Democrazia e cittadinanza attiva
MAGGIO 2008
Rimotivazione, qualità, concetti di destra? • Laicità: intervista a
Giuliana Sgrena • Disfonie: affettività e partecipazione • Massimiliano
e il teatro • Corsi di recupero in eredità alla destra • La distruzione
della scuola pubblica • Provare a leggere in rap • Dopo il vento, dopo
la bufera • Olimpiadi, Tibet e diritti umani • Cina e Tibet: futuro nonviolento • Bolivia: intervista a Evo Morales • Il fascino discreto di
Sarkozy • L’equo-insostenibilità dell’ecologia pura • Educazione ambientale, anno zero? • Palestina: intervista a Suad Amiry • Cantare le
emozioni • Il personale è politico • L’importanza di avere due orecchie
• Un vocabolario tutto per noi • Nuovi saperi • A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari • Oyoun Al Kalaam • Bum bum
chi è? Munari • Determinismo e avventura illuminata • La sfinge ‘68
TEMA
NUOVA SERIE NUMERO 69 - MAGGIO 2008 (2. 2008) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 5 EURO
idee per l’educazione
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
NUMERO 69 MAGGIO 2008
Redazione
via Magenta 13,
22100 Como
tel. 031.4491529
[email protected]
www.ecolenet.it
Direttrice responsabile
Celeste Grossi
Vicedirettore
Andrea Bagni
Redattori
Bianca Dacomo
Annoni, Francesca
Capelli, Paolo Chiappe,
Maurizio Disoteo,
Marisa Notarnicola,
Cesare Pianciola, Andrea
Rosso, Gianpaolo Rosso,
Giovanni Spena, Filippo
Trasatti, Stefano Vitale
Collaboratori
Giovanna Alborghetti,
Monica Andreucci, Guido
Armellini, Antonella
Baldi, Marta Baiardi,
Antonia Barone, Gabriele
Barrera, Annita Benassi,
Giorgio Bini, William
EDIT
3
Note dal sottosuolo • ANDREA BAGNI
4
6
Rimotivazione, qualità, concetti di destra? • PAOLO CHIAPPE
INTERVISTA a GIULIANA SGRENA Senza laicità non c’è libertà • CELESTE GROSSI
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Democrazia e cittadinanza attiva • A CURA DI STEFANO VITALE
Lo spazio pubblico • ENZO SCANDURRA
Educazione alla cittadinanza • GUSTAVO ZAGREBELSKY (a cura di Cesare Pianciola)
Scuola, il grado zero della democrazia • PAOLO CHIAPPE
Il processo di apprendimento • CLAUDIO BERETTA
Cultura civica “ricostituente • ENZO MARZO
Per un insegnamento di “cultura civica” nella scuola italiana
La comunicazione politica nell’era di Internet • EDOARDO CHIANURA
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21
22
23
24
25
Disfonie: affettività e partecipazione • ARIEL CASTELO, VALENTINA PESCETTI
ESPERIENZE NARRATE Massimiliano e il teatro • BRUNA CAMPOLMI
LE LEGGI Corsi di recupero in eredità alla destra • CORRADO MAUCERI
La distruzione della scuola pubblica • CISP
NUOVI ARRIVI Provare a leggere in rap • LIDIA GARGIULO
NOTE IN CONDOTTA Dopo il vento, dopo la bufera • ANDREA BAGNI
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27
28
30
Olimpiadi, Tibet e diritti umani • CELESTE GROSSI
FACCIAMO PACE Cina e Tibet: futuro nonviolento • NANNI SALIO
INTERVISTA A EVO MORALES Presidente campesino • FRANCESCA CAPELLI
L’ERBA DEL VICINO Il fascino discreto di Sarkozy • PINO PATRONCINI
31
33
L’equo-insostenibilità dell’ecologia pura • MASSIMO FILIPPI
Educazione ambientale, anno zero? • MONICA ANDREUCCI
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38
38
40
40
41
41
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INTERVISTA A SUAD AMIRY Palestina mon amour • MARIA LETIZIA GROSSI
MUSICA Cantare le emozioni • NEREA ALBERINI
CINEMA Il personale è politico • CELESTE GROSSI
IL LIBRO L’importanza di avere due orecchie • STEFANO VITALE
Un vocabolario tutto per noi • MONICA LANFRANCO
LIBRI Nuovi saperi • EDOARDO CHIANURA
DVD A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari • CELESTE GROSSI
MUSICA Oyoun Al Kalaam • MARIATERESA LIETTI
TEATRO Bum bum chi è? Munari • FABIO CANI
ANNI VERDI Determinismo e avventura illuminata • STEFANO VITALE
43
48
La sfinge ‘68 • PEPPINO ORTOLEVA
TREND • LORENZO SANCHEZ
PRE
TEMA
IDEE PER L’EDUCAZIONE
MAPPAMONDO
DE RERUM NATURA
MODI E MEDIA
TEXT
Bonapace, Franco
Calvetti, Andrea Canevaro,
Minny Cavallone, Edoardo
Chianura, Angelo
Chiattella, Rosalba
Conserva, Vita Cosentino,
Marina Di Bartolomeo,
Lella Di Marco, Mauro
Doglio, Lidia Gargiulo,
Maria Letizia Grossi,
Toni Gullusci, Monica
Lanfranco, Mariateresa
Lietti, Marco Lorenzini,
Franco Lorenzoni,
Francesca Manna,
Raffaele Mantegazza,
Corrado Mauceri, Cristina
Meirelles, Alberto Melis,
Luciana Mella, Bruno
Moretto, Giorgio Nebbia,
Filippo Nibbi, Enrico
Norelli, Laura Operti,
Carlo Ottino, Giuseppe
Panella, Pino Patroncini,
Vito Pileggi, Nevia
Plavsic, Rinaldo Rizzi,
Marcello Sala, Nanni
Salio, Antonia Sani,
Cosimo Scarinzi, Maria
Antonietta Selvaggio,
Angelo Semeraro,
Scipione Semeraro, Rezio
Sisini, Monica Specchia,
Marcello Vigli
Grafica e impaginazione
Natura e comunicazione
Como
(Andrea Rosso con Marco
Bracchi)
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Bianca Dacomo Annoni
(vice presidente),
Andrea Rosso, Gianpaolo
Rosso, Filippo Trasatti
(presidente), Stefano
Vitale
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
edit
Note dal sottosuolo
ANDREA BAGNI
L
a domanda obbligata è che c’entriamo noi della scuola con il disastro di oggi. Con il voto
dei giovani ad esempio, con il deserto diffuso di politica e cittadinanza. E, sia chiaro, non
parlo della scomparsa della sinistra dal parlamento: scompaiono le cose che non servono, che
non hanno senso o non ce l’hanno più. Buffo ragionamento quello che diceva, votateci se no
non ci saremo: logica tautologia suicida. Ma il fatto è che si è spostato qualcosa di fondo nella
democrazia italiana. E per forza c’entra la scuola, l’educazione. Una classe è luogo politico, di
confronto fra generi e generazioni diverse, di cura della collettività quasi. Proprio per questo
coinvolto nella patologia. Abbiamo parlato tanto dell’educazione alla cittadinanza, del sapere
come prerequisito della democrazia. Quello che vediamo invece è proprio la crisi radicale della
partecipazione, almeno di quella “razionale” e laica, discorsiva – sintetizzata in un manifesto
del social forum di Parigi: La lucidité est révolutionnaire. E nella crisi parla non un altro discorso ma un’altra lingua, la cui grammatica facciamo una fatica terribile a capire. Fra i giovani e
la cittadinanza (almeno nel senso di voto, rappresentanza, istituzioni) sembra sia scavato un
abisso. Il punto non è nemmeno per chi hanno votato. È come. A partire da cosa. A me sembra che ancora a scuola circoli un sapere che in qualche modo serva a vivere nel casino – per
quanto da fuori si veda solo Youtube. Però è come se vivessimo una scissione o una schizofrenia: fra la vita nel casino politico e il casino della vita politica. Fra l’orizzonte dei grandi conflitti che conoscevamo (ideali valori bisogni) e la frammentazione delle persone in desideri più
complicati e dagli orizzonti anche oscuri – comunque attratti dall’oscurità di odi facilmente
spendibili. Ci sono altri esiti possibili per quella frammentazione? Domanda chiave. Il primo
passo sarebbe riconoscerla e pensarla.
I giorni prima del voto ero in una scuola del sud. Lo conosco poco il sud e sono rimasto sbalordito. C’è una cultura straordinaria e profonda, ma proprio profonda: luoghi sotterranei delle
città, cantine recuperate come porti sepolti di Ungaretti; cultura della decrescita, sapere delle
radici. E poi le ragazze e i ragazzi a scuola, un vulcano di energia, esplosivo di desideri e fantasia. Tuttavia sopra, alla superficie della città, le classi dirigenti hanno festeggiato e festeggiano il massimo del degrado. Nella rassegnazione generale, si direbbe. Cosmica. Fra i due livelli quasi nessun contatto. Ecco mi pare nelle scuole accada qualcosa del genere. Ciò con cui
lavoriamo, la vita delle ragazze e dei ragazzi, la nostra vita, è come se non c’entrasse più nulla con la
“cittadinanza”: con quella che abbiamo conosciuto
e riconosciamo. Continuiamo a pensare la politica
nell’economicismo e invece il conflitto fondamentale simbolico si è spostato altrove. Nei frammenti di
territorio e nelle anime frammentate. Si porta altro
sulla scena del voto o della rappresentanza – e la
destra lo interpreta bene offrendo roba orrenda (affidamento, esclusione, radici di religione e sangue,
polizia) ma all’altezza dell’immaginario. La sinistra
resta ferma al materiale, e senza avere una straccio
d’ idea in merito. Bisognerebbe forse ripartire da
questa vita, intera. Dall’essere uomini e donne con
un gran casino dentro. Ripartire da noi per vedere
di capire le altre e gli altri. Perché non ci salverà
la logica neutra maschile dei programmi, delle masse, degli obiettivi sociali, delle conquiste storiche.
Quando si hanno mappe sbagliate conviene ripartire dai territori. Anche andando a tentoni. Il tatto ci
può aiutare se si sta vicini. Mantenerci in contatto.
Anche con noi stessi.
pre
GOVERNO Apologo: il popolo italiano, dopo aver
riempito le scuole di asineria consumista e bullista
spingendo migliaia di insegnanti al
limite del burning-out e oltre, vota
in maggioranza un governo di destra
che promette di ripristinare nella
scuola la serietà, e così facendo silura
e umilia gli sforzi di pedagogisti e di
maestre di alto livello che pensavano
di avere scelto un mestiere di scarsa
retribuzione ma di valore sociale ed
egualitario e trovavano in questo
Mariastella Gelmini
senso e ricompensa. Quel popolo che
ci deve tutto ora vota contro di noi.
Che stupendo esempio di irriconoscenza! Scegliamoci
un altro popolo… o chiediamoci dove abbiamo sbagliato
Rimotivazione, qualità, concetti
di destra? PAOLO CHIAPPE
école numero 69 pagina
4
questi ultimi mesi da associazioni e gruppi
dell’area moderata sia di centrodestra che di
centro sinistra con una forte sovrapposizione
di persone e di idee tra i due campi.
L
a nomina alla Pubblica Istruzione di
Mariastella Gelmini, già coordinatrice lombarda di Forza Italia, rischia di essere tutt’altro che l’apparizione di una finora ai più
sconosciuta giovane cometa, quasi un punto interrogativo, ma anzi potrebbe essere la
tappa finale di un lungo percorso delle destre
plurali che ora trovano una sintesi e che si
sono fatte largo in questi ultimi tempi in un
certo senso comune bipartisan degli addetti ai lavori e forse anche di una maggioranza silenziosa interna al mondo dell’istruzione: gli insegnanti non sono più un serbatoio
spontaneo della sinistra e anche a livello linguistico il tema della qualità della scuola è
stato di nuovo inglobato come cento anni fa
nel discorso delle destre, accompagnate dal
grandissimo codazzo di centro, tutti d’accordo che si deve uscire una buona volta dalla malefica età del Sessantotto. Forse non è
inutile ricordare che nel programma elettorale
del Pdl c’era scritto che si garantirà la «commisurazione degli aumenti retributivi a criteri
meritocratici» con riconoscimenti agli insegnanti più preparati e in quello del Pd che
sarebbe stata introdotta la «carriera professionale degli insegnanti».
Questo è il disastro che noi sinistre scolastiche abbiamo lasciato accadere.
La forza del semplicismo
La qualità della scuola proposta dalle destre
e loro soci è un concetto vuoto perché prescinde da qualunque domanda e riflessione
sui contenuti e sui processi di apprendimento, è destinata anzi a peggiorare tutto perché
il suo unico contenuto vero è quello di togliere ancora di più libertà, agio e stabilità agli
insegnanti comuni, ribattezzando ciò «rimotivazione»: ma questo semplicismo è la sua
forza, per ora, in parallelo con le trionfanti
tematiche securitarie.
La nuova titolare del ministero ha un disegno
in testa come dimostra il progetto di legge su
scuola, università e non solo che ha presentato alla Camera nel febbraio scorso [vedi il
testo sul sito di école]. È un progetto di legge
delega e prelettorale quindi anche propagandistico, ma ben articolato, concreto, e mette
insieme aspetti molteplici che ora, in fase di
governo, saranno magari affidati a una pluralità di atti: aspetti quali la valutazione delle
scuole e dei singoli insegnanti, la fine della carriera per anzianità e l’introduzione della
carriera premiale, il rafforzamento dei poteri organizzativi dei dirigenti scolastici e l’attribuzione a loro di un potere di valutazione
influente ai fini della promozione di carriera, la nomina politica dei dirigenti apicali, il
buono scuola per le famiglie, il rafforzamento dell’autonomia e della concorrenza tra le
scuole mediante la ripartizione delle risorse
pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo. Diciamo
che ci sono lì dentro, ma rideclinati intorno al
concetto di qualità-merito, tutti i temi delle
destre sul sistema della scuola (e dell’università), tranne il federalismo. E per quanto riguarda gli studenti e la funzione sociale della scuola il progetto cita l’obiettivo esplicito
dell’«aumento della selettività dei meccanismi di avanzamento scolastico», anche attraverso la reintroduzione degli esami di riparazione; concetti che in termini ufficiali non si
erano sentiti dal 1923, mi pare. Scopo dichiarato di queste proposte: contrastare la crisi di fiducia e di speranza del sistema-paese
tra le cui cause «si può annoverare la scarsa
valorizzazione del merito come criterio di distribuzione delle opportunità e di valutazione
delle persone». La mia tremenda professoressa del ginnasio di quarantacinque anni fa sottoscriverebbe in pieno. Un ciclo si chiude.
Il buono scuola che un tempo nel programma delle destre liberiste era giustificato soprattutto in chiave cattolica dalla centralità
delle famiglie, è presentato ora come parte
di una visione che ha al cuore la qualità del
sistema-paese. Questo mutamento di accenti, che segna anche il probabile superamento di uno dei punti più effimeri e forzati del
progetto morattiano, il portfolio individuale,
può essere un fatto di dettaglio, comunque
corrisponde al nuovo ruolo di governo delle
destre (non hanno più tanto bisogno di usare
il tema della famiglia come cavallo di Troia)
ed è influenzato da un certo dibattito dedicato alle proposte per la scuola sviluppato in
Moderati - modernizzatori
Si è costituita una specie di costellazione di
gruppi di pensiero moderati-modernizzatori poco noti al vasto pubblico ma forse non
per questo meno efficaci nell’orientare, dato
il comune sentire di fondo, l’azione del nuovo
governo nel campo della scuola, il cui principale ostacolo ora potrebbe essere solo di
carattere finanziario, dato che anche le riforme tese a incentivare lo sfruttamento e l’autosfruttamento è difficile che sfondino senza
una certa dotazione iniziale di liquidità fresca aggiuntiva.
Tra questi gruppi di pensiero convergenti e attivi sono da citare l’associazione
Treellle di Attilio Oliva (www.treellle.org), la
Confindustria, l’Anp (Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola), in modo molto più strano e contraddittorio il cosiddetto Gruppo di Firenze (Gian
Luigi Beccaria, Giovanni Belardelli, Remo
Bodei, Piero Craveri, Giorgio De Rienzo, Giulio
Ferroni, Ernesto Galli Della Loggia, Sergio
Givone, Giorgio Israel, Mario Pirani, Lucio
Russo, Giovanni Sartori, Aldo Schiavone,
Sebastiano Vassalli e Salvatore Veca) che nel
marzo 2008 ha pubblicato una lettera aperta per dire «basta» al falso egualitarismo e
al buonismo a scuola (e credono questi professori con la testa nelle nuvole che questa
loro presa di posizione sia contraria «all’ideologia demente della scuola-azienda»), infine
il Gruppo del buonsenso (Vittorio Campione,
Fiorella Farinelli, Paolo Ferratini, Claudio
Gentili, Franco Nembrini, Luisa Ribolzi,
Silvano Tagliagambe, Stefano Versari) che ha
fatto lo stesso il 27 marzo.
Una cosa interessante è che molte delle tematiche condivise con diversi accenti da questi gruppi erano già presenti nel Quaderno
bianco sulla scuola (settembre 2007) realizzato dagli esperti dei ministeri della Pubblica
istruzione e dell’Economia del passato governo Prodi.
Le idee di queste associazioni meritano di essere presentate e analizzate in modo dettagliato. Vi si può trovare anche qualche perla di intelligenza, qualcosa da cui la sinistra
può imparare: per esempio Treellle propone la
riduzione del tempo scuola nelle superiori a
trenta ore settimanali.
Tutto bruciato allora il terreno per una visione democratica della scuola? Direi proprio di
no dato che le proposte delle destre riguardano solo questioni di contorno al contenuto
dei saperi e alla forma del processo di insegnamento-apprendimento e sono applicabili
quindi solo agli aspetti gestibili da un potere
manageriale standardizzato che considera la
scuola come una qualunque attività produttiva seriale di mercato, il che nella concretezza
delle scuole si tradurrà in relazioni clientelari
senza qualità.
école numero 69 pagina
5
INTERVISTA «La visione laica della società, anche nella scuola,
sta venendo meno». «La perdita di laicità mi preoccupa perché i
fondamentalismi, qui, come in qualsiasi altro luogo si sconfiggono
con una cultura laica». Una
incontro con Giuliana Sgrena sui
pericoli connessi alla perdità di
laicità e sugli errori della sinistra
nell’affrontare la questione
“sicurezza” Senza
laicità
non c’è libertà
CELESTE GROSSI
H
o incontrato Giuliana Sgrena il 18
aprile. Pochi giorni dopo le elezioni politiche che hanno consegnato l’Italia alle destre è stato naturale commentare il voto.
Dopo il risultato elettorale non c’è più una
forza laica in Parlamento...
Alcune forze si definiscono laiche, ma sono
subalterne al Vaticano. La perdita di laicità
è stata evidente fin dalla campagna elettorale. Insieme ad altri temi, come pace, guerra,
politica estera è stata marginalizzata. Un po’
di più si è parlato dei diritti delle donne, ma
erano comunque decontestualizzati. Caduti
valori e ideologie si recupera una visione del
mondo che si rifà alle religioni. Anche la sinistra italiana appoggia il papa quando si scaglia contro il consumismo, rimanendo isolata
quando tutti si alleano contro i diritti delle
donne. Si è persino persa la parola laico, ormai è si usa il termine laicista. Io non penso
di essere laicista, sono laica.
La perdita di laicità mi preoccupa perché i
fondamentalismi, qui, come in qualsiasi altro
luogo si sconfiggono con la laicità. Invece in
questo momento si ha paura a prendere posizione.
Si possono tracciare dei parallelismi tra la
crescita dei fondamentalismi nei paesi musulmani e la crescita delle destre qui in
Italia?
In qualche modo sì. La crisi economica porta
a votare a destra. Le destre italiane e la Lega
école numero 69 pagina
6
hanno affinità con movimenti come Hamas ed
il Fis algerino le cui parole d’ordine sono le
stesse: diminuzione delle tasse e liberalismo
economico. Chi si sente minacciato si affida alle destre. Perfino molti immigrati votano a destra. A Roma un Partito di immigrati ha esplicitamente appoggiato Alemanno.
Conosco una donna marocchina che è stata
eletta per Alleanza nazionale, suo padre socialista non le parla più, ma lei dalla sinistra
non è stata ascoltata e ha aderito al partito
di uno dei firmatari della Bossi-Fini.
Un paradosso, ma non è l’unico. In Palestina,
una nazione di cultura laica, perfino molte
donne e uomini cristiani hanno votato per
una forza politica islamista come Hamas.
Perché?
Perché Hamas è molto radicata socialmente;
ha promesso di diminuire le tasse, di lottare
contro la corruzione… In Italia il voto di protesta contro la corruzione è andato alla Lega,
ma in parte anche all’Italia dei valori di Di
Pietro, un giustizialista.
Pensi che abbia contato anche la questione
“sicurezza”?
Penso di sì. Per rispondere alla destra che
considera tutti gli immigrati dei delinquenti,
la sinistra ha operato una discriminazione di
segno opposto: tutti gli immigrati sono persone per bene.
Al problema le destre, ma anche il Pd, hanno
Giuliana Sgrena
dato risposte repressive. La sinistra lo ha cancellato e non è stata in grado di dare risposte
differenti. Ritengo che l’unico modo per evitare la paura degli altri sia conoscerli, ma conoscerli davvero.
