per il periodo 2007/13 il programma Europa per i cittadini volto alla «diffusione della cittadinanza attiva e quindi allo spirito di appartenenza ad una società fondata sui principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani». In attuazione di ciò il ministero della Pubblica Istruzione il 16 ottobre 2006 ha emanato una direttiva di indirizzo sul tema Cittadinanza, democrazia e legalità. In essa viene sottolineato come «l’equità sociale, la crescita economica di un Paese, l’occupazione e la coesione sociale non possono essere raggiunti se non attraverso l’efficienza e l’equità dell’istruzione». Si invita dunque ipocritamente «a mettere in atto tutte le condizioni per far sì che la legalità e la democrazia siano prassi diffuse nella comunità scolastica». La direttiva centra l’attenzione su «la partecipazione attiva dei giovani alla costruzione europea, alla comprensione delle diversità culturali presenti oggi nella nostra società ormai multietnica, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro il razzismo». Le scuole sono invitate a «promuovere tutte le occasioni di apprendimento formale e non formale» sia nella scuola sia al suo esterno, sono sollecitate non solo a individuare obiettivi di miglioramento per l’istruzione ma anche piani strategici per raggiungerli […]». Si tratta, come può capire chiunque abbia pratica della scuola, di semplice materiale cartaceo, di quello destinato a riempire il tavolo delle circolari insignificanti, perché non prescrivono scadenze burocratiche, e che viene svuotato alla fine dell’anno. Se per caso però lo volessimo prendere sul serio e analizzarlo, verrebbe fuori che tale direttiva intende la democrazia come un qualcosa a cui le istituzioni europee e nazionali pretendono di educare i cittadini e i futuri cittadini, cioè che siamo sempre in una visione paternalistica e predicatoria. La democrazia è il feticcio in nome del quale si autolegittimano le istituzioni molto lontane dai cittadini. Altro esempio: l’assemblea legislativa regionale dell’Emilia-Romagna ha prodotto due cd con il titolo Per la partecipazione democratica degli studenti che, pur essendo veicolati in un linguaggio multimediale più attraente delle soporifere direttive europee e ministeriali, non vanno oltre il livello di un kit di educazione civica: bibliografia, contatto con le istituzioni, esortazioni, attività e giochi di simulazione. L’impostazione è sempre quella paternalistica, del tipo fate i bravi bambini siate socievoli e non razzisti. Non c’è da stupirsi se poi in certi cervelli scatta l’equazione: ribellarsi al sistema = essere razzisti e violenti. Guardando al Manifesto dei valori – programma del Pd – si vede che la parola democrazia è citata due volte in rapporto alla scuola. Per il Pd infatti è nella scuola che «si pongono le premesse della cultura democratica indispensabile alla convivenza in una società sempre più plurale e multiculturale» e solo la scuola può consentire quella «democrazia della conoscenza e quell’integrazione culturale e sociale che siano all’altezza delle sfide della globalizzazione contemporanea». Tutto ciò però non si riferisce alle modalità di gestione o di partecipazione, ma di nuovo solo al risultato che ci si attende. Siamo sul terreno dei vaghi obiettivi umanistici, peraltro anche inquinati di ideologia della competizione globale. Sul sito della Cgil scuola si vede che il concetto di democrazia è citato, ma solo in relazione alla contrattazione decentrata delle Rsu. Peccato che il sequestro dei diritti sindacali da parte delle organizzazioni “maggiormente rapresentative” sia una cosa piuttosto lontana dal principio elementare della democrazia che è quello della rappresentanza universale. E peccato che le contrattazioni di scuola siano condotte per lo più in contesti di limitatissima autonomia dalle controparti (controparti che spesso sono anche interne alle Rsu dato che i membri degli staff e le figure obiettivo hanno una notevole possibilità di condizionamento e fusione di ruoli). Questa malinconica rassegna in sostanza registra la quasi assoluta impermeabilità del mondo-scuola ai valori e alle pratiche proclamate con troppo ottimismo dalla effimera fase dei social forum di inizio millennio, i valori di Porto Alegre, e quindi il nostro discorso finisce per essere un viaggio alle radici profonde della sconfitta politica della sinistra e dell’avvento dei partiti leaderistici e plebiscitari. Democrazia “r-esistenziale” Le vie d’uscita della scuola da questa piattezza cerebrale e di relazioni non sono diverse, nell’essenza, da quelle della società italiana in generale. Rimane primaria la lotta per la difesa dei principi costituzionali anche se dobbiamo essere consapevoli che in questo momento ha un carattere quasi resistenziale. Non si vedono all’orizzonte segnali di una ripresa di iniziativa collettiva nei luoghi di lavoro e dell’educazione e quindi è giusto e necessario rimettere al centro l’etica, questa può essere anche un’occasione per riflettere sui limiti di conformismo e superficialità che hanno avuto anche i movimenti più avanzati e riscoprire il valore della presa di parola in prima persona. Una dimensione che può anche andare di pari passo con la riaffermazione di una serietà dello studio e della ricerca, contro la scuola della facciata burocratica e delle vetrine ingannevoli. école numero 69 pagina 13 Il processo di apprendimento La scuola è uno spazio reale di scambio, confronto, scontro dove la cittadinanza attiva passa prima di tutto attraverso i processi di apprendimento. Ma c’è apprendimento senza democrazia? CLAUDIO BERETTA * L a scuola come istituzione deputata all’assoggettamento delle menti è stata oggetto di dure battaglie finalizzate a trasformarla nella scuola dello sviluppo del pensiero critico e dell’elevazione sociale dei diseredati. Per Don Milani ed i suoi allievi la scuola dell’obbligo non deve bocciare: che ci fa un quindicenne tra i dodicenni? La scuola deve essere quel luogo dove “si può sbagliare”, come ci suggerisce Clotilde Pontecorvo1. Da questi presupposti vi sono però stati in alcuni casi sviluppi controproducenti proprio per i figli di quei ceti economicamente disagiati che dovevano essere tutelati. Quando la scuola pubblica non induce più a studiare perché tanto passi l’anno lo stesso, abbiamo figli di laureati che, in un modo o nell’altro, vanno avanti, e studenti provenienti dai ceti sociali meno abbienti, che solo a scuola possono trovare gli stimoli necessari, che restano indietro a guardare, demotivati ed impreparati a far parte attivamente della società in cui vivono. Da una scuola fatta solo per chi era favorito da un retroterra culturale privilegiato e condivideva i valori dominanti, siamo passati ad una scuola che operava la selezione di classe attraverso la produzione di “titolati ignoranti” penalizzati sia dal punto di vista professionale che da quello personale ed impossibilitati ad essere cittadini attivi e partecipi in una “società orizzontale”, «basata non sulle gerarchie, ma sull’idea che l’umanità si promuova attraverso un percorso armonico in cui la collaborazione di ciascuno, secondo le proprie possibilità, contribuisce all’emancipazio- école numero 69 pagina 14 ne dei singoli ed al progredire della società nel suo insieme» (Gherardo Colombo)2.. Le disuguaglianze non si sanano, ma restano invariate se si sostituisce la selezione fatta con le bocciature con la selezione fatta di scuola peggiore, non esigente, povera di contenuti che non stimoli l’interesse dei ragazzi, che non li appassioni e non li renda liberi e protagonisti del loro futuro attraverso il sapere, il saper dire e lo scegliere (Sandra Gesualdi)3. Regole e libertà, programmi e creatività Quindi: regole e impegno. Sembrerebbe di doversi arrendere agli irriducibili critici del sessantotto. No. Si tratta solo di trovare il delicato equilibrio tra regole e libertà, che si gioca sugli aspetti educativi così come nella didattica, dove contenuti disciplinari e creatività progettuale cercano il loro ruolo. La rigidità dei cosiddetti programmi si scontra con le esigenze degli allievi di imparare qualcosa che sia connesso con la loro esperienza quotidiana. L’insegnante deve così adattarsi alle contingenze con flessibilità, ma senza perdere la linea conduttrice della sua disciplina, senza perdere la mappa, perché è vero che “la mappa non è il territorio”, però è utile! Dal punto di vista educativo l’assenza di regole e di riferimenti, causata da una genitorialità debole, costituisce un elemento determinante per lo sviluppo di forme di disadattamento sociale, nonché di disturbi psichici e la scuola rappresenta in alcuni casi l’unico riferimento normativo certo per bambini e ragazzi. D’altra parte: «alimentando, invece di reprimere, i caratteri, le inclinazio- ni, le capacità e le vocazioni personali delle giovani vite con le quali la scuola entra in rapporto, essa contribuisce a difendere la democrazia» (Gustavo Zagrebelsky)4. Esercitarsi alla democrazia tramite la cooperazione Quindi occorre creare uno spazio per le relazioni, per l’autonomia nella costruzione del proprio sapere e nello stesso tempo per la scoperta dell’interdipendenza dal compagno al fine di costruire qualcosa di superiore alla possibilità del singolo, per la scoperta della regola condivisa come necessità del vivere sociale nel rispetto reciproco, per l’assunzione di responsabilità individuali e per la condivisione di responsabilità collettive. Occorre creare uno spazio di cooperazione e di ricerca attiva. Da queste riflessioni, a volte latenti, agganciate alla mia esperienza di bambino che ha riscoperto il piacere della scuola grazie alle maestre ed alle professoresse non autoritarie ed anticonformiste ed alla mia esperienza di insegnante alla ricerca dell’equilibrio tra normativismo ed entropia, approdai all’apprendimento cooperativo, sperimentandolo con sano scetticismo ed ottenendo risultanti gratificanti. Lavorare in gruppi però non basta, occorre farlo con strutturazioni adeguate ad evitare le aberrazioni di questa modalità di lavoro: lasciare che uno lavori, gli altri stiano a guardare e tutti si prendano il merito è antieducativo, oltre che frustrante per i più generosi. Quindi un giorno, in una classe in cui una collega era disperata per il calo del rendimento, propongo di organizzare dei lavori in piccoli gruppi cooperativi, ispirandomi a quanto spiegato nei testi e nei corsi di Mario Comoglio5 e di Piergiuseppe Ellerani6. • Chiediamo ai ragazzi di dividersi in gruppi da quattro, eterogenei al loro interno, basandoci sulle abilità rilevate nell’ultima verifica. • Forniamo loro dei testi sui quali cercare delle informazioni. • Diamo ad ogni gruppo una parte diversa relativa allo stesso argomento e ad ogni studente una porzione della parte del suo gruppo. • Spieghiamo che daremo molta importanza alla capacità di collaborare dimostrata dai singoli gruppi ed in particolare alla capacità di dare ed accettare aiuto. • Al termine del lavoro ogni gruppo dovrà spiegare a tutta la classe la propria parte ed ogni allievo dovrà prendere appunti quando gli altri gruppi spiegheranno. • Viene prodotto da ogni gruppo un cartellone che servirà per la spiegazione alla classe e per la realizzazione di una mostra sull’argomento. • La valutazione finale sarà stabilità da una media delle valutazioni dei singoli membri del gruppo ed infine vi sarà una verifica individuale, come solitamente avviene, con le schede del libro. Ogni allievo è stato così trasformato in ri- EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA Sul sito di école potete trovare una scheda, curata da Marisa Notarnicola, su alcune delle agenzie formative che lavorano con le scuole sull’educazione alla cittadinanza. cercatore attivo, all’interno di un gruppo, responsabile verso gli altri, oltre che verso se stesso. Ognuno ha dato il proprio contributo in base alle proprie possibilità. Al termine il sogno si realizza: anche nella verifica individuale nessun fallimento, tutti almeno sufficienti e senza penalizzare le eccellenze che registrano anch’esse un netto miglioramento, ma soprattutto ci rendiamo conto che i ragazzi hanno sperimentato direttamente cosa significa essere solidali con i compagni in difficoltà o accettare di essere aiutati, traendone un beneficio comune. Gli insegnanti non hanno cercato solo di lasciare il proprio “segno”, ma anche di e-ducare, aiutando i ragazzi a tirar fuori le loro possibilità, di essere partecipi ed attivi, dando il proprio contributo alla comunità, a concepire il proprio e l’altrui miglioramento come eventi non confliggenti, ma complementari all’interno di una comunità di apprendimento. Se un segno è rimasto, oltre a quello relativo ai contenuti la cui padronanza era superiore alle aspettative, spero sia simile a quello lasciato a me da quelle insegnanti che mi hanno aiutato, da bambino, ad uscire dal tunnel della pedagogia oppressiva e mi hanno dato la possibilità di capire che la mia opinione ed il mio contributo sono importanti come quelli di qualunque altro cittadino della comunità di cui faccio parte (anche se spesso i nostri politici se ne dimenticano). Se esiste una qualche possibilità di “imparare la democrazia”, credo che percorsi di questo tipo, costantemente reiterati nelle prassi quotidiane della classe, siano esperienze utili alla «diffusione nelle coscienze dell’attaccamento alla dignità delle persone ed al valore della democrazia»7, nonché all’educazione alla pace, che nelle nostre classi e nelle nostre società multiculturali è quanto mai necessaria. Cultura civica “ricostituente” «L’istruzione pubblica è come un ramo di potere nel governo, distinto dal legislativo, dall’esecutivo e dal giudiziario. Esso si potrebbe chiamare il potere direttivo dell’opinione. Esso dunque, in ordine, è il primo dei poteri, perché l’opinione precede e dirige le leggi, l’esecuzione e i giudizi; è il più nobile dei poteri, perché influisce sull’animo immediatamente colla persuasione, è anche il più importante potere di tutti, poiché salvata l’opinione, gli altri si possono rigenerare, guastata l’opinione tutto è perduto» ENZO MARZO * * Insegnante, Tutor per “L’apprendimento Collaborativo”, Ce.Se.Di, Provincia di Torino. NOTE 1. Clotilde Pontecorvo intervistata da Stefano Vitale. 2. Gherardo Colombo, Sulle regole Feltrinelli, Milano 2008, p. 48. 3. Sandra Gesualdi, Come è nata Lettera ad una Professoressa, Sito fondazione Don Lorenzo Milani 2006. 4. Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Roma 2005 p. 29. 5. Mario Comoglio, Insegnare ed apprendere in gruppo, LAS Roma 1996. 6. Piergiuseppe Ellerani, Manuale per la realizzazione di unità di apprendimento, SEI Torino 2006. 7. Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Roma 2005 p. 51 C osì Lorenzo Mascheroni (1750-1800) due anni prima di morire presentava al Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina il primo piano organico della pubblica istruzione della nostra storia. Con queste parole, riesumate da italo mereu in un suo saggio pubblicato su Critica liberale nel 2005, si può dire che cominciammo una battaglia che è rimasta ancora agli inizi. Mereu spiegò benissimo quale è stato nella nostra storia il trattamento riser- vato alla “sovranità popolare”. Il risultato del “sapiente ed accorto disinteresse” delle varie classi dirigenti è davanti ai nostri occhi. Dalla fine dello scorso anno Critica liberale ha ripreso il vecchio impegno e ha proposto un appello sottoscritto da autorevolissime personalità della cultura per l’introduzione nella scuola italiana di quella che proponevamo si chiamasse “cultura civica”, proprio per distinguerla dall’esperienza della “educazione civiécole numero 69 pagina 15 ca”. In questo appello si sono indicate le cause del fallimento dell’educazione civica. Prima di tutto, non ha mai costituito un insegnamento autonomo, né gli sono stati assegnati tempi adeguati, né si è apprestata una preparazione idonea e specifica degli insegnanti. Ma maggiori ragguagli si ottengono leggendo direttamente l’appello, che è proposto alla discussione pubblica. Posso solo aggiungere che, sottoposto all’attenzione del Capo dello Stato, è stato apprezzato e Napolitano, anzi, ha sollecitato una continua informazione sull’argomento, come dimostrazione del suo interesse istituzionale per l’iniziativa. Quindi, dopo una pausa causata dall’incertezza politica provocata dalla crisi di governo, prima, e dal periodo pre e post-elettorale poi, riprendiamo l’iniziativa. Non ho particolari competenze di politica scolastica, e quindi sono il meno accreditato a parlare di una proposta che arricchirebbe molto l’insegnamento ai nostri giovani. Ma come osservatore delle cose italiane giudico la “cultura civica” una “necessità assoluta”. Addirittura un’emergenza nazionale. Abbiamo davanti agli occhi il baratro in cui è sprofondato il paese. Tutti gli indicatori europei ormai ci relegano agli ultimi posti, ci siamo avvitati in una crisi senza scampo visibile. Le ultime elezioni hanno sancito una carenza gravissima di democraticità dei nostri meccanismi elettorali. Il senso dello stato sembra ridotto a zero. I partiti hanno cessato da tempo di svolgere quel prezioso (e costituzionale) compito di tramite tra i cittadini e lo Stato. I giovani si abbeverano quasi esclusivamente in quell’unica fonte inquinata dal monopolio, che è la televisione-spazzatura. È in gioco persino l’unità del paese. Bisogna ricominciare daccapo. Partire da zero. Il nostro paese deve ritrovare una sua identità, il senso della legalità, alcuni valori condivisi. Per questo, prima, ho definito “emergenza nazionale” la condizione su cui potrebbe in qualche modo incidere − non risolutiva ma nemmeno piccola cosa − l’introduzione in tutti gli ordini e gradi dell’insegnamento delle nozioni di base del vivere civile. Abbiamo la Costituzione, ma se ne parla solo per manometterla. Cominciamo a farla studiare. Forse così i suoi valori saranno meglio difesi e più difficile sarà peggiorarla. Un certo scoramento, lo confesso, viene pensando alle difficoltà che abbiamo davanti. La classe politica, anche quella più avvertita, è cieca e sorda. Ma dobbiamo far finta di nulla. Operare “come se”, come se fossero ancora possibili riforme positive, come se ci fosse una sponda su cui appoggiarsi. Ai pessimisti-realisti come noi non resta che pensare alle nuove generazioni. Noi e i nostri figli ci troviamo davanti al fallimento di due generazioni. Ricominciamo da zero, con grande determinazione. Per farlo è necessario individuare gli strumenti obiettivamente controtendenza. La “cultura civica” è un primo gradino strategico. * Direttore di Critica liberale. école numero 69 pagina 16 APPELLO PER UN INSEGNAMENTO DI “CULTURA CIVICA” NELLA SCUOLA ITALIANA Riportiamo l’appello promosso e diffuso su iniziativa della Fondazione Critica liberale N el nostro paese sta maturando una crisi morale e politica assai grave che investe in particolare le nuove generazioni. Si tratta di un fenomeno di cui si avvertono i sintomi anche nel resto d’Europa, ma che in Italia è ormai così pervasivo da avere già provocato una profonda degradazione della convivenza civile e della vita democratica. Il peggioramento drammatico della qualità media del ceto politico, la crisi delle istituzioni, lo stato dell’informazione soprattutto televisiva, l’indebolirsi della solidarietà sociale, le tensioni provocate dai problemi derivanti dalle trasformazioni indotte nel mercato del lavoro e dall’accelerata immigrazione di massa generano, da un lato, sfiducia nella partecipazione politica e, dall’altro, forti regressioni di tipo comunitario, ghettizzazioni e manifestazioni di xenofobia. La scuola della repubblica, che tutti sono obbligati a frequentare per almeno otto anni, è una delle istituzioni cui compete dare attuazione all’imperativo costituzionale di rimuovere gli ostacoli culturali e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il loro sviluppo umano e la loro partecipazione alla vita democratica del paese. L’introduzione negli anni cinquanta dell’insegnamento dell’Educazione civica nei programmi scolastici aveva indicato una forma concreta per assolvere alla funzione di “educare” all’esercizio della sovranità popolare alla quale sono chiamati tutti i cittadini. Vari sono stati i motivi per i quali tale insegnamento non ha avuto gli esiti sperati: in particolare ha nuociuto l’assenza di un sua collocazione autonoma nei programmi e di una specifica preparazione professionale dei docenti. Invece è urgente introdurre un nuovo insegnamento che proponiamo di definire Cultura civica, inteso a favorire una consapevole partecipazione dei giovani alla vita civile e democratica, a promuovere lo spirito di solidarietà, la comprensione delle esigenze di una società sempre più pluralistica e il valore delle diversità, a diffondere la convinzione che diritti umani e democrazia non sono mai conquiste acquisite una volta per tutte, ma rappresentano gli esiti di una storia tormentata e sempre a rischio di essere rimessi in discussione. Per conseguire questo obiettivo è necessario che siano garantiti: un insegnamento specifico e autonomo; tempi e metodi adeguati; una preparazione idonea degli insegnanti, in rapporto ai diversi gradi e ordini di scuola. Nei primi anni di scuola s’impartiranno nozioni di comportamento civico, con l’ausilio anche di visite guidate ai luoghi istituzionali locali, di partecipazione a eventi pubblici, di interventi sul territorio, con l’intento di realizzare un maggior coinvolgimento nella tutela dell’ambiente e della vivibilità degli spazi comuni. Nella seconda metà degli anni dell’obbligo la Cultura civica sarà sviluppata estendendola a una prima conoscenza dei diritti universali, del significato della cittadinanza italiana ed europea e della carta costituzionale, con particolare riferimento ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini Nel triennio delle scuole superiori si procederà allo studio del testo costituzionale integrato da informazioni sul contesto storico, sul dibattito culturale e sui valori che hanno ispirato la nascita della repubblica italiana, nonché allo studio del processo di integrazione europea, delle sue motivazioni e del comune patrimonio civico e costituzionale. Primi firmatari: Giovanni Bachelet; Giulio Ercolessi; Sergio Lariccia; Giacomo Marramao; Enzo Marzo; Italo Mereu; Alessandro Pizzorusso; Clotilde Pontecorvo; Beatrice Rangoni Machiavelli; Stefano Rodotà;Carlo Augusto Viano; Marcello Vigli; Gustavo Zagrebelsky. Per aderire: [email protected] La comunicazione politica nell’era di Internet Concetti quali segmentazione, posizionamento, target e altri sono entrati a far parte della cultura di organizzazioni che al di là del contesto imprenditoriale usufruiscono di strumenti per raggiungere propri obiettivi. Tra questi appunto i soggetti politici. Il marketing entra dunque in politica: ma può diventare uno strumento al servizio della democrazia? EDOARDO CHIANURA I ndubbiamente aiuta ad analizzare il comportamento elettorale, a riconoscere il potenziale elettore, a trasmettergli un messaggio, dunque potrebbe aiutare la politica a essere più efficace nel dialogare con l’opinione pubblica. È comunque altrettanto chiaro sotto gli occhi di tutti che può essere usato in modo ingannevole, secondo il detto che «ogni strumento a disposizione dell’uomo non è positivo o negativo in sé, dipende da come lo si usa». La politica-mercato Sottinteso che il marketing fondamentalmente è un processo per la soddisfazione di bisogni e desideri: scoprire cosa desidera il consumatore e fornirglielo. E lo scopo dell’impresa è appunto quello di conquistare il mercato agendo nell’ambito delle sue regole: quale può essere lo scopo dei partiti politici? Quello di conquistare il potere agendo nell’ambito delle regole democratiche! In questo caso diventa fondamentale la capacità di procurarsi la competenza per poter offrire ciò che richiede il mercato e l’abilità di comunicare al mercato prescelto che si è in possesso di tale competenza. Questo è in fondo il compito per cui il marketing si prefigura. Ma se il consumatore ha, o si spera abbia, la capacità di accorgersi se le promesse ci siano o meno nel prodotto acquistato, per il cittadino/elettore può essere molto diverso. Il marketing, in qualità di “propaganda” (parola che si porta con se l’esperienze storica di momenti ben precisi del secolo appena passato), concepito e praticato con l’intento di acquisire l’abilità di conquistare il voto, attraverso tutte le tecniche che gli sono proprie, a questo punto si sovrappone al fine, divenendo “potere per il potere”. Per esempio fondare un partito per soli motivi di marketing, invadendo i canali televisivi di spot per creare una “notorietà di marca”, prima ancora che dietro vi sia un contenuto esplicito, è un inganno! Tuttavia se l’ottica del marketing è invece quella di rendere partecipe al dibattito, all’approfondimento, all’agire in sintonia con persone portatrici dei medesimi interessi, per incidere sulla concezione dell’importanza di un certo settore rispetto agli altri, lo strumento diventa opera della politica che fa del marketing politico il “marketing per la politica”. L’auspicio è quindi che l’elettore sensibile, consapevole, sia capace sempre di distinguere la politica da una saponetta, trasformando il marketing politico in un processo con il quale un soggetto politico pone in essere una serie di analisi e ricerche al fine di conoscere desideri e aspirazioni dall’elettore al fine di sviluppare un progetto politico particolare e globale che raccolga il consenso necessario alla conquista del potere democratico. Altra cosa è invece il “marketing elettorale” il cui fine è quello di ottenere che il maggior numero possibile di elettori faccia rifluire i suoi voti su un partito o un progetto politico”, con un riferimento indiretto al perio- do di campagna elettorale. Se già l’eccessivo potere esercitato dai media tradizionali nei confronti dei soggetti politici aveva in questi ultimi anni diffusamente messo in atto processi di scelta da parte dell’elettorato basati appunto su quel marketing, la rete Internet è andata via via rivoluzionando il mondo dell’informazione e della comunicazione politica come sino ad ora l’abbiamo percepita. Interessante diventa perciò scrutare le possibili applicazioni di Internet in campo politico, verificando soprattutto le modalità con cui i partiti attuali in Italia, e soprattutto in quest’ultima tornata elettorale, hanno adoperato questi strumenti verificando i vantaggi e/o svantaggi di un modello comunicativo che a differenza di quello verticale ed unidirezionale dei media tradizionali è orizzontale e bidirezionale. Se da una parte appunto si presta ad essere un canale “straordinario” (in senso aggiuntivo al già esistente) per veicolare informazioni verso i cittadini/elettori, dall’altra permetécole numero 69 pagina 17 te (grazie alla caratteristica multi-biunivocità del canale comunicativo) la riattivazione di quel processo inverso accennato all’inizio, ovvero la partecipazione attiva dei cittadini al dibattito politico. Dando per scontata la presenza di un sito di riferimento per ogni componente politica e lasciando da parte aspetti di base come il layout grafico/strutturale dei siti (alcuni sono molto attraenti e ben fatti, altri meno) o la scelta tecnica (architettura, linguaggio, database scelto, tipo di web server, ecc.), focalizzerò l’attenzione sugli strumenti web che si sono utilizzati per raccogliere consenso. Strumenti di community classici: Forum e Blog Un sito che oggi vuole dialogare con gli utenti ha due strumenti tipici: il forum e il blog. Per quanto si mischino sempre più, sono strumenti che servono soprattutto a parlare con gli utenti e a far parlare gli utenti tra di loro. In questo modo i visitatori possono diventare protagonisti, creatori essi stessi di contenuti. Ma è sufficiente aggiungere un forum o un blog al proprio sito per renderlo coinvolgente? Il problema è poi gestire, far vivere e aggiornare questi strumenti, perché in una community, se è pur vero che si ha bisogno di scambi, è altrettanto importante chi questi scambi li sappia gestire affinché il tutto non muoia nel giro di pochissimo tempo. Al di là della centralità del blog, ciò su cui bisogna saper insistere è il social Networking, ovvero tutto quel lavoro di gestione che sappia facilitare il passaggio dal virtuale al reale e non individuarne le potenzialità, proprio in un settore che richiede il coinvolgimento di sostenitori, è davvero una grave mancanza. Peer to Peer politico Per una campagna elettorale la rete potrebbe essere impiegata in moltissimi modi. Per école numero 69 pagina 18 esempio pensiamo alle notizie, ai programmi elettorali: se è vero che i programmi elettorali nascono con gli elettori, intesi come parte attiva del processo, e non “per” gli elettori, perché non immetterli nei network per farli condividere, migliorare, commentare, criticare? Approfittare del debug giornaliero effettuato da un vasto numero di sostenitori vuol dire passare dalla cerchia di poche persone a un network di migliaia di sostenitori, capaci di segnalare novità, lanciare allarmi e svolgere tutto quanto serve per vincere una campagna, 24 ore su 24 in tutta Italia. Allora cerchiamo di capire il rapporto tra i partiti politici ed Internet districandoci fra le diverse strutture dei principali siti partitici che hanno preso parte alla tornata elettorale. Innanzitutto cosa accadeva quando aprendo Google si provava a cercare “Pd”? Il primo risultato che saltava fuori era il sito del Partito Democratico, mentre se aggiungevamo alla precedente sigla una “L”, invece del Popolo della libertà, al primo punto si trovava la pagina del Partito del lavoro ticinese. In effetti il sito ufficiale del Partito Democratico ha funziona a pieno regime (tra news, forum tematici, blog e video) contando oltre 10 mila iscritti, mentre quello del Popolo della libertà – almeno per quanto riguarda i contenuti e il posizionamento nei motori di ricerca – annaspava un po’. Ma la Rete è stata veramente una delle forme attraverso cui si è vissuta la campagna elettorale, oltre che luogo in cui si è tentata la moderna politica e la moderna comunità come luogo interattivo per costruire un network di persone? Difficile dirlo, ma con la “lente di ingrandimento” dei blogger, si può affermare che se il portale del Pd ha tentato la creazione di una sorta di network informativo autosufficiente, capace di definire una propria agenda sulle principali tematiche politiche, economiche, sociali e culturali, quello del Popolo della Libertà, ha preso la via del “meta-portale”, vera e propria porta d’ingresso agli altri siti che gravitavano intorno al progetto politico berlusconiano: Forza Italia, Tv della libertà, Giornale della libertà e Circoli della libertà. Dunque, domanda fondamentale di questo nuovo modo di fare politica: chi ha vinto in Rete? Da un confronto del traffico su Internet (dati Alexa – www.alexa.com), il sito del Pd ha battuto piuttosto nettamente quello del Pdl, inglobando entusiasmi e dubbi in un nuovo spazio comune, utile anche a tastare il polso di quel che pensavano, chiedevano, volevano e non gli elettori. Visti i risultati elettorali si potrebbe però pensare che questo pur lodevole sforzo di coinvolgimento da parte del Pd non abbia conseguito i suoi scopi. E le altre formazioni che vantavano un candidato premier? Hanno praticamente snobbato la Rete continuando con i classici mezzi di comunicazione. Altri punti sarebbero a questo punto da affrontare: quale “democraticità” per la rete, quale nesso tra “innovazione tecnologica e rinnovamento della politica”, quali potenzialità democratiche della rete e quali limiti insiti nelle potenzialità stesse, ecc… Per finire, se tra le applicazioni di Internet nel mondo politico è da annoverare principalmente la possibilità di creare nuovi spazi pubblici “virtuali”, accessibili per via telematica, non bisogna dimenticare quel variegato mondo di gruppi di discussione e di comunità virtuali, tra cui le Reti civiche, che si sono rivelati luoghi attivi di partecipazione dei cittadini, al di là delle passate elezioni, per tutte quelle problematiche irrisolte e risolvibili che richiedono, in una democrazia moderna, un coinvolgimento diretto e diffuso dei cittadini stessi. IDEE per l’educazione LUDOPEDAGOGIA Nelle pratiche socio-educative formali e non formali che si occupano dello sviluppo di processi di partecipazione, uno degli elementi che non viene preso in considerazione e che di solito viene rimandato è la cognizione affettiva. Che relazione c’è, che relazione ci può essere tra partecipazione e piacere? Tra impegno e gioco, tra percorso formativo e partecipazione? Come promuovere la partecipazione tra i/le giovani? Come coinvolgere gli/le adolescenti che vivono in una società ricca, e sono abituati ad avere tutto, e tutto il superfluo? Disfonie: affettività e partecipazione ARIEL CASTELO, VALENTINA PESCETTI * S pesso, quando si progetta un intervento che ha come soggetto principale dell’azione gli/le adolescenti, lo si fa dal punto di vista – critico – degli adulti. Guardando quasi con pena, mai con nostalgia, quell’età così complicata dalla quale tutti siamo passati, fugacemente per fortuna, e, con la certezza di averla superata, possiamo dire che qualcosa non va, che è difficile coinvolgerli, che la comunicazione tra i due mondi – quello adulto e quello adolescente – è pressoché impossibile. Quando diciamo che una persona è “disfonica” significa che ha problemi con l’emissione della voce, che qualche dolore lo disturba e non gli permette di parlare con chiarezza. Quindi non può farsi sentire, non può entrare a far parte del circolo della comunicazione dove gli interlocutori sono collegati tra loro dal messaggio, dove si desidera far conoscere qualcosa all’altro; esprimersi affinché l’altro capisca, e per capirsi reciprocamente. Buona parte delle esperienze di esclusione sociale che soffrono adolescenti e giovani non arriva a esprimersi attraverso la razionalità del linguaggio parlato; per questo parliamo di “disfonie”. A partire da queste considerazioni, la Ludopedagogia sta sperimentando, da quasi vent’anni, la possibilità di lavorare con strumenti diversi alla costruzione di una cittadinanza che favorisca la partecipazione autentica dei giovani, integrando le peculiarità e le potenzialità di tutti. Da alcuni anni si stanno realizzando esperienze di questo tipo anche nel contesto socio-educativo italiano, con risultati significativi. Ludopedagogia: giocare con i sentimenti Crediamo che non solo sia giusto, ma anche necessario giocare con i sentimenti. Se vogliamo lavorare nel sociale, e soprattutto con gli/le adolescenti, giocare con i sentiécole numero 69 pagina 19 Ludopedagogia La Ludopedagogia, fondata e sperimentata da Ariel Castelo e dall’equipe de Centro de Investigación y Capacitación La Mancha, Uruguay, si sviluppa da 20 anni come progetto politico in quanto si propone come obiettivo principale di collaborare, attraverso il fenomeno ludico, alla trasformazione della realtà, nelle sue dimensioni sia oggettive che soggettive. Incorporando l’esperienza dell’Educazione Popolare di Paulo Freire, la Ludopedagogia la arricchisce con la dimensione socio-affettiva della corporeità, del piacere e dell’allegria, quali elementi strategici e fondanti il desiderio di partecipazione. Vedere www.mancha.org.uy, e-mail [email protected] Rete Latinoamericana di Gioco – ReLaJo Composta da diversi nuclei (Uruguay, Argentina, Messico, Nicaragua, Guatemala, Brasile e… Italia) che si stanno estendendo ad altri paesi, la Rete latinoamericana di gioco (www.relajo.org) dal 2006 si costituisce come opportunità di incontro e collaborazione tra diverse associazioni, persone e metodologie che condividono l’obiettivo di costruire l’altro mondo possibile, e organizza eventi di gioco e reti di lavoro intorno alla tematiche di gioco, potere e allegria come chiavi rivoluzionarie e rivoluzionanti. Scuola estiva di Ludopedagogia Nella prima settimana di settembre 2008 ReLaJo Italia organizzerà una scuola estiva residenziale di formazione iniziale teorico-pratica intensiva sulla Ludopedagogia. Contatti: Valentina Pascetti, [email protected]. menti ci aiuta a “riaggiustare” il nostro ruolo ed andare oltre le modalità operative che ci pongono quali artefici dei processi di partecipazione degli altri. Crediamo che sia imortante giocare con i sentimenti perché la partecipazione autentica ha una soglia imprescindibile di auto-motivazione e del desiderio del proprio soggetto, che non è trasferibile. Nelle pratiche socio-educative formali e non formali che si occupano dello sviluppo di processi di partecipazione, uno degli elementi che non viene preso in considerazione è la cognizione affettiva. Si cerca di arrivare alla conoscenza attivando solo meccanismi e sistemi di razionalizzazione e di conoscenza intellettuale, attraverso la catena di argomenti e blocchi di informazione. Si trascurano forme di incorporazione del sapere che percorrono altri registri di sensibilità, che prendono in considerazione elementi come il clima affettivo, i vincoli interpersonali, la dimensione corporale, gli stimoli sensopercettivi, i meccanismi intuitivi e di cognizione affettiva. La sensorialità e la singolarità percettiva si localizzano principalmente nella geografia corporale, convertendola in uno degli scenari privilegiati dove si dà l’acquisizione della conoscenza. école numero 69 pagina 20 Il gioco come proposta politica È non solo possibile, ma anzi strategico e necessario riscattare il gioco, l’allegria, il piacere come proposte politiche, per le loro potenzialità di sperimentazione, conoscenza critica ed integrale del reale, dove la conoscenza è capace di intrecciare l’emozione con la razionalità, il corpo con l’anima. Giocando e mettendosi in gioco si può conoscere la realtà e se stessi, e quindi sperimentare le possibilità di cambiamento. Da qui la proposta politica per migliorare il lavoro sociale: conoscere per trasformare, giocare per conoscere. * L’articolo nasce dalla rielaborazione di un testo di Ariel Castelo e Juan Pablo Bonetti, “Disfonias: entre la apatia y la participacion adolescente”. Centro de Investigacion y Capacitacion La Mancha, Uruguay, 2004. esperienze narrate MASSIMILIANO E IL TEATRO Fare tanto teatro. La decisione, presa a partire da un’improvvisazione inattesa sulla cattedra di un alunno nuovo in una terza elementare, avvia un percorso che dalla contestazione, passando per l’isolamento, porta fino al dialogo BRUNA CAMPOLMI * S iamo in terza elementare, 18 i bambini che già dalla prima sono insieme, e un bambino nuovo. Viene da una scuola vicina dove ha già frequentato la terza, soprattutto i corridoi della scuola. È tutto quello che su di lui sappiamo. Qui da noi viene a “ripetere”. Non ricordo cosa facemmo quella mattina per accoglierlo, è certo che ci saremo presentati, avremo detto i nostri nomi, gli avremo dato il benvenuto, ma proprio non ricordo cosa facemmo in quelle prime due ore. Avremo parlato delle vacanze? Fatto un disegno? Una lettura? È probabile. Non ricordo. Ricordo benissimo invece che quando suonò la campanella delle 10.30 che annunciava ricreazione e giardino, Massimiliano velocissimo con un balzo salì sulla cattedra e cominciò a urlare, a sbracciarsi e a dimenarsi. Non me l’aspettavo, rimasi immobile per un attimo e la prima cosa che mi passò per la mente fu: ora dico che non si scende in giardino se… Per fortuna subito, insieme, pensai che sarebbe stata la peggiore delle idee, avrei creato un nemico per i compagni, glielo avrei contrapposto e reso ostile, e avrei rinforzato il suo bisogno di contrapporsi ed esplodere. Capii che l’unico modo per uscirne, come sempre, era ricorrere all’aiuto dei compagni, ed esordii con un discorso che pressappoco fu questo: «Massimiliano si presenta a voi, forse è un principe che dal suo trono vuole parlarvi. Chi di voi viene a parlare con lui?». alludevano apertamente all’imminente merenda, altri bambini che si fingevano guerrieri e offrivano cavalli improvvisati con le stecche… fino a che Massimiliano tranquillamente saltò giù dalla cattedra, e tutti insieme scendemmo in giardino come se niente fosse successo. Chi era Massimiliano? Un ragazzo intelligente e curiosissimo, attento e interessato ad ogni stimolo reale, il più accorto durante le gite scolastiche ad ogni situazione e novità, insensibile o del tutto ostile, per mesi e mesi alle richieste “strettamente scolastiche”, contestatore di una normale dinamica di classe: quando entrava, ad esempio, una persona non conosciuta, facilmente si buttava in terra e strisciava fra i banchi; quando io, o le colleghe, parlavamo, facilmente si metteva ad urlare per coprire le nostre voci. Ma non furono mai i corridoi ad accoglierlo; ricordo di averlo tenuto stretto a me con un braccio mentre con l’altra mano gli tappavo la bocca e continuavo a parlare, sudando e passeggiando per l’aula, fino a che crollava di stanchezza e tornava al suo banco. Tre anni di serenità Per fortuna il lavoro di classe, già fin dalla prima, era organizzato con tempi prevalenti di lavoro a gruppi, piccoli gruppi, coppie, con attività molto variate, molto spazio dedicato al piano di lavoro portato avanti da ciascun bambino secondo i suoi ritmi e la sua organizzazione. Questo consentì a Massimiliano di lavorare con i compagni, uno, o due, anche fuori della classe, in biblioteca, o, ora sì anche nel corridoio, ma con una struttura consentita e organizzata. Il suo percorso scolastico a poco a poco si normalizzò; il foglio dei suoi testi rimase bianco per più di un anno, poi cominciò a riempirsi di storie e storie che avevano per protagonisti tutti i compagni di classe, con i loro pregi e i loro difetti, storie traballanti, confuse e ripetitive che esprimevano comunque un lavoro interiore e un percorso notevole dal periodo della contestazione a quello dell’isolamento fino a quello del dialogo. In quinta, quando progettammo che ciascun ragazzo per l’esame avrebbe fatto una ricerca monografica sull’argomento che sceglieva, e gli argomenti furono i più disparati, Massimiliano, che disponeva allora a casa di un computer e di una enciclopedia informatica, portò in un solo giorno per i compagni pagine riguardanti le loro ricerche, dal duomo di Firenze, ai canali di Venezia, agli antichi Egizi, alla storia del cavallo e via dicendo e si attestò ostinatamente a voler fare un lavoro sulle scavatrici, intorno alle quali poco riuscivamo a trovare sui libri. Non riuscimmo a dissuaderlo e a fargli cambiare argomento. Alla fine fummo in grado di trovare, insieme, noi, lui, i compagni, tante informazioni e ne uscì una discreta “tesina”. Per lui come scolaro penso che riuscimmo a fare molto, e questo gli consentì almeno tre anni di serenità a scuola e una certa fiducia in se stesso; quello che non fummo capaci di fare fu scavare veramente nei suoi problemi, ed aiutarlo forse contro mostri che lo perseguitavano e di fronte ai quali non riuscimmo ad avere il coraggio di combattere né avevamo forse gli strumenti per farlo. * Bruna Campolmi, è un’insegnante attiva nel Movimento di cooperazione educativa e autrice di Teatro scommessa educativa. Tecniche teatrali e di drammatizzazione per bambini ragazzi e adulti, Quaderni di Cooperazione Educativa, Edizioni Junior, 2007, pp. 171, euro 13,20. Attori e attrici Il primo ad alzarsi fu Pierfrancesco, un ragazzo con doti intellettuali straordinarie, forse compresse in un corpo che a fatica le conteneva. Si alzò e andò a parlargli con un’enfasi e una gestualità che non gli si erano mai viste e interloquì in una sorta di sfida cavalleresca fra principi. Mi accorsi che aveva bisogno quanto Massimiliano di quello sfogo, ma che non si sarebbe mai permesso di infrangere le regole, lui così sapiente e controllato. Ad uno ad una seguirono i compagni, con toni e gesti diversi: le bambine romantiche e leziose principesse, o cuoche grassocce che école numero 69 pagina 21 I CORSI DI RECUPERO. LA DEMAGOGIA DI FIORONI IN EREDITÀ ALLA DESTRA le leggi Per rispondere alle notizie di stampa sul livello di preparazione degli studenti italiani l’ex Ministro Fioroni aveva pensato di reintrodurre, in modo camuffato, gli esami di riparazione. Una novità che avevaa suscitato molte polemiche e perplessità di ordine didattico, professionale ed economico, ma anche giuridico. Ora queste stupefacenti innovazioni del centro-sinistra saranno gestite dal governo di destra che, grazie alle scelte del centro-sinistra, dovrà soltanto continuare! mente sono palesemente illegittimi, ma soprattutto stupisce la superficialità con cui il medesimo Ministro è intervenuto su problemi complessi che richiedono analisi più approfondite ed interventi più efficaci. CORRADO MAUCERI C on il Decreto Ministeriale n. 80 del 3 ottobre 2007, dopo aver dettato nuove disposizioni per l’organizzazione degli interventi di recupero durante l’anno scolastico, ha previsto che nei confronti degli studenti che al termine delle lezioni non abbiano conseguito la sufficienza, il Consiglio di classe ove non ritenga di adottare un immediato giudizio di non promozione, procede «al rinvio della formulazione del giudizio finale»; nel contempo deve definire gli interventi didattici finalizzati al recupero entro la fine dell’anno scolastico. La scuola dovrà organizzare