Mi sembra che in Italia, come nel resto dell’Europa stiamo assistendo a una regressione nei comportamenti che le comunità di
immigrati impongono alle donne ma anche
agli uomini. Pensi che questa possa essere
una reazione alla mancata accoglienza dei
“vecchi cittadini” da parte dei nuovi arrivati? Può essere questo il motivo che porta
gli stranieri ad arroccarsi a identità legate
principalmente all’appartenenza religiosa?
Sì credo che sia così. Quando ci si trova in
un ambiente diverso e “ostile” si recuperano
le forme più arretrate delle proprie tradizioni e si tende a non contaminarsi e farsi contaminare da una cultura diversa. Tante donne che arrivano in Italia senza velo vengono
incoraggiate dalla loro comunità a metterlo.
Ho chiesto a molte di loro: «ma perché dopo
un po’ mettete il velo, se non lo mettevate
nel vostro paese di origine?». «Per avere il rispetto della mia comunità» è la risposta più
frequente. È la comunità che impone loro un
certo comportamento, una visione più rigida
della pratica religiosa rispetto a quella che
avevano nel loro paese.
Insomma anche in Italia stiamo assistendo
a una regressione rispetto alla pratica dell’Islam. Non è ancora una vera islamizzazione.
In Francia e in altri paesi europei l’islamizzazione è molto più evidente [Se ne parla diffusamente nel recente libro di Sgrena, Il prezzo
del velo. La guerra dell’Islam contro le donne,
vedi la recensione qui a lato ndr].
Cosa si può fare per contrastare questa tendenza? Cosa può fare la scuola?
Si è persa una dimensione laica della società
e anche nella scuola è venuto meno un certo
tipo di insegnamento capace di proporre una
visione della società al di sopra delle religioni. Pensiamo all’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche che nessuno
più mette in discussione, all’esposizione del
crocifisso nelle aule, all’aumento dei finanziamenti alle scuole confessionali… E non è
certo una pratica laica quella di concedere ai
musulmani di fare delle scuole craniche, solo
perché non si vuole smettere di finanziare le
scuole cattoliche.
Cosa pensi dell’abolizione per legge di simboli religiosi nelle scuole e negli altri luoghi pubblici?
Ho seguito da vicino la questione del divieto di esibire simboli religiosi nelle scuole in
Francia. All’inizio mi sono chiesta se una coercizione fosse un modo efficace di affrontare
la questione. Ma poi sono andata in Francia,
nel dicembre 2005, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della proibizione e il problema
del velo nelle scuole era quasi del tutto risolto. Le ragazze musulmane che io ho intervistato erano ben felici che la legge esistesse
perché le metteva al riparo dal ricatto, non
tanto ai loro genitori, quanto dei leader religiosi delle loro comunità che tramite l’imposizione del velo tendevano a controllare i loro
comportamenti. Lì l’obbligo di legge ha funzionato, ma lì la scuola è laica. In Italia non
è proponibile perché bisognerebbe cominciare dall’eliminazione dei crocifissi dalle aule.
Dovremmo cominciare a essere più laici noi,
prima di imporre agli altri di essere laici. Qui
preferiamo andare avanti con posizioni ambigue che alimentano e avvantaggiano solo gli
integralisti.
Noi laici siamo pochi e non abbiamo reti di
collegamento, i fondamentalisti sì.
Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam
contro le donne
A tredici anni dalla pubblicazione di La schiavitù del velo.
Voci di donne contro l’integralismo islamico (da lei curato per manifesto libri), Giuliana Sgrena torna a occuparsi
di chador, burqa, niqab... insomma delle tante vesti che il
velo assume nei vari paesi musulmani. Quel pezzo di stoffa «rappresenta, e non solo simbolicamente, l’oppressione
della donna nel mondo islamico». Attraverso l’imposizione
del velo passa il tentativo di reislamizzazione e di controllo
del corpo delle donne e di affermazione di consuetudini che
spesso risalgono a prima della tradizione islamica, «ma che
si incrociano perfettamente con un “nuovo” ritorno all’ordine maschile e reazionario». Nel libro-inchiesta Il prezzo
del velo. La guerra dell’Islam contro le donne (Giangiacomo
Feltrinelli Editore, collana “Serie Bianca”, pp. 160, euro 13, Milano, febbraio 2008),
Sgrena esplora molti paesi a maggioranza islamica, dal Marocco all’Algeria, dalla Tunisia
all’Egitto, dall’Arabia Saudita all’Iran, dalla Turchia all’Iraq, dalla Palestina al Kurdistan,
ma anche paesi europei come la Bosnia-Erzegovina e la Romania, e le periferie della grandi città britanniche, francesi, italiane… Ed è forse questa la parte che più ci interroga e ci
sollecita ad assumere consapevolezza dei danni che il relativismo culturale può fare anche
qui da noi, dove, con l’alibi di rispettare le culture tradizionali, anche persone impegnate
nelle lotte contro il razzismo e la xenofobia rischiano di lasciare che le donne della porta
accanto alla nostra siano «ostaggio del loro gruppo di origine» e rimangano intrappolate nella Umma, la comunità islamica, che veglia sulla loro fedeltà a presunti principi religiosi, perché «l’onore dell’uomo deve essere garantito dal pudore della donna». Bisogna
strappare dall’isolamento «tutte le donne musulmane che vivono, in Italia e in Europa, la
doppia discriminazione di immigrate e di donne appartenenti a una comunità che non riconosce i loro diritti».
Filo conduttore del libro-reportage – che raccoglie interviste a donne che hanno posizioni
importanti nella società, donne di associazioni impegnate nella lotta per i diritti umani, ma
anche a donne meno consapevoli – è quello di cercare i punti in comune ma anche le tante
differenze che esistono tra le diverse realtà.
Obiettivo dell’autrice «non è tanto la denuncia delle violazioni dei diritti delle donne nel
mondo islamico […] bensì fare luce su una realtà poco nota e poco raccontata: la presenza nei paesi musulmani di donne (ma anche di uomini) che si battono per affermare quei
valori universali, vanto del mondo occidentale, che vengono ancora negati in tanti luoghi,
spesso con la nostra complicità». Perché Giuliana Sgrena è convinta che «più dei carri armati americani, sono le donne, e le loro organizzazioni, come dimostra l’esperienza algerina, a poter fermare l’imponente ondata illiberale che sta per prendere il sopravvento nei
paesi islamici». E allora auguriamoci che qui in Italia, come nel resto del mondo, le donne
possano presto «godersi il vento nei capelli, un segno di massima trasgressione, [perché]
vuol dire non portare il velo e scegliere la libertà». C. G.
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7
TEMA
DEMOCRAZIA E
CITTADINANZA ATTIVA
A CURA DI STEFANO VITALE
Fanatismo, noia e distrazione sembrano affossare la
prospettiva di una democrazia rifondata dal basso ma
agganciata al senso del bene comune e delle istituzioni
democratiche. Al di là dei giudizi sul destino politico di
questo o quel partito, resta il fatto che la democrazia
partecipativa può e deve avere un suo spazio. Forse
è proprio questo tipo di democrazia che va meglio
coltivata, anche e a maggior ragione nella scuola e
nell’educazione, terreni su cui noi lavoriamo
C’
è un vuoto di formazione, c’è un vuoto di partecipazione, è chiaro: e anche la sinistra è vittima di una delegittimazione della politica come “campo di crescita” di nuove figure,
di nuove intelligenze.
Eugenio Scalfari usa spesso la metafora dello specchio rotto per indicare la frammentazione
politica e culturale in cui versa oggi l’Italia. E non è solo un’immagine per indicare uno stato
di fatto, ma direi anche per additare uno scopo: quello di tentare di ricomporlo. La pluralità
dei punti di vista è il sale della democrazia, ma quel che sembra latitare oggi è il senso della democrazia in quanto forma della partecipazione di tutti, in quanto struttura profonda del
rispetto delle istituzioni quale spazio pubblico di garanzia di esercizio quotidiano dei diritti.
In Italia manca, purtroppo, una sinistra capace di coniugare l’affermazione della laicità dello Stato e l’allargamento dei diritti (salute, cittadinanza, istruzione, unioni civili, ecc.) con
l’elaborazione di una gestione dell’economia che sia garante del benessere equo e solidale dei
cittadini. Di certo la politica in Italia non è più, almeno a sinistra, affermazione di “identità
alte” e autoreferenziali. E questo non mi pare un dramma, anzi è forse un bene. Mi pare invece
più problematica la perdita di un “orizzonte di promozione sociale”, così come lo ha definito
Mario Pianta su Il manifesto del 1° maggio 2008. La perdita di una visione dell’economia fondata sulla redistribuzione equa della ricchezza prodotta ha dato via libera a ritorsioni populiste ed identitarie e localiste, inquinate dall’ideologia della “sicurezza” del proprio orticello. E
mi pare altamente problematica l’ondata di “antipolitica” che ha visto in Grillo il suo alfiere
più noto. Anche i girotondi erano una sorta di reazione alla politica, ma restavano in un orizzonte di “parte”. Ora invece è uno sparare contro tutti, senza proposte precise se non quella
di esigere, e qui c’è qualcosa di buono, dei politici più vicini alle realtà locali. Sappiamo bene
come l’attuale legge elettorale, che nessuno ha saputo e voluto cambiare, sia responsabile di
uno svuotamento della partecipazione democratica annullando di fatto il ruolo del meccanismo
delle preferenze che ha dato via libera a candidature di partito calate dall’alto ed a liste “di
amici degli amici decise dal capo”. C’è un vuoto di formazione, c’è un vuoto di partecipazione
è chiaro: ed anche la sinistra è vittima di una delegittimazione della politica come “campo di
crescita” di nuove figure, di nuove intelligenze.
La mentalità della politica spettacolo, della politica fatta con le televendite, i quiz immortali e le migliaia di trasmissioni dove il pubblico più becero è protagonista hanno fatto il resto. Siamo arrivati alla politica del “supermercato”: proviamo questo prodotto, sembra nuovo.
Siamo ridotti entro i limiti del linguaggio calcistico e delle sue più trucide manifestazioni.
[S. V. ]
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Lo spazio pubblico Quando una parola di
nobili origini, come democrazia, ha bisogno di
essere specificata da un
aggettivo, come quello
di “partecipata”, allora
vuol dire che il concetto
che quella parola
rappresentava ha perso
gran parte della sua
efficacia, è diventato
un concetto “debole”
ENZO SCANDURRA *
L
a questione della democrazia è una di
quelle questioni che ha attraversato la storia politica almeno dai tempi di Marx ad oggi,
passando per Rousseau, Tocqueville e così
via. Se si dovesse riassumere in una sola frase il senso di questo dilemma, si potrebbe
efficacemente citare Hannah Arendt (Sulla rivoluzione): «L’alternativa tradizionale fra la
rappresentanza come semplice sostituto dell’azione diretta del popolo e la rappresentanza come governo, controllato dal popolo, dei
rappresentanti dei cittadini sul popolo stesso
costituisce uno di quei dilemmi che non consentono soluzione. Se i rappresentanti eletti
sono legati dalle istruzioni ricevute al punto
di riunirsi solo per tradurre in atto la volontà
dei loro elettori, possono ancora scegliere se
considerarsi fattorini in abiti da cerimonia o
esperti pagati come specialisti per rappresentare, al pari degli avvocati, gli interessi dei
loro clienti […]. Se al contrario si intende
che i rappresentanti abbiano, per un periodo
limitato, il compito di governare coloro che li
hanno eletti […] la rappresentanza significa
che gli elettori rinunciano al loro potere, anche se volontariamente, e che il vecchio adagio “tutto il potere risiede nel popolo” è vero
solo per il giorno delle elezioni».
La riflessione di Hannah Arendt, scritta 60
anni fa, esprime assai bene il dilemma tra democrazia partecipativa e democrazia diretta
e pone crudamente la questione dello spazio
pubblico inteso come il luogo dove i singoli
individui, uno per uno, possono prendere la
parola e contribuire, uno per uno, alla decisione pubblica. La riflessione lapidaria della
Arendt mostra, ovviamente, i segni del suo
tempo. Ai nostri giorni assistiamo a interes-
santi esperimenti, in tutto il mondo, di forme
di gestione delle decisioni in cui a momenti
di tipo assembleare, di indirizzo e di controllo, si alternano momenti operativi limitati a
un più ridotto numero di partecipanti (delegati). In altri termini, si manifestano sempre più decise forme di superamento della democrazia rappresentativa attraverso innesti,
spesso sperimentali ed effimeri, di forme di
democrazia diretta.
L’ascia del nonno
La democrazia rappresentativa è una grande
conquista dell’Occidente ma essa oggi non
riesce più a rappresentare una società che si
è fatta via via più complessa. Nei fatti, come
ha ben sottolineato lo storico Paul Ginsburg
in occasione del Social forum di Firenze del
2002, la democrazia rappresentativa è in crisi
in tutti i paesi dove essa costituisce la forma
di governo data; nella Gran Bretagna come
anche nella Svezia. Un grande paradosso: proprio nel momento della massima espansione,
viene la massima crisi, la massima astensione dal voto, il massimo senso di cinismo ver-
so la politica generale e persino verso la democrazia.
Noi non possiamo rinunciare a questo strumento né siamo in grado di sostituirlo; possiamo però migliorarlo e adeguarlo “affiancandolo” con una democrazia organizzata
sulla partecipazione diretta dei cittadini. Ho
usato, non a caso, il verbo “affiancare”, proprio a rimarcare la non sostituibilità della democrazia rappresentativa (non conosciamo
uno strumento “migliore”). Sono molti e diversi i motivi della perdita di efficacia di questa forma di organizzazione della convivenza.
Da una parte oggi tutte le democrazie mature, in Occidente, vedono aumentare istituti
d’autorità che non hanno alcuna legittimazione elettiva. Per esempio la Banca mondiale,
il Wto, l’autorità della privacy, quella per le
comunicazioni e così via. Noi sappiamo a chi
rispondono gli eletti, ma in questo caso a chi
rispondono queste autorità se non sono state suffragate dal voto? Mi ricordo di una storiella che diversi anni fa raccontò il filosofo
Salvatore Veca in un convegno che si svolse a Napoli. Immaginate, egli disse, che in
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una casa ci sia una stanza e che in questa
un punto identitario rappresentato dall’ascia
che apparteneva al nonno. Immaginate ora di
ricevere un ospite e di mostrare a lui l’ascia
del nonno aggiungendo: «Guarda che meraviglia l’ascia del nonno! È una cosa ereditata a
cui teniamo tantissimo. Papà le ha cambiato
il manico perché era stato mangiato dai tarli e io le ho cambiato la lama che si era arrugginita».
Ora provate a sostituire l’ascia del nonno con
la democrazia rappresentativa e… il gioco è
fatto.
Diversità e governamentalità
Più recentemente un’interessante intervista a Giorgio Agamben mi ha fatto riflettere sulla crisi della rappresentanza. Il filosofo
Agamben sostiene che tutte le società occidentali si stanno orientando verso un modello
da lui stesso definito della “governamentalità”. Di cosa si tratta? La tradizione occidentale della democrazia moderna si fonda sull’idea
di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito. Si
ha democrazia, afferma Agamben, quando il
sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che
non è semplicemente esclusa. Ma se il potere costituito pretende invece di governare il potere costituente e di includerlo in sé,
la base stessa della democrazia viene meno.
La governamentalità è proprio questa degenerazione della democrazia, ovvero la pretesa
di eliminare il conflitto fino alla ricerca del
consenso alle scelte già fatte da parte degli
eletti. È da qui, continua Agamben, che nasce il primato dell’economia e del diritto sulla politica. La democrazia, infatti, diventa sinonimo di gestione razionale degli uomini e
delle cose. Le guerre, ad esempio, diventano
operazioni di polizia e la volontà popolare un
sondaggio di opinione.
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Questo cosa ha a che vedere con la partecipazione?
Diciamo pure che molte esperienze partecipative si sono trasformate in dispositivi
meccanici di ricerca del consenso dei cittadini e, dunque, senza apportare miglioramenti al sistema della democrazia rappresentativa. In altri casi l’esperienza partecipativa ha
consentito, al contrario, di non chiudere il
conflitto ma di trovare soluzioni diverse da
quelle che in origine apparivano come le più
probabili o le uniche compatibili con i vincoli economici e giuridici. L’esperienza della partecipazione quando non è manipolata
o indotta dall’alto fa crescere l’autostima dei
singoli soggetti, li educa a cercare insieme le
soluzioni ai problemi (e fare politica significa
cercare insieme le soluzioni), rompe le solitudini anguste e innesca circoli virtuosi che incrementano curiosità e conoscenza, fa acquisire consapevolezza della propria forza e dei
propri limiti. Ma perché questo avvenga occorre che il potere costituito accetti di lasciare aperto il conflitto, si esponga al rischio di
essere contestato. È bene cioè che sempre i
due poteri, quello costituente e quello costituito, mantengano alta la dialettica del confronto evitando pericolosi e dannosi corti circuiti. Non c’è nessuna esperienza più bella di
quella nella quale le differenze si incontrano e
riconoscono ognuna le ragioni dell’altro senza rinunciare alle proprie.
Cittadinanza cosciente
Una cittadinanza che si dica attiva non dovrebbe né colludere con i partiti politici tradizionali e neppure pensare di sostituirsi ad
essi. Semmai essa, dovrebbe “farli ballare”,
tenerli sulla corda ricordandogli che la delega loro concessa (attraverso il meccanismo
del voto) è sempre ritrattabile. Il non-voto è
sempre un’espressione di rinuncia e di rassegnazione. Bisogna dirlo con fermezza: la col-
pa non è soltanto dei partiti perché anche i
singoli cittadini sono portatori di responsabilità. Noi dobbiamo tendere a costruire contesti dove si produca una cittadinanza cosciente, per far crescere persone che capiscono i
problemi del mondo, che possono decidere in
un modo o in un altro, per conto loro, informati, perché sono stati coinvolti e non esclusi. La dialettica tra cittadini attivi e partiti
politici non è facile, non si esaurisce nel solo
giorno del voto.
Due anni fa assistemmo, in diretta televisiva, ad uno spettacolo indimenticabile: sulla
spiaggia di Bari, dopo che i cittadini avevano manifestato per anni contro lo scempio
di Punta Perotti, finalmente quella mostruosa barriera che divideva il paesaggio costiero
come un gigantesco muro, fu fatto esplodere dagli artificieri. Le persone sulla spiaggia
guardavano quello spettacolo che coronava il
senso di una esperienza fatta insieme, vissuta non nella solitudine disperata di chi pensa che questo è il migliore dei mondi, vissuta non nella rassegnazione di chi pensa che
cambiare non si può, ma vissuta come conquista di una comunità che non si rassegna
ma che neppure delega interamente ai partiti il proprio destino, il destino dei luoghi
dove i singoli della comunità sono cresciuti,
luoghi da loro amati, luoghi cari entrati ormai nelle memorie dei singoli così come della
comunità. A coloro che fossero sul punto di
rassegnarsi, a coloro che stessero per cedere alle sirene del cinismo e dello “spirito del
tempo”, all’epoca delle passioni tristi, consegno questo splendido messaggio di Pier Paolo
Pasolini: «piange ciò che muta per farsi migliore». In questa frase c’è la cifra del cambiamento che è sempre personale, prima ancora che collettivo, così come sempre esso è
anche inevitabilmente doloroso.
* Università “La Sapienza”, Roma.
Gustavo Zagrebelsky: educazione alla cittadinanza
Pubblichiamo una sintesi (a cura di Cesare
Pianciola), basata sulla registrazione audio,
dell’intervento che il professor Gustavo
Zagrebelsky ha pronunciato al Convegno
“Insegnare laicamente. Ambiti disciplinari
e saperi per una formazione critica”,
organizzato dal Comitato Torinese per la
Laicità della Scuola in collaborazione con
Cemea Piemonte, CIDI, Fnism. Gli atti del
convegno sono pubblicati su “Laicità”, n. 2,
giugno 2008, disponibile anche sul sito www.
arpnet.it/laisc
V
orrei segnalare l’Appello per un insegnamento di cultura civica che anch’io ho sottoscritto1.
In Spagna la Chiesa si è opposta all’introduzione di un insegnamento simile ritenendosi spossessata di una sua prerogativa: dietro
questa opposizione c’è l’idea che il buon cittadino sia solo quello educato ai principi del
cattolicesimo romano. Il presidente francese
Sarkozy, quando è stato recentemente ricevuto dal papa, ha detto una cosa analoga,
suscitando le ire dei custodi della tradizione
repubblicano-laica in Francia. Se l’educazione civica non si è diffusa e radicata in Italia
è forse anche a causa di una sorda resistenza
che ha presupposti di questo tipo.
Cosa significa essere laici? Da giurista direi due cose. Ricorderei l’articolo 1 della
Costituzione romana del 1848 che diceva: «Il
potere del papa è abolito». E ricorderei anche
che in una riunione del Parlamento italiano
dopo l’unificazione, quando venne proposta
una questione di teologia politica, un deputato propose una mozione che fu approvata
e che diceva: «nulla curandosi dell’infallibilità del papa, il Parlamento passa all’ordine
del giorno». Primo punto: fine della potestas
diretta o indiretta della Chiesa in temporalibus e secondo punto: nelle questioni che riguardano la convivenza civile non c’è spazio
per nessuna forma di infallibilità, papale o di
altro genere.
Sottotraccia
In Italia le cose però avvengono sottotraccia.
In Italia non è mai stato detto chiaramente quello che è stato detto nel 1984 dalla
Conferenza episcopale spagnola all’epoca del
governo del socialista Gonzales: la Chiesa
dispone della verità e la verità sta sopra la
Costituzione e sta sopra l’ordinamento giuridico. Forse le dichiarazioni più impegnative in questo senso si trovano nella Dominus
Jesus della Congregazione della Fede, allora
presieduta dal cardinale Ratzinger. Ma la pretesa di disporre della verità, non della verità
che attiene alla sfera della fede ma di quelle
verità che hanno una ricaduta sui comportamenti sociali e delle traduzioni giuridico-costituzionali, è continuamente presentata dalla Chiesa di Roma come servizio alla comunità
civile, è presentata come offerta di valori a
una società che ne sarebbe priva, in quanto
precipitata nel relativismo e nel nichilismo.
Quando si insegna l’educazione civica si pensa
che il testo di riferimento sia la Costituzione,
ma la risposta che proviene dalla Chiesa cattolica alla domanda su cosa tiene insieme la
società è diversa: ciò che la tiene insieme è il
complesso dei valori etici secondo il punto di
vista cristiano-cattolico.
I tempi di Bobbio sono lontanissimi: le questioni che si dibattevano nel confronto tra
laici e clericali in fondo erano marginali, non
mettevano in questione il rapporto tra Stato
e Chiesa. L’ora di religione a scuola, il riconoscimento nell’ordinamento civile del matrimonio canonico e delle sentenze ecclesiastiche di annullamento, il finanziamento della
scuola privata: queste erano le questioni.
Oggi la Chiesa cattolica avanza una pretesa
molto più grande, non si accontenta di essere una istituzione che, come dice il preambolo del Concordato del 1984, collabora con
lo Stato per il bene dell’essere umano. Oggi
vuole essere la base e dare un fondamento
alla convivenza civile e pretende di controllare la vita nei suoi diversi momenti, dalla nascita alla morte. E viene ascoltata anche perché la Chiesa si presenta come un deposito di
certezze rispetto alle insicurezze e alle paure
che derivano dalle nuove conoscenze scientifiche e dalle biotecnologie.
Certo non c’è nulla di veramente nuovo. Basta
ricordare la polemica di Agostino contro
Varrone, il quale sosteneva che ci si rivolge
alla religione per rafforzare gli stati appena
fondati, sicché nasce una politica teologi-
ca. Per sant’Agostino, al contrario, prima degli Stati c’è la religione e quindi la teologia
politica ha la priorità rispetto alla politica teologica. Che la religione serva a rafforzare la convivenza civile è una tesi fondamentale del costituzionalista cattolico Ernst
Wolfgang Böckenförde, il quale nel saggio La
formazione dello Stato come processo di secolarizzazione del 1967 dice una frase famosa
che è tornata poi nel confronto tra Habermas
e Ratzinger: «Lo Stato secolarizzato vive di
presupposti che esso non può garantire».
Böckenförde si chiede: «Fino a che punto i
popoli riuniti in Stati possono vivere sulla
base della sola libertà, senza un legame unificante che preceda tale libertà?». Secondo
questo scritto lo Stato basato sulla libertà
è quello che garantisce a tutti di avanzare
richieste a uno Stato sociale, uno Stato del
benessere, che non pone limiti alle pretese.
Le risposte non potranno che alimentare altre domande, ma c’è un limite degli Stati a
soddisfare tali richieste, e a un certo punto
si arriva alla crisi: quando Böckenförde faceva queste affermazioni si parlava della “crisi
fiscale dello Stato”. Per soddisfare le domande in tema di istruzione, sostegni, benessere ecc. lo Stato non può che avvolgersi nella
crisi. Insomma la libertà è disgregatrice e abbiamo bisogno di qualcosa che ponga un freno alla libertà.
Le proposizioni di Böckenförde sono state interpretate in modi diversi. Nelle ultime pagine egli auspica una partecipazione dei
cattolici alla vita politica perché mettano a
disposizione il loro ethos per la rivitalizzazione dell’ethos comune. Sono pagine che dovevano essere uno stimolo alla partecipazione
dei cattolici in Germania. Ma dicendo “precede” sembra pensare a un legame anteriore
alla stessa libertà e a un privilegio di etiche
pubbliche di ispirazione religiosa che dovrebécole numero 69 pagina
11
bero permeare capillarmente la società. Certe
affermazioni di “nuova”, “sana” laicità hanno
una ispirazione di questo genere.
Laicità
Negli scritti sulla democrazia di Gaetano
Salvemini negli Stati Uniti, pubblicati ora da
Bollati, c’è una pagina in cui denuncia la critica della democrazia senza aggettivi da parte dei regimi comunista e nazifascista come
malsana, cui essi contrapponevano una democrazia “nuova” o “reale” o “sana”. La sana
laicità che sentiamo oggi spesso invocare
smentisce un caposaldo dello stato liberaldemocratico: l’equidistanza tra le varie concezioni e posizioni. In un recente convegno,
svoltosi a Roma, Böckenförde ha detto che
i non cattolici devono rassegnarsi a vivere
«come nella diaspora», cioè come ospiti in
casa altrui.
Queste proposizioni sulla “sana laicità” hanno molte ricadute: dalla richiesta di limitare l’immigrazione a persone di religione
cristiana alla pressione per introdurre nella Costituzione europea le cosiddette “radici giudaico-cristiane”. Si invoca una legittimazione speciale a chi appartiene a un certo
filone religioso e culturale. Questo modo di
pensare mette in discussione sia l’equidistanza dello Stato nei confronti di tutte le
confessioni religiose e dei cittadini che non
professano alcuna fede religiosa, sia l’eguaglianza di tutti i cittadini.
Noi dovremmo insistere sul fatto che il fondamento della cittadinanza non può essere
che un fondamento che si basa sulla libertà,
cioè il modo di essere e di vivere dei cittadini
non può essere stabilito che attraverso una
discussione pubblica in cui ognuno riversa le
sue convinzioni etiche e di valore, e in cui si
assume la pluralità delle posizioni non come
un difetto ma come una ricchezza della democrazia, creando così un ethos nel quale le
nostre “verità” quando entrano nel dibattito
pubblico diventano opinioni. Questo un uomo
di fede difficilmente lo ammette perché ciò
che è verità per lui ha una priorità assoluta
che si trasforma facilmente in intolleranza, e
che produce anche una inevitabile reazione di
intolleranza in chi non è disposto a lasciarsi
sopraffare da queste pretese verità indisponibili. Il problema non sono i postulati di valore che tutti hanno, credenti e non credenti,
ma è come questi diversi valori si riversano
nella cittadinanza democratica.
Questo è il compito della scuola: creare delle
piccole comunità in cui c’è un attaccamento ai propri postulati di valore, in cui non si
è rinunciatari e indifferenti, ma nello stesso
tempo c’è l’abitudine ad argomentare le proprie convinzioni in maniera tale che risultino
accettabili anche da chi parte da postulati diversi, e in cui si è anche disposti a cambiare
opinione sulla base del confronto e del convincimento reciproco. Questa secondo me è
l’essenza dell’educazione alla cittadinanza.
NOTA
1. Lo trovate a pagina 16.
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12
Scuola, il grado zero della democrazia
Ha ancora senso parlare di democrazia
nella scuola oggi? Nella scuola italiana
attuale non esiste ormai quasi traccia di
democrazia rappresentativa, oltre che di
democrazia partecipativa. È abbastanza
irrilevante allora che quest’ultimo termine
si usi nel senso di democrazia diretta o che
lo si intenda in modo più limitato come
prassi di consultazione pubblica degli
interessati: studenti, genitori, personale e
cittadini PAOLO CHIAPPE
N
ormativa e discipline
È citato nelle norme, è vero, a ogni passo il
principio democratico della trasparenza, ma è
subito contraddetto e bloccato, ridotto a semplici ludi cartacei dall’altrettanto onnipresente tema-pretesto della privacy. Esiste qualche
caso in cui sia stato pubblicato l’elenco dei
compensi aggiuntivi percepiti dal personale?
Esiste ma raro.
È cosa troppo nota lo svuotamento della pur
imperfetta e limitata gestione collegiale del
1974 che è andato di pari passo, guarda caso,
con l’aumento della percentuale di spese discrezionali (progetti e consulenze). Quando
non c’era nulla da decidere si facevano cerimonie deliberative solenni, ora che da decidere qualcosina c’è, i processi sono privatizzati o come dice qualcuno, non a torto,
feudalizzati. E questo svuotamento riguarda
i momenti centrali, quelli delle singole istituzioni scolastiche e l’uso che si fa del diritto di assemblea e del diritto di tribuna.
Ancora di più: non sono le singole norme ad
essere svuotate, è venuto meno il loro stesso presupposto, l’essere la scuola una agorà
e un luogo di cooperazione educativa, l’idea
sociale che l’educazione sia un correttivo all’influenza della famiglia e l’idea liberaldemocratica che l’educazione sia educazione alla
libertà. Sul piano giuridico, poi, l’autonomia
fondata sul dirigente-manager equiparato al
datore di lavoro, responsabile unico dei risultati, benché nei fatti, per la natura del lavoro
educativo, non attuabile al cento per cento,
è l’esatto opposto della democrazia.
I residui della legislazione precedente in contraddizione logica con quella più recente non
sono del tutto aboliti ma confinati in un limbo, rami secchi in attesa di resecazione, a cui
non mancherà di provvedere la nuova maggioranza.
Le normative disciplinari inserite per decreto
e relative alla sospensione cautelativa di insegnanti senza consultazione di organi collegiali – già applicate a scopo esemplare e
propagandistico in casi molto, ma molto discutibili – ci hanno fatto rimettere un piede
nell’era della scuola illiberale: non c’è molto
di peggio da aspettarci dai berlusconiani sotto questo punto di vista.
Se mai la scuola pubblica del 2008 ha in comune con il mondo privato aziendale del neoliberismo una sana mancanza di ipocrisia,
avendo proprio cancellato dal lessico gestionale anche la parola democrazia, oltre che il
fatto. Perfino la cogestione è un concetto obsoleto. Qualche traccia della vecchia retorica
rimane nei documenti che trasmettono le direttive di Bruxelles e Strasburgo.
Proprio questa sparizione del concetto di democrazia dalle questioni di gestione della
scuola (più che dai vaghi obiettivi umanistici
dell’educazione) è l’elemento forse più rivelatore, dato che la retorica della democrazia si
spreca in altri settori come dimostra il caso
ben noto della politica estera.
Cercare una ragione
Come spiegare questa letterale damnatio memoriae? La prima spiegazione potrebbe es-
sere che i documenti (leggi, direttive ecc.)
riguardanti la scuola sia di parte governativa sia dei grandi partiti e sindacati sono
sempre meno scritti da insegnanti e genitori e perfino politici e pedagogisti, e sempre
più invece da dirigenti scolastici cooptati in
modo privilegiato nelle commissioni consultive e negli staff ministeriali.
La seconda e più tragica causa potrebbe essere che anche dal basso ormai c’è una accettazione profonda del principio tecnocratico di delega.
Percorrendo il sito ministeriale della pubblica istruzione, che rispecchia ancora a fine
aprile la passata gestione di centrosinistra,
la parola democrazia, per non parlare di quell’altro concetto che la dovrebbe sostanziare,
ovvero libertà (del tutto assente), non compare quasi mai né come obiettivo né come
metodo in riferimento alla vita scolastica,
ma solo come qualcosa a cui la scuola deve
“preparare”. Le parole ricorrenti sono invece:
cittadinanza (educazione alla), cittadinanza
attiva, coinvolgimento attivo, collaborazione
attiva, corresponsabilità, cooperazione (educazione alla), convivenza (educazione alla),
e il brutto prosocialità. Rispetto alle forme
gestionali e agli obiettivi della scuola compaiono il supporto, i referenti, la programmazione, le pari opportunità, l’intercultura. Sto
esaminando non le pratiche, ma solo il lessico della retorica governativa di questi ultimi anni, però questo lessico deve pur avere
un qualche rapporto con gli obiettivi educativi e la stessa forma-scuola che ha avuto
in mente l’appena defunta maggioranza e in
particolare quell’ala cattolica a cui è stata
affidata la gestione del ministero. Il ministro Fioroni, nonostante la scelta di basso
profilo legislativo della politica del cacciavite, ha cercato di segnare l’istituzione con
una chiara impronta e questo soprattutto
nell’ambito valoriale e quindi del linguaggio usato. Ricordo in proposito che la ministra Falcucci pretese la sostituzione della
parola “fanciullo” alla parola “bambino” nei
programmi dell’85 per le elementari. Ebbene,
se si va a vedere che cosa sta scritto sotto
le parole-chiave citate, il linguaggio usato
da Fioroni rinvia a un ideale funzionalistico
e comunitario in cui le singole persone da
educare sono prese in carico per assicurargli un benessere che coincide con l’accettazione da parte loro delle regole del gruppo
e in questa visione il conflitto compare solo
come espressione di disagio, di egoismo
asociale tendente al bullismo, come un disordine da prevenire e curare. Garante suprema contro l’incombente disordine è la filiera
ministro-direttori-dirigenti, con un forte accento prefettizio sui direttori regionali, titolari di un rinnovato e discrezionale potere di
sospensione verso gli insegnanti. Un potere
istituito a freddo, senza nemmeno episodi
che giustificassero un qualche tipo di allarme sociale strumentalizzabile in senso securitario o moralistico, e nella più totale distrazione delle forze governative di sinistra.
Il tentativo di ripristinare la “severità” ver-
so gli studenti invece è naufragato per ora
nelle assurdità della organizzazione burocratica dei corsi di recupero e sarà cancellato
a quanto pare dal governo di centrodestra
per essere sostituito da qualcosa di peggio
(voto di condotta che fa media) ma sempre
nella stessa direzione punitiva e fondata sul
semplicismo.
Una questione europea, una questione
politica
Nel 2006 è uscita peraltro sulla democrazia
una decisione del parlamento e del consiglio
europeo che istituisce per il periodo 2007/13
il programma Europa per i cittadini volto alla
«diffusione della cittadinanza attiva e quindi allo spirito di appartenenza ad una società fondata sui principi di libertà, democrazia
e rispetto dei diritti umani». In attuazione
di ciò il ministero della Pubblica Istruzione
il 16 ottobre 2006 ha emanato una direttiva di indirizzo sul tema Cittadinanza, democrazia e legalità. In essa viene sottolineato
come «l’equità sociale, la crescita economica di un Paese, l’occupazione e la coesione
sociale non possono essere raggiunti se non
attraverso l’efficienza e l’equità dell’istruzione». Si invita dunque ipocritamente «a mettere in atto tutte le condizioni per far sì che
la legalità e la democrazia siano prassi diffuse nella comunità scolastica». La direttiva centra l’attenzione su «la partecipazione
attiva dei giovani alla costruzione europea,
alla comprensione delle diversità culturali presenti oggi nella nostra società ormai
multietnica, al rispetto dei diritti umani e
alla lotta contro il razzismo». Le scuole sono
invitate a «promuovere tutte le occasioni di
apprendimento formale e non formale» sia
nella scuola sia al suo esterno, sono sollecitate non solo a individuare obiettivi di miglioramento per l’istruzione ma anche piani
strategici per raggiungerli […]». Si tratta,
come può capire chiunque abbia pratica della scuola, di semplice materiale cartaceo, di
quello destinato a riempire il tavolo delle
circolari insignificanti, perché non prescrivono scadenze burocratiche, e che viene
svuotato alla fine dell’anno. Se per caso però
lo volessimo prendere sul serio e analizzarlo,
verrebbe fuori che tale direttiva intende la
democrazia come un qualcosa a cui le istituzioni europee e nazionali pretendono di educare i cittadini e i futuri cittadini, cioè che
siamo sempre in una visione paternalistica
e predicatoria. La democrazia è il feticcio in
nome del quale si autolegittimano le istituzioni molto lontane dai cittadini.
Altro esempio: l’assemblea legislativa regionale dell’Emilia-Romagna ha prodotto due cd
con il titolo Per la partecipazione democratica degli studenti che, pur essendo veicolati in un linguaggio multimediale più attraente delle soporifere direttive europee e
ministeriali, non vanno oltre il livello di un
kit di educazione civica: bibliografia, contatto con le istituzioni, esortazioni, attività e giochi di simulazione. L’impostazione è
sempre quella paternalistica, del tipo fate i
bravi bambini siate socievoli e non razzisti.
Non c’è da stupirsi se poi in certi cervelli
scatta l’equazione: ribellarsi al sistema = essere razzisti e violenti.
Guardando al Manifesto dei valori – programma del Pd – si vede che la parola democrazia
è citata due volte in rapporto alla scuola.
Per il Pd infatti è nella scuola che «si pongono le premesse della cultura democratica indispensabile alla convivenza in una società
sempre più plurale e multiculturale» e solo
la scuola può consentire quella «democrazia
della conoscenza e quell’integrazione culturale e sociale che siano all’altezza delle sfide della globalizzazione contemporanea».
Tutto ciò però non si riferisce alle modalità
di gestione o di partecipazione, ma di nuovo
solo al risultato che ci si attende. Siamo sul
terreno dei vaghi obiettivi umanistici, peraltro anche inquinati di ideologia della competizione globale.
Sul sito della Cgil scuola si vede che il concetto di democrazia è citato, ma solo in relazione alla contrattazione decentrata delle
Rsu. Peccato che il sequestro dei diritti sindacali da parte delle organizzazioni “maggiormente rapresentative” sia una cosa piuttosto lontana dal principio elementare della
democrazia che è quello della rappresentanza universale. E peccato che le contrattazioni di scuola siano condotte per lo più in
contesti di limitatissima autonomia dalle
controparti (controparti che spesso sono anche interne alle Rsu dato che i membri degli
staff e le figure obiettivo hanno una notevole possibilità di condizionamento e fusione di ruoli).
Questa malinconica rassegna in sostanza registra la quasi assoluta impermeabilità del
mondo-scuola ai valori e alle pratiche proclamate con troppo ottimismo dalla effimera fase dei social forum di inizio millennio,
i valori di Porto Alegre, e quindi il nostro
discorso finisce per essere un viaggio alle
radici profonde della sconfitta politica della
sinistra e dell’avvento dei partiti leaderistici
e plebiscitari.
Democrazia “r-esistenziale”
Le vie d’uscita della scuola da questa piattezza cerebrale e di relazioni non sono diverse,
nell’essenza, da quelle della società italiana in generale. Rimane primaria la lotta per
la difesa dei principi costituzionali anche se
dobbiamo essere consapevoli che in questo
momento ha un carattere quasi resistenziale. Non si vedono all’orizzonte segnali di una
ripresa di iniziativa collettiva nei luoghi di
lavoro e dell’educazione e quindi è giusto e
necessario rimettere al centro l’etica, questa
può essere anche un’occasione per riflettere
sui limiti di conformismo e superficialità che
hanno avuto anche i movimenti più avanzati
e riscoprire il valore della presa di parola in
prima persona. Una dimensione che può anche andare di pari passo con la riaffermazione di una serietà dello studio e della ricerca,
contro la scuola della facciata burocratica e
delle vetrine ingannevoli.
école numero 69 pagina
13
Il processo di apprendimento La scuola
è uno spazio reale di scambio, confronto,
scontro dove la cittadinanza attiva passa
prima di tutto attraverso i processi di
apprendimento. Ma c’è apprendimento
senza democrazia? CLAUDIO BERETTA *
L
a scuola come istituzione deputata all’assoggettamento delle menti è stata oggetto di dure battaglie finalizzate a trasformarla
nella scuola dello sviluppo del pensiero critico e dell’elevazione sociale dei diseredati. Per
Don Milani ed i suoi allievi la scuola dell’obbligo non deve bocciare: che ci fa un quindicenne tra i dodicenni?
La scuola deve essere quel luogo dove “si
può sbagliare”, come ci suggerisce Clotilde
Pontecorvo1.
Da questi presupposti vi sono però stati in
alcuni casi sviluppi controproducenti proprio
per i figli di quei ceti economicamente disagiati che dovevano essere tutelati.
Quando la scuola pubblica non induce più a
studiare perché tanto passi l’anno lo stesso,
abbiamo figli di laureati che, in un modo o
nell’altro, vanno avanti, e studenti provenienti dai ceti sociali meno abbienti, che solo
a scuola possono trovare gli stimoli necessari, che restano indietro a guardare, demotivati ed impreparati a far parte attivamente della società in cui vivono.
Da una scuola fatta solo per chi era favorito
da un retroterra culturale privilegiato e condivideva i valori dominanti, siamo passati ad
una scuola che operava la selezione di classe
attraverso la produzione di “titolati ignoranti” penalizzati sia dal punto di vista professionale che da quello personale ed impossibilitati ad essere cittadini attivi e partecipi in
una “società orizzontale”, «basata non sulle
gerarchie, ma sull’idea che l’umanità si promuova attraverso un percorso armonico in cui
la collaborazione di ciascuno, secondo le proprie possibilità, contribuisce all’emancipazio-
école numero 69 pagina
14
ne dei singoli ed al progredire della società
nel suo insieme» (Gherardo Colombo)2.. Le disuguaglianze non si sanano, ma restano invariate se si sostituisce la selezione fatta con
le bocciature con la selezione fatta di scuola
peggiore, non esigente, povera di contenuti
che non stimoli l’interesse dei ragazzi, che
non li appassioni e non li renda liberi e protagonisti del loro futuro attraverso il sapere, il
saper dire e lo scegliere (Sandra Gesualdi)3.