tali interventi didattici che si svolgeranno nel periodo estivo. A conclusione di tali interventi didattici il Consiglio di classe, «in sede di integrazione dello scrutinio finale» procede alla verifica dei risultati conseguiti ed alla formulazione del giudizio definitivo. In sostanza si ripropongono il rinvio a settembre e l’esame di riparazione, la differenza è che prima tali interventi erano affidati al- l’iniziativa delle famiglie (lezioni private), con la nuova normativa deve invece provvedere la scuola. Con l’Ordinanza Ministeriale n. 92 del 5 novembre 2007 il Ministro ha dato le disposizioni attuative, prevedendo, tra l’altro, che «nelle attività di sostegno e recupero siano impiegate in primo luogo docenti dell’istituto e, in seconda istanza, si ricorre a docenti esterni e/o a soggetti esterni, con l’esclusione di Enti “profit” individuati secondo criteri di qualità deliberati dal collegio dei docenti e approvati del Consiglio di Istituto». Ovviamente l’innovazione ha suscitato molte polemiche e perplessità di ordine didattico, professionale ed economico, ma anche giuridico. Si deve infatti rilevare la disinvoltura con cui il Ministro Fioroni ha continuato a modificare le leggi con decreti e regolamenti, che ovvia- È fuori di dubbio che gli interventi didattici, affidati a docenti che possono essere anche esterni, non possono garantire un effettivo recupero; quindi o saranno una finzione con una promozione differita oppure una bocciatura preannunciata; nell’una e nell’altra ipotesi sono uno spreco per una soluzione di facciata che non risolve il problema dell’efficacia del nostro sistema scolastico. Sono necessari ben altri interventi, a cominciare dalla riduzione del numero degli alunni in classe. LE DITA NELL’INCHIOSTRO «D i tanto in tanto qualcuno annuncia un Nuovo Rinascimento, per dirci che finalmente dopo la crisi risorgono arti e ricchezza, benessere e ottimismo. Quasi sempre la voce viene dal mondo dell’industria, del commercio, della finanza. Non vorremmo che del Rinascimento tornasse il peggio, che di solito nelle scuole non si dice, e invece dovrebbe essere detto a più chiare lettere: l’onnipotenza dei signori, il cinismo dei consiglieri, la cortigianeria degli intellettuali, l’ignoranza e la povertà della gente comune, le carestie, i pidocchi, le malattie... Gli stessi capolavori, che hanno illuminato il Rinascimento, li ammiriamo oggi nei musei, ma all’epoca rimanevano nel chiuso nelle case patrizie; e il fasto visibile di chiese e palazzi era lì, più che per la gioia degli occhi, per ribadire le differenze e il potere dei potenti. Se crescono le distanze fra la “massa” e l’élite, fra i diritti dichiarati e quelli rispettati, non è un nuovo, ma proprio il vecchio Rinascimento, con in più qualcosa di peggio. Questo tipo di rinascimento, che non merita la maiuscola, non è bello. E non è bello rallegrarsi di certi ritorni». Così recita la voce Rinascimento del capitolo Alfabeto – Umanesimo, hai detto? (gli altri due si intitolano “Diario – Le masse sono euclideee” e Dai banchi – l’odore della scuola) del libro di Lidia Gargiulo Le dita nell’inchiostro. Insegnare che passione (pp. 142, euro 10, Armando, Roma 2008). E di Rinascimento con la “R” maiuscola la scuola italiana ha davvero bisogno perché, come scrive l’autrice, «Alla scuola non basta il solitario esperimento di pochi bravissimi e silenziosi, il decoro e l’onore dell’intero corpo (insegnante) non può essere affidato ai fiori all’occhiello». école numero 69 pagina 22 [ La distruzione della scuola pubblica INFO Subito dopo il risultato elettorale il CISP - Centro di iniziative per la scuola pubblica di Roma riflette su alcuni punti programmatici dalle nuova maggioranza Filosofia delle donne Fanno riferimento al libro di Pieranna Garavaso e Nicla Vassallo, Filosofia delle donne, pubblicato da Laterza, i tre videodialoghi, di Nicla Vassallo con Claudia Mancina (http://it.youtube.com/ watch?v=e9PDcMdwnhc) e con Sylvie Coyaud (http://it.youtube.com/ watch?v=WenKLAVOwLk; http://it.youtube.com/ watch?v=XR01HbM9Afw), girati da Serafino Amato, a Spoletoscienza. C i accingiamo ad assistere alla definitiva distruzione della scuola pubblica. I passaggi cruciali di questa distruzione sono sintetizzati nei seguenti punti programmatici della nuova maggioranza: 1. ogni istituito potrà scegliere almeno la metà del proprio corpo docente; 2. le scuole saranno avviate ad una maggiore autonomia nella prospettiva del sistema nazionale integrato pubblico-privato (già previsto nella legge morattiana 27/2006, in parte attuata nel Regolamento del ministro Fioroni recentemente impugnato dall’Associazione Nazionale “Per la Scuola della Repubblica”) 3. la scuola sarà riformata secondo il principio della sussidiarietà orizzontale con la prevalenza delle scelte dei cittadini su quelle dello Stato e si punterà a superare quello che è stato definito il “falso mito della scuola unica” e ad abolire il valore legale del titolo di studio. Da questi punti programmatici deriverà che: 1. Sarà consentito ad ogni dirigente scolastico nominare in via diretta la metà del corpo docente. Ciò significa in primo luogo determinare un’evidente disparità nel regime delle assunzioni, disparità inconciliabile con l’uguaglianza dei diritti di chi nel settore pubblico esercita le medesime funzioni; significa creare un “mercato” delle assunzioni, mettendo in atto una sorta di gara tra le scuole per procurarsi docenti che godono di “buona fama”, ma anche, più semplicemente, alimentare clientelismi che si ritenevano superati per sempre. La “raccomandazione” o i “rapporti privati” se fin qui venivano considerate modalità che ripugnano alla coscienza collettiva, sarebbero – con un simile provvedimento – trasformati in “sistema”, ovvero istituzionalizzati e sostituirebbero i criteri oggettivi di valutazione oggi vigenti, che hanno fin qui garantito non soltanto un accesso democratico all’insegnamento ma soprattutto hanno garantito la libertà d’insegnamento. La competenza e la capacità dei docenti “scelti” serviranno a tranquillizzare i genitori circa la qualità della scuola prescelta: una scuola seria, in cui i docenti “valgono” e viene premiato il merito degli alunni. La denigrazione dei docenti “imposti” dalla graduatoria non potrà non avere conseguenze sugli assetti interni, e ricadute sulla loro considerazione da parte di alunni, genitori (forse anche colleghi…) con rischi di demotivazione per molti docenti. Cosa ha a che vedere tutto ciò con la qualità di una valida formazione rivolta a tutti i docenti? 2. Proclamare la necessità di una maggiore autonomia delle scuole ha come falsa giustificazione la risposta ad esigenze di funzionalità e di democrazia. Ciò non corrisponde al vero. Quando si sostiene che la maggiore autonomia serve ad adeguare, sotto il profilo funzionale, gli interventi didattico–educativi alle diverse realtà locali, significa accettare che gli interessi collettivi del gruppo più forte prevalgano sugli interessi dei gruppi minoritari che non riusciranno a trovare uno spazio sufficiente per sopravvivere, e che valori condivisi a livello nazionale e rispecchiati nella nostra Costituzione possano essere tranquillamente negati da localismi insorgenti. Verrebbero così meno le garanzie che hanno fin qui consentito l’integrazione del sapere individuale con il sapere collettivo nella valorizzazione delle differenze e la creazione di una cultura laica e liberale, scevra da qualsiasi federalismo culturale. Certamente sarebbe stato possibile passare dal centralismo ministeriale a un’autonomia scolastica indice di autentica democrazia, ma ciò avrebbe richiesto l’attuazione dell’autonomia dell’intero sistema formativo, ben altra cosa rispetto alla limitata autonomia competitiva delle singole scuole… Ma ciò non è avvenuto! 3. Solo se si manterrà l’uniformità a livello nazionale dei programmi e dei criteri di valutazione sarà garantito il diritto allo studio e alla libertà d’insegnamento. Diversamente avremo una scuola che vedrà aumentare le possibilità di penetrazione nel tessuto sociale da parte di organizzazioni esterne le cui finalità non possono coincidere con l’unicità della funzione formativa della scuola della Repubblica. La “normalità del razzismo” Nel suo libro, Lessico del razzismo democratico: le parole che escludono (DeriveApprodi, 2008, pp. 140, euro 10), Giuseppe Faso ci mette in guardia sui rischi delle descrizioni superficiali di fenomeni sociali complessi e lo fa attraverso le parole scritte e pronunciate nella nostra quotidianità: articoli, chiacchiere intercettate nei bar, documenti della pubblica amministrazione. Apprendere insieme Dal 24 al 29 agosto 2008, si tiene a Capodimonte (VT) C’e’ chi dice no!. Educare creando contesti per apprendere insieme, XVI corso residenziale di formazione realizzato dall’equipe Scuola Estiva del Movimento di Cooperazione Educativa. Per informazioni: MCE di Venezia, tel. 041.952362, [email protected]; MCE di Portogruaro, tel. 0421.71645, [email protected]; MCE di Roma, tel. 06.4457228, [email protected]; www.mce-fimem.it. L’estate a Cenci Dal 29 giugno al 5 luglio 2008: “Villaggio educativo”, 7 giorni e 7 notti per partecipanti dai 7 ai 70 anni. Dall’1 al 10 luglio: Nella natura, campo estivo per ragazzi da 8 a 15 anni, organizzato in collaborazione con la cooperativa sociale Cipss. Dal 21 al 27 luglio: Tempo e presenza, laboratorio di ecologia teatrale proposto da Jairo Cuesta e Jim Slowiak. Dal 5 al 15 agosto: Incontro con l’India. La ricerca delle sorgenti (informazioni Abani o Eleonora, tel. 06.6386131, e-mail [email protected]; [email protected]). Dal 18 al 22 agosto: Nell’atto del creare, pratiche vocali a partire dalla ricerca antropologica sul canto sciamanico e dall’esperienza del Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski (informazioni Ewa Benesz, tel. 368.684180 - 339.2273126). Dal 19 al 21 settembre: L’officina matematica di Emma Castelnuovo, laboratorio operativo per la costruzione di strumenti didattici rivolto ad insegnanti di scuola elementare e media. Per informazioni: Casa-laboratorio di Cenci, associazione educativa, culturale ed artistica, strada di Luchiano 13, 05022 Amelia (Terni), tel. 0744.980330 - 339.5736449 - 338.4696119, e-mail [email protected], www.cencicasalab.it/cenci. école numero 69 pagina 23 nuovi arrivi PROVARE A LEGGERE IN RAP LIDIA GARGIULO L a scuola e la cultura al centro delle mie giornate, mi sono sempre intesa con gli alunni. Ma dopo quattr’anni all’estero, lettrice all’università, vedo tutto cambiato, difficile, indigesto. Ma sospendo il giudizio, voglio capire, servirà forse a stare insieme, tentare almeno. A 15 minuti da Milano. Periferia. Mi chiedo a volte il senso, i rapporti di lingua con reale. In ciascuno di noi dove sta il centro, dove la periferia? Tra loro e me non è la stessa la graduatoria dei valori: ciò che io lascio al margine, per loro è al centro. E nella loro testa io dove sto? Sono 21 tra i 16 e i 18, la maggioranza maschi, terza dell’Istituto Commerciale Professionale per il Turismo. Periferia: ci trovi il meglio e il peggio dell’umanità, fusione, confusione, laboratorio del cambiamento. Chissà se forse è questo il centro della storia. Da dove cominciare: metterli al centro del mio sguardo, mandare al margine le idee, le mie. Li metto a fuoco: passata è la tempesta dell’adolescenza, non hanno quindici anni, eppure sono inquieti, scalmanati. Passano senza salutare davanti al preside, ai bidelli, ai miei colleghi, arrivano in ritardo «perché fa freddo», «perché fa caldo», «non lo so perché», in verità perché non è un valore la puntualità; si fanno festa voltandomi le spalle come se non ci fossi, il centro sono loro e il cellulare, ed io periferia. «Questo possiamo fare contro la dispersione –ha detto il preside – accoglierli, sapere dove stanno, cosa fanno. A me degli insegnanti non importa niente, m’importano i ragazzi; la disciplina è un lusso, quando risolveremo il resto verrà la disciplina». Nella periferia dell’attenzione, io che ci faccio qui? Un nome senza storia Steve Carreras: un viso levigato tra queste facce ruvide, cara da indio, dorata con la luce filtrata di foresta e il fango della selva; la calma asciutta delle membra, lunghe quel tanto che basta al movimento tra i corpi esuberanti dei compagni, la loro forza senza direzione, le voci urlanti. Entra il bidello: quattro dal fondo scatta- no incontro: «Ambrogio, oilà», «Che ci porti di bello?», «Con questa sciarpa sei proprio scic», «Sta’ che ti sparo l’istantanea». «Vieni a vederti, Ambrogio, sembri un cummenda». Carreras Steve ripete l’anno la seconda volta, e dunque è in prima classe per la terza volta. Che c’è nella tua testa, Steve? Tu stai pensando: Che bella l’amicizia che fa stare insieme, un amico è importante alla mia età. Steve Carreras è nato qui, quindi è italiano. Ma che vuol dire Italia quando la mamma parla spagnolo come in Sudamerica? Dov’è l’Italia se i genitori stanno ancora in coda per la cittadinanza? Periferia che cerca il centro. Il nome stesso sarebbe Estèban come il nonno, ma “Steve” fa Primo Mondo, è scic, è glob e favorisce il blog. Salvo che mentre il nome fa un passo verso il centro, il nonno Estèban, il «padre di mio padre» va verso la periferia della memoria, e così pure il santo protettore, il senso di quel nome e la corona. Un nome senza storia “Steve”, periferia del cuore. La storia del mio nome Argomento per la prossima lezione: “La storia del mio nome”. Trovare il centro dentro, vicino a sé... Chissà se tace per educazione o solo per mancanza di abitudine. Periferia di questa classe Steve, al centro del mio sguardo. Ma stamattina un passo verso il centro: il nero dei capelli brilla, “scolpito” con il gel, si è pettinato come gli altri. È una domanda di ammissione al branco. «Lavori, Steve?». «Sto in formazione da un parrucchiere e centro estetico, a scuola vengo perché obbligato». «Non ti piacciono i libri?». «Non mi servono, creo, credo». «Perché?». école numero 69 pagina 24 Esperancia la mamma: «Faccio trabajo de limpieza, pulizie da un avocado, tengo che… sono venuta per segreteria e saludare profesora [me]. Questi ragazzi poco educati. Quando iero a scuela tenevo respeto par maestri, la escuela como iglesia, sagrada, in silenzio par escuciar, per ascoltare». Steve sorride della sua mamma poco moderna e intanto scambia occhiate con l’amica Deborah. «Mi chiamo Deborah con l’acca, l’acca è importante, chi non ci mette l’acca fa un errore». Questo mi ha detto il primo giorno dell’appello. (Così anche l’acca, che non ha mai contato, ha conquistato il centro). Deborah con l’acca mi confida: «Sono molto contenta del mio corpo, lo curo tutti i giorni con massaggi e step». «E quando studi?». «Studio così, segnora, io col mio corpo faccio pubblicità, un giorno avrò un salone estetico». «E il diploma?». «No serve scuola, ganare serve, guadagnare. No como ermana, mia sorella, no porta scollature, la notte dorme con segnora sola». Il corpo al centro, un corpo senza mente. Ma com’è falsa una mente senza corpo. Sarà possibile un corpo con la mente, una mente nel corpo? «E tu Patrik che farai dopo il diploma?». «Non prenderò il diploma, voglio fare il concorso per cantanti alla tivù. Il finalista quest’anno ha un premio di trecentomila. Con questi soldi produco il primo disco». Io mi recito versi Periferia: al centro l’immaginazione, le illusioni, per relegare ai bordi l’esistente. «Volete diventare tutti ricchi?». «Sììììì!!». «Ricchi, ricchi». «Le vacanze al caldo», «Viaggiare». «Andare in grandotel». «Col fuoristrada». «Ci sono i ricchi e io divento ricca». «Anche col tradimento di te stessa?». «È tradimento se non divento ricca». «Allora io sono poveraccia. Ti sembro poveraccia?». «Non so». «Ascolta. Immaginiamo una stazione. È notte, il treno non arriva, c’è un blackout. Non c’è campo per telefonare, non c’è luce, non c’è musica, niente, solo aspettare. Tu che fai?». «Io mi addormento, cerco un posto e mi addormento». «Ma perdi un pezzo della vita». «E lei?». «Io mi recito versi. So a memoria i poeti e non mi sento sola, sono con un poeta, ogni volta è diverso. Aprite la vostra antologia». «Non ce l’abbiamo». «Torniamo a prima. Dunque dicevo, siamo nella stazione. Voi dormite, io mi concentro: Verrà un giorno che il giovane dio sarà un uomo… Questo è Pavese, vi piacerà». Le prossime lezioni: gli spazi di dentro e la memoria. Fotocopiare: di Primo Levi le pagine sul canto di Ulisse, di Cesare Pavese Mito, di Italo Calvino l’intervista di dicembre del’ 79: «… nel Duemila che si avvicina, tra le cose che ci aiuteranno, avere a mente brani di autori che abbiamo amato». note in condotta «Non si guadagna». C’è un altro tipo di guadagno, ne dovremo parlare. Quali parole troverò? DOPO IL VENTO, DOPO LA BUFERA ANDREA BAGNI A parlare del 25 aprile sono venuti nella mia scuola due vecchi partigiani. Quando s’andiede sulle montagne s’eramo in pochi all’inizio a combattere; quando ci rastrellonno fu un macello. Parlano così dalle mie parti i vecchi. Come mio nonno e mio padre. Mentre raccontano si commuovono, ricordano i compagni perduti, prima il cognome poi il nome, perché sentono la sede ufficiale forse; cantano pezzi delle loro canzoni. Dicono sempre che sono felici di avere tanti giovani davanti: li abbracciano con gli occhi, come li accarezzassero, come vedessero tutto insieme il Nuovo Mondo. E non gli fosse proprio possibile smettere di avere speranza. Si capisce che sono anni che quello è il compito della loro vita: lasciare una memoria, trasmettere il testimone. Guardano indietro ormai, a quello che è stato il loro tempo, il senso della loro esistenza – che un senso l’ha avuto e bello forte. Avanti forse c’è poco da guardare. Ma in aprile a scuola sembrava tutto più amaro. All’indomani delle elezioni, certo, e tuttavia non solo per questo. Non per il passare del tempo ma per il passare del futuro. Non è che le ragazze e i ragazzi non ascoltassero, anzi. Chi racconta, racconta non spiega, è tutt’altro che un professore, il suo discorso è lontanissimo dai manuali di storia. E appassiona. Tanto che anche qualcuno dei giovani si commuove. Ma non ho chiaro dove la collocano quella storia nella loro mente, come la archiviano nella memoria. Partecipano intensamente ma ho paura che ascoltino come il bambino di Guccini di fronte al vecchio: mi piaccion le fiabe raccontane altre... Sanno ovviamente che è tutta storia vera, ma temo appartenga per loro a un mondo mitico, pieno di fascino ma lontano: quando le montagne erano verdi e ci si andiede per liberare l’Italia e s’aveva solo le rivoltelle neanche i fucili. Poi si leggono alcuni brani delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, e il salto del tempo – del futuro – è ancora più evidente. Straziante, quasi. Ragazzi di diciassette anni scrivono alle mamme che muoiono felici perché lo fanno per un’idea, hanno combattuto per una causa giusta: il comunismo, la libertà, la fratellanza. Il futuro. La nostra Italia mamma vedrai sarà diversa; ricordami ai fratelli e alle sorelle e non siate tristi pensando a me, io muoio felice. Giustizia, fratellanza, comunismo: che cosa significheranno per i giovani d’oggi non è mica facile dire. Il materiale si è separato dall’immaginario. La propria vita, i problemi e le sofferenze, da un ordine simbolico che le poteva spiegare e collocare in un quadro di liberazione. Potevi portare tutta la tua storia e narrarla dentro un pensiero e una pratica collettiva. Crescere oggi, invece, mi pare un bel casino. Ci penso quando riascolto ogni tanto le canzoni di lotta dell’Istituto De Martino: tema della non-violenza del tutto fuori orizzonte, spesso si canta l’essere parte di un esercito in guerra - ma quanta passione ed entusiasmo, quanta speranza nella vittoria. Anzi più che speranza, certezza incrollabile. Forse non mi corrisponde più tanto, però penso che sono cresciuto con questa idea, che il futuro era nelle nostre mani. Che potevamo cambiare il mondo. Nelle ragazze e nei ragazzi di oggi mi accorgo talvolta di una specie di nostalgia e d’invidia. Anche del ‘68. In quegli anni, profe, facevate davvero un sacco di cose, eravate importanti, vi ascoltavano. Da dove ripartire oggi, cosa dire agli operai della Lega – vi occupate solo di froci e zingari, perché dovremmo votarvi – che non sia solo predica di valori? Forse tocca ripartire da questo grado zero della storia. Dal mutuo soccorso, orizzontale, capace di piccole liberazioni in spazi ravvicinati ma non di nicchia, su cui ricostruire rappresentanza e tutto il resto. In fondo le donne partigiane che hanno raccontato la “resistenza taciuta” hanno parlato di rapporti di gruppo intensi, di cura dei corpi e dei morti, cioè del tessuto simbolico che fa una comunità. Di relazioni nuove che dovevano prefigurare un’altra Italia: quella Patria scritta con la maiuscola, per amore e immaginazione. Per la rappresentanza e una nuova forma della politica penso ci vorrà tempo – e molta immaginazione. Non avremo la certezza del sole dell’avvenire ma può avere senso anche la ricerca di qualche raggio nel presente. Aperto, per quanto difficile. E intanto fare società potrebbe spostare qualcosa nella vita d’intorno, dove imperversano rastrellamenti che delle montagne verdi fanno un deserto di solitudine in cui cresce di tutto. Chiaro che i due partigiani saprebbero come rispondere alla crisi. Infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar. Per loro noi che le scarpe ce l’abbiamo, e di lusso, non abbiamo scuse. Va a spiegarglielo che sono le nostre teste incasinate a non sapere bene dove andare. école numero 69 pagina 25 M appamondo CINA L’anno del topo ( iniziato il 7 febbraio 2008) doveva segnare i trionfo delle Olimpiadi. Si sta invece trasformando in un anno terribile: dai cambiamenti climatici alla crisi in Tibet, dalle manifestazioni su scala globale contro la fiaccola olimpica fino al devastante terremoto di maggio Olimpiadi, Tibet e diritti umani CELESTE GROSSI «A ssegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani». Con questa frase, che di fatto ammette l’esistenza di violazioni, Kiu Jingming, vicepresidente del Comitato olimpico di Pechino, convinse il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare alla Cina i Giochi del 2008. Ma manifestazioni a favore del Tibet e di denuncia nei confronti della Repubblica Popolare Cinese si sono svolte in tutti i paesi al passaggio della fiaccola olimpica. E molti sono gli inviti al boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino. In tutto il mondo, però, c’è anche chi pensa che le Olimpiadi possano servire davvero a favorire il rispetto dei diritti umani e chiede ai propri governi e alla comunità internazionale di utilizzare