Regole e libertà, programmi e creatività
Quindi: regole e impegno. Sembrerebbe di
doversi arrendere agli irriducibili critici del
sessantotto. No. Si tratta solo di trovare il
delicato equilibrio tra regole e libertà, che si
gioca sugli aspetti educativi così come nella
didattica, dove contenuti disciplinari e creatività progettuale cercano il loro ruolo.
La rigidità dei cosiddetti programmi si scontra con le esigenze degli allievi di imparare
qualcosa che sia connesso con la loro esperienza quotidiana. L’insegnante deve così
adattarsi alle contingenze con flessibilità,
ma senza perdere la linea conduttrice della
sua disciplina, senza perdere la mappa, perché è vero che “la mappa non è il territorio”,
però è utile!
Dal punto di vista educativo l’assenza di regole e di riferimenti, causata da una genitorialità debole, costituisce un elemento
determinante per lo sviluppo di forme di disadattamento sociale, nonché di disturbi psichici e la scuola rappresenta in alcuni casi
l’unico riferimento normativo certo per bambini e ragazzi. D’altra parte: «alimentando,
invece di reprimere, i caratteri, le inclinazio-
ni, le capacità e le vocazioni personali delle
giovani vite con le quali la scuola entra in
rapporto, essa contribuisce a difendere la democrazia» (Gustavo Zagrebelsky)4.
Esercitarsi alla democrazia tramite la cooperazione
Quindi occorre creare uno spazio per le relazioni, per l’autonomia nella costruzione del
proprio sapere e nello stesso tempo per la
scoperta dell’interdipendenza dal compagno
al fine di costruire qualcosa di superiore alla
possibilità del singolo, per la scoperta della regola condivisa come necessità del vivere
sociale nel rispetto reciproco, per l’assunzione di responsabilità individuali e per la condivisione di responsabilità collettive. Occorre
creare uno spazio di cooperazione e di ricerca attiva.
Da queste riflessioni, a volte latenti, agganciate alla mia esperienza di bambino che ha
riscoperto il piacere della scuola grazie alle
maestre ed alle professoresse non autoritarie ed anticonformiste ed alla mia esperienza
di insegnante alla ricerca dell’equilibrio tra
normativismo ed entropia, approdai all’apprendimento cooperativo, sperimentandolo
con sano scetticismo ed ottenendo risultanti gratificanti.
Lavorare in gruppi però non basta, occorre
farlo con strutturazioni adeguate ad evitare le aberrazioni di questa modalità di lavoro: lasciare che uno lavori, gli altri stiano a guardare e tutti si prendano il merito è
antieducativo, oltre che frustrante per i più
generosi.
Quindi un giorno, in una classe in cui una
collega era disperata per il calo del rendimento, propongo di organizzare dei lavori
in piccoli gruppi cooperativi, ispirandomi a
quanto spiegato nei testi e nei corsi di Mario
Comoglio5 e di Piergiuseppe Ellerani6.
• Chiediamo ai ragazzi di dividersi in gruppi
da quattro, eterogenei al loro interno, basandoci sulle abilità rilevate nell’ultima verifica.
• Forniamo loro dei testi sui quali cercare delle informazioni.
• Diamo ad ogni gruppo una parte diversa
relativa allo stesso argomento e ad ogni studente una porzione della parte del suo gruppo.
• Spieghiamo che daremo molta importanza alla capacità di collaborare dimostrata dai
singoli gruppi ed in particolare alla capacità
di dare ed accettare aiuto.
• Al termine del lavoro ogni gruppo dovrà
spiegare a tutta la classe la propria parte ed
ogni allievo dovrà prendere appunti quando
gli altri gruppi spiegheranno.
• Viene prodotto da ogni gruppo un cartellone che servirà per la spiegazione alla classe
e per la realizzazione di una mostra sull’argomento.
• La valutazione finale sarà stabilità da una
media delle valutazioni dei singoli membri
del gruppo ed infine vi sarà una verifica individuale, come solitamente avviene, con le
schede del libro.
Ogni allievo è stato così trasformato in ri-
EDUCAZIONE ALLA
CITTADINANZA
Sul sito di école potete
trovare una scheda,
curata da Marisa
Notarnicola, su alcune
delle agenzie formative
che lavorano con le
scuole sull’educazione alla
cittadinanza.
cercatore attivo, all’interno di un gruppo, responsabile verso gli altri, oltre che verso se
stesso. Ognuno ha dato il proprio contributo
in base alle proprie possibilità.
Al termine il sogno si realizza: anche nella
verifica individuale nessun fallimento, tutti almeno sufficienti e senza penalizzare le
eccellenze che registrano anch’esse un netto miglioramento, ma soprattutto ci rendiamo
conto che i ragazzi hanno sperimentato direttamente cosa significa essere solidali con
i compagni in difficoltà o accettare di essere
aiutati, traendone un beneficio comune.
Gli insegnanti non hanno cercato solo di lasciare il proprio “segno”, ma anche di e-ducare, aiutando i ragazzi a tirar fuori le loro possibilità, di essere partecipi ed attivi, dando il
proprio contributo alla comunità, a concepire
il proprio e l’altrui miglioramento come eventi non confliggenti, ma complementari all’interno di una comunità di apprendimento.
Se un segno è rimasto, oltre a quello relativo
ai contenuti la cui padronanza era superiore
alle aspettative, spero sia simile a quello lasciato a me da quelle insegnanti che mi hanno aiutato, da bambino, ad uscire dal tunnel
della pedagogia oppressiva e mi hanno dato
la possibilità di capire che la mia opinione
ed il mio contributo sono importanti come
quelli di qualunque altro cittadino della comunità di cui faccio parte (anche se spesso i
nostri politici se ne dimenticano). Se esiste
una qualche possibilità di “imparare la democrazia”, credo che percorsi di questo tipo, costantemente reiterati nelle prassi quotidiane
della classe, siano esperienze utili alla «diffusione nelle coscienze dell’attaccamento alla
dignità delle persone ed al valore della democrazia»7, nonché all’educazione alla pace, che
nelle nostre classi e nelle nostre società multiculturali è quanto mai necessaria.
Cultura civica “ricostituente”
«L’istruzione pubblica è come un ramo di
potere nel governo, distinto dal legislativo,
dall’esecutivo e dal giudiziario. Esso si
potrebbe chiamare il potere direttivo
dell’opinione. Esso dunque, in ordine,
è il primo dei poteri, perché l’opinione
precede e dirige le leggi, l’esecuzione e i
giudizi; è il più nobile dei poteri, perché
influisce sull’animo immediatamente colla
persuasione, è anche il più importante
potere di tutti, poiché salvata l’opinione,
gli altri si possono rigenerare, guastata
l’opinione tutto è perduto» ENZO MARZO *
* Insegnante, Tutor per “L’apprendimento
Collaborativo”, Ce.Se.Di, Provincia di Torino.
NOTE
1. Clotilde Pontecorvo intervistata da Stefano
Vitale.
2. Gherardo Colombo, Sulle regole Feltrinelli, Milano
2008, p. 48.
3. Sandra Gesualdi, Come è nata Lettera ad una
Professoressa, Sito fondazione Don Lorenzo Milani
2006.
4. Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia,
Roma 2005 p. 29.
5. Mario Comoglio, Insegnare ed apprendere in
gruppo, LAS Roma 1996.
6. Piergiuseppe Ellerani, Manuale per la realizzazione di unità di apprendimento, SEI Torino 2006.
7. Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia,
Roma 2005 p. 51
C
osì Lorenzo Mascheroni (1750-1800)
due anni prima di morire presentava al Gran
Consiglio della Repubblica Cisalpina il primo
piano organico della pubblica istruzione della nostra storia. Con queste parole, riesumate
da italo mereu in un suo saggio pubblicato su
Critica liberale nel 2005, si può dire che cominciammo una battaglia che è rimasta ancora agli inizi. Mereu spiegò benissimo quale è
stato nella nostra storia il trattamento riser-
vato alla “sovranità popolare”. Il risultato del
“sapiente ed accorto disinteresse” delle varie
classi dirigenti è davanti ai nostri occhi.
Dalla fine dello scorso anno Critica liberale ha
ripreso il vecchio impegno e ha proposto un
appello sottoscritto da autorevolissime personalità della cultura per l’introduzione nella
scuola italiana di quella che proponevamo si
chiamasse “cultura civica”, proprio per distinguerla dall’esperienza della “educazione civiécole numero 69 pagina
15
ca”. In questo appello si sono indicate le cause del fallimento dell’educazione civica. Prima
di tutto, non ha mai costituito un insegnamento autonomo, né gli sono stati assegnati
tempi adeguati, né si è apprestata una preparazione idonea e specifica degli insegnanti.
Ma maggiori ragguagli si ottengono leggendo direttamente l’appello, che è proposto alla
discussione pubblica. Posso solo aggiungere
che, sottoposto all’attenzione del Capo dello
Stato, è stato apprezzato e Napolitano, anzi,
ha sollecitato una continua informazione sull’argomento, come dimostrazione del suo interesse istituzionale per l’iniziativa. Quindi,
dopo una pausa causata dall’incertezza politica provocata dalla crisi di governo, prima, e
dal periodo pre e post-elettorale poi, riprendiamo l’iniziativa.
Non ho particolari competenze di politica
scolastica, e quindi sono il meno accreditato a parlare di una proposta che arricchirebbe molto l’insegnamento ai nostri giovani. Ma
come osservatore delle cose italiane giudico
la “cultura civica” una “necessità assoluta”.
Addirittura un’emergenza nazionale. Abbiamo
davanti agli occhi il baratro in cui è sprofondato il paese. Tutti gli indicatori europei
ormai ci relegano agli ultimi posti, ci siamo
avvitati in una crisi senza scampo visibile.
Le ultime elezioni hanno sancito una carenza
gravissima di democraticità dei nostri meccanismi elettorali. Il senso dello stato sembra ridotto a zero. I partiti hanno cessato da
tempo di svolgere quel prezioso (e costituzionale) compito di tramite tra i cittadini e
lo Stato. I giovani si abbeverano quasi esclusivamente in quell’unica fonte inquinata dal
monopolio, che è la televisione-spazzatura. È
in gioco persino l’unità del paese.
Bisogna ricominciare daccapo. Partire da
zero. Il nostro paese deve ritrovare una sua
identità, il senso della legalità, alcuni valori condivisi. Per questo, prima, ho definito “emergenza nazionale” la condizione su
cui potrebbe in qualche modo incidere − non
risolutiva ma nemmeno piccola cosa − l’introduzione in tutti gli ordini e gradi dell’insegnamento delle nozioni di base del vivere
civile. Abbiamo la Costituzione, ma se ne parla solo per manometterla. Cominciamo a farla studiare. Forse così i suoi valori saranno
meglio difesi e più difficile sarà peggiorarla. Un certo scoramento, lo confesso, viene
pensando alle difficoltà che abbiamo davanti. La classe politica, anche quella più avvertita, è cieca e sorda. Ma dobbiamo far finta
di nulla. Operare “come se”, come se fossero
ancora possibili riforme positive, come se ci
fosse una sponda su cui appoggiarsi. Ai pessimisti-realisti come noi non resta che pensare alle nuove generazioni. Noi e i nostri figli
ci troviamo davanti al fallimento di due generazioni. Ricominciamo da zero, con grande
determinazione. Per farlo è necessario individuare gli strumenti obiettivamente controtendenza. La “cultura civica” è un primo gradino strategico.
* Direttore di Critica liberale.
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16
APPELLO
PER UN INSEGNAMENTO DI
“CULTURA CIVICA” NELLA SCUOLA
ITALIANA
Riportiamo l’appello promosso e diffuso su iniziativa della Fondazione Critica
liberale
N
el nostro paese sta maturando una crisi morale e politica assai grave
che investe in particolare le nuove generazioni. Si tratta di un fenomeno di
cui si avvertono i sintomi anche nel resto d’Europa, ma che in Italia è ormai
così pervasivo da avere già provocato una profonda degradazione della convivenza civile e della vita democratica.
Il peggioramento drammatico della qualità media del ceto politico, la crisi
delle istituzioni, lo stato dell’informazione soprattutto televisiva, l’indebolirsi della solidarietà sociale, le tensioni provocate dai problemi derivanti dalle
trasformazioni indotte nel mercato del lavoro e dall’accelerata immigrazione
di massa generano, da un lato, sfiducia nella partecipazione politica e, dall’altro, forti regressioni di tipo comunitario, ghettizzazioni e manifestazioni
di xenofobia.
La scuola della repubblica, che tutti sono obbligati a frequentare per almeno
otto anni, è una delle istituzioni cui compete dare attuazione all’imperativo costituzionale di rimuovere gli ostacoli culturali e sociali che limitano la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il loro sviluppo umano e la
loro partecipazione alla vita democratica del paese.
L’introduzione negli anni cinquanta dell’insegnamento dell’Educazione civica
nei programmi scolastici aveva indicato una forma concreta per assolvere alla
funzione di “educare” all’esercizio della sovranità popolare alla quale sono
chiamati tutti i cittadini.
Vari sono stati i motivi per i quali tale insegnamento non ha avuto gli esiti
sperati: in particolare ha nuociuto l’assenza di un sua collocazione autonoma
nei programmi e di una specifica preparazione professionale dei docenti.
Invece è urgente introdurre un nuovo insegnamento che proponiamo di definire Cultura civica, inteso a favorire una consapevole partecipazione dei giovani alla vita civile e democratica, a promuovere lo spirito di solidarietà, la
comprensione delle esigenze di una società sempre più pluralistica e il valore delle diversità, a diffondere la convinzione che diritti umani e democrazia non sono mai conquiste acquisite una volta per tutte, ma rappresentano
gli esiti di una storia tormentata e sempre a rischio di essere rimessi in discussione.
Per conseguire questo obiettivo è necessario che siano garantiti: un insegnamento specifico e autonomo; tempi e metodi adeguati; una preparazione idonea degli insegnanti, in rapporto ai diversi gradi e ordini di scuola.
Nei primi anni di scuola s’impartiranno nozioni di comportamento civico,
con l’ausilio anche di visite guidate ai luoghi istituzionali locali, di partecipazione a eventi pubblici, di interventi sul territorio, con l’intento di realizzare un maggior coinvolgimento nella tutela dell’ambiente e della vivibilità
degli spazi comuni.
Nella seconda metà degli anni dell’obbligo la Cultura civica sarà sviluppata
estendendola a una prima conoscenza dei diritti universali, del significato
della cittadinanza italiana ed europea e della carta costituzionale, con particolare riferimento ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini
Nel triennio delle scuole superiori si procederà allo studio del testo costituzionale integrato da informazioni sul contesto storico, sul dibattito culturale
e sui valori che hanno ispirato la nascita della repubblica italiana, nonché
allo studio del processo di integrazione europea, delle sue motivazioni e del
comune patrimonio civico e costituzionale.
Primi firmatari: Giovanni Bachelet; Giulio Ercolessi; Sergio Lariccia; Giacomo
Marramao; Enzo Marzo; Italo Mereu; Alessandro Pizzorusso; Clotilde
Pontecorvo; Beatrice Rangoni Machiavelli; Stefano Rodotà;Carlo Augusto
Viano; Marcello Vigli; Gustavo Zagrebelsky.
Per aderire: [email protected]
La comunicazione politica nell’era di Internet
Concetti quali segmentazione, posizionamento, target e
altri sono entrati a far parte della cultura di organizzazioni
che al di là del contesto imprenditoriale usufruiscono
di strumenti per raggiungere propri obiettivi. Tra questi
appunto i soggetti politici. Il marketing entra dunque in
politica: ma può diventare uno strumento al servizio della
democrazia? EDOARDO CHIANURA
I
ndubbiamente aiuta ad analizzare il comportamento elettorale, a riconoscere il potenziale elettore, a trasmettergli un messaggio,
dunque potrebbe aiutare la politica a essere più efficace nel dialogare con l’opinione
pubblica.
È comunque altrettanto chiaro sotto gli occhi
di tutti che può essere usato in modo ingannevole, secondo il detto che «ogni strumento
a disposizione dell’uomo non è positivo o negativo in sé, dipende da come lo si usa».
La politica-mercato
Sottinteso che il marketing fondamentalmente è un processo per la soddisfazione di bisogni e desideri: scoprire cosa desidera il
consumatore e fornirglielo. E lo scopo dell’impresa è appunto quello di conquistare il
mercato agendo nell’ambito delle sue regole:
quale può essere lo scopo dei partiti politici?
Quello di conquistare il potere agendo nell’ambito delle regole democratiche!
In questo caso diventa fondamentale la capacità di procurarsi la competenza per poter
offrire ciò che richiede il mercato e l’abilità
di comunicare al mercato prescelto che si è
in possesso di tale competenza. Questo è in
fondo il compito per cui il marketing si prefigura. Ma se il consumatore ha, o si spera abbia, la capacità di accorgersi se le promesse
ci siano o meno nel prodotto acquistato, per
il cittadino/elettore può essere molto diverso. Il marketing, in qualità di “propaganda”
(parola che si porta con se l’esperienze storica di momenti ben precisi del secolo appena
passato), concepito e praticato con l’intento
di acquisire l’abilità di conquistare il voto,
attraverso tutte le tecniche che gli sono proprie, a questo punto si sovrappone al fine, divenendo “potere per il potere”. Per esempio
fondare un partito per soli motivi di marketing, invadendo i canali televisivi di spot per
creare una “notorietà di marca”, prima ancora che dietro vi sia un contenuto esplicito, è
un inganno!
Tuttavia se l’ottica del marketing è invece
quella di rendere partecipe al dibattito, all’approfondimento, all’agire in sintonia con
persone portatrici dei medesimi interessi, per
incidere sulla concezione dell’importanza di
un certo settore rispetto agli altri, lo strumento diventa opera della politica che fa del
marketing politico il “marketing per la politica”. L’auspicio è quindi che l’elettore sensibile, consapevole, sia capace sempre di
distinguere la politica da una saponetta, trasformando il marketing politico in un processo con il quale un soggetto politico pone in
essere una serie di analisi e ricerche al fine
di conoscere desideri e aspirazioni dall’elettore al fine di sviluppare un progetto politico
particolare e globale che raccolga il consenso necessario alla conquista del potere democratico.
Altra cosa è invece il “marketing elettorale”
il cui fine è quello di ottenere che il maggior
numero possibile di elettori faccia rifluire i
suoi voti su un partito o un progetto politico”, con un riferimento indiretto al perio-
do di campagna elettorale. Se già l’eccessivo
potere esercitato dai media tradizionali nei
confronti dei soggetti politici aveva in questi
ultimi anni diffusamente messo in atto processi di scelta da parte dell’elettorato basati
appunto su quel marketing, la rete Internet è
andata via via rivoluzionando il mondo dell’informazione e della comunicazione politica come sino ad ora l’abbiamo percepita.
Interessante diventa perciò scrutare le possibili applicazioni di Internet in campo politico, verificando soprattutto le modalità con
cui i partiti attuali in Italia, e soprattutto in
quest’ultima tornata elettorale, hanno adoperato questi strumenti verificando i vantaggi e/o svantaggi di un modello comunicativo
che a differenza di quello verticale ed unidirezionale dei media tradizionali è orizzontale
e bidirezionale.
Se da una parte appunto si presta ad essere
un canale “straordinario” (in senso aggiuntivo al già esistente) per veicolare informazioni verso i cittadini/elettori, dall’altra permetécole numero 69 pagina
17
te (grazie alla caratteristica multi-biunivocità
del canale comunicativo) la riattivazione di
quel processo inverso accennato all’inizio,
ovvero la partecipazione attiva dei cittadini
al dibattito politico. Dando per scontata la
presenza di un sito di riferimento per ogni
componente politica e lasciando da parte
aspetti di base come il layout grafico/strutturale dei siti (alcuni sono molto attraenti e
ben fatti, altri meno) o la scelta tecnica (architettura, linguaggio, database scelto, tipo
di web server, ecc.), focalizzerò l’attenzione
sugli strumenti web che si sono utilizzati per
raccogliere consenso.
Strumenti di community classici: Forum e
Blog
Un sito che oggi vuole dialogare con gli utenti ha due strumenti tipici: il forum e il blog.
Per quanto si mischino sempre più, sono strumenti che servono soprattutto a parlare con
gli utenti e a far parlare gli utenti tra di loro.
In questo modo i visitatori possono diventare protagonisti, creatori essi stessi di contenuti. Ma è sufficiente aggiungere un forum o
un blog al proprio sito per renderlo coinvolgente? Il problema è poi gestire, far vivere
e aggiornare questi strumenti, perché in una
community, se è pur vero che si ha bisogno di
scambi, è altrettanto importante chi questi
scambi li sappia gestire affinché il tutto non
muoia nel giro di pochissimo tempo.
Al di là della centralità del blog, ciò su cui
bisogna saper insistere è il social Networking,
ovvero tutto quel lavoro di gestione che sappia facilitare il passaggio dal virtuale al reale
e non individuarne le potenzialità, proprio in
un settore che richiede il coinvolgimento di
sostenitori, è davvero una grave mancanza.
Peer to Peer politico
Per una campagna elettorale la rete potrebbe essere impiegata in moltissimi modi. Per
école numero 69 pagina
18
esempio pensiamo alle notizie, ai programmi
elettorali: se è vero che i programmi elettorali nascono con gli elettori, intesi come parte
attiva del processo, e non “per” gli elettori,
perché non immetterli nei network per farli
condividere, migliorare, commentare, criticare? Approfittare del debug giornaliero effettuato da un vasto numero di sostenitori vuol
dire passare dalla cerchia di poche persone a
un network di migliaia di sostenitori, capaci
di segnalare novità, lanciare allarmi e svolgere tutto quanto serve per vincere una campagna, 24 ore su 24 in tutta Italia.
Allora cerchiamo di capire il rapporto tra i
partiti politici ed Internet districandoci fra
le diverse strutture dei principali siti partitici che hanno preso parte alla tornata elettorale.
Innanzitutto cosa accadeva quando aprendo
Google si provava a cercare “Pd”? Il primo risultato che saltava fuori era il sito del Partito
Democratico, mentre se aggiungevamo alla
precedente sigla una “L”, invece del Popolo
della libertà, al primo punto si trovava la pagina del Partito del lavoro ticinese.
In effetti il sito ufficiale del Partito
Democratico ha funziona a pieno regime (tra
news, forum tematici, blog e video) contando oltre 10 mila iscritti, mentre quello del
Popolo della libertà – almeno per quanto riguarda i contenuti e il posizionamento nei
motori di ricerca – annaspava un po’.
Ma la Rete è stata veramente una delle forme attraverso cui si è vissuta la campagna
elettorale, oltre che luogo in cui si è tentata la moderna politica e la moderna comunità come luogo interattivo per costruire un
network di persone?
Difficile dirlo, ma con la “lente di ingrandimento” dei blogger, si può affermare che se
il portale del Pd ha tentato la creazione di
una sorta di network informativo autosufficiente, capace di definire una propria agenda
sulle principali tematiche politiche, economiche, sociali e culturali, quello del Popolo della Libertà, ha preso la via del “meta-portale”,
vera e propria porta d’ingresso agli altri siti
che gravitavano intorno al progetto politico
berlusconiano: Forza Italia, Tv della libertà,
Giornale della libertà e Circoli della libertà.
Dunque, domanda fondamentale di questo
nuovo modo di fare politica: chi ha vinto in
Rete?
Da un confronto del traffico su Internet (dati
Alexa – www.alexa.com), il sito del Pd ha
battuto piuttosto nettamente quello del Pdl,
inglobando entusiasmi e dubbi in un nuovo
spazio comune, utile anche a tastare il polso
di quel che pensavano, chiedevano, volevano
e non gli elettori. Visti i risultati elettorali si
potrebbe però pensare che questo pur lodevole sforzo di coinvolgimento da parte del Pd
non abbia conseguito i suoi scopi.
E le altre formazioni che vantavano un candidato premier? Hanno praticamente snobbato la Rete continuando con i classici mezzi di
comunicazione.
Altri punti sarebbero a questo punto da affrontare: quale “democraticità” per la rete,
quale nesso tra “innovazione tecnologica e
rinnovamento della politica”, quali potenzialità democratiche della rete e quali limiti insiti nelle potenzialità stesse, ecc…
Per finire, se tra le applicazioni di Internet
nel mondo politico è da annoverare principalmente la possibilità di creare nuovi spazi
pubblici “virtuali”, accessibili per via telematica, non bisogna dimenticare quel variegato
mondo di gruppi di discussione e di comunità
virtuali, tra cui le Reti civiche, che si sono rivelati luoghi attivi di partecipazione dei cittadini, al di là delle passate elezioni, per tutte quelle problematiche irrisolte e risolvibili
che richiedono, in una democrazia moderna,
un coinvolgimento diretto e diffuso dei cittadini stessi.
IDEE
per l’educazione
LUDOPEDAGOGIA Nelle pratiche
socio-educative formali e non formali che
si occupano dello sviluppo di processi di
partecipazione, uno degli elementi che
non viene preso in considerazione e che
di solito viene rimandato è la cognizione
affettiva. Che relazione c’è, che relazione
ci può essere tra partecipazione e piacere?
Tra impegno e gioco, tra percorso formativo
e partecipazione? Come promuovere la
partecipazione tra i/le giovani? Come
coinvolgere gli/le adolescenti che vivono
in una società ricca, e sono abituati
ad avere tutto, e tutto il superfluo?
Disfonie: affettività e
partecipazione
ARIEL CASTELO, VALENTINA PESCETTI *
S
pesso, quando si progetta un intervento
che ha come soggetto principale dell’azione
gli/le adolescenti, lo si fa dal punto di vista
– critico – degli adulti. Guardando quasi con
pena, mai con nostalgia, quell’età così complicata dalla quale tutti siamo passati, fugacemente per fortuna, e, con la certezza di averla
superata, possiamo dire che qualcosa non va,
che è difficile coinvolgerli, che la comunicazione tra i due mondi – quello adulto e quello
adolescente – è pressoché impossibile.
Quando diciamo che una persona è “disfonica” significa che ha problemi con l’emissione della voce, che qualche dolore lo disturba
e non gli permette di parlare con chiarezza.
Quindi non può farsi sentire, non può entrare a far parte del circolo della comunicazione
dove gli interlocutori sono collegati tra loro
dal messaggio, dove si desidera far conoscere
qualcosa all’altro; esprimersi affinché l’altro
capisca, e per capirsi reciprocamente.
Buona parte delle esperienze di esclusione
sociale che soffrono adolescenti e giovani
non arriva a esprimersi attraverso la razionalità del linguaggio parlato; per questo parliamo di “disfonie”.
A partire da queste considerazioni, la
Ludopedagogia sta sperimentando, da quasi
vent’anni, la possibilità di lavorare con strumenti diversi alla costruzione di una cittadinanza che favorisca la partecipazione autentica dei giovani, integrando le peculiarità e le
potenzialità di tutti. Da alcuni anni si stanno
realizzando esperienze di questo tipo anche
nel contesto socio-educativo italiano, con risultati significativi.
Ludopedagogia: giocare con i sentimenti
Crediamo che non solo sia giusto, ma anche
necessario giocare con i sentimenti.
Se vogliamo lavorare nel sociale, e soprattutto con gli/le adolescenti, giocare con i sentiécole numero 69 pagina
19
Ludopedagogia
La Ludopedagogia, fondata e sperimentata da Ariel Castelo e dall’equipe de Centro de
Investigación y Capacitación La Mancha, Uruguay, si sviluppa da 20 anni come progetto
politico in quanto si propone come obiettivo principale di collaborare, attraverso il
fenomeno ludico, alla trasformazione della realtà, nelle sue dimensioni sia oggettive che
soggettive.
Incorporando l’esperienza dell’Educazione Popolare di Paulo Freire, la Ludopedagogia
la arricchisce con la dimensione socio-affettiva della corporeità, del piacere e
dell’allegria, quali elementi strategici e fondanti il desiderio
di partecipazione. Vedere www.mancha.org.uy, e-mail
[email protected]
Rete Latinoamericana di Gioco – ReLaJo
Composta da diversi nuclei (Uruguay, Argentina, Messico,
Nicaragua, Guatemala, Brasile e… Italia) che si stanno
estendendo ad altri paesi, la Rete latinoamericana di gioco
(www.relajo.org) dal 2006 si costituisce come opportunità di
incontro e collaborazione tra diverse associazioni, persone e
metodologie che condividono l’obiettivo di costruire l’altro
mondo possibile, e organizza eventi di gioco e reti di lavoro
intorno alla tematiche di gioco, potere e allegria come chiavi
rivoluzionarie e rivoluzionanti.
Scuola estiva di Ludopedagogia
Nella prima settimana di settembre 2008 ReLaJo Italia organizzerà una scuola estiva
residenziale di formazione iniziale teorico-pratica intensiva sulla Ludopedagogia.
Contatti: Valentina Pascetti, [email protected].
menti ci aiuta a “riaggiustare” il nostro ruolo
ed andare oltre le modalità operative che ci
pongono quali artefici dei processi di partecipazione degli altri.
Crediamo che sia imortante giocare con i sentimenti perché la partecipazione autentica ha
una soglia imprescindibile di auto-motivazione e del desiderio del proprio soggetto, che
non è trasferibile.
Nelle pratiche socio-educative formali e non
formali che si occupano dello sviluppo di processi di partecipazione, uno degli elementi
che non viene preso in considerazione è la
cognizione affettiva. Si cerca di arrivare alla
conoscenza attivando solo meccanismi e sistemi di razionalizzazione e di conoscenza intellettuale, attraverso la catena di argomenti
e blocchi di informazione. Si trascurano forme
di incorporazione del sapere che percorrono
altri registri di sensibilità, che prendono in
considerazione elementi come il clima affettivo, i vincoli interpersonali, la dimensione
corporale, gli stimoli sensopercettivi, i meccanismi intuitivi e di cognizione affettiva.
La sensorialità e la singolarità percettiva si
localizzano principalmente nella geografia
corporale, convertendola in uno degli scenari privilegiati dove si dà l’acquisizione della
conoscenza.
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Il gioco come proposta politica
È non solo possibile, ma anzi strategico e necessario riscattare il gioco, l’allegria, il piacere come proposte politiche, per le loro potenzialità di sperimentazione, conoscenza critica
ed integrale del reale, dove la conoscenza è
capace di intrecciare l’emozione con la razionalità, il corpo con l’anima. Giocando e mettendosi in gioco si può conoscere la realtà e
se stessi, e quindi sperimentare le possibilità
di cambiamento. Da qui la proposta politica
per migliorare il lavoro sociale: conoscere per
trasformare, giocare per conoscere.
* L’articolo nasce dalla rielaborazione di un testo
di Ariel Castelo e Juan Pablo Bonetti, “Disfonias:
entre la apatia y la participacion adolescente”.
Centro de Investigacion y Capacitacion La Mancha,
Uruguay, 2004.
esperienze narrate
MASSIMILIANO E IL TEATRO
Fare tanto teatro. La decisione, presa a partire
da un’improvvisazione inattesa sulla cattedra di
un alunno nuovo in una terza elementare, avvia
un percorso che dalla contestazione, passando
per l’isolamento, porta fino al dialogo
BRUNA CAMPOLMI *
S
iamo in terza elementare, 18 i bambini che già
dalla prima sono insieme, e
un bambino nuovo. Viene
da una scuola vicina dove
ha già frequentato la terza,
soprattutto i corridoi della
scuola. È tutto quello che
su di lui sappiamo. Qui da
noi viene a “ripetere”.
Non ricordo cosa facemmo
quella mattina per accoglierlo, è certo che ci saremo presentati, avremo detto i nostri nomi, gli avremo
dato il benvenuto, ma proprio non ricordo cosa facemmo in quelle prime due ore. Avremo parlato delle vacanze? Fatto un disegno? Una
lettura? È probabile. Non ricordo.
Ricordo benissimo invece che quando suonò
la campanella delle 10.30 che annunciava ricreazione e giardino, Massimiliano velocissimo con un balzo salì sulla cattedra e cominciò a urlare, a sbracciarsi e a dimenarsi. Non
me l’aspettavo, rimasi immobile per un attimo e la prima cosa che mi passò per la mente fu: ora dico che non si scende in giardino se… Per fortuna subito, insieme, pensai
che sarebbe stata la peggiore delle idee, avrei
creato un nemico per i compagni, glielo avrei
contrapposto e reso ostile, e avrei rinforzato
il suo bisogno di contrapporsi ed esplodere.
Capii che l’unico modo per uscirne, come
sempre, era ricorrere all’aiuto dei compagni,
ed esordii con un discorso che pressappoco fu
questo: «Massimiliano si presenta a voi, forse
è un principe che dal suo trono vuole parlarvi.
Chi di voi viene a parlare con lui?».
alludevano apertamente all’imminente merenda, altri bambini che
si fingevano guerrieri e offrivano
cavalli improvvisati con le stecche… fino a che Massimiliano
tranquillamente saltò giù dalla
cattedra, e tutti insieme scendemmo in giardino come se niente fosse successo.
Chi era Massimiliano? Un ragazzo intelligente
e curiosissimo, attento e interessato ad ogni
stimolo reale, il più accorto durante le gite
scolastiche ad ogni situazione e novità, insensibile o del tutto ostile, per mesi e mesi
alle richieste “strettamente scolastiche”,
contestatore di una normale dinamica di classe: quando entrava, ad esempio, una persona
non conosciuta, facilmente si buttava in terra
e strisciava fra i banchi; quando io, o le colleghe, parlavamo, facilmente si metteva ad urlare per coprire le nostre voci. Ma non furono
mai i corridoi ad accoglierlo; ricordo di averlo tenuto stretto a me con un braccio mentre
con l’altra mano gli tappavo la bocca e continuavo a parlare, sudando e passeggiando per
l’aula, fino a che crollava di stanchezza e tornava al suo banco.
Tre anni di serenità
Per fortuna il lavoro di classe, già fin dalla
prima, era organizzato con tempi prevalenti
di lavoro a gruppi, piccoli gruppi, coppie, con
attività molto variate, molto spazio dedicato
al piano di lavoro portato avanti da ciascun
bambino secondo i suoi ritmi e la sua organizzazione.
Questo consentì a Massimiliano di lavorare
con i compagni, uno, o due, anche fuori della
classe, in biblioteca, o, ora sì anche nel corridoio, ma con una struttura consentita e organizzata.
Il suo percorso scolastico a poco a poco si
normalizzò; il foglio dei suoi testi rimase
bianco per più di un anno, poi cominciò a
riempirsi di storie e storie che
avevano per protagonisti tutti i compagni di classe, con i
loro pregi e i loro difetti, storie traballanti, confuse e ripetitive che esprimevano comunque un lavoro interiore e
un percorso notevole dal periodo della contestazione a
quello dell’isolamento fino a
quello del dialogo.
In quinta, quando progettammo che ciascun ragazzo per
l’esame avrebbe fatto una ricerca monografica sull’argomento che sceglieva, e gli argomenti furono i più disparati,
Massimiliano, che disponeva allora a casa di
un computer e di una enciclopedia informatica, portò in un solo giorno per i compagni
pagine riguardanti le loro ricerche, dal duomo
di Firenze, ai canali di Venezia, agli antichi
Egizi, alla storia del cavallo e via dicendo e si
attestò ostinatamente a voler fare un lavoro
sulle scavatrici, intorno alle quali poco riuscivamo a trovare sui libri. Non riuscimmo a dissuaderlo e a fargli cambiare argomento. Alla
fine fummo in grado di trovare, insieme, noi,
lui, i compagni, tante informazioni e ne uscì
una discreta “tesina”.
Per lui come scolaro penso che riuscimmo a
fare molto, e questo gli consentì almeno tre
anni di serenità a scuola e una certa fiducia
in se stesso; quello che non fummo capaci di
fare fu scavare veramente nei suoi problemi,
ed aiutarlo forse contro mostri che lo perseguitavano e di fronte ai quali non riuscimmo
ad avere il coraggio di combattere né avevamo forse gli strumenti per farlo.
* Bruna Campolmi, è un’insegnante attiva nel
Movimento di cooperazione educativa e autrice
di Teatro scommessa educativa. Tecniche teatrali e
di drammatizzazione per bambini ragazzi e adulti, Quaderni di Cooperazione Educativa, Edizioni
Junior, 2007, pp. 171, euro 13,20.
Attori e attrici
Il primo ad alzarsi fu Pierfrancesco, un ragazzo con doti intellettuali straordinarie, forse
compresse in un corpo che a fatica le conteneva. Si alzò e andò a parlargli con un’enfasi
e una gestualità che non gli si erano mai viste e interloquì in una sorta di sfida cavalleresca fra principi. Mi accorsi che aveva bisogno quanto Massimiliano di quello sfogo, ma
che non si sarebbe mai permesso di infrangere le regole, lui così sapiente e controllato.
Ad uno ad una seguirono i compagni, con
toni e gesti diversi: le bambine romantiche
e leziose principesse, o cuoche grassocce che
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I CORSI DI RECUPERO. LA DEMAGOGIA DI FIORONI
IN EREDITÀ ALLA DESTRA
le leggi
Per rispondere alle notizie di stampa sul livello di preparazione degli studenti italiani l’ex Ministro Fioroni aveva pensato
di reintrodurre, in modo camuffato, gli esami di riparazione.
Una novità che avevaa suscitato molte polemiche e perplessità di ordine didattico, professionale ed economico, ma anche giuridico. Ora
queste stupefacenti innovazioni
del centro-sinistra saranno gestite dal governo di destra che, grazie alle scelte del centro-sinistra,
dovrà soltanto continuare!
mente sono palesemente illegittimi, ma soprattutto stupisce la superficialità con cui il
medesimo Ministro è intervenuto su problemi
complessi che richiedono analisi più approfondite ed interventi più efficaci.
CORRADO MAUCERI
C
on il Decreto Ministeriale n. 80 del 3 ottobre 2007, dopo aver
dettato nuove disposizioni per l’organizzazione degli interventi di recupero durante l’anno
scolastico, ha previsto che nei confronti degli studenti che al termine delle lezioni non
abbiano conseguito la sufficienza, il Consiglio
di classe ove non ritenga di adottare un immediato giudizio di non promozione, procede
«al rinvio della formulazione del giudizio finale»; nel contempo deve definire gli interventi didattici finalizzati al recupero entro la
fine dell’anno scolastico. La scuola dovrà organizzare tali interventi didattici che si svolgeranno nel periodo estivo.
A conclusione di tali interventi didattici il
Consiglio di classe, «in sede di integrazione
dello scrutinio finale» procede alla verifica
dei risultati conseguiti ed alla formulazione
del giudizio definitivo.
In sostanza si ripropongono il rinvio a settembre e l’esame di riparazione, la differenza
è che prima tali interventi erano affidati al-
l’iniziativa delle famiglie
(lezioni private), con la
nuova normativa deve invece provvedere la scuola.
Con l’Ordinanza Ministeriale n. 92 del 5 novembre 2007 il Ministro
ha dato le disposizioni
attuative, prevedendo,
tra l’altro, che «nelle
attività di sostegno e
recupero siano impiegate
in primo luogo docenti dell’istituto e, in seconda istanza, si ricorre a docenti esterni e/o
a soggetti esterni, con l’esclusione di Enti
“profit” individuati secondo criteri di qualità
deliberati dal collegio dei docenti e approvati del Consiglio di Istituto». Ovviamente
l’innovazione ha suscitato molte polemiche e
perplessità di ordine didattico, professionale
ed economico, ma anche giuridico.
Si deve infatti rilevare la disinvoltura con cui
il Ministro Fioroni ha continuato a modificare
le leggi con decreti e regolamenti, che ovvia-
È fuori di dubbio che gli interventi didattici,
affidati a docenti che possono essere anche
esterni, non possono garantire un effettivo
recupero; quindi o saranno una finzione con
una promozione differita oppure una bocciatura preannunciata; nell’una e nell’altra ipotesi sono uno spreco per una soluzione di
facciata che non risolve il problema dell’efficacia del nostro sistema scolastico. Sono
necessari ben altri interventi, a cominciare
dalla riduzione del numero degli alunni in
classe.
LE DITA NELL’INCHIOSTRO
«D
i tanto in tanto qualcuno annuncia un Nuovo Rinascimento, per dirci che finalmente
dopo la crisi risorgono arti e ricchezza, benessere e ottimismo. Quasi sempre la voce viene
dal mondo dell’industria, del commercio, della finanza. Non vorremmo che del Rinascimento
tornasse il peggio, che di solito nelle scuole non si dice, e invece dovrebbe essere detto a
più chiare lettere: l’onnipotenza dei signori, il cinismo dei consiglieri, la cortigianeria degli
intellettuali, l’ignoranza e la povertà della gente comune, le carestie, i pidocchi, le malattie...
Gli stessi capolavori, che hanno illuminato il Rinascimento, li ammiriamo oggi nei musei, ma
all’epoca rimanevano nel chiuso nelle case patrizie; e il fasto visibile di chiese e palazzi era lì,
più che per la gioia degli occhi, per ribadire le differenze e il potere dei potenti. Se crescono
le distanze fra la “massa” e l’élite, fra i diritti dichiarati e quelli rispettati, non è un nuovo, ma
proprio il vecchio Rinascimento, con in più qualcosa di peggio. Questo tipo di rinascimento,
che non merita la maiuscola, non è bello. E non è bello rallegrarsi di certi ritorni». Così recita
la voce Rinascimento del capitolo Alfabeto – Umanesimo, hai detto? (gli altri due si intitolano
“Diario – Le masse sono euclideee” e Dai banchi – l’odore della scuola) del libro di Lidia
Gargiulo Le dita nell’inchiostro. Insegnare che passione (pp. 142, euro 10, Armando, Roma
2008). E di Rinascimento con la “R” maiuscola la scuola italiana ha davvero bisogno perché,
come scrive l’autrice, «Alla scuola non basta il solitario esperimento di pochi bravissimi e
silenziosi, il decoro e l’onore dell’intero corpo (insegnante) non può essere affidato ai fiori
all’occhiello».
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[
La distruzione della scuola
pubblica
INFO
Subito dopo il risultato elettorale il
CISP - Centro di iniziative per la scuola
pubblica di Roma riflette su alcuni punti
programmatici dalle nuova maggioranza
Filosofia delle donne
Fanno riferimento al libro
di Pieranna Garavaso e
Nicla Vassallo, Filosofia
delle donne, pubblicato
da Laterza, i tre videodialoghi, di Nicla Vassallo
con Claudia Mancina
(http://it.youtube.com/
watch?v=e9PDcMdwnhc)
e con Sylvie Coyaud
(http://it.youtube.com/
watch?v=WenKLAVOwLk;
http://it.youtube.com/
watch?v=XR01HbM9Afw),
girati da Serafino Amato, a
Spoletoscienza.