questa occasione per ottenere dalla Repubblica Popolare Cinese la salvaguardia dei principi della libertà di parola, di espressione, di eguaglianza tra i cittadini e la fine delle repressioni delle manifestazioni che in modo nonviolento continuano a chiederne la garanzia. Da circa 60 anni gli uomini e le donne del Tibet – già provati dalle norme fuori dal tempo imposte da uno stato teocratico – sopportano privazioni e maltrattamenti da parte dell’occupante cinese e vivono in uno stato di costante paura, intimidazione e sospetto. Ma non hanno rinunciato alla propria cultura e continuano a mantenere viva la propria aspirazione alla libertà. Dal 2002 rappresentanti del Dalai Lama e del governo tibetano in esilio hanno avviato colloqui con la Repubblica Popolare Cinese senza ottenere alcun risultato concreto. Al contrario, negli ultimi anni, il Tibet ha assistito ad un aumento di repressione e brutalità. Il 6 marzo 2008, il Presidente cinese Hu Jintao ha dichiarato: «Stabilità école numero 69 pagina 26 e sicurezza in Tibet significano stabilità e sicurezza nel paese». Solo 4 giorni più tardi, il 10 marzo, sono iniziate le sanguinose repressioni delle manifestazioni – che si sono svolte a Lhasa e in altri centri, in concomitanza del 49° anniversario della pacifica insurrezione del popolo tibetano –, per chiedere la garanzia del rispetto dei diritti umani per la minoranza locale e per tutte le altre presenti nella Repubblica Cinese. L’esercito cinese ha sparato sulla folla che sfilava pacificamente per le strade adiacenti alla zona sacra di Lhasa e i monasteri, rifugio dei manifestanti, sono stati messi sotto assedio. L’immediata espulsione dei giornalisti stranieri ha reso impossibile un’informazione indipendente su quanto accade in Tibet dove dal 10 marzo vige una censura delle notizie che ha reso e rende estremamente difficoltosa la diffusione degli accadimenti. Ma la Cina non è riuscita, comunque ad oscurare il fatto che la protesta pubblica è proseguita con un conseguente aumento del numero di vittime. Nessun governo ha chiesto sanzioni formali contro la Cina. Diversamente da quanto accadde nel 1989 per le proteste di Piazza Tienanmen, i governi dell’occidente hanno mantenuto un atteggiamento moderato per non compromettere i rapporti con un paese la cui influenza economica e politica nel mondo è cresciuta enormemente negli ultimi 20 anni. Recentemente la comunità internazionale è riuscita a ottenere l’apertura di un confronto tra autorità del governo cinese e rappresentanti del Dalai Lama, una novità sicuramente positiva, che non basterà se contemporaneamente non si riuscirà a ottenere anche un’inchiesta indipendente sui tragici avvenimenti in Tibet. facciamo pace CINA E TIBET: FUTURO NONVIOLENTO La lotta nonviolenta richiede pazienza, determinazione e molta coerenza per trasformare il conflitto, ovvero trasformare attori, strutture, culture. Non ci sono facili scorciatoie e così come la lotta in India è durata oltre mezzo secolo e in Sudafrica oltre un secolo, non ci si può aspettare che nel caso del Tibet si riesca a proceder molto più speditamente. La trasformazione investe non solo il Tibet, ma un paese di oltre un miliardo di persone, appena uscito da una storia difficile e complessa. Sta anche a noi favorire questa transizione esplicitando sempre più cosa intendiamo per cultura della nonviolenza e inventando man mano “strutture internazionali nonviolente”. Un cammino ancora lungo e impervio, ma possibile e indispensabile. Ripartiamo da Gandhi NANNI SALIO * A nche a scuola potremmo esaminare il conflitto tra Cina e Tibet a partire dai “cinque punti” che Galtung ha individuato come essenziali nell’esperienza delle lotte gandhiane (“Gandhi e la lotta contro l’imperialismo: cinque punti” (vedi www.cssr-pas.org/notizia. php?id_notizia=883). Questo è pertanto uno degli obiettivi fondamentali che il movimento internazionale della pace e tutte le forze politiche e religiose interessate alla questione, debbono proporsi: continuare a premere sul governo cinese affinché accetti di avviare un dialogo con la controparte tibetana. Punto 1: Non temere mai il dialogo È quanto va dicendo e cercando da tempo il Dalai Lama, con grande pazienza e tenacia [Ndr. Le autorità cinesi che sinora si erano negate, sotto i riflettori accesi per le Olimpiadi sembrano ora disponibili ad avviare negoziati]. La disponibilità al dialogo non è mai qualcosa di semplice e scontato e quando non c’è va sostenuta da parti esterne. La richiesta di dialogo è sostenuta da tempo dai più autorevoli studiosi (Tashi Rabgey, China and the Dalai Lama must negotiate, www.taipeitimes. com/News/editorials?pubdate=2000-11-06, Tsering Shakya, Solving the Tibetan Problem. Before it’s too late, China and the Dalai Lama musr teach a compromise, www.time.com/ time/asia/magazine/2000/0717/tibet. viewpoint.html) e un invito al dialogo è rivolto esplicitamente nella Lettera al governo cinese in 12 punti sulla situazione in Tibet, sottoscritta in questi giorni da diversi intellettuali cinesi, tra cui il noto dissidente Wang Lixiong (www.lettera22.it/showart. php?id=8750&rubrica=59). Punto 2: Non temere mai il conflitto: è un’opportunità piuttosto che un pericolo Il conflitto in Tibet esiste e non può essere nascosto sotto la cenere, dove anzi rischia di covare sino a nuove esplosioni di violenza. L’analisi del conflitto e le proposte di soluzione e mediazione sono state oggetto di riflessione da parte di Transcend e sono state pubblicate su Azione nonviolenta, nel novembre 2004, insieme a un contributo sulla “montagna sacra”, il Kailash, montagna di pace immersa in un oceano di violenze. Punto 3: Impara la storia, o sarai destinato a ripeterla Come tutte le vicende storiche, anche quella del Tibet è controversa e alcuni punti sono tuttora oscuri. Esistono tuttavia alcuni buoni contributi scritti da autorevoli studiosi, ai quali si può fare riferimento per avere un quadro sufficientemente preciso della questione. (Si veda ad esempio: Wang Lixiong, “Reflections on Tibet”, New Left Review 14, march-april 2002, http://newleftreview.org/ A2380 e la replica di Tsering Shakya, “Blood in the snows”, New Left Review 15, may-june 2002, http://newleftreview.org/?view=2388. Di questo stesso autore si veda: Tibet. Il fuoco sotto la neve, Sperling & Kupfer, Milano 2006, scritto insieme a Palden Gyatso). I punti più controversi riguardano la natura dello stato teocratico tibetano, prima dell’invasione cinese, che aveva creato una condizione di gravissimo sfruttamento della popolazione contadina più povera, e il ruolo che ampi settori della popolazione ebbero durante l’invasione e nel successivo periodo della rivoluzione culturale, schierandosi a favore dei cinesi. Punto 4: Immagina il futuro, o non ci arriverai mai Nonostante alcuni indubbi miglioramenti nel livello di vita dei tibetani, la politica cinese non è riuscita a conquistarne il consenso. A più riprese, ciclicamente, sono esplose forti contestazioni. Il tentativo di sradicare il sentimento religioso profondamente presente nella popolazione, insieme alla demonizzazione del Dalai Lama hanno sortito effetti contrari. A tutt’oggi, la proposta più significativa per il futuro delle relazioni tra Cina e Tibet è quella, già citata, avanzata da Transcend (Johan Galtung, “Il conflitto tra Cina e Tibet: una prospettiva di soluzione”, Azione Nonviolenta, novembre 2004) che prevede una federazione che comprenda anche le altre regioni oggetto di conflitto (Taiwan, Xinjang, Mongolia interna, Hong Kong), ognuna delle quali godrebbe di una ampia autonomia. Per facilitare la possibilità di giungere a questa soluzione, è necessario agire con determinazione e cautela, evitando di creare ostilità preconcette e arroccamenti da parte cinese. Punto 5: Mentre combatti contro l’occupazione, pulisci anche casa tua! Così come Gandhi lottò contro il sistema castale indiano e contro la discriminazione delle donne, anche i tibetani debbono riconoscere che «il lamaismo fu brutale e che la Cina ha anche aspetti positivi» (Galtung). Per quanto riguarda la politica internazionale, non ci si può certo aspettare che siano gli Usa a richiedere il rispetto dei diritti umani e il dialogo in Cina, visto quanto stanno facendo in varie parti del mondo e soprattutto in Iraq. È semplicemente scandaloso che si punti il dito contro la Cina, quando gli Usa hanno invaso l’Iraq con motivazioni pretestuose e false e hanno provocato la morte di un milione di iracheni. La “pulizia in Occidente” è condizione necessaria per poter esigere che anche la Cina faccia altrettanto. * L’articolo è stato pubblicato anche su Azione non violenta e sulla news “La non violenza è in cammino” del Centro di ricerca per la pace. école numero 69 pagina 27 SCUOLA SUDAMERICANA Intervista sulla scolarizzazione di massa a Evo Morales, primo presidente indigeno della Bolivia Presidente campesino FRANCESCA CAPELLI U n’infanzia poverissima e un passato come dirigente sindacale dei cocaleros, i coltivatori di coca (pianta che, allo stato naturale, non ha nessuno effetto psicotropo e necessità di vari passaggi chimici per trasformarsi in cocaina). Come altri leader sudamericani (Castro, Chavez e, in passato, Allende), Evo Morales è per gli Stati Uniti qualcosa a metà strada tra l’incubo e l’ossessione per il comunismo. Ma le sue riforme, più che ispirate ai principi del marxismo europeo, si basano sull’antico codice morale indigeno, aymara per la precisione: “Ama sua, ama lulla, ama quella”. Ovvero, “Non rubare, non mentire, non essere pigro”. Principi che lui stesso porta avanti, con uno stile di vita sobrio e il lavoro a favore del suo paese, in nome della giustizia sociale, della soluzione pacifica dei conflitti, della solidarietà (per questo lo scorso anno le Madri di Plaza de Mayo lo candidarono al premio Nobel). Gli obiettivi del suo governo? La lotta alla povertà e all’analfabetismo. Lo abbiamo incontrato a Rimini, in occasione della XXIII edizione delle giornate di studio del Centro Pio Manzù. Presidente, lei punta molto alla scolarizzazione di massa. Come garantirà l’accesso all’istruzione agli strati più poveri della popolazione? Provengo da una famiglia campesina (contadina). Eravamo sette fratelli, ma siamo sopravvissuti solo in tre. Un tempo gli indigeni (aymara come me, quechua o guaranì) non potevano studiare. Prima era proibito dalla legge, con il taglio delle mani e dei piedi e l’accecamento. Poi è stato proibito dalla povertà. Fino a che è arrivata la scuola anche per noi, ma solo la primaria. Passavamo 7-8 anni nella stessa classe, per andare avanti dovevamo trasferirci in un’altra città, da raggiungere ovviamente a piedi. E nel fine settimana si tornava a casa per lavorare nei campi. A mia sorella maggiore, in quanto femmina, non è stato nemmeno permesso di studiare. Nel 1971, in piena dittatura, fui tolto dalla scuola perché, a causa di una siccità, dovetti partire con mio padre alla ricerca del cibo. Fu allora che vidi un autobus per la prima volta. I passeggeri buttavano bucce d’arancia dai finestrini e école numero 69 pagina 28 noi le raccoglievamo per mangiarle. Ecco perché questo tema mi vede tanto coinvolto. L’analfabetismo è un flagello, riproduce la schiavitù delle persone senza diritti, alla mercé dei grandi latifondisti. Così abbiamo inventato una forma di sostentamento per le famiglie che mandano a scuola i bambini, il buono “Juancito Pinto”, intitolato a un nostro eroe nazionale della guerra del Pacifico (1937-1945), un bambino di 12 anni. E da dove arrivano i soldi? Dalle nostre risorse naturali, gli idrocarburi. Non ho mai capito perché lo stato dovesse perdere la titolarità di queste risorse, come hanno fatto i governi che mi hanno preceduto e hanno privatizzato gli idrocarburi. Io li ho rinazionalizzati. Il buono “Juancito Pinto” è poca cosa, 200 bolivianos all’anno (poco più di 17 euro), ma per una famiglia povera può essere una cifra significativa per l’acquisto di libri e altro materiale, soprattutto perché è garantito per tutta la durata della scuola primaria. A proposito di privatizzazioni, lei ritiene che l’istruzione debba essere solo pubblica? In Bolivia ci sono scuole private e il governo le rispetta, ma riteniamo che il nostro dovere sia sostenere con soldi pubblici la scuola pubblica. Che cosa sta facendo per permettere alle persone di uscire dalla povertà? La situazione degli anziani è molto difficile. Infatti, solo il 20 per cento della popolazione anziana ha una pensione in Bolivia, gli altri continuano a lavorare o non hanno reddito. Da gennaio 2008 tutti i cittadini oltre i 60 anni hanno diritto a una pensione. E abbiamo attivato convenzioni con le banche per una rete di microcredito per piccoli e medi imprenditori e aziende familiari, che fino a ora si indebitavano con usurai. Infine, grazie a Cuba, facciamo operare gli anziani affetti da cataratta. In questo modo, recuperano la vista e possono persino imparare a leggere. La Bolivia di Morales Indipendente dalla Spagna dal 1825, la Bolivia ha una storia travagliata, legata a periodiche svolte autoritarie e colpi di stato militari. Il governo è tornato stabilimente nelle mani dei civili nel 1985, dopo 15 anni di regime militare del generale Hugo Banzér Suàrez. Evo Morales è presidente della Bolivia dal gennaio 2006. Il Mas (Movimento al socialismo), il suo partito, ha ottenuto 139 seggi sui 255 all’Assemblea costituente che ha aperto i lavori nell’agosto 2006. Nel febbraio 2007, dopo mesi di tensione e la minaccia di secessione da parte dei ricchi dipartimenti “di pianura”, l’opposizione ha ottenuto che gli articoli della Costituzione vengano votati a maggioranza dei due terzi e non a maggioranza assoluta, come avrebbe voluto Morale. Ciononostante, a fine 2006 è passata la riforma agraria, osteggiata dai latifondisti. Morales, come il venezuelano Hugo Chavez, ha rifiutato di firmare il Trattato di libero commercio con gli Usa, motivando questa scelta con il fatto che tale accordo avrebbe favorito le multinazionali e “strozzato” le cooperative e i piccoli produttori. In alternativa ha sostenuto la proposta di accordi multilaterali su basi eque. Ha dichiarato: «Il nostro obiettivo è rifondare la Bolivia su basi etiche ma anche economiche. Per farlo abbiamo nazionalizzato gli idrocarburi». I risultati? Nel 2005 lo stato ricavava dagli idrocarburi 300 milioni di dollari all’anno. Oggi nelle casse pubbliche ne entrano 1600, distribuiti tra amministrazioni locali, università, tesoro. «Il succo di questa esperienza – spiega – è che le risorse naturali non devono mai essere privatizzate». Evo Morales Ritiene che le risorse naturali siano il primo patrimonio di un paese. Che cosa fa per proteggerle? Appartengo alla cultura indigena, che non sfrutta la natura in modo selvaggio, perché sa che questo porterebbe alla distruzione di tutti. Non credo che se il governo tutela l’ambiente ostacoli lo sviluppo economico. Ho un grande rispetto per gli imprenditori, perché creano posti di lavoro, ma questo non può mettere in secondo piano la necessità di proteggere l’ambiente. Per la cultura indigena la Terra è un organismo vivo, la cosiddetta Pachamama. E proprio pensando al mondo come a qualcosa di vivo, vorrei che il mio paese non dipendesse solo da risorse non rinnovabili, come gli idrocarburi, appunto. Quando parliamo di energie, parliamo del calore della terra, della luce del sole, della forza dell’acqua, fonti che non si esauriscono. Se invertissimo la rotta e smettessimo di saccheggiare in modo irrazionale le risorse, a beneficiarne non sarebbe solo il nostro paese, ma tutta l’umanità. Lei è stato un dirigente sindacale dei cocaleros. Qual è il suo atteggiamento nei confronti del commercio della foglia di coca? Io sono debitore della foglia di coca, strumento che ha portato me e altri campesinos al governo. Per quanto riguarda la mia linea politica, sono a favore di una coltivazione controllata, con una grande trasparenza e partecipazione sociale per evitare la vendita ai narcotrafficanti. Ma non trovo giusto pretendere l’eradicazione, la coca fa parte della nostra cultura. E soprattutto non è giusto far passare i piccoli agricoltori come trafficanti e gli indigeni che masticano la coca come tossicodipendenti. Il narcotraffico è sostenuto dalla domanda illegale di stupefacenti, non dal consumo tradizionale che i boliviani fanno di questa pianta. La penalizzazione del consumo (come foglia da masticare o come infuso) crea un danno storico al mondo indigeno, equivale a mettere agli arresti domiciliari un’intera popolazione. Ma al tempo stesso va combattuto il traffico illegale. Per questo ho fatto una legge per eliminare il segreto bancario, perché è qui che si nascondono le grandi fortune del narcotraffico. INFO Annaviva L’Associazione “Annaviva” si occupa della situazione socio-politicoculturale dell’Est-Europa e appoggia iniziative per la diffusione, lo sviluppo e la tutela della democrazia e dei diritti umani in Russia e nello spazio ex-sovietico, cercando di tenere viva la memoria di Anna Politkovskaja la coraggiosa giornalista che ha pagato con la vita per il suo lavoro di documentazione e divulgazione di verità assai scomode. Uno degli strumenti utilizzati per questo dall’associazione è il cortometraggio-documentario Anna Politkovskaja, concerto per voce solitaria realizzato a Mosca da Ferdinando Maddaloni. Per saperne di più: www.annaviva.com, [email protected]. I cittadini della media È scaricabile dal sito della Televisione della svizzera italiana [http://www.rtsi.ch/trasm/storie/] il documentario I cittadini della media (54’) della collana Storie dedicato alla Scuola media di Stabio (Ticino). Il servizio di Danilo Catti offre uno sguardo su una scuola svizzera esaminata per un intero anno a partire da una “Giornata progetto” che, come chiarisce il direttore dell’istituto Rezio Sisini, è occasione nella quale la scuola riflette su se stessa, sui metodi di insegnamento e sulle relazioni tra i suoi abitanti. In modo informale, con gli strumenti del gioco e dell’animazione, con visite in diversi luoghi di lavoro, con il dialogo e offrendo occasioni serene di rafforzamento del rapporto docenti-genitori si riflette sui concetti di giustizia e di cooperazione, sull’interdipendenza e la globalizzazione restituendo alla scuola il suo ruolo di analisi e lettura delle complessità, senza trascurare le difficoltà poste dal diffondersi di comportamenti interpersonali scorretti o violenti e da relazioni non costruttive. Kosovo Non aprire mai, il libro di Francesca Borri (edizioni la meridiana, Molfetta – Bari 2008, pp. 120, euro 13), narra l’esperienza di una ragazza carica di idee, letture e sogni “nonviolenti”, mandata a vent’anni all’Ambasciata Italiana in Kosovo. «Nessuno tra noi che parli albanese, nessuno tra loro che parli inglese. È l’incomunicazione più totale ». C’è il Kosovo, con la sua storia, la sua terra, la sua cultura e le sue contraddizioni. Il Kosovo di alcuni anni fa, che serve a capire un po’ di più il Kosovo di oggi. E ci sono l’Italia, l’Europa, funzionari di una burocrazia civile e militare: sogni di pace e di umanità accanto a una cieca osservanza delle regole e dei bolli. E c’è il rapporto tra l’Italia e i Balcani, tra l’Europa e quella zona turbolenta dell’Est. Per informazioni: [email protected], www.lameridiana.it. Falluja Si intitola Canto per Falluja, lo spettacolo teatrale scritto da Francesco Niccolini e prodotto da Css-Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia e da Un ponte per... (http://www.unponteper.it/informati/article.php?sid=1572). Il Progetto Alice Il Progetto Alice è una sperimentazione educativa avviata in Italia negli anni ‘80 da due insegnanti trevigiani, Valentino Giacomin e Luigina de Biasi, nell’ambito di Universal Education, ispirata dall’insegnamento di Lama Zopa e Lama Yeshe, e, a partire dal 1994, ulteriormente sperimentata in India con la creazione di due scuole e l’avvio di numerosi progetti educativi e di promozione sociale per bambini e ragazzi svantaggiati. Oggi queste due scuole, con corsi dalla materna al diploma universitario, offrono a oltre un migliaio di ragazzi non solo la possibilità di studiare (tuttora un privilegio in India) e, quindi, di affrancarsi dalla miseria materiale, ma anche una guida alla scoperta del mondo e ad una più profonda e integrata visone della realtà. Per informazioni: [email protected], www.aliceproject. org, www.aliceproject.info. école numero 69 pagina 29 l’erba del vicino FRANCIA IL FASCINO DISCRETO DI SARKOZY PINO PATRONCINI A ll’indomani delle elezioni presidenziali francesi i politici italiani fecero a gara per assomigliare a Sarkozy. Un certo appeal del presidente francese (il casual, i maglioni ecc.) e anche una certa disinvoltura politica (Kouchner nel governo, Attali e Bassanini nelle commisioni di studio) si sommarono alla tradizionale esterofilia. Anche se tutto ciò ora sembra finito, un qualcosa è rimasto: è rimasta l’idea che in fondo la Francia costituisca un terreno più fertile per le politiche bipartisan di quanto non sia l’Italia, che ci sia un clima più disteso che non lascia spazio ai radicalismi e favorisce il dialogo. Niente di più sbagliato! Le sue aperture alla Chiesa cattolica, con un richiamo ai valori cristiani inusuale anche per la destra francese (a parte Le Pen e l’estrema destra), minano anche quel grande fondamento storico repubblicano che in Francia ha sempre accomunato destra e sinistra soprattutto in tema di scuola. Per non parlare poi del suo attacco al 1968 come culla di tutti i mali della Francia, contro un’opinione pubblica che al 74 per cento non condivide questa opinione. Il 4 febbraio, il giorno stesso delle nozze a sorpresa, ero a Parigi e i compagni del sindacato francese Fsu senza mezzi termini mi indicavano in Sarkozy una sorta di Berlusconi francese, anche se non ha le TV. E non era solo un giudizio passeggero: il 24 gennaio aveva appena visto uno degli scioperi più riusciti del pubblico impiego, scuola compresa, uno sciopero indetto da 5 sindacati della funzione pubblica e da 7 della scuola. E lo sciopero arrivava dopo che già il 20 novembre un altro sciopero aveva costretto il governo a giungere a trattative. E non era finita lì: un’altra grossa mobilitazione si è svolta il 18 marzo, ad essa ha fatto seguito una forte agitazione che ha coinvolto anche gli studenti, e che è continuata fino al week-end del 17 maggio, giorni in cui si è svolta una grande manifestazione nazionale. Al centro di queste mobilitazioni ci sono soprattutto due rivendicazioni: l’aumento dei salari e la resistenza al taglio di 11.200 posti di insegnamento. Sui salari la risposta data dal ministro Darcos in trattativa a di- école numero 69 pagina 30 cembre («bastano i passaggi di gradone della carriera») era di per sé significativa del clima e dell’atteggiamento sprezzante e disinvolto con cui il governo intendeva affrontare la questione. Mentre in 5 anni la politica dei tagli ha più che dimezzato il tasso di reclutamento. Il Libro verde Ma dietro a questa ennesima primavera agitata della scuola francese ci sono anche altre misure. C’è la scelta di introdurre una legislazione sul diritto di sciopero che prevede il preavviso, ma anche che i comuni coprano le classi dei docenti in sciopero con assistenti appositamente assunti: in breve che i comuni si incarichino di un’opera di crumiraggio. C’è la scelta di ridurre il percorso per la maturità professionale da 4 a 3 anni, al solo scopo di ridurre gli organici, ma facendo sparire anche il titolo biennale che i ragazzi prendevano a 17 anni. C’è la scelta di ridurre a soli 4 giorni la settimana di lezione nella scuola primaria, per costringere gli insegnanti a utilizzare in recuperi le due ore di lezione del sabato (in Francia c’è già un’altra chiusura infrasettimanale il mercoledì). C’è infine il cosiddetto Libro Verde, il documento della commissione Ponchard, che dovrebbe delineare la nuova scuola dell’era sarkoziana. Sono soprattutto 4 le misure criticate: 1. L’introduzione nella scuola media della “bivalenza”, ovvero gli insegnanti dovrebbero abilitarsi non più in una disciplina, ma in due e dovranno essere disponibili ad insegnarle entrambe, mentre gli insegnanti dei licei professionali potranno essere utilizzati anche nella scuola media. 2. Il reclutamento che prevederà concorsi ad assegnazione regionale col che praticamente la prospettiva di ottenere un posto nella propria regione d’origine sarà un miraggio, dal momento che già oggi solo 7 regioni su 30 accolgono la maggioranza dei neo-titolari. 3. L’annualizzazione dell’orario di servizio con flessibilità oraria dell’insegnante, l’allungamento da 16 a 18 ore settimanali dell’orario degli agregèes, l’introduzione di ore aggiuntive anche obbligatorie. 4. L’attribuzione al solo capo di istituto della valutazione degli insegnanti (la scuola francese prevede già delle valutazioni ai fini della carriera ma attribuite a una equipe pedagogica per la parte didattica e a un ispettore per la verifica della regolarità degli atti). Il Libro verde è ancora solo una proposta ma ce ne è abbastanza per far tremare le vene dei polsi alla categoria docente francese. E infatti i sindacati sono già sul piede di guerra. D’altra parte su questa strada sono freschi i fallimenti di Allegre nel 2000 e ancora prima di Jospin, i quali, essendo socialisti, avrebbero dovuto avere anche rapporti più distesi con i sindacati. Rapporti distesi che invece non ci furono e che anzi ad Allegre costarono anche il posto. Darcos e Sarkozy lo sanno bene e non a caso insistono col dire che tutto andrà fatto gradualmente. Intanto però i tagli pesano sugli insegnanti, e anche sugli studenti che perdono le continuità didattiche, vedono ridotte le materie opzionali e si ritrovano in classi che possono arrivare a 36 alunni. Il futuro ci dirà come andranno le cose, ma una cosa è certa: di politiche scolastiche bipartisan la Francia proprio non vuol sentirne parlare. Quanto a Sarkozy sembra che il suo fascino discreto lo eserciti solo sugli italiani. L de rerum natura a visione che l’ecologia ha della natura della natura è ancora tutta racchiusa entro i limiti di un discorso a favore dell’umano che continua ad osservare il cosiddetto “mondo naturale” da una posizione di assoluto dominio: il pensiero ecologista, nonostante a prima vista possa sembrare il contrario, è completamente alienato dalla natura e, per questo, non può influire se non marginalmente sulle decisioni dell’economia. Penso che questa alienazione vada cercata nel momento fondativo dell’ecologia e credo che questo si confermi nell’etimologia del termine e si traduca nei modi in cui l’ambientalismo moderno si è declinato. La scena originaria A differenza di quanto comunemente si crede, il pensiero ecologico riconosce la sua mossa fondativa molto addietro nel tempo. L’ecologia è, infatti, coeva a Noé, è fin dalla sua nascita una semplice appendice dell’umano, una costola di Adamo. La Genesi su questo non lascia dubbi laddove descrive la strategia adottata da Noé nell’affrontare un disastro ambientale su scala planetaria del tutto simile a quello che oggi ci sta di fronte: «Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita»1. Noè è l’antesignano del pensiero ecologista moderno, perché entrambi applicano uno standard per se stessi (per l’uomo) e un altro completamente diverso per il resto del vivente. Entrambi infatti si preoccupano della propria salvezza personale, ma non di quella degli individui animali (quanti ne saranno morti nel diluvio universale, oltre a quelli sacrificati sull’altare al momento dell’uscita dall’arca?), di cui al massimo possono preoccuparsi della sopravvivenza come specie. Qui, anche se abilmente mascherato dietro un’aria di accondiscendente benignità, si nasconde un gesto di dominio, quel gesto inaugurale della nostra cultura che taglia l’uomo fuori dal resto ECOLOGIA Nonostante la “questione ecologica” diventi di giorno in giorno più pressante e sia entrata a pieno titolo nell’ambito dell’elaborazione etica e nell’agenda della politica, è sempre più evidente come tutto ciò non si traduca in una reale riduzione dell’impatto umano sul benessere dell’ecosistema. Questa discrepanza tra diffusione e ricchezza del pensiero ecologista e scarsezza dei suoi risultati materiali riflette molto probabilmente una difficoltà più grave che si annida irrisolta nel cuore dell’ecologia così come fino ad ora è stata pensata e cioè nell’incapacità del pensiero ecologista di smarcarsi dal paradigma antropocentrico dominante. Una possibile via di fuga dalle aporie dell’ecologia antropocentrica è un’auspicabile “nuova alleanza” L’equo-insostenibilità dell’ecologia pura MASSIMO FILIPPI * tra i viventi del mondo naturale, rendendo l’intero vivente pura carne, una collezione di tagli di carne da conservare in coppie al fine di soddisfare l’appetito (culturale e materiale) dell’umano che già siede alla destra del Padre. Questioni etimologiche La genealogia del pensiero ecologista si riflette nell’etimologia con cui esso si rappresenta. Ecologia, infatti, altro non è che «di- scorso» (logos) della «casa», del «proprio» (oikos). Coerentemente, quindi, l’ecologia, come Odisseo, esce da casa con il solo intento di ritornarci, si prefigge una riforma delle «leggi della casa» (dell’economia) e non una sua critica radicale. Non a caso, l’ecologia si autodeclina come conservativa e conservatrice, tanto da non far esitare Tom Regan a parlare con toni forse eccessivi di «fascismo ambientalista»2. Come Noè, gli ambienécole numero 69 pagina 31 talisti salvaguardano la natura, nella migliore delle ipotesi per abbellire il mondo dell’uomo, nella peggiore per mantenere una riserva autogenerantesi di cibo futuro. L’ecologia accorda valore all’ecosistema solo perché un ecosistema funzionante è funzionale alla sopra-vivenza umana. L’ecologia non si smarca dal pensiero dominante che strumentalmente svaluta la natura nel momento in cui la definisce “buona”. Buona da mangiare o buona da pensare, ma sempre e comunque strumento nelle mani dell’uomo. Il ritorno a casa dell’ecologia moderna La corrente più diffusa dell’ecologia moderna, l’ambientalismo, è inequivocabilmente inserita e perfettamente funzionale all’economia della «macchina antropologica»3, in quanto si assegna come compito principale quello di preservare l’ambiente al fine di migliorare la nostra qualità di vita e, possibilmente, quella dei nostri figli. Poiché l’ambientalismo agisce sempre post festum – cioè dopo aver accettato l’indiscussa supremazia dell’umano sull’esistente – non può che occuparsi di ciò che resta dopo il passaggio dell’economia, degli scarti del processo produttivo, e cioè soprattutto della gestione dei rifiuti4. Tutta compresa in questo paradigma è anche la cosiddetta Natural Aestethics5, che sostiene la necessità di accordare tutela morale ad almeno una parte del mondo naturale in quanto “bello” ma che, subordinando il “naturale” all’“estetico”, implicitamente accetta, quella prospettiva oculocentrica che permette all’uomo di osservare e giudicare la (bellezza della) natura da sopra e da fuori. Anche l’ecologia sociale, pur intuendo la necessità di ripensare le dinamiche che hanno portato ad una scissione artificiale tra “questione sociale” e “questione ecologica”, non si smarca dall’antropocentrismo nel momento in cui individua il dominio della natura come prodotto di scarto del dominio dell’uomo sull’uomo.6 L’ecologia école numero 69 pagina 32 profonda, assegnando il primato al “sistemanatura” sulle sue varie componenti (umano compreso), sembra invece prender congedo da questa prospettiva. Dovrebbe, però, insospettire il fatto che mentre tutti gli ecologi profondi non hanno mai esitato ad approvare l’abbattimento selettivo di animali a favore del benessere sistemico, nessuno di loro (fortunatamente) ha mai suggerito procedure analoghe per gli umani che, notoriamente, costituiscono il problema principale del “sistema-natura”. Questa incongruenza è tuttaltro che accidentale, essendo invece il segnale inequivocabile che l’ecologia profonda non abbandona la retorica del discorso economico della sopra-vivenza umana alienata dalla natura, in quanto, pur assegnando a questa una componente autoregolativa e quindi mentale, riserva comunque all’uomo il ruolo della parte cosciente della mente gaica. Con tratto tipicamente moderno, la dicotomia mente/corpo si replica nella dicotomia coscienza/inconscio. L’ecologia profonda è un’altra versione del mito di Edipo: l’ecologo profondo uccide il padre Noé per prenderne il posto nell’abbraccio misticheggiante di madre Natura. Verso una nuova alleanza L’ecologia nasce dopo la decisione (dopo il taglio) con cui l’uomo si aliena dal resto del vivente e quindi non può che essere ecologia del proprio, di quel proprio che è già stato completamente declinato come il proprio dell’umano e che si autodefinisce nella perenne «distinzione dall’animale»7. Il proprio ai tempi dell’ecologia – da Noé in poi – è un proprio puro, o tutto naturalmente culturale come nel caso delle ecologie “superficiali” o, il che è lo stesso, tutto culturalmente naturale come nel caso dell’ecologia profonda. Il congedo dalle aporie dell’ecologia così come si è storicamente determinata non può allora che passare dalla riconsiderazione dell’insostenibile purezza delle categorie del pensie- ro ecologista. Riconsiderazione che si è fatta ineludibile da quando, staccandoci definitivamente da terra nel pieno delirio della hybris della conquista spaziale, abbiamo cominciato a capire, in una doppia mossa apparentemente paradossale, che il mondo è unitario solo come spazio oggettivo e che la Terra è corpo celeste8, cioè qualcosa di assolutamente vulnerabile e inestricabilmente legato, almeno per la nostra tradizione, all’animalità. Il proprio, quello che un tempo era la sola casa dell’uomo, il suo ambiente, diventa allora, secondo la lezione di Uexküll mondo-ambiente9, qualcosa cioè di necessariamente meticcio che emerge dall’intrecciarsi delle “visioni di un mondo” di tutti i corpi (con)senzienti che lo abitano. Ma se il proprio entra in un tale rapporto dialettico con l’altro dall’umano, anche il discorso dell’ecologia non può più essere un discorso dell’uomo, ma un dialogo con l’animale dentro e fuori di noi che, in quanto capace di riconoscere un significato al mondo che insieme diversamente abitiamo, può finalmente risponderci e farci rispondere10 dell’integrità di questo corpo celeste unico perché immensamente vulnerabile. La natura si fa così dialettica e l’ecologia intravede la possibilità di realizzarsi come equologia, cioè come ininterrotta rinegoziazione emancipativa dell’«uguaglianza tra disuguali»11, della difficile libertà di tutti i mondi-ambiente. * Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, Milano. NOTE 1. Genesi, 6, 19-20 (corsivi aggiunti). 2. Tom Regan, I diritti animali, Garzanti, Milano 1990, p. 484. 3. Il termine è di Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 38-43, che così ne descrive il funzionamento: «In quanto in essa è in gioco la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/ inumano, la macchina funziona necessariamente attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione)» (p. 42). 4. In questo contesto, si inserisce anche il cosiddetto pensiero della decrescita, che non critica l’idea della natura come bene di consumo ma che, ancora una volta per il nostro bene e per quello dei nostri figli, ci invita a una maggiore sobrietà nel prelievo delle risorse naturali perché la nostra specie possa sopra-vivere più a lungo nell’ambiente dominato dall’economia atropocentrica. In questo senso, la decrescita non può che essere felice, in quanto immune da ogni idea di conflitto. 5. Una breve ma esaustiva antologia delle posizioni della Natural Aesthetics, si trova in Roberto Peverelli (a cura di), La bellezza di Gaia, Medusa, Milano 2007. 6. L’ecologia sociale trova la sua massima espressione nei due volumi di Murray Bookchin, Ecologia della libertà, Elèuthera, Milano 1986 e Per una società ecologica, Elèuthera, Milano 1989. 7. Max Horkheimer e Thedor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 263 e seguenti. 8. Il richiamo è qui alle considerazioni di Anna Maria Ortese nel volume omonimo (Adelphi, Milano 1997). 9. Per una più ampia discussione delle posizioni di Uexküll si rimanda a Giorgio Agamben, L’aperto, op. cit., pp. 44-51. 10. L’inestricabile connessione tra risposta e responsabilità nel dialogo che comunque intratteniamo con il non umano è evidenziata da Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, pp. 173 e seguenti. 11. Il termine «uguaglianza tra disuguali» è ripreso da Bookchin, cfr., ad es., Per una società ecologica, op. cit., p. 105. RILETTURE Venti anni fa, nell’ambito del primo Anno Europeo dell’Ambiente, si tenne a Milano il Convegno internazionale “Educazione all’ambiente e ambiente dell’educazione”. C’erano, tra gli altri, Mauro Laeng, Barry Commoner, Edgar Morin. E fu un evento da cui prese le mosse la strategia educativa sul campo. Rileggere alcuni passi cruciali di quell’incontro può servire a riflettere su ciò che si è fatto e quanto ancora si deve fare su un tema di sempre, purtroppo, scottante attualità ambientale, anno zero? L Edgar Morin Barry Commoner a esauribilità delle risorse e la non indifferenza della natura in seguito ad azioni incaute dell’uomo hanno costretto ad un radicale ripensamento del sistema consumistico che, se sta avvenendo nella parte più attenta ed intellettualmente onesta della società, è assolutamente necessario che coinvolga il mondo dell’istruzione. «Ma perché la scuola si dovrebbe confrontare con il pensiero ecologico? – si domanda Enzo Tiezzi dell’Università di Siena, che spiega – Proprio perché l’emergenza ecologica, nei suoi aspetti di crisi tanto ambientale quanto dei modelli scientifici e culturali che l’hanno prodotta, può essere la chiave per porre nuove domande e studiare in maniera diversa fisica, lettere, storia, biologia…». «Fare lezione così – precisa Antonio Thiery, per il Dipartimento Scuola Educazione della Rai – è indagare sulle interazioni dell’universo: è il momento unificante dell’educazione. Eppure manca completamente tale visione allargata, relegando la tematica ambientale ad una qualsiasi materia o a quegli insegnanti di buona volontà». «Dopo secoli in cui il valore centrale era l’efficienza produttiva – ribatte Tiezzi – ora c’è qualcuno che si interroga non su come ottenerla, ma se sia proprio questo l’obiettivo cui giungere tutto sacrificando. Di fronte a tale situazione, l’istituzione scolastica presenta alcune rigidità, finendo per essere antiqua- Educazione MONICA ANDREUCCI ta; e così accade che la formazione mentale dei giovani avvenga al di fuori dell’Istruzione, nelle innumerevoli occasioni proposte dall’attività intellettuale sociale». Una rivoluzione necessaria «Si tratta di andare alla ricerca di una nuova dimensione culturale – propone Tiezzi – non solo interdisciplinare ma sistemica, che faccia i conti con l’alta complessità degli equilibri ecologici, che inserisca al suo interno il parametro fondamentale del tempo biologico, che abbia la modestia di accettare l’incertezza come compagna di strada costante nei modelli di conoscenza». «Una crisi di questa ampiezza non è tuttavia nuova nella storia – interviene Marcello Cini, Università La Sapienza di Roma –; essa è per alcuni aspetti simile a quella che segnò la transizione dalla società medievale a quella moderna in Europa tra il ‘500 ed il ‘600, caratterizzata dallo scontro tra la cultura aristotelica e la visione del mondo costruita con gli strumenti ed i metodi della nuova scienza galileiana. Dalla natura vista come sistema organico, si passò alla impostazione settoriale del sapere. […] Il mondo così diventa prevedibile, infinito e la trasformazione dell’ambiente in prodotto dell’attività umana è considerata processo “naturale” di appropriazione fisico-teorica della realtà». Insomma, da allora si è negata alla natura la sua stessa, école numero 69 pagina 33 continua mutazione. Eppure «la vita di ogni singolo organismo – sostiene Tiezzi – è parte di un processo a grande scala che coinvolge il metabolismo di tutto il pianeta in una attività biologica ch’è continua interazione di miliardi di componenti». «Occorre allora imparare a vedere il tutto come un insieme complesso – suggerisce Cini – sistema che, per realizzare l’obiettivo della sopravvivenza, oltre a materia ed energia deve far costantemente circolare al suo interno informazione». Comunque, per uscire dalla attuale situazione di spreco delle energie, secondo Tiezzi, «bisogna innanzitutto capire che a monte del modello industriale esiste un insieme coerente di valori, concezioni, paradigmi di conoscenze fortemente radicato. E dietro non c’è soltanto la forza delle idee: ci sono le spinte ben più potenti delle istituzioni sociali e degli interessi economici multinazionali». Nuovi obiettivi didattici La svolta culturale che si deve avviare non può essere allora né superficiale né settoriale. «Un’ottica ambientalista in classe – propone Albert Mayr del Conservatorio Cherubini di Firenze – ha il compito, in primo luogo di mettere al centro l’alunno, con i suoi tempi e gli spazi di cui ha bisogno. Invece gli insegnanti sono ossessionati dall’orario, con buona pace di eventuali esigenze “straordinarie”, per esempio le soste e gli approfondimenti». L’imposizione, la costrizione temporale, rappresentano di fatto un atto di violenza non esclusivamente scolastico: «Così come l’ambiente – è ancora Tiezzi che parla – anche l’identità individuale viene sottoposta ad interventi manipolatori: le stesse funzioni vitali rischiano di diventare succubi alle esigenze del sistema sociale». L’impegno teso al recupero di una sensibilità naturalistica perduta comporta però risvolti di tipo consumistico. Scrive Antonio Thiery: «La divulgazione scientifica, almeno nell’esperienza italiana, rischia di essere oggetto di spettacolo di natura commerciale perché va di moda». Al bando, quindi, metodologie didattiche semplicistiche ed epidermiche, proprio per evitare facili strumentalizzazioni. Neppure l’estetica e l’emozione che il contatto con un ambiente incontaminato produce sono ormai affidabili: la bellezza non può essere indicatore di positività e convenienza: per esempio, il 1° maggio ’86 la natura si presentava in tutto il suo splendore; eppure era il giorno di massima contaminazione dell’aria dopo il disastro di Chernobyl. Allora non basta una “disciplina dei sensi”. L’accentuazione occidentale della accumulazione e l’esaltazione dell’economia della funzionalità, hanno fatto dimenticare altri aspetti della vita – quelli simbolici, emotivi, i rapporti interpersonali, la contemplazione – che più degli altri danno senso e pienezza alla vita stessa. Ragionevolmente, è dal recupero di questa globalità della persona che va avviata l’educazione all’ambiente, anzi l’educazione in senso lato. école numero 69 pagina 34 INFO Clima L’Arci, insieme ad altre 48 associazioni e organizzazioni – da Legambiente a Slow Food, dalle Acli alla Cgil – ha lanciato l’appello In Marcia per il clima per dar vita a una Alleanza per il clima e promuovere una manifestazione nazionale il 7 giugno a Milano. «Un’Alleanza» si legge nell’appello, «per permettere a tutti di vivere in pace in città e paesi più belli e ospitali, per liberarci dalle guerre e dai conflitti che nascono per il controllo delle risorse energetiche non rinnovabili sempre più scarse, delle fonti alimentari, dei beni comuni come l’acqua. Dobbiamo farlo per dare ai bambini e ai giovani di oggi una prospettiva desiderabile, un futuro per cui crescere». Ed è possibile «perché oggi le conoscenze tecnologiche ci permettono di ripensare il modo di produrre energia e di consumarla per muoverci, abitare, produrre senza dilapidare le risorse comuni quali l’acqua, il suolo, l’aria, la vita sulla Terra e perché possiamo costruire la collaborazione con il mondo dell’educazione e della formazione, dove grandi sono la sensibilità e le capacità professionali». Nell’appello si pone l’obiettivo per l’Europa di «produrre e consumare energia con il 20 per cento di maggior efficienza, di far dipendere per almeno il 20 per cento il fabbisogno energetico da fonti rinnovabili e di ridurre del 30 per cento le emissioni di gas che alterano il clima». Si può se c’è «la partecipazione nelle scelte che riguardano l’ambiente, le infrastrutture, i beni comuni, incentivando pratiche produttive, industriali e agronomiche, rispettose dell’ambiente, orientate verso obiettivi di qualità, verso il benessere delle persone e delle comunità». Ma si tratta anche di cambiare «i nostri stili di vita, le scelte di consumo, le consuetudini, chiedendo e premiando nel contempo lo scambio di nuovi beni, l’erogazione di nuovi servizi, capaci di rilanciare l’occupazione, di garantire la coesione sociale, di migliorare le relazioni tra tutte le donne e gli uomini, di avere paesi e città meno inquinati e un Italia sempre più bella». Informazioni: [email protected]. Rifiuti Biùtiful Cauntri, il libro con Dvd-Rom di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio, Giuseppe Ruggiero, Peppe Ruggiero (edito da Bur - Biblioteca Universale Rizzoli, 2008, Euro 19,50) è uno strumento utile in classe per capire l’emergenza rifiuti in Campania (ma non solo). Il libro svela i metodi della cosiddetta Rifiuti