C
i accingiamo ad assistere alla definitiva distruzione della scuola pubblica.
I passaggi cruciali di questa distruzione sono sintetizzati nei seguenti punti programmatici della nuova maggioranza:
1. ogni istituito potrà scegliere almeno la metà del proprio corpo docente;
2. le scuole saranno avviate ad una maggiore autonomia nella prospettiva del sistema nazionale integrato pubblico-privato (già previsto nella legge morattiana
27/2006, in parte attuata nel Regolamento del ministro Fioroni recentemente impugnato dall’Associazione Nazionale “Per la Scuola della Repubblica”)
3. la scuola sarà riformata secondo il principio della sussidiarietà orizzontale con
la prevalenza delle scelte dei cittadini su quelle dello Stato e si punterà a superare
quello che è stato definito il “falso mito della scuola unica” e ad abolire il valore
legale del titolo di studio.
Da questi punti programmatici deriverà che:
1. Sarà consentito ad ogni dirigente scolastico nominare in via diretta la metà del
corpo docente. Ciò significa in primo luogo determinare un’evidente disparità nel
regime delle assunzioni, disparità inconciliabile con l’uguaglianza dei diritti di chi
nel settore pubblico esercita le medesime funzioni; significa creare un “mercato”
delle assunzioni, mettendo in atto una sorta di gara tra le scuole per procurarsi docenti che godono di “buona fama”, ma anche, più semplicemente, alimentare clientelismi che si ritenevano superati per sempre. La “raccomandazione” o i “rapporti
privati” se fin qui venivano considerate modalità che ripugnano alla coscienza collettiva, sarebbero – con un simile provvedimento – trasformati in “sistema”, ovvero istituzionalizzati e sostituirebbero i criteri oggettivi di valutazione oggi vigenti,
che hanno fin qui garantito non soltanto un accesso democratico all’insegnamento
ma soprattutto hanno garantito la libertà d’insegnamento.
La competenza e la capacità dei docenti “scelti” serviranno a tranquillizzare i genitori circa la qualità della scuola prescelta: una scuola seria, in cui i docenti “valgono” e viene premiato il merito degli alunni. La denigrazione dei docenti “imposti”
dalla graduatoria non potrà non avere conseguenze sugli assetti interni, e ricadute
sulla loro considerazione da parte di alunni, genitori (forse anche colleghi…) con
rischi di demotivazione per molti docenti. Cosa ha a che vedere tutto ciò con la
qualità di una valida formazione rivolta a tutti i docenti?
2. Proclamare la necessità di una maggiore autonomia delle scuole ha come falsa giustificazione la risposta ad esigenze di funzionalità e di democrazia. Ciò non
corrisponde al vero. Quando si sostiene che la maggiore autonomia serve ad adeguare, sotto il profilo funzionale, gli interventi didattico–educativi alle diverse
realtà locali, significa accettare che gli interessi collettivi del gruppo più forte
prevalgano sugli interessi dei gruppi minoritari che non riusciranno a trovare uno
spazio sufficiente per sopravvivere, e che valori condivisi a livello nazionale e rispecchiati nella nostra Costituzione possano essere tranquillamente negati da localismi insorgenti.
Verrebbero così meno le garanzie che hanno fin qui consentito l’integrazione del
sapere individuale con il sapere collettivo nella valorizzazione delle differenze e la
creazione di una cultura laica e liberale, scevra da qualsiasi federalismo culturale.
Certamente sarebbe stato possibile passare dal centralismo ministeriale a un’autonomia scolastica indice di autentica democrazia, ma ciò avrebbe richiesto l’attuazione dell’autonomia dell’intero sistema formativo, ben altra cosa rispetto alla
limitata autonomia competitiva delle singole scuole…
Ma ciò non è avvenuto!
3. Solo se si manterrà l’uniformità a livello nazionale dei programmi e dei criteri di valutazione sarà garantito il diritto allo studio e alla libertà d’insegnamento.
Diversamente avremo una scuola che vedrà aumentare le possibilità di penetrazione nel tessuto sociale da parte di organizzazioni esterne le cui finalità non possono
coincidere con l’unicità della funzione formativa della scuola della Repubblica.
La “normalità
del razzismo”
Nel suo libro, Lessico del
razzismo democratico:
le parole che escludono (DeriveApprodi, 2008, pp.
140, euro 10), Giuseppe Faso ci mette in guardia
sui rischi delle descrizioni superficiali di fenomeni
sociali complessi e lo fa attraverso le parole scritte
e pronunciate nella nostra quotidianità: articoli,
chiacchiere intercettate nei bar, documenti della
pubblica amministrazione.
Apprendere insieme
Dal 24 al 29 agosto 2008, si tiene a Capodimonte
(VT) C’e’ chi dice no!. Educare creando contesti
per apprendere insieme, XVI corso residenziale di
formazione realizzato dall’equipe Scuola Estiva del
Movimento di Cooperazione Educativa.
Per informazioni: MCE di Venezia, tel. 041.952362,
[email protected]; MCE di Portogruaro, tel.
0421.71645, [email protected]; MCE di Roma, tel.
06.4457228, [email protected]; www.mce-fimem.it.
L’estate a Cenci
Dal 29 giugno al 5 luglio 2008: “Villaggio educativo”,
7 giorni e 7 notti per partecipanti dai 7 ai 70 anni.
Dall’1 al 10 luglio: Nella natura, campo estivo per
ragazzi da 8 a 15 anni, organizzato in collaborazione
con la cooperativa sociale Cipss.
Dal 21 al 27 luglio: Tempo
e presenza, laboratorio di
ecologia teatrale proposto
da Jairo Cuesta e Jim
Slowiak.
Dal 5 al 15 agosto: Incontro
con l’India. La ricerca delle
sorgenti (informazioni
Abani o Eleonora, tel.
06.6386131, e-mail
[email protected];
[email protected]).
Dal 18 al 22 agosto: Nell’atto del creare, pratiche
vocali a partire dalla ricerca antropologica sul canto
sciamanico e dall’esperienza del Teatro Laboratorio
di Jerzy Grotowski (informazioni Ewa Benesz, tel.
368.684180 - 339.2273126).
Dal 19 al 21 settembre: L’officina matematica di Emma
Castelnuovo, laboratorio operativo per la costruzione
di strumenti didattici rivolto ad insegnanti di scuola
elementare e media.
Per informazioni: Casa-laboratorio di Cenci,
associazione educativa, culturale ed artistica,
strada di Luchiano 13, 05022 Amelia (Terni), tel.
0744.980330 - 339.5736449 - 338.4696119, e-mail
[email protected], www.cencicasalab.it/cenci.
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nuovi arrivi
PROVARE A
LEGGERE IN
RAP
LIDIA GARGIULO
L
a scuola e la cultura
al centro delle mie giornate, mi sono sempre intesa con gli alunni. Ma dopo
quattr’anni all’estero, lettrice all’università, vedo tutto
cambiato, difficile, indigesto. Ma sospendo il giudizio, voglio capire, servirà
forse a stare insieme, tentare almeno.
A 15 minuti da Milano.
Periferia. Mi chiedo a volte il senso, i rapporti di lingua con reale. In ciascuno
di noi dove sta il centro, dove la periferia? Tra
loro e me non è la stessa la graduatoria dei
valori: ciò che io lascio al margine, per loro è
al centro. E nella loro testa io dove sto?
Sono 21 tra i 16 e i 18, la maggioranza maschi,
terza dell’Istituto Commerciale Professionale
per il Turismo. Periferia: ci trovi il meglio e il
peggio dell’umanità, fusione, confusione, laboratorio del cambiamento. Chissà se forse è
questo il centro della storia.
Da dove cominciare: metterli al centro del
mio sguardo, mandare al margine le idee, le
mie. Li metto a fuoco: passata è la tempesta
dell’adolescenza, non hanno quindici anni,
eppure sono inquieti, scalmanati. Passano
senza salutare davanti al preside, ai bidelli,
ai miei colleghi, arrivano in ritardo «perché
fa freddo», «perché fa caldo», «non lo so perché», in verità perché non è un valore la puntualità; si fanno festa voltandomi le spalle
come se non ci fossi, il centro sono loro e il
cellulare, ed io periferia.
«Questo possiamo fare contro la dispersione
–ha detto il preside – accoglierli, sapere dove
stanno, cosa fanno. A me degli insegnanti
non importa niente, m’importano i ragazzi;
la disciplina è un lusso, quando risolveremo il
resto verrà la disciplina».
Nella periferia dell’attenzione, io che ci faccio qui?
Un nome senza storia
Steve Carreras: un viso levigato tra queste
facce ruvide, cara da indio, dorata con la luce
filtrata di foresta e il fango della selva; la calma asciutta delle membra, lunghe quel tanto
che basta al movimento tra i corpi esuberanti
dei compagni, la loro forza senza direzione,
le voci urlanti.
Entra il bidello: quattro dal fondo scatta-
no incontro: «Ambrogio, oilà», «Che ci porti di bello?», «Con questa sciarpa sei proprio
scic», «Sta’ che ti sparo l’istantanea». «Vieni
a vederti, Ambrogio, sembri un cummenda».
Carreras Steve ripete l’anno la seconda volta,
e dunque è in prima classe per la terza volta.
Che c’è nella tua testa, Steve? Tu stai pensando: Che bella l’amicizia che fa stare insieme,
un amico è importante alla mia età.
Steve Carreras è nato qui, quindi è italiano.
Ma che vuol dire Italia quando la mamma parla spagnolo come in Sudamerica? Dov’è l’Italia se i genitori stanno ancora in coda per la
cittadinanza? Periferia che cerca il centro. Il
nome stesso sarebbe Estèban come il nonno,
ma “Steve” fa Primo Mondo, è scic, è glob e
favorisce il blog. Salvo che mentre il nome fa
un passo verso il centro, il nonno Estèban, il
«padre di mio padre» va verso la periferia della memoria, e così pure il santo protettore, il
senso di quel nome e la corona. Un nome senza storia “Steve”, periferia del cuore.
La storia del mio nome
Argomento per la prossima lezione: “La storia
del mio nome”. Trovare il centro dentro, vicino a sé...
Chissà se tace per educazione o solo per mancanza di abitudine. Periferia di questa classe Steve, al centro del mio sguardo. Ma stamattina un passo verso il centro: il nero dei
capelli brilla, “scolpito” con il gel, si è pettinato come gli altri. È una domanda di ammissione al branco.
«Lavori, Steve?».
«Sto in formazione da un parrucchiere e centro estetico, a scuola vengo perché obbligato».
«Non ti piacciono i libri?».
«Non mi servono, creo, credo».
«Perché?».
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Esperancia la mamma: «Faccio trabajo de limpieza, pulizie da un avocado, tengo che…
sono venuta per segreteria e saludare profesora [me]. Questi ragazzi poco educati.
Quando iero a scuela tenevo respeto par maestri, la escuela como iglesia, sagrada, in silenzio par escuciar, per ascoltare».
Steve sorride della sua mamma poco moderna e intanto scambia occhiate con l’amica
Deborah.
«Mi chiamo Deborah con l’acca, l’acca è importante, chi non ci mette l’acca fa un errore». Questo mi ha detto il primo giorno dell’appello. (Così anche l’acca, che non ha mai
contato, ha conquistato il centro). Deborah
con l’acca mi confida: «Sono molto contenta del mio corpo, lo curo tutti i giorni con
massaggi e step». «E quando studi?». «Studio
così, segnora, io col mio corpo faccio pubblicità, un giorno avrò un salone estetico». «E
il diploma?». «No serve scuola, ganare serve,
guadagnare. No como ermana, mia sorella, no
porta scollature, la notte dorme con segnora sola».
Il corpo al centro, un corpo senza mente. Ma
com’è falsa una mente senza corpo. Sarà possibile un corpo con la mente, una mente nel
corpo?
«E tu Patrik che farai dopo il diploma?». «Non
prenderò il diploma, voglio fare il concorso
per cantanti alla tivù. Il finalista quest’anno
ha un premio di trecentomila. Con questi soldi produco il primo disco».
Io mi recito versi
Periferia: al centro l’immaginazione, le illusioni, per relegare ai bordi l’esistente.
«Volete diventare tutti ricchi?». «Sììììì!!».
«Ricchi, ricchi». «Le vacanze al caldo»,
«Viaggiare». «Andare in grandotel». «Col fuoristrada». «Ci sono i ricchi e io divento ricca». «Anche col tradimento di te stessa?».
«È tradimento se non divento ricca». «Allora
io sono poveraccia. Ti sembro poveraccia?».
«Non so». «Ascolta. Immaginiamo una stazione. È notte, il treno non arriva, c’è un
blackout. Non c’è campo per telefonare, non
c’è luce, non c’è musica, niente, solo aspettare. Tu che fai?». «Io mi addormento, cerco un posto e mi addormento». «Ma perdi
un pezzo della vita». «E lei?». «Io mi recito
versi. So a memoria i poeti e non mi sento
sola, sono con un poeta, ogni volta è diverso.
Aprite la vostra antologia». «Non ce l’abbiamo». «Torniamo a prima. Dunque dicevo, siamo nella stazione. Voi dormite, io mi concentro: Verrà un giorno che il giovane dio sarà un
uomo… Questo è Pavese, vi piacerà».
Le prossime lezioni: gli spazi di dentro e la memoria. Fotocopiare: di Primo Levi le pagine sul
canto di Ulisse, di Cesare Pavese Mito, di Italo
Calvino l’intervista di dicembre del’ 79: «…
nel Duemila che si avvicina, tra le cose che ci
aiuteranno, avere a mente brani di autori che
abbiamo amato».
note in condotta
«Non si guadagna».
C’è un altro tipo di guadagno, ne dovremo parlare. Quali parole troverò?
DOPO IL VENTO,
DOPO LA BUFERA
ANDREA BAGNI
A
parlare del 25 aprile sono venuti nella mia scuola due vecchi
partigiani. Quando s’andiede sulle montagne s’eramo in pochi all’inizio a
combattere; quando ci rastrellonno fu un macello. Parlano così dalle mie
parti i vecchi. Come mio nonno e mio padre. Mentre raccontano si commuovono, ricordano i compagni perduti, prima il cognome poi il nome,
perché sentono la sede ufficiale forse; cantano pezzi delle loro canzoni. Dicono sempre che sono felici di avere tanti giovani davanti: li abbracciano con gli occhi, come li accarezzassero, come vedessero tutto
insieme il Nuovo Mondo. E non gli fosse proprio possibile smettere di
avere speranza. Si capisce che sono anni che quello è il compito della
loro vita: lasciare una memoria, trasmettere il testimone. Guardano indietro ormai, a quello che è stato il loro tempo, il senso della loro esistenza – che un senso l’ha avuto e bello forte. Avanti forse c’è poco da
guardare.
Ma in aprile a scuola sembrava tutto più amaro. All’indomani delle elezioni, certo, e tuttavia non solo per questo. Non per il passare del tempo ma per il passare del futuro. Non è che le ragazze e i ragazzi non
ascoltassero, anzi. Chi racconta, racconta non spiega, è tutt’altro che
un professore, il suo discorso è lontanissimo dai manuali di storia. E
appassiona. Tanto che anche qualcuno dei giovani si commuove. Ma
non ho chiaro dove la collocano quella storia nella loro mente, come la
archiviano nella memoria. Partecipano intensamente ma ho paura che
ascoltino come il bambino di Guccini di fronte al vecchio: mi piaccion
le fiabe raccontane altre... Sanno ovviamente che è tutta storia vera,
ma temo appartenga per loro a un mondo mitico, pieno di fascino ma lontano: quando le montagne erano verdi e ci si andiede per liberare l’Italia e s’aveva solo le rivoltelle
neanche i fucili. Poi si leggono alcuni brani delle Lettere dei condannati a morte della
Resistenza, e il salto del tempo – del futuro – è ancora più evidente. Straziante, quasi.
Ragazzi di diciassette anni scrivono alle mamme che muoiono felici perché lo fanno per
un’idea, hanno combattuto per una causa giusta: il comunismo, la libertà, la fratellanza. Il futuro. La nostra Italia mamma vedrai sarà diversa; ricordami ai fratelli e alle sorelle
e non siate tristi pensando a me, io muoio felice. Giustizia, fratellanza, comunismo: che
cosa significheranno per i giovani d’oggi non è mica facile dire. Il materiale si è separato dall’immaginario. La propria vita, i problemi e le sofferenze, da un ordine simbolico
che le poteva spiegare e collocare in un quadro di liberazione. Potevi portare tutta la
tua storia e narrarla dentro un pensiero e una pratica collettiva. Crescere oggi, invece,
mi pare un bel casino. Ci penso quando riascolto ogni tanto le canzoni di lotta dell’Istituto De Martino: tema della non-violenza del tutto fuori orizzonte, spesso si canta l’essere parte di un esercito in guerra - ma quanta passione ed entusiasmo, quanta speranza nella vittoria. Anzi più che speranza, certezza incrollabile. Forse non mi corrisponde
più tanto, però penso che sono cresciuto con questa idea, che il futuro era nelle nostre
mani. Che potevamo cambiare il mondo. Nelle ragazze e nei ragazzi di oggi mi accorgo
talvolta di una specie di nostalgia e d’invidia. Anche del ‘68. In quegli anni, profe, facevate davvero un sacco di cose, eravate importanti, vi ascoltavano.
Da dove ripartire oggi, cosa dire agli operai della Lega – vi occupate solo di froci e zingari, perché dovremmo votarvi – che non sia solo predica di valori? Forse tocca ripartire da questo grado zero della storia. Dal mutuo soccorso, orizzontale, capace di piccole liberazioni in spazi ravvicinati ma non di nicchia, su cui ricostruire rappresentanza e
tutto il resto. In fondo le donne partigiane che hanno raccontato la “resistenza taciuta”
hanno parlato di rapporti di gruppo intensi, di cura dei corpi e dei morti, cioè del tessuto simbolico che fa una comunità. Di relazioni nuove che dovevano prefigurare un’altra
Italia: quella Patria scritta con la maiuscola, per amore e immaginazione. Per la rappresentanza e una nuova forma della politica penso ci vorrà tempo – e molta immaginazione. Non avremo la certezza del sole dell’avvenire ma può avere senso anche la ricerca di
qualche raggio nel presente. Aperto, per quanto difficile. E intanto fare società potrebbe
spostare qualcosa nella vita d’intorno, dove imperversano rastrellamenti che delle montagne verdi fanno un deserto di solitudine in cui cresce di tutto. Chiaro che i due partigiani saprebbero come rispondere alla crisi. Infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna
andar. Per loro noi che le scarpe ce l’abbiamo, e di lusso, non abbiamo scuse. Va a spiegarglielo che sono le nostre teste incasinate a non sapere bene dove andare.
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M
appamondo
CINA L’anno del topo ( iniziato il 7 febbraio
2008) doveva segnare i trionfo delle Olimpiadi. Si
sta invece trasformando in un anno terribile: dai
cambiamenti climatici alla crisi in Tibet, dalle
manifestazioni su scala globale contro la fiaccola
olimpica fino al devastante terremoto di maggio
Olimpiadi, Tibet e diritti umani
CELESTE GROSSI
«A
ssegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei
diritti umani». Con questa frase, che di fatto ammette l’esistenza di
violazioni, Kiu Jingming, vicepresidente del Comitato olimpico di
Pechino, convinse il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare
alla Cina i Giochi del 2008.
Ma manifestazioni a favore del Tibet e di denuncia nei confronti della
Repubblica Popolare Cinese si sono svolte in tutti i paesi al passaggio
della fiaccola olimpica. E molti sono gli inviti al boicottaggio delle
Olimpiadi di Pechino. In tutto il mondo, però, c’è anche chi pensa che
le Olimpiadi possano servire davvero a favorire il rispetto dei diritti
umani e chiede ai propri governi e alla comunità internazionale di utilizzare questa occasione per ottenere dalla Repubblica Popolare Cinese
la salvaguardia dei principi della libertà di parola, di espressione, di
eguaglianza tra i cittadini e la fine delle repressioni delle manifestazioni che in modo nonviolento continuano a chiederne la garanzia.
Da circa 60 anni gli uomini e le donne del Tibet – già provati dalle
norme fuori dal tempo imposte da uno stato teocratico – sopportano privazioni e maltrattamenti da parte dell’occupante cinese e vivono in uno stato di costante paura, intimidazione e sospetto. Ma non
hanno rinunciato alla propria cultura e continuano a mantenere viva
la propria aspirazione alla libertà. Dal 2002 rappresentanti del Dalai
Lama e del governo tibetano in esilio hanno avviato colloqui con la
Repubblica Popolare Cinese senza ottenere alcun risultato concreto.
Al contrario, negli ultimi anni, il Tibet ha assistito ad un aumento di
repressione e brutalità.
Il 6 marzo 2008, il Presidente cinese Hu Jintao ha dichiarato: «Stabilità
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e sicurezza in Tibet significano stabilità e sicurezza nel paese». Solo
4 giorni più tardi, il 10 marzo, sono iniziate le sanguinose repressioni
delle manifestazioni – che si sono svolte a Lhasa e in altri centri, in
concomitanza del 49° anniversario della pacifica insurrezione del popolo tibetano –, per chiedere la garanzia del rispetto dei diritti umani
per la minoranza locale e per tutte le altre presenti nella Repubblica
Cinese. L’esercito cinese ha sparato sulla folla che sfilava pacificamente per le strade adiacenti alla zona sacra di Lhasa e i monasteri, rifugio dei manifestanti, sono stati messi sotto assedio.