S.p.A. emersi dalle intercettazioni telefoniche che mostrano l’arroganza, la violenza e il cinismo degli ecocriminali e punta il dito contro vent’anni di malgoverno, disattenzione delle istituzioni e false promesse. Il Dvd racconta di allevatori che vedono morire le proprie pecore per la diossina, di contadini che coltivano terre inquinate dalle vicine discariche... Voci e immagini di una terra violata, consumata dall’alleanza fra un Nord operoso e senza scrupoli e le nuove forme della criminalità organizzata, raccontata con immagini inedite del traffico illecito di rifiuti. Acqua La rivista Altreconomia (tel. 02.83242426, e-mail segreteria@altreconomia. it) ha realizzato la Piccola guida al consumo critico dell’acqua. Dal rubinetto del 96 per cento degli italiani esce acqua potabile. Eppure siamo i maggiori consumatori al mondo di “minerale” in bottiglia. L’autore, Luca Martinelli, spiega perché l’acqua degli acquedotti è buona, sicura e comoda, ma è surclassata a colpi di spot dall’acqua in bottiglia, cara per le nostre tasche e poco sostenibile per l’ambiente. Il “libellulo”, uno strumento utile per educare a un consumo responsabile di un bene comune sempre più prezioso è in vendita nelle botteghe del commercio equo (56 pagine, 2 euro), oppure si può acquistare sul sito www. altreconomia.it/acqua. Nucleare Storie di Scorie, lo spettacolo teatrale di Ulderico Pesce (www.uldericopesce.com, 0973.46885, 338.3833791), vincitore del Premio Nazionale Legambiente 2005, parla del pericolo nucleare in Italia e di come dalle scorie nucleari si possano ricavare pericolose armi di distruzione di massa. Il testo racconta, in mariera asciutta e ironica, la vita di Nicola, segnata dalla presenza del nucleare: dal primo lavoro come addetto alle pulizie nel deposito nucleare della Trisaia di Rotondella in Lucania, all’esperienza di volontario in Bosnia dove si è ammalato per la polvere dei proiettili all’uranio, al lavoro come postino a Saluggia, sulla Dora Baltea, dove prende in affitto una casa che affaccia su un deposito nucleare, al rientro in Lucania a Scanzano Jonico, paese dove dovrà nascere il deposito unico di scorie nucleari italiane. Circolo Bateson Il seminario nazionale dal Circolo Bateson (Roma, 14 e 15 giugno 2008) è dedicato “Alla ricerca della realtà: percezione e costruzione” (iscrizioni: [email protected]). Etica ed estetica è il tema della vacanza-studio che si terrà dal 24 al 30 agosto a Vallombrosa (Firenze) (iscrizioni: [email protected]). modi e media INCONTRI Incontro Suad Amiry a Firenze, nella sede del Giardino dei Ciliegi, dove è venuta a presentare il suo ultimo libro Niente sesso in città. Tanta gente, parecchi palestinesi, donne e uomini, un piccolo buffet informale, molta amicizia, battute, un momento di serenità, ma anche la sofferenza per la situazione di una terra e di un popolo Palestina C mon amour ome sei diventata scrittrice? Grazie a due persone cui ho dovuto far fronte, Sharon e mia suocera, durante 34 giorni di coprifuoco a Ramallah. Il mio primo libro deriva da un diario privato, indirizzato via mail ad alcuni amici. In realtà io mi sento profondamente architetta, guardo il mondo non in quanto scrittrice, ma in quanto architetta¹, però ho continuato a scrivere perché ho constatato che la scrittura è stata terapeutica. L’ultimo libro è stato causato da Hamas, dallo choc per la vittoria elettorale di un partito conservatore, maschilista, fondamentalista religioso. Dopo questa svolta, mi sono resa conto che il mondo avrebbe avuto una visione stereotipata delle donne palestinesi, delle arabe in generale. Ho voluto parlare delle “altre” donne, quelle della generazione dell’Olp, che è sempre stato un movimento laico, con molte donne militanti. Che non sono vittime, che sono attive, professioniste, determinate, che lavorano nella politica e nel sociale. Sono tutte amiche che ho conosciuto a Beirut, nei vari partiti che facevano parte dell’Olp, e che poi, per varie strade, sono arrivate a Ramallah. Non è il libro che avrei voluto scrivere. Ero interessata soprattutto alla risposta alle domande: cosa è che ti ha fatto diventare quello che sei? cosa ha spinto donne della classe media a occuparsi di politica? E invece le amiche hanno parlato di sé, delle proprie vicende anche private, perciò la scrittura passa e ripassa, come nei precedenti, dal pubblico al personale. MARIA LETIZIA GROSSI Come mai questo titolo? In realtà avrei voluto intitolare il libro Menopausa e Palestina, ma l’editore italiano ha detto che un libro con menopausa nel titolo non si vende assolutamente. No sex in the city riprende per contrasto il nome di una serie televisiva e vuole evidenziare che Ramallah non è New York, in Palestina vige l’ipocrita convinzione che una donna single non faccia sesso e che del sesso non si possa pubblicamente parlare e tanto meno scrivere, ora più che mai, dopo la vittoria di un partito molto conservatore e fondamentalista. Perché la metafora di Palestina climaterica? Gli sbalzi umorali della mezza età mi hanno richiamato le depressioni e gli isterismi della Palestina di questo periodo, col muro israeliano che ci ha resi permanentemente internati e con Hamas che ha spento l’ultima candela. Il sesso che manca alla menopausa è il potere che manca al governo, è la cultura palestinese e araba in crisi. In Palestina non c’è più un dibattito culturale, solo Hamas, purtroppo, parla con i giovani. E in tutto il Medio Oriente la società non è più multiculturale, è divisa per linee etniche e religiose. Voglio aggiungere che personalmente vivo bene la mia età, non ho più nulla da dimostrare, né nella vita privata né professionalmente, posso rilassarmi e fare quello che desidero. Hai sempre adoperato, pur parlando di situazioni tragiche, il registro dell’ironia. L’ironia serve per sopportare una storia insopportabile. Del resto i palestinesi in genere sono ironici, ridono di sé e degli israeliani. Questa attitudine corrisponde alle modalità creative con cui un intero popolo trova degli escamotage per superare le infinite difficoltà imposte dall’esercito israeliano nella quotidianità. In quanto architetta, vorrei scrivere un libro sul muro. E su come le decisioni israeliane facciano continuamente cambiare percorsi e luoghi. Spesso non so come orientarmi. Ecco, nella scrittura cerco anche un filo… NOTA 1. L’autrice è architetta e insegna all’Università di Birzeit. Suad Amiry, Niente sesso in città, Feltrinelli 2007, pp. 174, euro 13 Dopo Sharon e mia suocera e Se questa è vita, questo terzo romanzo è un libro corale, accoglie i racconti di alcune donne sulla cinquantina che si riuniscono periodicamente in un ristorante di Ramallah, e che parlano di sé, delle loro famiglie, della politica, della Palestina, del loro amore per questa terra martoriata e delle loro disillusioni. Nelle storie personali passa sullo sfondo la storia più vasta della Palestina e del Medio Oriente. La voce ironica dell’autrice si alterna a quelle variamente declinate delle altre donne. Le amiche di Ramallah ci consegnano una visione fuori dagli stereotipi delle Palestinesi, sono persone, impegnate, colte, consapevoli, non vittimistiche anche quando hanno molto sofferto. Esperienze femminili in grado di dare forza anche alle altre. école numero 69 pagina 35 CANTARE LE EMOZIONI Una favola per presentare alcuni strumenti d’orchestra a bimbi in età prescolare. Un percorso proposto dal Conservatorio “Verdi” di Torino NEREA ALBERINI * L musica a storia di Goccia Come tutte le storie, anche la nostra inizia con: “C’era una volta…”. C’era una volta una piccola Goccia / che riposava vicino a una roccia. Una simpatica onda del mare / ogni mattina l’andava a svegliare. La nostra amica Goccia, alla fine di una tempesta, aveva finalmente trovato un riparo: dopo essere stata sbattuta dalle onde qua e là, su e giù si era messa a dormire, e il mare le cantava la ninna-nanna. Goccia aveva incontrato molti amici: altre gocce come lei e le creature del mare. Ma soprattutto la sua amica Onda che la cullava dolcemente e le suggeriva cosa fare, considerato che lei era nuova del posto. Già, il rifugio di Goccia… Dove era finita, Goccia? Dove si trovava? Goccia stava in una grande, enorme caverna. Di solito le caverne sono buie e fanno paura. Ma questa no e vi dirò il perché. Innanzi tutto qui Goccia aveva trovato un riparo e degli amici; e poi così buia non lo era, la caverna; finiva infatti con una galleria e, al fondo, si vedeva una luce, un grande occhio luminoso. E nella caverna c’erano anche altre luci; la abitavano molte creature marine luminose: piccole meduse, pesci, vermetti e strani esseri che danzavano nell’acqua disegnando forme bellissime e affascinanti. Al mattino Onda, l’amica di Goccia, la chiama e la invita ad andare a giocare: “Su, svelta, alzati! Non dormir più! / Corri veloce, corri laggiù! Va’ con le altre gocce a giocare” / le ripeteva l’onda del mare. Goccia sbadiglia, poi stira le braccia, si guarda intorno: nessuna minaccia, nessuna corrente che giri impazzita. Goccia controlla: nessu- école numero 69 pagina 36 na ferita. Tutto è tranquillo e lei è di ottimo umore. Segue il consiglio dell’amica Onda e va a giocare insieme alle sue sorelle e agli altri abitanti del mare: scende dallo scivolo di morbida sabbia, si fa portare in giro da un cavalluccio marino, gioca a nascondino tra ricci e stelle marine e – il momento più atteso – attraversa la foresta di alghe: fili sottili e delicati che le fanno il solletico mentre passa, avanti e indietro, più e più volte. C’è una grande agitazione nella caverna: è arrivato Poldo il Polpo, la giostra più divertente di tutto l’oceano, la trottola più veloce che Goccia abbia mai provato! Poldo fa salire i passeggeri sulle sue braccia quindi inizia a girare: prima lentamente… poi… sempre più velocemente. Ecco: la giostra è appena partita / Vedi nell’acqua una gran margherita che vorticosa continua a girare? / Porta con sé le creature del mare. Siete mai andati in giostra? È divertente, vero? Ma se gira molto velocemente (oppure se ci divertiamo a fare la “trottola” come i pattinatori) ci gira la testa, ci sembra di essere sospesi nell’aria… Quando il nostro amico Poldo incomincia ad avere le vertigini, rallenta e si ferma. A Poldo il Polpo gira la testa / sembra schiacciata dentro una cesta! Poldo rallenta, comincia a frenare: / così si ferma la giostra del mare. Dai suoi amici, Goccia ha sentito raccontare di un mondo diverso da quello della caverna, un mondo dove c’è una creatura chiamata Sole, tanto luminosa da non poterla guardare, che ti accarezza con i suoi raggi caldi caldi, e colora le gocce con tutti i colori dell’arcobaleno. Un mondo dove un essere chiamato Vento ti liscia il viso, dolcemente. Dai suoi amici Goccia ha sentito narrare tutto questo. Ma ha anche sentito raccontare che per arrivare in quel mondo bisogna passare attraverso uno stretto passaggio: quella galleria lunga e stretta al fondo della quale si vede l’occhio luminoso. Goccia non sa proprio cosa fare: ha paura… ma è anche molto curiosa… decide di andare… ma poi ci ripensa e decide di restare. Vado… Non vado… Sì, sì vado… Ma, forse resto… Goccia è molto incerta ma, alla fine, ha deciso: farà il viaggio, andrà a vedere il mondo di Vento e di Sole di cui ha sentito tanto parlare. Secondo voi, Goccia ha un po’ di paura? Più che paura, direi curiosità per ciò che troverà al termine del suo viaggio. Sta per partire: nessuna paura. / Sogna la Goccia la Grande Avventura Nessun tremore: ha tutto il coraggio / per affrontare lo stretto passaggio. Una corrente che scorre impetuosa / ora trascina la Goccia curiosa Deve sbrigarsi, Goccia, se vuole / essere Vento ed essere Sole. Il viaggio di Goccia è decisamente scomodo: una corrente impetuosa, fortissima, la spinge dentro alla galleria, la strizza, la risucchia, la trascina, la sbatte di qua e di là, la travolge, la rotola, la spinge sotto un arco ma, alla fine, raggiunge il Grande Mare con i suoi splendidi colori: azzurro, verde, turchese, blu! E poi…la luce: ecco finalmente la luce del Sole. La corrente spinge Goccia su, su, su… fino in cima alle onde… È FUOORIIIII!!! Sente su di sé la carezza dell’aria, del vento, il calore del sole; gioca a saltare da un’onda all’altra con un vestito iridescente, indossando tutti i colori dell’arcobaleno. Cavalca le onde, si libra nel vento / cambiando colore ad ogni momento. Cavalca le onde tra spruzzi di spuma / brillando la notte al chiaror della luna. E, sotto le stelle, il tenero Mare / la piccola Goccia riprende a cullare. Goccia, stanca ma profondamente felice, si riposa sotto un cielo incantato, fiorito da mille stelle, mentre il Grande Mare le canta la ninna- nanna. Così finisce la nostra storia, questa storia. Perché Goccia ha iniziato il grande cammino della vita e vivrà altre storie che la trasformeranno e la faranno crescere. Esprimere le emozioni La Storia di Goccia nacque per la presentazione, a cura del Conservatorio “Verdi” di Torino, di alcuni strumenti d’orchestra a bimbi in età prescolare. Il primo anno si utilizzarono, per rendere musicalmente le situazioni emotive peculiari, brani composti appositamente e, gli anni successivi, brani d’autore e realizzazioni estemporanee. In un secondo tempo gli insegnanti avrebbero ripreso la storia realizzandone, in forma d’improvvisazione con gruppi di bimbi, le parti strumentali. Docenti e allievi avrebbero effettuato una ricerca d’ambiente funzionale ad individuare gli oggetti sonori che, in aggiunta o in sostituzione allo strumentario Orff, permettessero di sonorizzare le varie situazioni (simbolismo secondario) e/o trasformare in musica le emozioni (simbolismo primario) della protagonista. La musica è un modo simbolico di espressione del sentimento, creando un tempo che rispecchia il nostro ritmo interiore. Attraverso l’uso del ritmo regolare/ irregolare, dell’alea- * Musicoterapista, già docente di Pedagogia Musicale per Didattica della Musica presso il Conservatorio “Verdi” di Torino. NOTA 1. Vedi il sito www.centrogdl.org. IL PERSONALE È POLITICO Nel film Persepolis, la transizione di una società secolare in Stato islamico è raccontata, autobiograficamente, attraverso il quotidiano di una bambina intelligente e sognatrice, poi ragazza fragile e senza sogni, poi giovane donna determinata e dolente. Si ride, si piange e si impara CELESTE GROSSI P ersepolis, il film di Vincent Paronnaud e dell’iraniana Marjane Satrapi, tratto dal fumetto omonimo scritto e disegnato da Satrapi (pubblicato in Italia da Sperlig & Kupfer Editori), vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 2007, «per il suo valore di denuncia, abbinato a un’alta qualità di disegno», è da qualche mese nelle sale italiane. Andatelo a vedere e soprattutto, appena sarà disponibile, fate vedere il Dvd a scuola. È uno strumento didattico impagabile perché ci si identifica nell’autrice-protagonista che dichiara di avere raggiunto il suo scopo: «Per me – ha detto –, il più grande successo è accorgermi che persone che non hanno mai letto o sentito parlare di queste cose, si identifichino con ciò che scrivo e comprendano profondamente il grado di orrore. Riescono a capire senza averlo vissuto, questo è ciò che voglio». Ci si perde nei grandi occhi neri della protagonista che diventano sottili quando si indignano per ciò che vedono. Ed è il colore nero a dominare tutto: neri i disegni del fumetto, nero il velo che copre le teste delle donne, nere le barbe dei poliziotti, controllori della virtù. In tutto il film solo nella scena dell’arrivo a Parigi compare il colore. cinema torietà, della dinamica (forza del suono), dell’agogica (andamento, velocità) la musica diventa una sorta di omologo delle emozioni. Emozioni che vengono prima della musica (per il compositore) e dopo di essa (come associazione psico-sonora per l’ascoltatore). Essendo il tono emotivo strettamente connesso col tono muscolare, la musica agisce su entrambi procurando associazioni sinestesiche. La sinestesia, uno degli elementi base della metodologia della Globalità dei linguaggi1 elaborata da Stefania Guerra Lisi, è l’associazione continua e spontanea di immagini nell’attività di pensiero, partendo dalle stimolazioni di un senso. Il corpo sensoriale percepisce questa rete tessuta fra interno ed esterno facendo riemergere le immagini stratificate dalla memoria, ritrovandone la qualifica affettiva. Si può dire che la sinestesia è la garanzia di una costante involontaria attività emotiva e associativa. Le emozioni si possono anche cantare; le vocali sono i suoni delle nostre emos-azioni (le azioni del sangue), sono i suoni dei sentimenti: le usiamo intuitivamente quando piangiamo, nei richiami, nelle esclamazioni. L’uso cosciente della voce con questa modalità non è scontato, specialmente in caso di disagio relazionale; può però diventare un obiettivo che attesti la raggiunta fiducia nell’altro e nell’ambiente, tanto da comunicare con la parte più profonda di sé. Le vocali esprimono i moti d’animo e vengono articolate mettendo in gioco i punti di vibrazione interni del corpo-strumento musicale. Abbiamo bisogno costante di sfumature che “prenderanno corpo” durante l’attività improvvisativa con la scelta di particolari impasti timbrici, ritmi pulsati e non, resa graficocromatica (disegni di forme) del “carattere” delle sequenze sonore, traduzione motoria delle “partiture” realizzate: sfumature emotonico-foniche che aiutano a mantenersi plastici sul piano fisico e psichico. Ogni essere umano è un essere simbolico. La storia di Goccia – favola della favola – racconta il rito della nascita: il viaggio dell’eroe, secondo la Globalità dei Linguaggi. È il percorso sensomotorio che il bambino affronta in prima persona e che si conclude nel faticoso passaggio dal mondo della sospensione e dell’acqua a quello dell’aria. Nella fiaba del corpo si può scoprire l’origine dei motivi dominanti di tutte le fiabe e i miti, significati profondi legati al vissuto primario, del contenimento (la caverna-utero) e del distacco (da un mondo per avventurarsi verso un altro ignoto), essenza stessa della vita e dell’uomo. Loro e noi La transizione di una società secolare in Stato islamico è raccontata, autobiograficamente, attraverso il quotidiano di una bambina intelligente e sognatrice, poi ragazza fragile e senza sogni, poi giovane donna determinata e dolente. Si ride, si piange e si impara. Si impara molto sull’Iran e qualcosa su di noi, occidentali: «Noi sappiamo che viviamo in una dittatura, ne siamo consci. Però gli occidentali pensano di vivere in una democrazia, anche se non lo è. Quindi loro sono più confusi di noi». Sono le voci di Paola Cortellesi, Licia Maglietta e Sergio Castellitto a raccontarci la storia personale di Marjane che si intreccia con le vicende del suo paese di origine, alle quali Satrapi riesce a guardare con dolorosa ironia. Marjane è bambina in Iran alla fine degli anni ‘70, in una famiglia abbiente e colta che si oppone al regime dello Scià, ormai agli sgoccioli. La mamma e, ancor di più, la fondamentale nonna femminista la educano alla libertà e all’integrità morale, lo zio comunista ai valori della tolleranza. La rivoluzione di Khomeini è accolta come una ventata liberatoria anche dalla famiglia laica di Marjane, ma i segnali di regresso fanno presto a manifestarsi: le galere si riempiono di perseguitati più di prima, la condizione femminile subisce forti limitazioni. Marjane, adolescente ribelle (compra al mercato nero i dischi dei BeeGees, sotto il velo si sente punk, ascolta gli Iron Maiden, osa criticare la professoressa di religione), viene mandata a studiare a Vienna dove subisce le discriminazioni riservate agli stranieri, un´esperienza così dura che dopo qualche anno Marj chiederà di tornare in Iran. Frequenta l’università, si innamora, decide di sposarsi nell’illusione di essere più libera, subisce la repressione poliziesca, decide di divorziare e ventiquattrenne lascerà nuovamente il paese per Parigi, dove attualmente vive. Marjane Satrapi critica profondamente l’integralismo islamico e gli effetti sul suo paese e sulla vita quotidiana degli uomini e soprattutto delle donne iraniane, tanto che ha recentemente dichiarato che non intende rientrare in Iran se le condizioni politiche e culturali non varieranno. école numero 69 pagina 37 il libro L’IMPORTANZA DI AVERE DUE ORECCHIE La musica interviene, provoca o è il punto di approdo di complessi percorsi che s’intrecciano nella mente umana sulla base del legame tra variazioni cerebrali ed esperienze di vita STEFANO VITALE Oliver Sacks, Musicofilia, Adelphi, Milano 2008, pp. 434, euro 23 I l libro che più ho amato di Oliver Sacks è L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Una raccolta di casi clinici rivisitati in chiave letteraria, ma con una visione pedagogica e scientifica assolutamente imprescindibili. In primo luogo veniva affermata la stretta colleganza tra mente e corpo. Il cervello è materia, prima di tutto, e le sue reazioni ed azioni sono certamente di ordine affettivo relazionale, ma anche condizionate dal suo intrinseco funzionamento. Lungi dall’affermare un nuovo determinismo fisiologico, Sacks ci insegnava a guardare in ogni caso al di là PAROLE Questa volta il vocabolario che, attraverso alcuni concetti chiave, ci aiuta a ripercorrere (o a farlo ex novo) la strada che nel secolo appena passato hanno tracciato i femminismi, qui e altrove va dalla “N” di nascita alla Un vocabolario tutto per noi MONICA LANFRANCO * “O” di onore école numero 69 pagina 38 delle apparenze e che la realtà dei fatti non è tutto, ma senza i fatti non è niente. Solo che i fatti ci possono mettere molto tempo prima di essere visibili. E questo era un insegnamento pedagogico essenziale che sosteneva l’idea che la malattia non è uno stato d’inferiorità o peggio, come vuole l’etimo, un male habitus un cattivo comportamento, bensì uno stato differente, magari anche solo transitorio, insomma per nulla definitivo. La malattia come modo di essere capace di rappresentare la persona anche sotto il profilo creativo, sotto una luce nuova ed inedita. In questo nuovo libro ritroviamo lo stesso spirito. Sacks mette qui a dura prova i nostri pregiudizi, i nostri consolidati punti di vista e ci spinge a modificarli e lo fa descrivendo situazioni affascinanti ed enigmatiche. Per molti versi, se non fosse per lo stile chiaro e lineare tipico di un approccio scientifico, si potrebbe pensare che certe storie siano uscite dalla penna di Kafka. Il libro ci racconta di come la musica intervenga, provochi o sia il punto di approdo di complessi percorsi che s’intrecciano nella mente umana sulla base del legame tra variazioni celebrali ed esperienze di vita. Qual è la parte che ha la base neurologica nelle alterazioni della coscienza e nei nostri modi di agire? Può accadere che il nostro cervello, dopo aver subito variazioni o alterazioni possa riorganizzarsi provocando trasformazioni sorprendenti nell’assetto emotivo, psicologico e prussico di una persona? Certamente per Sacks vi è questo collegamento, ma è sempre NASCITA Strano come una autrice che tentò più volte il suicidio, come Dorothy Parker, abbia concepito un pensiero così positivo sulla nascita: «Dove, suo malgrado, muore una rosa, l’anno dopo ne nasce una nuova». Come per la morte la nascita non è documentabile direttamente da chi la sperimenta, ma una cosa è certa: con la nascita di una creatura anche una madre nasce al mondo. E su questo doppio legame, esclusivo, magico, definitivo che il mettere al mondo determina sono state scritte pagine di rara bellezza e intensità nel vent’anni di movimento delle donne. Per estensione la creatività umana, che per molto tempo non era concessa alle femmine, è stata assunta come far nascere simbolico per popolare il mondo delle idee. Come per il morire, il mangiare, l’accogliere, il cibarsi, una civiltà parla del suo evolversi anche e soprattutto dal come mette in condizione di nascere: in Italia, tanto perché lo sappiate, la nascita è ancora ostaggio di una medicalizzazione ottusa e crudele. Nonostante le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il livello dei cesarei è tre volte superiore a quello fisiologico, e di tornare a nascere, e a mettere al mondo, in casa, come nei più civili paesi del nord, non se ne parla. ammirevole il suo stile trattenuto, per nulla assertivo, quasi si limitasse ad essere il cronista di eventi non sempre spiegabili razionalmente, ma che hanno una loro profonda razionalità nell’imprevedibilità umana. Tra l’altro recenti studi di cui è apparsa notizia su “Domenica” del Sole 24 ore confermano uno stretto collegamento tra creatività musicale nei ragazzi ed abilità nella discipline primarie. Ma veniamo ad alcuni esempi del libro: un individuo che non ha mai percepito la bellezza della musica classica subisce un trauma: mentre telefona viene colpito da un fulmine, rischia di morire, sopravvive e scopre un nuovo mondo emotivo nella musica sino a divenire un abile concertista. Oppure c’è la ricercatrice in chimica che dopo asporto di una massa tumorale dal cervello si accorge dell’effetto che fa su di lei la musica classica sino ad allora assolutamente estranea Lo stesso Sacks racconta di quando, a New York, partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: tutti appaiono in preda a tic contagiosi, che si propagano «come onde». Poi il batterista inizia a suonare e come per incanto il gruppo lo segue con i tamburi, fondendosi in una perfetta sincronia ritmica. Questo stupefacente esempio è solo una particolare variante del prodigio di «neurogamia» che si verifica ogniqualvolta il nostro sistema nervoso “si sposa” a quello di chi ci sta accanto attraverso il medium della musica. Allucinazioni sonore, amusia, disarmonia, epilessia musicogena: da quali inceppi nella connessione a due vie fra sensi e cervello sono causate? Come sempre in Sacks l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: l’orecchio assoluto, la memoria fonografica, l’intelligenza musicale e soprattutto l’amore per la musica. Ci troviamo così a riconsiderare in una nuova prospettiva interrogativi essenziali e assistiamo ai successi della musicoterapia su difficili banchi di prova quali l’autismo, il Parkinson, la demen- za. Il libro è così una cavalcata che va dai misteriosi sogni musicali che ispirarono Berlioz, Wagner e Stravinskij, alla possibile amusia di Nabokov, alla riscoperta dell’«enorme importanza, spesso sottostimata, di avere due orecchie»: ogni storia cui Sacks dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono. Un libro da leggere che dà fiducia e ci restituisce una prospettiva. Nato di donna, Adrienne Rich, Garzanti. Manuale del parto attivo, Janet Balaskas, Red Edizioni. Il pensiero materno, Sara Ruddik, Red Edizioni. tura come ‘madre tierra violentada’, mentre le trivelle incalzano spietate a succhiare il cancro nero dalle viscere, deforestando e disboscando gli ultimi polmoni verdi. «Come è strano, ha scritto Emily Dickinson: la natura non bussa mai prima di entrare, eppure non è mai un’intrusa». l’Africa al Medio Oriente) si possa ancora uccidere o mutilare una donna godendo delle attenuanti di legge perché la vittima aveva ‘trasgredito’ a qualche regola relativa all’onore previsto nel codice patriarcale. Da segnalare che qualche anno fa nel nostro Sud le associazioni di donne lanciarono l’allarme sull’intensificarsi delle fuitine, i rapimenti cosiddetti d’amore che coinvolgevano ragazze minori per mettere le famiglie, in particolare quella di lei, davanti alla frittata fatta, e obbligare quindi al matrimonio “riparatore”. Nel terribile Firdaus l’autrice afferma una verità scomoda e inequivocabile: «Per difendere l’onore ci vogliono grosse somme di denaro che non si possono ottenere senza perdere l’onore». NATURA Siamo state natura per millenni, mentre dall’altra parte la cultura era il maschile. Il pensiero dominante maschile ha sempre teso a guardare alla natura come ad una forza composita da assoggettare, e così è stato: sul controllo della natura è stato costruito il progresso, ovvero ciò che noi consideriamo il progresso. Selvaggia e ingovernabile, passiva e ricettiva, natura è stato sinonimo di femmina dovunque, nell’arte, della religione, nella politica. Oggi, che la natura e le sue risorse sono in pericolo, proprio perché l’assoggettamento è andato oltre diventando in molti casi sperpero se non distruzione, non ci sono più le orde di sostenitori della connessione donna – terra – natura perché le cose sono diventate serie, e quindi anche la natura può essere promossa elevandosi dal livello inferiore che la legava al sesso debole. Restano solo i popoli indigeni, e le loro rappresentanti, a invocare la na- Una forza della natura, Nadine Gordimer, Feltrinelli. La naturale inferiorità delle donne: 5000 anni di cattiverie maschili, Tama Starr, Sperling & Kupfer. Giocare alla divinità, Goodfield, Feltrinelli. Monoculture della mente, Vandana Shiva, Bollati Boringhieri. ONORE La vicenda della nigeriana Safya ci ha ricordato che le regole dell’onore, per cause religiose, o tribali, o sociali sono ancora vive e ben salde, nonostante i viaggi interplanetari. La legislazione italiana e quella europea hanno cancellato da qualche decennio la possibilità di invocare l’onore per avere attenuanti nel caso di delitto, ma certo non è consolante che nel mondo (dalla Cina al- Onore e storia nelle società mediterranee, a cura di Giovanna Fiume, La Luna Edizioni. Segreti silenzi bugie, Adrienne Rich, La Tartaruga. Firdaus, Nawal al Sa’dawi, La Tartaruga. * Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle donne (www.monicalanfranco.it, www.mareaonline.it). école numero 69 pagina 39 Clotilde Pontecorvo, Lucia Marchetti (a cura di), Nuovi saperi per la scuola. Le Scienze Sociali trent’anni dopo, ed. Marsilio, 2007, pp. 281, euro 22 I libri l Consiglio italiano per le scienze sociali, a trent’anni dalla prima pubblicazione del volumetto Einaudi (1977) su scienze sociali e riforma della scuola secondaria, ha voluto dedicare un nuovo studio con il contribuito di un gruppo molto vivace di insegnanti di scuola secondaria superiore che hanno realizzato in modo intelligente e creativo delle pratiche didattiche assai innovative nell’area delle scienze sociali. Tutto ciò partendo dal presupposto che le scienze sociali, in qualità di “humus trasversale” di tutte le altre discipline di insegnamento (matematica, scienze naturali, letteratura, ecc.), inserite all’interno del contesto locale nel quale vengono elaborate, contribuiscono ad aiutare gli studenti a comprendere come l’ambiente sociale condizioni in parte la formulazione delle idee. Il libro, riannodando i fili storici di un lavoro sulle scienze sociali nella Scuola secondaria, si articola in tre grandi sezioni. La prima prende in considerazione il “versante culturale” della questione scienze sociali – insegnamento come spazio di promozione di una scuola per tutti che però non implichi un “livellamento verso il basso”, ma sia strutturato in modo da consentire a ciascuno di esprimere al meglio le capacità individuali. La seconda raccoglie le esperienze pratiche di formazione e didattica attraverso la narrazione del clima in cui si è sviluppato il progetto, della competenza professionale dei promotori, della partecipazione attiva degli studenti e della rielaborazione profonda del gruppo nel suo insieme. Anche le esperienze di tirocinio e quelle di lavoro interdisciplinare e collegamento tra scienze sociali e matematica e scienze sociali e scienze naturali sono degne di nota, per la costruzione di moduli che danno vita a una articolazione unitaria del sapere, non teorica, ma pratica, declinata nella didattica. La terza fornisce un quadro della situazione sui tentativi di introduzione delle scienze sociali nelle Scuole secondarie e la diffusione dei licei sul territorio in cui l’insegnamento di psicologia, sociologia, ma anche economia e diritto, non viene inteso come mezzo per formare dei “piccoli scienziati sociali”, né per trasformare i licei in “anticamera” della prosecuzione dello studio di queste discipline all’Università. Ma con l’intento di offrire ai ragazzi una competenza generale fondamentale: una cultura della cittadinanza. EDOARDO CHIANURA école numero 69 pagina 40 A FORZA DI ESSERE VENTO. LO STERMINIO NAZISTA DEGLI ZINGARI Q uanti, non si saprà mai. Più o meno cinquecentomila furono i Rom e i Sinti, gli Zingari, o meglio gli Zigeuner – usando il termine spregiativo tedesco – che furono sterminati dai nazisti. Oltre ventimila passarono per il camino del campo di sterminio di AuschwitzBirkenau, all’interno del quale tra il febbraio 1943 e l’agosto 1944 funzionò lo Zigeunerlager, un “campo nel campo” riservato appunto a loro. Dello sterminio nazista degli Zingari si sa ancora oggi assai poco (le prime ricerche storiche sono iniziate negli anni ‘60). Ma per parlarne a scuola ora esiste un cofanetto di 2 Dvd (2 ore e mezza di visione di documentari, interviste, spettacoli musicali) e un libretto di 72 pagine (articoli e immagini) sugli Zingari e sullo sterminio di cui furono vittime durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo ha realizzato l’Eda Editrice A (la cooperativa editoriale anarchica che pubblica da 35 anni la rivista anarchica: casella postale 17120, 20170 Milano, tel. 02.2896627, fax 02.28001271, e-mail [email protected]) per fare breccia nel muro dell’indifferenza, dell’abitudine quotidiana a tragedie e massacri, del pregiudizio verso un popolo “brutto, sporco e cattivo”. La scommessa è quella che ci siano persone (e insegnanti) disposte ancora a emozionarsi, a cercare di capire, ad ascoltare le voci e le canzoni, le testimonianze drammatiche e la gioia di vivere di altre persone diverse da noi. Nel primo Dvd dopo un’introduzione di Moni Ovadia (“Hai mai avuto un amico zingaro?”); un’intervista a Marcello Pezzetti, del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, che ricostruisce la storia dello Zigeunerlager; il documentario Porrajmos (in romanes, la lingua zingara, derivata dal sanscrito, “distruzione”), realizzato per l’Opera Nomadi dai registi Paolo Poce e Francesco Scarpelli; “Hugo”, l’intervista realizzata da Giovanna Boursier al sinto tedesco Hugo Hoellenreimer, internato nello Zigeunerlager e torturato da Josef Mengele. Il secondo Dvd si apre con la videoregistrazione di Senza confini, senza barriere, una serata tenutasi alla Camera del Lavoro di Milano (2005), protagonisti i Taraf da Metropulitana, un gruppo musicale rom rumeno, che insieme a Moni Ovadia eseguono canti tradizionali gitani e yiddish; segue l’intervista a Mirko Levak, Un rom italiano ad Auschwitz di Francesco Scarpelli ed Erika Rossi; chiude Porrajmos. Lettura e spettacolo, videoregistrazione di un’altra serata alla Camera del Lavoro di Milano (2006). Nel libretto, dopo il testo di un inno zingaro e la presentazione editoriale, Gloria Arbib si sofferma sull’irriducibilità di Ebrei e Rom all’assimilazione; Giovanna Boursier traccia un quadro sintetico della persecuzione nazista dei Rom e dei Sinti, facendo luce anche sulle (generalmente sottaciute) complicità non solo morali del regime fascista; Paolo Finzi traccia un parallelo tra la Shoà e il Porrajmos; Maurizio Pagani il rom Giorgio Bezzecchi, dell’Opera Nomadi, esaminano la situazione degli Zingari nell’Europa odierna; le foto di Paolo Poce raccontano lo sgombero di una casa occupata da Rom rumeni a Milano nel 2004; in chiusura il testo della canzone dedicata agli zingari da Fabrizio De André e Ivano Fossati . Il cofanetto costa 30 euro e si può acquistare online al sito www.arivista.org. dvd NUOVI SAPERI CELESTE GROSSI Oyoun Al Kalaam, Dal’Ouna, DALOUNA 2007, Master Lab Systems, www.dalouna.net R musica amzi Aburedwan, il bambino che lancia pietre durante la prima intifada e che, crescendo, imbraccia invece una viola, è un’immagine nota a molti. Così come Al Kamandjâti, il suo progetto di intervento con la musica nei campi profughi di cui abbiamo già parlato su école. Il progetto si è sviluppato nel tempo, ottenendo appoggi da varie associazioni europee e consentendo l’organizzazione di corsi musicali in molti campi profughi palestinesi e libanesi e la costruzione di una scuola di musica a Ramallah. Una delle attività intraprese per dare visibilità all’iniziativa è anche quella concertistica con il gruppo Dal’Ouna di cui fanno parte, oltre a Ramzi che suona la viola e il buzuki, una cantante e sei suonatori di Oud, fisarmonica, clarinetto, nay, chitarra e percussioni. Del gruppo è attualmente diffuso in Italia un CD, realizzato nel 2007, che comprende due brani del noto compositore libanese Marcel Khalife, un brano dei fratelli Rahbani, e sette brani della tradizione classica e popolare, con interessanti arrangiamenti fatti appositamente da Ramzi. Dal’Ouda riunisce musicisti di diverse provenienze, ma ben affiatati tra loro e molto attenti alle sonorità, che si propongono di diffondere le specificità della musica palestinese e mediorientale della tradizione classica e popolare in modo affascinante e accattivante. Una delle loro caratteristiche, è quella di coinvolgere nei loro concerti giovani palestinesi, incontrati nei diversi corsi musicali, per offrire loro un’occasione di crescita a contatto con musicisti professionisti, oltre che la possibilità di viaggiare e vivere esperienze interessanti. Anche in questo Cd troviamo quindi, a fianco dei componenti del gruppo, Noura Madi, giovane ragazza del villaggio di Salft (vicino a Naplouse) in Palestina e di Oday Al Khatib del campo profughi di Al Fuwwar. Le loro voci, che uniscono la freschezza e l’entusiasmo alla musicalità, si fondono perfettamente con le sonorità del gruppo e rendono ancora più emozionante l’ascolto. MARIATERESA LIETTI BUM BUM CHI È? MUNARI N on è facile raccontare Munari: nel corso della sua vita si è divertito a fare di tutto. Ha giocato con l’arte, le parole, il design e il disegno, i colori e le macchie, le sedie e il cinema, i mobili e gli immobili. Ha girovagato per il mondo, dall’Italia al Giappone (dove è forse più riconosciuto che qui), seminando ovunque intelligenze e battute. Mettere in scena Munari è come cercare di dare forma alle nuvole, provando a interpretare le sue tante sfaccettature; e infatti a Como, città toccata da Bruno in uno dei suoi tanti spostamenti, ci si sono provate in tre: le componenti del gruppo Fata Morgana (nome che sarebbe piaciuto a Bruno) intorno al suo “abitacolo” mobile-stanza-casa in perpetuo divenire costruiscono, montano e smontano le sue tante facce. “Bum” progetta, Bum gioca, scrive, fa fare il cinema ai bambini, compare e scompare, si nasconde dietro la sua scimmietta, sale sopra il letto, prova a sedersi sulla scivolosa sedia per visite brevi, vieta l’ingresso ai non addetti al lavoro e il lavoro ai non addetti all’ingresso. È un Munari divertito, come lui era divertente e arguto, filologico quanto può esserlo chi ha fatto del distruggere le idee assodate una missione di vita. E soprattutto è un Munari che ha ritmo, che – come quello vero – non si perde in giri di parole e di frasi, ma mostra-e-dimostra, si appende all’abitacolo a mostrare che lo si può fare, rivolta le frasi a chiarire che non è detto che il verbo stia lì e il soggetto là. Certo star dietro a questo Munari è un po’ faticoso e quindi le tre protagoniste corrono da un’idea all’altra sulle note di una canzoncina degli anni ‘40: è l’unica cosa in cui è difficile immaginare il serafico Bruno, per il resto c’è tutto. E siccome – come Bruno amava ripetere da un immaginario proverbio cinese – tutto ciò che non ci sta in una cartella non è degno di essere scritto, questa breve recensione è di 2000 caratteri giusti. Non uno di più non uno di meno (spazi compresi, titolo escluso): contare per credere. teatro OYOUN AL KALAAM FABIO CANI école numero 69 pagina 41 Determinismo e avventura illuminata STEFANO VITALE L anni verdi a penombra che abbiamo attraversato. È il titolo di un romanzo di Lalla Romano dal gusto “proustiano” che allude all’infanzia: «Età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura per chi la guarda dall’altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte» (il testo è ripreso in Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, 2008). Ho ripensato spesso alla natura ambigua dell’infanzia in questi giorni tristi di quasi azzeramento politico della sinistra e di quasi annullamento del sogno di un mondo diverso. Ed ho ripensato a come l’idea di cambiare il mondo non sia in fondo né di destra né di sinistra. E questo fa male, molto male. Così ho riletto Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain (nella bella traduzione einaudiana di Enzo Giachino) ritrovando il gusto dell’avventura anarchica, dell’immaginazione creatrice dell’adolescenza immersa nelle contraddizioni del suo tempo (lo schiavismo, in quel caso) anziché falsamente libera nell’individualismo post-romantico del fantasy di oggi (in cui è caduto anche Harry Potter). Huck Finn è il seguito dell’altro racconto Le avventure di Tom Sawyer, bambino classicamente orfano e libero da legami (come Pippi Calzelunghe e tanti altri) alla ricerca di una felice innocenza che però verrà infine delusa integrandosi nel sistema di valori materialistico e borghesi che avrebbe voluto rifiutare. Huck è ancora più primitivo ed ingenuo, sensibile e fisico, ma anche fatalista, di una saggezza senza illusioni. E qui le cose saltano, almeno per me, oggi. Tutto diventa un gioco, una finzione tranne il rapporto libero da convenzioni che Huck stabilisce con Jim, il negro, viaggiando sulla zattera, un affetto tra due esseri esclusi, emarginati. Tutto è ridotto all’essenza e la società è così lontana vista dal fiume. Ma quella società schiavista e violenta, prigioniera della logica della faida vincerà col suo moralismo bigotto, falsamente umanitario e Huck e Tom (nel frattempo riapparso nel racconto) mostreranno quel che sono: falsi ribelli. Tutto è un’impostura: la liberazione di Jim è uno scherzo farsesco e la morale di Twain è deterministica e pessimistica. Malgrado il finale leggermente diverso, mi ha fatto pensare al recente libro di Cormac McCarthy La strada, Einaudi, 2007 dove un bambino attraversa con padre un’America post apocalittica dominata dalla guerra di tutti contro tutti, sorretti dai valori estremi della frontiera originaria americana, dalla certezza della differenza tra buoni e cattivi, giusto ed ingiusto, dal rapporto essenziale e spirituale di padre e figlio. Una sorta di fondamentalismo antirelativista per dirla alla Gianfranco Fini, neo Presidente della Camera, uomo della transizione postfascista in Italia. Che sia in balìa di un modo di concepire l’avventura ed il romanzo di formazione secondo criteri populistici, anticapitalistici e controrivoluzionari al tempo stesso? Allora ho ripreso in mano Rasmus e il vagabondo di Astrid Lindgren (Salani). Nel primo il bambino si libera dall’orfanotrofio e riesce, con l’aiuto di un vagabondo, a vivere esperienze (aiutano persino la polizia, da cui ovviamente scappavano, a mettere in prigione dei malviventi) ed avventure bellissime e vere, scoprendo il senso dell’amicizia, della lealtà e dell’amore per le persone in quanto tali, il senso della condivisione ma anche il conflitto tra i desideri di stabilità (Rasmus sta per essere adottato e lo vorrebbe) e il piacere della vita libera con Oscar il vagabondo, senza finzioni e senza stupidi sentimentalismi. Qui l’individuo è in rapporto stretto con la natura e con gli uomini, ma senza pregiudizi, né volontà di dominio, con la giusta leggerezza “calviniana” che viene anche dal riso e dalla luce bianca del mattino. Si può stare, allora, dalla parte dei deboli in nome della giustizia sociale e della solidarietà umana, animati da un’etica laica che ci fa guardare alle persone come esseri capaci di scegliere, di essere responsabili, di vivere con poco, senza bisogno di un ovile, e senza odio verso gli altri, senza nemici per forza. Non è un’illusione, è una possibilità, senza determinismi né pessimismi sulla natura umana. I tempi sono duri ma c’è un illuminismo dell’infanzia che non può essere cancellato. Stiamo allerta. école numero 69 pagina 42 INFO Suona la tua parte L’Edward Said National Conservatory of Music – in collaborazione con Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia, Scuola Popolare di Musica del Testaccio, Insieme per Fare, Osi Orff-Schulwek Italiano, Società Italiana per l’Educazione Musicale – invita a diventare Amico delle Orchestre della Palestina. Le Orchestre della Palestina contano sulla generosità di chi si preoccupa del futuro della Palestina e delle opportunità culturali per i suoi giovani. Diventando un Amico delle Orchestre della Palestina si finanziano i programmi delle orchestre, si permette al conservatorio Edward Said di assumere assistenti e direttori qualificati, rendendo possibile per i giovani talenti palestinesi la partecipazione a progetti musicali nazionali. Chi dona una quota annuale di 75 euro riceverà, tramite e-mail, newsletter trimestrali con recensioni di concerti, laboratori, eventi speciali e tutte le altre attività delle Orchestre della Palestina (il Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said gestisce quattro orchestre giovanili: l’Orchestra di Bambini di Gerusalemme; l’Orchestra del Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said; l’Orchestra di Fiati del Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said; l’Orchestra Giovanile della Palestina). Per informazioni: [email protected]. edu. Per diventare un Amico delle Orchestre della Palestina spedire per posta a Edward Said National Conservatory of Music, P.O. Box 66676, 91666 Jerusalem, il modulo che si può scaricare dal sito www.donnaolimpia. it/amiciorchestrepalestina/MODULO_ AMICI.pdf. Scuola di animazione musicale Sono aperte le iscrizioni alla XII Sessione estiva della Scuola di Animazione Musicale ad orientamento Pedagogico e Sociale di Lecco. Per informazioni ed iscrizioni: Centro Studi musicali e sociali Maurizio Di Benedetto c/o Coop. Soc. La linea dell’arco, via Balicco 11, 23900 Lecco (LC), tel. 0341.36.22.81, fax 0341.285012, email [email protected], www.csmdb.it. TEXT LA SFINGE ‘68 Il riproporsi continuo di uno scontro fra “linea rossa” e “linea nera”, se può essere per un verso visto come l’ultima versione dell’idea di progresso, può essere, per un altro, il segnale di una sfiducia profonda (per quanto mascherata da ricorrenti dichiarazioni di ottimismo) nella possibilità stessa di un rinnovamento davvero radicale. Se non si tiene conto di questo aspetto, la dialettica storica della nuova sinistra rischia di essere incomprensibile PEPPINO ORTOLEVA * D ue sono le caratteristiche unitarie dell’evento ‘68 sulle quali vorrei richiamare l’attenzione. Caratteristiche evidenti ma (o forse proprio per questo) finora oggetto di scarsa riflessione. Da un lato, il carattere planetario del movimento, primo evento che congiunge in una quasi perfetta simultaneità l’intero mondo, a partire non da un centro propulsore unitario (la politica di una o più grandi potenze) bensì da nuclei distinti, ma animati da una stessa spinta. Dall’altro, il netto prevalere, nel movimento, nella sua ideologia, nella mentalità da esso diffusa, dell’idea di un processo rivoluzionario ininterrotto rispetto a qualunque finalità specifica; l’esaltazione, in altre parole, del movimento in sé di contro a qualsiasi ipotesi di stabilizzazione dei risultati da conquistare. 