L’immediata espulsione dei giornalisti stranieri ha reso impossibile
un’informazione indipendente su quanto accade in Tibet dove dal 10
marzo vige una censura delle notizie che ha reso e rende estremamente difficoltosa la diffusione degli accadimenti. Ma la Cina non è riuscita, comunque ad oscurare il fatto che la protesta pubblica è proseguita con un conseguente aumento del numero di vittime.
Nessun governo ha chiesto sanzioni formali contro la Cina.
Diversamente da quanto accadde nel 1989 per le proteste di Piazza
Tienanmen, i governi dell’occidente hanno mantenuto un atteggiamento moderato per non compromettere i rapporti con un paese la cui
influenza economica e politica nel mondo è cresciuta enormemente
negli ultimi 20 anni.
Recentemente la comunità internazionale è riuscita a ottenere l’apertura di un confronto tra autorità del governo cinese e rappresentanti
del Dalai Lama, una novità sicuramente positiva, che non basterà se
contemporaneamente non si riuscirà a ottenere anche un’inchiesta indipendente sui tragici avvenimenti in Tibet.
facciamo pace
CINA E TIBET: FUTURO NONVIOLENTO
La lotta nonviolenta richiede pazienza,
determinazione e molta coerenza per
trasformare il conflitto, ovvero trasformare
attori, strutture, culture. Non ci sono facili
scorciatoie e così come la lotta in India è
durata oltre mezzo secolo e in Sudafrica
oltre un secolo, non ci si può aspettare
che nel caso del Tibet si riesca a proceder
molto più speditamente. La trasformazione
investe non solo il Tibet, ma un paese di
oltre un miliardo di persone, appena uscito
da una storia difficile e complessa. Sta
anche a noi favorire questa transizione
esplicitando sempre più cosa intendiamo
per cultura della nonviolenza e inventando
man mano “strutture
internazionali
nonviolente”. Un
cammino ancora
lungo e impervio,
ma possibile
e indispensabile.
Ripartiamo da Gandhi
NANNI SALIO *
A
nche a scuola potremmo esaminare il
conflitto tra Cina e Tibet a partire dai “cinque
punti” che Galtung ha individuato come essenziali nell’esperienza delle lotte gandhiane
(“Gandhi e la lotta contro l’imperialismo: cinque punti” (vedi www.cssr-pas.org/notizia.
php?id_notizia=883).
Questo è pertanto uno degli obiettivi fondamentali che il movimento internazionale della pace e tutte le forze politiche e religiose
interessate alla questione, debbono proporsi: continuare a premere sul governo cinese
affinché accetti di avviare un dialogo con la
controparte tibetana.
Punto 1: Non temere mai il dialogo
È quanto va dicendo e cercando da tempo il
Dalai Lama, con grande pazienza e tenacia
[Ndr. Le autorità cinesi che sinora si erano negate, sotto i riflettori accesi per le Olimpiadi
sembrano ora disponibili ad avviare negoziati]. La disponibilità al dialogo non è mai
qualcosa di semplice e scontato e quando non
c’è va sostenuta da parti esterne. La richiesta
di dialogo è sostenuta da tempo dai più autorevoli studiosi (Tashi Rabgey, China and the
Dalai Lama must negotiate, www.taipeitimes.
com/News/editorials?pubdate=2000-11-06,
Tsering Shakya, Solving the Tibetan Problem.
Before it’s too late, China and the Dalai Lama
musr teach a compromise, www.time.com/
time/asia/magazine/2000/0717/tibet.
viewpoint.html) e un invito al dialogo è rivolto esplicitamente nella Lettera al governo
cinese in 12 punti sulla situazione in Tibet,
sottoscritta in questi giorni da diversi intellettuali cinesi, tra cui il noto dissidente Wang Lixiong (www.lettera22.it/showart.
php?id=8750&rubrica=59).
Punto 2: Non temere mai il conflitto: è
un’opportunità piuttosto che un pericolo
Il conflitto in Tibet esiste e non può essere
nascosto sotto la cenere, dove anzi rischia di
covare sino a nuove esplosioni di violenza.
L’analisi del conflitto e le proposte di soluzione e mediazione sono state oggetto di riflessione da parte di Transcend e sono state pubblicate su Azione nonviolenta, nel novembre
2004, insieme a un contributo sulla “montagna sacra”, il Kailash, montagna di pace immersa in un oceano di violenze.
Punto 3: Impara la storia, o sarai destinato a ripeterla
Come tutte le vicende storiche, anche quella
del Tibet è controversa e alcuni punti sono
tuttora oscuri. Esistono tuttavia alcuni buoni contributi scritti da autorevoli studiosi,
ai quali si può fare riferimento per avere un
quadro sufficientemente preciso della questione. (Si veda ad esempio: Wang Lixiong,
“Reflections on Tibet”, New Left Review 14,
march-april 2002, http://newleftreview.org/
A2380 e la replica di Tsering Shakya, “Blood
in the snows”, New Left Review 15, may-june
2002, http://newleftreview.org/?view=2388.
Di questo stesso autore si veda: Tibet. Il fuoco sotto la neve, Sperling & Kupfer, Milano
2006, scritto insieme a Palden Gyatso).
I punti più controversi riguardano la natura
dello stato teocratico tibetano, prima dell’invasione cinese, che aveva creato una condizione di gravissimo sfruttamento della popolazione contadina più povera, e il ruolo che
ampi settori della popolazione ebbero durante l’invasione e nel successivo periodo della rivoluzione culturale, schierandosi a favore
dei cinesi.
Punto 4: Immagina il futuro, o non ci arriverai mai
Nonostante alcuni indubbi miglioramenti nel
livello di vita dei tibetani, la politica cinese
non è riuscita a conquistarne il consenso. A
più riprese, ciclicamente, sono
esplose forti contestazioni. Il
tentativo di sradicare il sentimento religioso profondamente
presente nella popolazione, insieme alla demonizzazione del
Dalai Lama hanno sortito effetti contrari. A tutt’oggi, la proposta più significativa per il
futuro delle relazioni tra Cina
e Tibet è quella, già citata,
avanzata da Transcend (Johan
Galtung, “Il conflitto tra Cina e
Tibet: una prospettiva di soluzione”, Azione Nonviolenta, novembre 2004) che prevede una federazione
che comprenda anche le altre regioni oggetto
di conflitto (Taiwan, Xinjang, Mongolia interna, Hong Kong), ognuna delle quali godrebbe di una ampia autonomia. Per facilitare la
possibilità di giungere a questa soluzione, è
necessario agire con determinazione e cautela, evitando di creare ostilità preconcette e
arroccamenti da parte cinese.
Punto 5: Mentre combatti contro l’occupazione, pulisci anche casa tua!
Così come Gandhi lottò contro il sistema castale indiano e contro la discriminazione delle
donne, anche i tibetani debbono riconoscere
che «il lamaismo fu brutale e che la Cina ha
anche aspetti positivi» (Galtung).
Per quanto riguarda la politica internazionale, non ci si può certo aspettare che siano gli
Usa a richiedere il rispetto dei diritti umani e
il dialogo in Cina, visto quanto stanno facendo in varie parti del mondo e soprattutto in
Iraq. È semplicemente scandaloso che si punti il dito contro la Cina, quando gli Usa hanno invaso l’Iraq con motivazioni pretestuose
e false e hanno provocato la morte di un milione di iracheni. La “pulizia in Occidente” è
condizione necessaria per poter esigere che
anche la Cina faccia altrettanto.
* L’articolo è stato pubblicato anche su Azione non
violenta e sulla news “La non violenza è in cammino” del Centro di ricerca per la pace.
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SCUOLA SUDAMERICANA
Intervista sulla scolarizzazione di
massa a Evo Morales, primo presidente
indigeno della Bolivia Presidente
campesino FRANCESCA CAPELLI
U
n’infanzia poverissima e un passato come dirigente sindacale dei cocaleros, i coltivatori di coca (pianta che, allo stato naturale,
non ha nessuno effetto psicotropo e necessità di vari passaggi chimici
per trasformarsi in cocaina). Come altri leader sudamericani (Castro,
Chavez e, in passato, Allende), Evo Morales è per gli Stati Uniti qualcosa a metà strada tra l’incubo e l’ossessione per il comunismo. Ma
le sue riforme, più che ispirate ai principi del marxismo europeo, si
basano sull’antico codice morale indigeno, aymara per la precisione:
“Ama sua, ama lulla, ama quella”. Ovvero, “Non rubare, non mentire,
non essere pigro”. Principi che lui stesso porta avanti, con uno stile
di vita sobrio e il lavoro a favore del suo paese, in nome della giustizia sociale, della soluzione pacifica dei conflitti, della solidarietà
(per questo lo scorso anno le Madri di Plaza de Mayo lo candidarono
al premio Nobel).
Gli obiettivi del suo governo? La lotta alla povertà e all’analfabetismo.
Lo abbiamo incontrato a Rimini, in occasione della XXIII edizione delle giornate di studio del Centro Pio Manzù.
Presidente, lei punta molto alla scolarizzazione di massa. Come
garantirà l’accesso all’istruzione agli strati più poveri della popolazione?
Provengo da una famiglia campesina (contadina). Eravamo sette fratelli, ma siamo sopravvissuti solo in tre. Un tempo gli indigeni (aymara come me, quechua o guaranì) non potevano studiare. Prima era
proibito dalla legge, con il taglio delle mani e dei piedi e l’accecamento. Poi è stato proibito dalla povertà. Fino a che è arrivata la scuola
anche per noi, ma solo la primaria. Passavamo 7-8 anni nella stessa
classe, per andare avanti dovevamo trasferirci in un’altra città, da raggiungere ovviamente a piedi. E nel fine settimana si tornava a casa per
lavorare nei campi. A mia sorella maggiore, in quanto femmina, non
è stato nemmeno permesso di studiare. Nel 1971, in piena dittatura,
fui tolto dalla scuola perché, a causa di una siccità, dovetti partire
con mio padre alla ricerca del cibo. Fu allora che vidi un autobus per
la prima volta. I passeggeri buttavano bucce d’arancia dai finestrini e
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noi le raccoglievamo per mangiarle. Ecco perché questo tema mi vede
tanto coinvolto. L’analfabetismo è un flagello, riproduce la schiavitù
delle persone senza diritti, alla mercé dei grandi latifondisti. Così abbiamo inventato una forma di sostentamento per le famiglie che mandano a scuola i bambini, il buono “Juancito Pinto”, intitolato a un
nostro eroe nazionale della guerra del Pacifico (1937-1945), un bambino di 12 anni.
E da dove arrivano i soldi?
Dalle nostre risorse naturali, gli idrocarburi. Non ho mai capito perché lo stato dovesse perdere la titolarità di queste risorse, come hanno fatto i governi che mi hanno preceduto e hanno privatizzato gli
idrocarburi. Io li ho rinazionalizzati. Il buono “Juancito Pinto” è poca
cosa, 200 bolivianos all’anno (poco più di 17 euro), ma per una famiglia povera può essere una cifra significativa per l’acquisto di libri
e altro materiale, soprattutto perché è garantito per tutta la durata
della scuola primaria.
A proposito di privatizzazioni, lei ritiene che l’istruzione debba essere solo pubblica?
In Bolivia ci sono scuole private e il governo le rispetta, ma riteniamo
che il nostro dovere sia sostenere con soldi pubblici la scuola pubblica.
Che cosa sta facendo per permettere alle persone di uscire dalla
povertà?
La situazione degli anziani è molto difficile. Infatti, solo il 20 per cento della popolazione anziana ha una pensione in Bolivia, gli altri continuano a lavorare o non hanno reddito. Da gennaio 2008 tutti i cittadini oltre i 60 anni hanno diritto a una pensione. E abbiamo attivato
convenzioni con le banche per una rete di microcredito per piccoli e
medi imprenditori e aziende familiari, che fino a ora si indebitavano
con usurai. Infine, grazie a Cuba, facciamo operare gli anziani affetti
da cataratta. In questo modo, recuperano la vista e possono persino
imparare a leggere.
La Bolivia di Morales
Indipendente dalla Spagna dal 1825, la Bolivia ha una storia travagliata,
legata a periodiche svolte autoritarie e colpi di stato militari. Il governo è
tornato stabilimente nelle mani dei civili nel 1985, dopo 15 anni di regime
militare del generale Hugo Banzér Suàrez. Evo Morales è presidente della
Bolivia dal gennaio 2006. Il Mas (Movimento al socialismo), il suo partito,
ha ottenuto 139 seggi sui 255 all’Assemblea costituente che ha aperto
i lavori nell’agosto 2006. Nel febbraio 2007, dopo mesi di tensione e
la minaccia di secessione da parte dei ricchi dipartimenti “di pianura”,
l’opposizione ha ottenuto che gli articoli della Costituzione vengano
votati a maggioranza dei due terzi e non a maggioranza assoluta, come
avrebbe voluto Morale. Ciononostante, a fine 2006 è passata la riforma
agraria, osteggiata dai latifondisti. Morales, come il venezuelano Hugo
Chavez, ha rifiutato di firmare il Trattato di libero commercio con gli Usa,
motivando questa scelta con il fatto che tale accordo avrebbe favorito
le multinazionali e “strozzato” le cooperative e i piccoli produttori. In
alternativa ha sostenuto la proposta di accordi multilaterali su basi eque.
Ha dichiarato: «Il nostro obiettivo è rifondare la Bolivia su basi etiche ma
anche economiche. Per farlo abbiamo nazionalizzato gli idrocarburi». I
risultati? Nel 2005
lo stato ricavava
dagli idrocarburi
300 milioni di
dollari all’anno.
Oggi nelle casse
pubbliche ne entrano
1600, distribuiti
tra amministrazioni
locali, università,
tesoro. «Il succo di
questa esperienza
– spiega – è che le
risorse naturali non
devono mai essere
privatizzate».
Evo Morales
Ritiene che le risorse naturali siano il primo patrimonio di un paese. Che cosa fa per proteggerle?
Appartengo alla cultura indigena, che non sfrutta la natura in modo
selvaggio, perché sa che questo porterebbe alla distruzione di tutti. Non credo che se il governo tutela l’ambiente ostacoli lo sviluppo
economico. Ho un grande rispetto per gli imprenditori, perché creano posti di lavoro, ma questo non può mettere in secondo piano la
necessità di proteggere l’ambiente. Per la cultura indigena la Terra è
un organismo vivo, la cosiddetta Pachamama. E proprio pensando al
mondo come a qualcosa di vivo, vorrei che il mio paese non dipendesse solo da risorse non rinnovabili, come gli idrocarburi, appunto. Quando parliamo di energie, parliamo del calore della terra, della
luce del sole, della forza dell’acqua, fonti che non si esauriscono. Se
invertissimo la rotta e smettessimo di saccheggiare in modo irrazionale le risorse, a beneficiarne non sarebbe solo il nostro paese, ma
tutta l’umanità.
Lei è stato un dirigente sindacale dei cocaleros. Qual è il suo atteggiamento nei confronti del commercio della foglia di coca?
Io sono debitore della foglia di coca, strumento che ha portato me
e altri campesinos al governo. Per quanto riguarda la mia linea politica, sono a favore di una coltivazione controllata, con una grande
trasparenza e partecipazione sociale per evitare la vendita ai narcotrafficanti. Ma non trovo giusto pretendere l’eradicazione, la coca
fa parte della nostra cultura. E soprattutto non è giusto far passare
i piccoli agricoltori come trafficanti e gli indigeni che masticano la
coca come tossicodipendenti. Il narcotraffico è sostenuto dalla domanda illegale di stupefacenti, non dal consumo tradizionale che
i boliviani fanno di questa pianta. La penalizzazione del consumo
(come foglia da masticare o come infuso) crea un danno storico al
mondo indigeno, equivale a mettere agli arresti domiciliari un’intera
popolazione. Ma al tempo stesso va combattuto il traffico illegale.
Per questo ho fatto una legge per eliminare il segreto bancario, perché è qui che si nascondono le grandi fortune del narcotraffico.
INFO
Annaviva
L’Associazione “Annaviva” si occupa della situazione socio-politicoculturale dell’Est-Europa e appoggia iniziative per la diffusione, lo
sviluppo e la tutela della democrazia e dei diritti umani in Russia
e nello spazio ex-sovietico, cercando di tenere viva la memoria di
Anna Politkovskaja la coraggiosa giornalista che ha pagato con la
vita per il suo lavoro di documentazione e divulgazione di verità assai scomode. Uno degli strumenti utilizzati per questo dall’associazione è il cortometraggio-documentario Anna Politkovskaja, concerto per voce solitaria realizzato a Mosca da Ferdinando Maddaloni.
Per saperne di più: www.annaviva.com, [email protected].
I cittadini della media
È scaricabile dal sito della Televisione della svizzera italiana
[http://www.rtsi.ch/trasm/storie/] il documentario I cittadini della media (54’) della collana Storie dedicato alla Scuola media di
Stabio (Ticino).
Il servizio di Danilo Catti offre uno sguardo su una scuola svizzera
esaminata per un intero anno a partire da una “Giornata progetto”
che, come chiarisce il direttore dell’istituto Rezio Sisini, è occasione nella quale la scuola riflette su se stessa, sui metodi di insegnamento e sulle relazioni tra i suoi abitanti.
In modo informale, con gli strumenti del gioco e dell’animazione,
con visite in diversi luoghi di lavoro, con il dialogo e offrendo occasioni serene di rafforzamento del rapporto docenti-genitori si riflette sui concetti di
giustizia e di cooperazione, sull’interdipendenza e la globalizzazione restituendo alla
scuola il suo ruolo di analisi e lettura delle complessità, senza trascurare le difficoltà
poste dal diffondersi di comportamenti interpersonali scorretti o violenti e da relazioni
non costruttive.
Kosovo
Non aprire mai, il libro di Francesca Borri
(edizioni la meridiana, Molfetta – Bari 2008,
pp. 120, euro 13), narra l’esperienza di una
ragazza carica di idee, letture e sogni “nonviolenti”, mandata a vent’anni all’Ambasciata Italiana in Kosovo.
«Nessuno tra noi che parli albanese, nessuno tra loro che parli inglese. È l’incomunicazione più totale ». C’è il Kosovo, con la sua
storia, la sua terra, la sua cultura e le sue contraddizioni. Il Kosovo
di alcuni anni fa, che serve a capire un po’ di più il Kosovo di oggi.
E ci sono l’Italia, l’Europa, funzionari di una burocrazia civile e militare: sogni di pace e di umanità accanto a una cieca osservanza
delle regole e dei bolli. E c’è il rapporto tra l’Italia e i Balcani, tra
l’Europa e quella zona turbolenta dell’Est.
Per informazioni: [email protected], www.lameridiana.it.
Falluja
Si intitola Canto per Falluja, lo spettacolo teatrale scritto da Francesco
Niccolini e prodotto da Css-Teatro
stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia e da Un ponte per...
(http://www.unponteper.it/informati/article.php?sid=1572).
Il Progetto Alice
Il Progetto Alice è una sperimentazione educativa avviata in Italia negli anni ‘80 da due insegnanti trevigiani, Valentino Giacomin
e Luigina de Biasi, nell’ambito di Universal Education, ispirata dall’insegnamento di Lama Zopa e Lama Yeshe, e, a partire dal 1994,
ulteriormente sperimentata in India con la creazione di due scuole
e l’avvio di numerosi progetti educativi e di promozione sociale per
bambini e ragazzi svantaggiati. Oggi queste due scuole, con corsi
dalla materna al diploma universitario, offrono a oltre un migliaio
di ragazzi non solo la possibilità di studiare (tuttora un privilegio
in India) e, quindi, di affrancarsi dalla miseria materiale, ma anche
una guida alla scoperta del mondo e ad una più profonda e integrata visone della realtà.
Per informazioni: [email protected], www.aliceproject.
org, www.aliceproject.info.
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l’erba del vicino
FRANCIA
IL FASCINO
DISCRETO DI
SARKOZY
PINO PATRONCINI
A
ll’indomani delle elezioni presidenziali francesi i
politici italiani fecero a gara
per assomigliare a Sarkozy.
Un certo appeal del presidente francese (il casual, i
maglioni ecc.) e anche una
certa disinvoltura politica (Kouchner nel governo,
Attali e Bassanini nelle commisioni di studio) si sommarono alla tradizionale esterofilia.
Anche se tutto ciò ora sembra finito, un qualcosa è rimasto: è rimasta l’idea che
in fondo la Francia costituisca un terreno più fertile
per le politiche bipartisan di
quanto non sia l’Italia, che
ci sia un clima più disteso
che non lascia spazio ai radicalismi e favorisce il dialogo. Niente di più
sbagliato!
Le sue aperture alla Chiesa cattolica, con un
richiamo ai valori cristiani inusuale anche per
la destra francese (a parte Le Pen e l’estrema destra), minano anche quel grande fondamento storico repubblicano che in Francia ha
sempre accomunato destra e sinistra soprattutto in tema di scuola. Per non parlare poi
del suo attacco al 1968 come culla di tutti i
mali della Francia, contro un’opinione pubblica che al 74 per cento non condivide questa
opinione.