1. Definire “planetario” il ‘68 è una constatazione banale, e facile da verificare. La protesta giovanile, in quell’anno, toccò tutti i continenti, quasi simultaneamente. È pressoché impossibile indicare dei “motori”, dei paesi che abbiano assunto un ruolo propulsore, anche se un giornalismo superficiale e sventato cerca ogni tanto di farci credere che in gran parte dell’Europa occidentale i moti si sarebbero diffusi dopo il (e ad imitazione del) maggio francese. Basta un’occhiata alla cronologia per verificare. Non vi fu, in realtà, paese guida: ebbero un ruolo anticipatore, semmai, gli Stati Uniti, dove il movimento “partì” qualche anno prima (ma anche lì l’anno 1968 fu per molti versi una svolta), la rivoluzione culturale cinese. Ma nei confronti della Cina, come del Vietnam, l’atteggiamento dominante, in occidente, più che di imitazione, pareva essere di identificazione, quasi che la diversità geografica e culturale dovesse cedere il passo ad un’unità politica ed ideale ben più intensa (l’idea stessa che potessero esservi “tanti Vietnam”, che il Vietnam, da realtà nazionale e territoriale, qual era per i vietnamiti e per la stessa “teoria del domino”, potesse trasformarsi in entità ideale quasi priva di identità geografica, appartiene evidentemente alla stessa logica). Simultaneità a livello planetario, rifiuto dei vincoli geografici e territoriali in nome di uno scontro di principio che aveva il globo intero, tutto insieme, come campo di battaglia: si trattò, per ciò solo, di un evento politico di nuovo tipo. Tanto più che il ‘68 superò, con imprevedibile facilità, proprio école numero 69 pagina 43 A partire dagli anni ‘60 si verificò una svolta nell’interdipendenza produttiva: lo spezzettamento dei processi di produzione tra diverse aree nazionali, addirittura tra diversi continenti, favoriva la consapevolezza del carattere necessariamente internazionale della lotta di classe e della impossibilità di isolarsi da un sistema produttivo globale e pervasivo. Il ‘68 ereditò, quindi, un mondo più fortemente unito, più interdipendente, più dolorosamente consapevole del proprio comune destino, di quanto fosse mai stato prima. Senza questa eredità, sarebbe incomprensibile il fatto che per il movimento, ovunque, il mondo era il vero scenario di ogni battaglia, la vera platea di ogni gesto Manifesti del maggio francese rielaborati per la campagna pubblicitaria dei supermercati Leclerc (2003). école numero 69 pagina 44 quelle barriere che erano apparse istitutive del mondo del dopoguerra: la “cortina di ferro”, la stessa contrapposizione tra mondo sviluppato e “terzo mondo” (che pure il movimento medesimo contribuì ad idealizzare e ad esaltare). La coesistenza di movimenti analoghi per composizione sociale e per aspirazioni profonde nell’Europa occidentale ed orientale; la circolazione di parole d’ordine e linee politiche dalle colonie alla “metropoli” e viceversa; la stessa relativizzazione del concetto di “terzo mondo” pur tanto enfatizzato ideologicamente, come nell’espressione “third world people” applicata a neri americani e chicanos: leggiamo insieme questi fenomeni. Il ‘68 appare, al tempo stesso, il logico sbocco di un processo di unificazione del pianeta avviato, con ogni evidenza, ben prima; l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli abitanti della terra; e la reazione ad un processo di unificazione planetaria dall’alto, percepito come essenzialmente distruttivo (la polemica contro l’imperialismo culturale e contro le compagnie multinazionali). Insomma, il ‘68 nasce in un mondo più unito che mai in passato, e promuove, di quell’unità, un’ulteriore accelerazione. Ma a quali processi di più lungo periodo corrisponde questa tendenza? a. La generazione del “baby boom” è, naturalmente, la prima nata dopo Hiroshima. L’atomica, che per la generazione passata attraverso la guerra poteva presentarsi ancora, e sia pure ambiguamente, come “un’arma”, continuazione e culmine del crescendo di potenziale distruttivo evidenziato dalle guerre del 1914-45, per la generazione nata successivamente diveniva non solo la chiave della guerra ma la chiave della pace, l’arcano vero dell’ordine mondiale. Un mondo retto da quella che è stata di recente definita la “comunicazione nucleare”, e dalla continua minaccia non a questo o quel paese, ma alla specie, era per ciò stesso un mondo unito, se non altro dalla consapevolezza di un comune destino. D’altra parte, alla follia del conflitto internazionale non poteva che corrispondere l’esaltazione (bringing the war home) del conflitto interno,un conflitto tra forze distruttive, nemiche dell’umanità, e forze amiche dell’umanità. Il conflitto internazionale diveniva conflitto interno, il conflitto interno aveva respiro planetario, in quanto scontro fra principi morali contrapposti. b. Del resto, con il dopoguerra, e in particolare con i processi ai criminali nazisti de- gli anni ‘60 (un grande, complesso, e spesso pericolosamente equivoco, laboratorio giuridico, ma anche una grande pietra di paragone morale nella formazione di una generazione) il concetto di “nemico dell’umanità” assumeva uno spessore, ed una dignità, non solo morali. Il punto di vista della specie si poneva come il solo adeguato a giudicare quei delitti, e il solo capace di impedirne il ripetersi. Ma per ciò stesso, quel medesimo punto di vista doveva essere tenuto presente anche nel giudicare il proprio paese (in fondo, i processi dei criminali nazisti invitavano il cittadino a ridiscutere ad ogni momento il dovere dell’obbedienza); al tempo stesso che si ponevano le (fragili in verità) premesse di un nuovo diritto delle genti si frantumava il dovere dell’obbedienza alle leggi del proprio stato. La disobbedienza civile assumeva una base non solo morale, ma legale, ponendo le premesse per un assetto giuridico paradossale. Anche da questo punto di vista, il rafforzarsi dei legami tra gli esseri umani del pianeta e l’indebolirsi dei vincoli dello stato-nazione andavano di pari passo. Nel ‘68, e in particolare nel ‘68 americano (con l’idealizzazione di un modello di nazione “liberamente scelto”, fortemente fondato, del resto, nella tradizione del paese), il processo giunse al suo punto culminante. La “nazione morale” della nuova sinistra nasceva dall’adesione volontaria, non dai vincoli della terra e dalla tradizione. Contrariamente a molti slogan, del resto successivi, non di “internazionalismo” si trattava, ma di piena e ampiamente spontanea adesione ad un quadro di riferimento nel quale il ruolo dello stato nazionale era nettamente ridimensionato: in favore da una parte dell’unità, politica, culturale, tendenzialmente anche psicologico-emotiva, tra tutti quelli che combattevano dalla stessa parte, in tutto il pianeta; dall’altra, della riscoperta di antiche, ma sempre radicate, distinzioni etniche e localistiche. c. Che l’adolescenza dell’era della Tv sarebbe stata immersa in una cultura più planetaria (il “villaggio globale”) e insieme più localistica, di quella dell’epoca della stampa e del nazionalismo, è una delle più note previsioni di Marshall McLuhan. Ma leggere nel ‘68 la conferma nitida della teoria mcluhaniana è forse, insieme, troppo e troppo poco. Troppo, perché nella cultura del movimento il sistema delle comunicazioni “dato”, quello appunto su cui McLuhan fondava le sue profezie, fu oggetto di una radicale contestazione non solo teorica ma anche pratica; per cui, anche ad ammettere che l’orizzonte di riferimento sia rimasto lo stesso sul terreno delle comunicazioni, ciò va storicamente spiegato. Troppo poco, perché l’incidenza delle comunicazioni di massa del periodo precedente sulla “cultura del ‘68” è probabilmente assai più vasta e complessa (finora solo Edgar Morin e Todd Gitlin hanno dato seri contributi su questo tema, anche se non va dimenticato qualche importante spunto di Christopher Lasch) di quanto le schematiche previsioni di McLuhan im- ca politica ed economica delle superpotenze imponeva con la violenza una gerarchia ed un’oppressione tanto più intollerabili. Il Vietnam deve forse il valore simbolico che assunse all’epoca (e che tanto giovò allora alla sua causa e tanto poco forse le giovò dopo) anche al suo essere emblema dell’opposizione tra un movimento planetario che mirava a definire amici e nemici in termini morali e una politica di potenza fondata solo sulla violenza militare. Il ‘68 è stato l’ultimo movimento “progressista” e il primo movimento rivoluzionario maturato a partire dalla consapevolezza dell’inaccettabilità del mito del progresso. A un’idea evolutiva e per così dire cumulativa della storia il ‘68 opponeva l’idea di una storia come successione di conflitti e tensioni sempre nuovi; il progresso appariva quindi non come una crescita, come la somma di successive conquiste, ma come il manifestarsi, ad un livello sempre “più alto”, della lotta (in sé, a ben vedere, ripetitiva) tra tendenze rivoluzionarie e tendenze conservatrici. In questo il ‘68 dimostra la sua natura di grande momento di transizione nella sensibilità, nel senso comune, di intere società 2. “Movimento” contro “establishment”, o “sistema”: già la terminologia di quegli anni è significativa. Il “movimento”, appunto, del ‘68 sembrava definirsi, concepire la sua propria immagine, in termini innanzitutto dinamici, riconoscendo la propria più intima verità non in un ordine futuro da costruire (nei confronti del quale forte era, anzi, la diffidenza) ma nella propria continua, ed ininterrotta, capacità di “rivoluzionarsi”. Del resto, l’idea della ribellione come conflitto permanente e per principio irrisolvibile in maniera definitiva si estendeva fino all’interno della vita personale e psichica dell’individuo. L’idea di uno scontro fra la “linea rossa” e la “linea nera” che sempre si sarebbero ripresentate nella storia, al di là di ogni possibile conquista rivoluzionaria, costituiva uno dei tratti più affascinanti e più largamente seguiti del pensiero di Mao Zedong. Un’idea tanto più sentita, e più intensamente vissuta, in quanto, dall’altra parte, il tratto dominante dell’avversario appariva proprio la staticità, la capacità di chiudere, con la violenza o con la manipolazione, tutte le contraddizioni. Il modello della rivoluzione ininterrotta, l’esaltazione del movimento in sé, il rifiuto di riconoscere la propria identità in un progetto, per quanto avanzato, e la ricerca viceversa di un’identità fondata sull’agire: sono tutti tratti che dei movimenti rivoluzionari precedenti avevano costituito, forse, il lievito, ma pur sempre un singolo elemento, dialetticamente intrecciato con l’altro, con il momento progettuale. Nel ‘68, quell’elemento appare assumere totale autonomia e separatezza, condizionandone sia l’ideologia, sia la stessa dinamica interna. Può essere utile, assai schematicamente, individuare alcuni tratti della “cultura del ‘68” più specificamente legati a questo aspetto, tratti che ricollegano quell’evento, di nuovo, con tendenze profonde e di lungo periodo. a. La contrapposizione della guerriglia alla guerra (che si connette anche con la nuova immagine della pace e della guerra definita TEXT plichino. Certo è che la “naturalità” con la quale la cultura del ‘68 assume un punto di vista transnazionale è inspiegabile senza tener conto delle abitudini create dalle comunicazioni di massa. d. Un po’ scherzosamente, si può dire che come il ‘48 è il primo evento politico dell’era del telegrafo (anche se non vi fu un uso del telegrafo da parte dei rivoltosi), così il ‘68 è il primo evento politico dell’era del satellite, anche se il primo vero “evento” via satellite si sarebbe verificato solo l’anno successivo, con la Luna. Con il satellite, con la “diretta” planetaria, il concetto di simultaneità su scala mondiale assumeva una nuova, impressionante, immediatezza. D’altra parte, il satellite, il primo mezzo che permette all’umanità di “vedere” dall’esterno il pianeta è, come ha intuito Hannah Arendt nell’anno stesso del lancio dello sputnik, una novità radicale (letteralmente) nella “visione del mondo”. La terra vista dal di fuori appare assai più unita, e vincolata ad un comune destino; mentre il radicamento territoriale non può che relativizzarsi. Man mano che il “punto di vista” del satellite diviene, non solo accettabile, ma “normale” anche nel senso di normativo, si preparano a livello di mentalità delle trasformazioni la cui reale portata potrà essere compresa forse solo in futuro. e. L’idea di un’unità crescente del pianeta era incorporata, già alla fine degli anni ‘60, in molte delle merci quotidianamente prodotte e consumate. Se è vero che il carattere mondiale dell’economia capitalistica è antico quanto il capitalismo, è anche vero che a partire dagli anni ‘60 si è verificata una nuova svolta ed accelerazione nell’interdipendenza produttiva: lo spezzettamento dei processi di produzione tra diverse aree nazionali, addirittura tra diversi continenti, favoriva la consapevolezza da un lato del carattere necessariamente internazionale della lotta di classe, dall’altro della difficoltà, per non dire dell’impossibilità, di isolarsi da un sistema produttivo globale che fa sentire la sua presenza, e la sua essenzialità, fin nei più minuti aspetti della vita quotidiana. Il ‘68 ereditò, quindi, dai decenni precedenti un mondo più fortemente unito, più interdipendente, più dolorosamente consapevole del proprio comune destino, di quanto fosse mai stato prima. Senza questa eredità, la spontaneità, per così dire la “naturalezza” della circolazione internazionale delle lotte sarebbe incomprensibile; sarebbe incomprensibile il fatto che per il movimento, ovunque, il mondo era il vero scenario di ogni battaglia, la vera platea di ogni gesto. D’altra parte, la cultura politica cui il ‘68 si ribellava, la cultura dominante degli anni ‘50 e ‘60, appariva inconsapevole delle sue stesse premesse: se il mondo era, di fatto, più unito che mai, l’ideologia dominante lo voleva diviso in campi contrapposti e inconciliabili (ma tra i quali, il ‘68 stesso lo avrebbe dimostrato, numerosi erano i legami); se l’interdipendenza globale postulava lo sviluppo di relazioni sempre meno diseguali, la prati- école numero 69 pagina 45 TEXT école numero 69 pagina 46 dalla bomba atomica) è, da questo punto di vista, doppiamente significativa. In primo luogo, la guerriglia, come il movimento (e nel ‘68 i due termini sono spesso assunti come intercambiabili, fino al ridicolo) appariva movimento permanente, sempre in via di rilancio e di rinnovamento, come dimostrava l’esempio del Che, che del resto era visto come tanto più eroico in quanto la sua scelta della guerriglia nasceva anche dal rifiuto della condizione, gloriosa ma statica, del rivoluzionario vittorioso. La guerriglia sembrava cioè implicare il rifiuto di un ordine stabile, che la guerra si propone invece come fine ultimo. In secondo luogo, il guerrigliero, a differenza del “regolare”, appariva capace di trovare ovunque le proprie “basi”, ma privo di radici stabili e condizionanti. L’esaltazione della guerriglia rimandava, insomma, da un lato all’esaltazione del “movimento” come fine a se stesso, dall’altro a quel rifiuto del radicamento territoriale e dell’identità geografica, a cui abbiamo già accennato. b. L’idealizzazione della guerriglia e del guerrigliero è, così, strettamente intrecciata con l’idealizzazione della contraddizione e del conflitto in quanto tale, che nel pensiero di Mao paiono, tra l’altro, proporsi come sola soluzione autentica alla crisi dell’idea di progresso. È bene tener presente questo aspetto anche per chiarire come il ‘68 abbia potuto proporsi, insieme, come l’ultimo movimento “progressista” e come il primo movimento rivoluzionario maturato a partire dalla consapevolezza dell’inaccettabilità del mito del progresso. Ad un’idea evolutiva e per così dire cumulativa della storia il ‘68 opponeva l’idea di una storia come successione di conflitti e tensioni sempre nuovi; il progresso appariva quindi non come una crescita, come la somma di successive conquiste, ma come il manifestarsi, ad un livello sempre “più alto”, della lotta (in sé, a ben vedere, ripetitiva) tra tendenze rivoluzionarie e tendenze conservatrici. In questo aspetto, il ‘68 dimostra bene la sua natura di grande momento di transizione nella sensibilità, nel senso comune, di intere società. c. D’altra parte, l’insistenza sul movimento in quanto tale, sull’originalità e la novità come fini in sé (che, si può anche dire, rappresentano da un certo punto di vista l’estensione ad un movimento di massa di alcune idee diffuse in precedenza soprattutto fra le avanguardie artistiche), si collega pure ad alcuni aspetti della cultura di massa contemporanea. È stato soprattutto Gitlin a richiamare l’attenzione sull’ossessione della nuova sinistra per i meccanismi del “fare notizia”. È probabile che parte del “movimentismo” possa essere ricondotta ad un sistema comunicativo nel quale il far parlare di sé, e in ultima analisi l’esistere sulla scena pubblica, di un movimento politico, è strettamente condizionato dal suo “fare notizia”, dal suo proporsi continuamente come novità. d. La volontà di rinnovamento, la volontà di creare, con la propria azione politica, una radicale novità sulla scena del mondo, e al tempo stesso, di sottrarre il movimento ad ogni processo di senescenza e di cristallizzazione: questi tratti caratteristici si ricollegano anche, ed intimamente, alla natura generazionale del movimento. Proprio in quanto fenomeno giovanile, esso traeva, in fondo, la sua più intima legittimità dalla contrapposizione al mondo adulto e alle sue “mature” istituzioni. È vero che solo in alcuni paesi (l’Olanda, gli Stati Uniti) la contrapposizione giovane/adulto venne teorizzata consapevolmente e senza timori: che in molti altri, tra cui l’Italia, il movimento stesso accoglieva spesso con fastidio chi ne sottolineava la natura generazionale. Ma la composizione di età (almeno per quanto riguarda l’anno 1968) dei partecipanti all’agitazione fu sostanzialmente la stessa in tutto il mondo, e tale da lasciare poco spazio ad equivoci. Il sentire la propria agitazione come “naturalmente” innovatrice e non riconducibile ad alcuna tradizione è quasi ovvio in un movimento la cui mancanza di radici nella generazione precedente è quasi totale (salvo che a livello di identificazione ideale, ma viene da chiedersi se l’identificazione con la guerriglia partigiana non fosse in fondo analoga all’identificazione con la guerriglia vietnamita). Il timore costante della cristallizzazione, della burocratizzazione, della perdita di ogni carica innovativa, è normale in un movimento che esprime una così profonda ambivalenza verso il passaggio all’età adulta. Del resto, l’altra faccia della radicale volontà di rinnovamento, dell’insofferenza per ogni “istituzionalizzazione” e per ogni fissazione in un ordine stabile, per quanto “avanzato”, è rappresentata, come fu notato subito da alcuni osservatori acuti, da una sottile sfiducia, dal timore, represso ma sempre riemergente, che ogni azione innovativa si infrangesse necessariamente contro un mondo ormai chiuso, nel quale i giochi erano già fatti. Il riproporsi continuo di uno scontro fra “linea rossa” e “linea nera”, se può essere per un verso visto come l’ultima versione dell’idea di progresso, può essere, per un altro, il segnale di una sfiducia profonda (per quanto mascherata da ricorrenti dichiarazioni di ottimismo) nella possibilità stessa di un rinnovamento davvero radicale. Se non si tiene conto di questo aspetto, la dialettica storica della nuova sinistra rischia di essere incomprensibile. (E può essere interessante notare che molte delle letture degli eventi di allora, tendenti a riportare l’agitazione nell’ambito delle tendenze profonde del sistema, pur proponendosi come interpretazioni profondamente critiche nei confronti del movimento, non fanno che esasperarne un aspetto, la tendenza alla sfiducia, il timore che ogni “linea rossa” emergente non possa non trovarsi di fronte una “linea nera” soverchiante). * Il saggio è parte del capitolo “La sfinge ‘68” di Cinque lezioni sul ’68, edito come Dossier dalla rivista rossoscuola, nel gennaio del 1987. Peppino Ortoleva dopo aver riletto il testo, che non gli capitava sotto gli occhi da molti anni, ci ha detto «di riconoscervisi ancora, e di non avere nulla da aggiungere». abb. 2008 La rivista trimestrale, la lettera telematica mensile, il CDiario, i cd rom tematici, il sito. L’abbonamento (4 numeri + 10 lettere telematiche + CDiario + 2 cd rom tematici) costa 45 euro (sostenitore: 70 euro). 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