Il 4 febbraio, il giorno stesso delle nozze a
sorpresa, ero a Parigi e i compagni del sindacato francese Fsu senza mezzi termini mi
indicavano in Sarkozy una sorta di Berlusconi
francese, anche se non ha le TV.
E non era solo un giudizio passeggero: il 24
gennaio aveva appena visto uno degli scioperi più riusciti del pubblico impiego, scuola
compresa, uno sciopero indetto da 5 sindacati della funzione pubblica e da 7 della scuola. E lo sciopero arrivava dopo che già il 20
novembre un altro sciopero aveva costretto il
governo a giungere a trattative.
E non era finita lì: un’altra grossa mobilitazione si è svolta il 18 marzo, ad essa ha fatto
seguito una forte agitazione che ha coinvolto anche gli studenti, e che è continuata fino
al week-end del 17 maggio, giorni in cui si è
svolta una grande manifestazione nazionale.
Al centro di queste mobilitazioni ci sono soprattutto due rivendicazioni: l’aumento dei
salari e la resistenza al taglio di 11.200 posti di insegnamento. Sui salari la risposta
data dal ministro Darcos in trattativa a di-
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cembre («bastano i passaggi di gradone della
carriera») era di per sé significativa del clima e dell’atteggiamento sprezzante e disinvolto con cui il governo intendeva affrontare
la questione. Mentre in 5 anni la politica dei
tagli ha più che dimezzato il tasso di reclutamento.
Il Libro verde
Ma dietro a questa ennesima primavera agitata della scuola francese ci sono anche altre misure.
C’è la scelta di introdurre una legislazione sul
diritto di sciopero che prevede il preavviso,
ma anche che i comuni coprano le classi dei
docenti in sciopero con assistenti appositamente assunti: in breve che i comuni si incarichino di un’opera di crumiraggio.
C’è la scelta di ridurre il percorso per la maturità professionale da 4 a 3 anni, al solo scopo di ridurre gli organici, ma facendo sparire
anche il titolo biennale che i ragazzi prendevano a 17 anni.
C’è la scelta di ridurre a soli 4 giorni la settimana di lezione nella scuola primaria, per
costringere gli insegnanti a utilizzare in recuperi le due ore di lezione del sabato (in
Francia c’è già un’altra chiusura infrasettimanale il mercoledì).
C’è infine il cosiddetto Libro Verde, il documento della commissione Ponchard, che dovrebbe delineare la nuova scuola dell’era
sarkoziana. Sono soprattutto 4 le misure criticate:
1. L’introduzione nella scuola media della “bivalenza”, ovvero gli insegnanti dovrebbero
abilitarsi non più in una disciplina, ma in due
e dovranno essere disponibili ad insegnarle entrambe, mentre gli insegnanti dei licei
professionali potranno essere utilizzati anche
nella scuola media.
2. Il reclutamento che prevederà concorsi ad
assegnazione regionale col che praticamente
la prospettiva di ottenere un posto nella propria regione d’origine sarà un miraggio, dal
momento che già oggi solo 7 regioni su 30
accolgono la maggioranza dei neo-titolari.
3. L’annualizzazione dell’orario di servizio con
flessibilità oraria dell’insegnante, l’allungamento da 16 a 18 ore settimanali dell’orario
degli agregèes, l’introduzione di ore aggiuntive anche obbligatorie.
4. L’attribuzione al solo capo di istituto della
valutazione degli insegnanti (la scuola francese prevede già delle valutazioni ai fini della
carriera ma attribuite a una equipe pedagogica per la parte didattica e a un ispettore per
la verifica della regolarità degli atti).
Il Libro verde è ancora solo una proposta ma
ce ne è abbastanza per far tremare le vene dei
polsi alla categoria docente francese. E infatti i sindacati sono già sul piede di guerra.
D’altra parte su questa strada sono freschi i
fallimenti di Allegre nel 2000 e ancora prima
di Jospin, i quali, essendo socialisti, avrebbero dovuto avere anche rapporti più distesi
con i sindacati. Rapporti distesi che invece
non ci furono e che anzi ad Allegre costarono anche il posto. Darcos e Sarkozy lo sanno
bene e non a caso insistono col dire che tutto
andrà fatto gradualmente.
Intanto però i tagli pesano sugli insegnanti,
e anche sugli studenti che perdono le continuità didattiche, vedono ridotte le materie
opzionali e si ritrovano in classi che possono
arrivare a 36 alunni.
Il futuro ci dirà come andranno le cose, ma
una cosa è certa: di politiche scolastiche bipartisan la Francia proprio non vuol sentirne
parlare. Quanto a Sarkozy sembra che il suo
fascino discreto lo eserciti solo sugli italiani.
L
de rerum
natura
a visione che l’ecologia ha della natura della natura è ancora tutta racchiusa entro i limiti di un discorso a favore dell’umano che continua ad osservare il cosiddetto
“mondo naturale” da una posizione di assoluto dominio: il pensiero ecologista, nonostante a prima vista possa sembrare il contrario,
è completamente alienato dalla natura e, per
questo, non può influire se non marginalmente sulle decisioni dell’economia. Penso che
questa alienazione vada cercata nel momento
fondativo dell’ecologia e credo che questo si
confermi nell’etimologia del termine e si traduca nei modi in cui l’ambientalismo moderno si è declinato.
La scena originaria
A differenza di quanto comunemente si crede, il pensiero ecologico riconosce la sua
mossa fondativa molto addietro nel tempo.
L’ecologia è, infatti, coeva a Noé, è fin dalla sua nascita una semplice appendice dell’umano, una costola di Adamo. La Genesi su
questo non lascia dubbi laddove descrive la
strategia adottata da Noé nell’affrontare un
disastro ambientale su scala planetaria del
tutto simile a quello che oggi ci sta di fronte: «Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina.
Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i
rettili della terra secondo la loro specie, due
d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita»1.
Noè è l’antesignano del pensiero ecologista moderno, perché entrambi applicano uno
standard per se stessi (per l’uomo) e un altro
completamente diverso per il resto del vivente. Entrambi infatti si preoccupano della propria salvezza personale, ma non di quella degli individui animali (quanti ne saranno morti
nel diluvio universale, oltre a quelli sacrificati
sull’altare al momento dell’uscita dall’arca?),
di cui al massimo possono preoccuparsi della sopravvivenza come specie. Qui, anche se
abilmente mascherato dietro un’aria di accondiscendente benignità, si nasconde un gesto
di dominio, quel gesto inaugurale della nostra cultura che taglia l’uomo fuori dal resto
ECOLOGIA Nonostante la “questione ecologica”
diventi di giorno in giorno più pressante e sia
entrata a pieno titolo nell’ambito dell’elaborazione
etica e nell’agenda della politica, è sempre più
evidente come tutto ciò non si traduca in una
reale riduzione dell’impatto umano sul benessere
dell’ecosistema. Questa discrepanza tra diffusione e
ricchezza del pensiero ecologista e scarsezza dei suoi
risultati materiali riflette molto probabilmente una
difficoltà più grave che si annida irrisolta nel cuore
dell’ecologia così come fino ad ora è stata pensata
e cioè nell’incapacità del pensiero ecologista di
smarcarsi dal paradigma antropocentrico dominante.
Una possibile via di fuga dalle aporie dell’ecologia
antropocentrica è un’auspicabile “nuova alleanza”
L’equo-insostenibilità
dell’ecologia pura MASSIMO FILIPPI *
tra i viventi
del mondo naturale, rendendo l’intero vivente
pura carne, una collezione di tagli di carne da
conservare in coppie al fine di soddisfare l’appetito (culturale e materiale) dell’umano che
già siede alla destra del Padre.
Questioni etimologiche
La genealogia del pensiero ecologista si riflette nell’etimologia con cui esso si rappresenta. Ecologia, infatti, altro non è che «di-
scorso» (logos) della «casa», del «proprio»
(oikos). Coerentemente, quindi, l’ecologia,
come Odisseo, esce da casa con il solo intento di ritornarci, si prefigge una riforma delle «leggi della casa» (dell’economia) e non
una sua critica radicale. Non a caso, l’ecologia si autodeclina come conservativa e conservatrice, tanto da non far esitare Tom Regan
a parlare con toni forse eccessivi di «fascismo ambientalista»2. Come Noè, gli ambienécole numero 69 pagina
31
talisti salvaguardano la natura, nella migliore
delle ipotesi per abbellire il mondo dell’uomo, nella peggiore per mantenere una riserva autogenerantesi di cibo futuro. L’ecologia
accorda valore all’ecosistema solo perché un
ecosistema funzionante è funzionale alla sopra-vivenza umana. L’ecologia non si smarca
dal pensiero dominante che strumentalmente
svaluta la natura nel momento in cui la definisce “buona”. Buona da mangiare o buona
da pensare, ma sempre e comunque strumento
nelle mani dell’uomo.
Il ritorno a casa dell’ecologia moderna
La corrente più diffusa dell’ecologia moderna,
l’ambientalismo, è inequivocabilmente inserita e perfettamente funzionale all’economia
della «macchina antropologica»3, in quanto
si assegna come compito principale quello di
preservare l’ambiente al fine di migliorare la
nostra qualità di vita e, possibilmente, quella
dei nostri figli. Poiché l’ambientalismo agisce
sempre post festum – cioè dopo aver accettato l’indiscussa supremazia dell’umano sull’esistente – non può che occuparsi di ciò che
resta dopo il passaggio dell’economia, degli
scarti del processo produttivo, e cioè soprattutto della gestione dei rifiuti4. Tutta compresa in questo paradigma è anche la cosiddetta
Natural Aestethics5, che sostiene la necessità
di accordare tutela morale ad almeno una parte del mondo naturale in quanto “bello” ma
che, subordinando il “naturale” all’“estetico”,
implicitamente accetta, quella prospettiva
oculocentrica che permette all’uomo di osservare e giudicare la (bellezza della) natura
da sopra e da fuori. Anche l’ecologia sociale,
pur intuendo la necessità di ripensare le dinamiche che hanno portato ad una scissione
artificiale tra “questione sociale” e “questione ecologica”, non si smarca dall’antropocentrismo nel momento in cui individua il dominio della natura come prodotto di scarto
del dominio dell’uomo sull’uomo.6 L’ecologia
école numero 69 pagina
32
profonda, assegnando il primato al “sistemanatura” sulle sue varie componenti (umano
compreso), sembra invece prender congedo
da questa prospettiva. Dovrebbe, però, insospettire il fatto che mentre tutti gli ecologi
profondi non hanno mai esitato ad approvare l’abbattimento selettivo di animali a favore del benessere sistemico, nessuno di loro
(fortunatamente) ha mai suggerito procedure analoghe per gli umani che, notoriamente,
costituiscono il problema principale del “sistema-natura”. Questa incongruenza è tuttaltro che accidentale, essendo invece il segnale inequivocabile che l’ecologia profonda non
abbandona la retorica del discorso economico
della sopra-vivenza umana alienata dalla natura, in quanto, pur assegnando a questa una
componente autoregolativa e quindi mentale,
riserva comunque all’uomo il ruolo della parte
cosciente della mente gaica. Con tratto tipicamente moderno, la dicotomia mente/corpo
si replica nella dicotomia coscienza/inconscio. L’ecologia profonda è un’altra versione
del mito di Edipo: l’ecologo profondo uccide il
padre Noé per prenderne il posto nell’abbraccio misticheggiante di madre Natura.
Verso una nuova alleanza
L’ecologia nasce dopo la decisione (dopo il taglio) con cui l’uomo si aliena dal resto del vivente e quindi non può che essere ecologia
del proprio, di quel proprio che è già stato
completamente declinato come il proprio dell’umano e che si autodefinisce nella perenne
«distinzione dall’animale»7. Il proprio ai tempi dell’ecologia – da Noé in poi – è un proprio
puro, o tutto naturalmente culturale come nel
caso delle ecologie “superficiali” o, il che è lo
stesso, tutto culturalmente naturale come nel
caso dell’ecologia profonda.
Il congedo dalle aporie dell’ecologia così come
si è storicamente determinata non può allora
che passare dalla riconsiderazione dell’insostenibile purezza delle categorie del pensie-
ro ecologista. Riconsiderazione che si è fatta
ineludibile da quando, staccandoci definitivamente da terra nel pieno delirio della hybris
della conquista spaziale, abbiamo cominciato a capire, in una doppia mossa apparentemente paradossale, che il mondo è unitario
solo come spazio oggettivo e che la Terra è
corpo celeste8, cioè qualcosa di assolutamente vulnerabile e inestricabilmente legato, almeno per la nostra tradizione, all’animalità. Il
proprio, quello che un tempo era la sola casa
dell’uomo, il suo ambiente, diventa allora, secondo la lezione di Uexküll mondo-ambiente9,
qualcosa cioè di necessariamente meticcio che
emerge dall’intrecciarsi delle “visioni di un
mondo” di tutti i corpi (con)senzienti che lo
abitano. Ma se il proprio entra in un tale rapporto dialettico con l’altro dall’umano, anche
il discorso dell’ecologia non può più essere un
discorso dell’uomo, ma un dialogo con l’animale dentro e fuori di noi che, in quanto capace di riconoscere un significato al mondo che
insieme diversamente abitiamo, può finalmente risponderci e farci rispondere10 dell’integrità di questo corpo celeste unico perché immensamente vulnerabile. La natura si fa così
dialettica e l’ecologia intravede la possibilità di realizzarsi come equologia, cioè come
ininterrotta rinegoziazione emancipativa dell’«uguaglianza tra disuguali»11, della difficile
libertà di tutti i mondi-ambiente.
* Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione
San Raffaele del Monte Tabor, Milano.
NOTE
1. Genesi, 6, 19-20 (corsivi aggiunti).
2. Tom Regan, I diritti animali, Garzanti, Milano
1990, p. 484.
3. Il termine è di Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo
e l’animale. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp.
38-43, che così ne descrive il funzionamento: «In
quanto in essa è in gioco la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/
inumano, la macchina funziona necessariamente
attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già
una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre
già un’esclusione)» (p. 42).
4. In questo contesto, si inserisce anche il cosiddetto pensiero della decrescita, che non critica
l’idea della natura come bene di consumo ma che,
ancora una volta per il nostro bene e per quello
dei nostri figli, ci invita a una maggiore sobrietà
nel prelievo delle risorse naturali perché la nostra
specie possa sopra-vivere più a lungo nell’ambiente
dominato dall’economia atropocentrica. In questo
senso, la decrescita non può che essere felice, in
quanto immune da ogni idea di conflitto.
5. Una breve ma esaustiva antologia delle posizioni della Natural Aesthetics, si trova in Roberto
Peverelli (a cura di), La bellezza di Gaia, Medusa,
Milano 2007.
6. L’ecologia sociale trova la sua massima espressione nei due volumi di Murray Bookchin, Ecologia
della libertà, Elèuthera, Milano 1986 e Per una società ecologica, Elèuthera, Milano 1989.
7. Max Horkheimer e Thedor W. Adorno, Dialettica
dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 263 e
seguenti.
8. Il richiamo è qui alle considerazioni di Anna
Maria Ortese nel volume omonimo (Adelphi, Milano
1997).
9. Per una più ampia discussione delle posizioni di
Uexküll si rimanda a Giorgio Agamben, L’aperto, op.
cit., pp. 44-51.
10. L’inestricabile connessione tra risposta e responsabilità nel dialogo che comunque intratteniamo con il non umano è evidenziata da Jacques
Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book,
Milano 2006, pp. 173 e seguenti.
11. Il termine «uguaglianza tra disuguali» è ripreso
da Bookchin, cfr., ad es., Per una società ecologica,
op. cit., p. 105.
RILETTURE Venti anni fa, nell’ambito del primo Anno
Europeo dell’Ambiente, si tenne a Milano il Convegno
internazionale “Educazione all’ambiente e ambiente
dell’educazione”. C’erano, tra gli altri, Mauro Laeng, Barry
Commoner, Edgar Morin. E fu un evento da cui prese le
mosse la strategia educativa sul campo. Rileggere alcuni
passi cruciali di quell’incontro può servire a riflettere su
ciò che si è fatto e quanto ancora si deve fare su un tema di
sempre, purtroppo, scottante attualità
ambientale, anno zero?
L
Edgar Morin
Barry Commoner
a esauribilità delle risorse e la non indifferenza della natura in seguito ad azioni
incaute dell’uomo hanno costretto ad un radicale ripensamento del sistema consumistico
che, se sta avvenendo nella parte più attenta ed intellettualmente onesta della società,
è assolutamente necessario che coinvolga il
mondo dell’istruzione.
«Ma perché la scuola si dovrebbe confrontare
con il pensiero ecologico? – si domanda Enzo
Tiezzi dell’Università di Siena, che spiega
– Proprio perché l’emergenza ecologica, nei
suoi aspetti di crisi tanto ambientale quanto
dei modelli scientifici e culturali che l’hanno
prodotta, può essere la chiave per porre nuove domande e studiare in maniera diversa fisica, lettere, storia, biologia…».
«Fare lezione così – precisa Antonio Thiery,
per il Dipartimento Scuola Educazione della
Rai – è indagare sulle interazioni dell’universo: è il momento unificante dell’educazione.
Eppure manca completamente tale visione allargata, relegando la tematica ambientale ad
una qualsiasi materia o a quegli insegnanti di
buona volontà».
«Dopo secoli in cui il valore centrale era l’efficienza produttiva – ribatte Tiezzi – ora c’è
qualcuno che si interroga non su come ottenerla, ma se sia proprio questo l’obiettivo cui
giungere tutto sacrificando. Di fronte a tale
situazione, l’istituzione scolastica presenta
alcune rigidità, finendo per essere antiqua-
Educazione
MONICA ANDREUCCI
ta; e così accade che la formazione mentale
dei giovani avvenga al di fuori dell’Istruzione,
nelle innumerevoli occasioni proposte dall’attività intellettuale sociale».
Una rivoluzione necessaria
«Si tratta di andare alla ricerca di una nuova
dimensione culturale – propone Tiezzi – non
solo interdisciplinare ma sistemica, che faccia i conti con l’alta complessità degli equilibri ecologici, che inserisca al suo interno il
parametro fondamentale del tempo biologico,
che abbia la modestia di accettare l’incertezza come compagna di strada costante nei modelli di conoscenza».
«Una crisi di questa ampiezza non è tuttavia
nuova nella storia – interviene Marcello Cini,
Università La Sapienza di Roma –; essa è per
alcuni aspetti simile a quella che segnò la
transizione dalla società medievale a quella
moderna in Europa tra il ‘500 ed il ‘600, caratterizzata dallo scontro tra la cultura aristotelica e la visione del mondo costruita con
gli strumenti ed i metodi della nuova scienza galileiana. Dalla natura vista come sistema organico, si passò alla impostazione settoriale del sapere. […] Il mondo così diventa
prevedibile, infinito e la trasformazione dell’ambiente in prodotto dell’attività umana è
considerata processo “naturale” di appropriazione fisico-teorica della realtà». Insomma,
da allora si è negata alla natura la sua stessa,
école numero 69 pagina
33
continua mutazione. Eppure «la vita di ogni
singolo organismo – sostiene Tiezzi – è parte
di un processo a grande scala che coinvolge il
metabolismo di tutto il pianeta in una attività biologica ch’è continua interazione di miliardi di componenti».
«Occorre allora imparare a vedere il tutto
come un insieme complesso – suggerisce Cini
– sistema che, per realizzare l’obiettivo della sopravvivenza, oltre a materia ed energia
deve far costantemente circolare al suo interno informazione».
Comunque, per uscire dalla attuale situazione
di spreco delle energie, secondo Tiezzi, «bisogna innanzitutto capire che a monte del modello industriale esiste un insieme coerente
di valori, concezioni, paradigmi di conoscenze fortemente radicato. E dietro non c’è soltanto la forza delle idee: ci sono le spinte ben
più potenti delle istituzioni sociali e degli interessi economici multinazionali».
Nuovi obiettivi didattici
La svolta culturale che si deve avviare non
può essere allora né superficiale né settoriale. «Un’ottica ambientalista in classe – propone Albert Mayr del Conservatorio Cherubini
di Firenze – ha il compito, in primo luogo di
mettere al centro l’alunno, con i suoi tempi
e gli spazi di cui ha bisogno. Invece gli insegnanti sono ossessionati dall’orario, con buona pace di eventuali esigenze “straordinarie”,
per esempio le soste e gli approfondimenti».
L’imposizione, la costrizione temporale, rappresentano di fatto un atto di violenza non
esclusivamente scolastico: «Così come l’ambiente – è ancora Tiezzi che parla – anche
l’identità individuale viene sottoposta ad interventi manipolatori: le stesse funzioni vitali rischiano di diventare succubi alle esigenze
del sistema sociale».
L’impegno teso al recupero di una sensibilità naturalistica perduta comporta però risvolti di tipo consumistico. Scrive Antonio
Thiery: «La divulgazione scientifica, almeno nell’esperienza italiana, rischia di essere
oggetto di spettacolo di natura commerciale
perché va di moda». Al bando, quindi, metodologie didattiche semplicistiche ed epidermiche, proprio per evitare facili strumentalizzazioni. Neppure l’estetica e l’emozione che
il contatto con un ambiente incontaminato
produce sono ormai affidabili: la bellezza non
può essere indicatore di positività e convenienza: per esempio, il 1° maggio ’86 la natura si presentava in tutto il suo splendore; eppure era il giorno di massima contaminazione
dell’aria dopo il disastro di Chernobyl.
Allora non basta una “disciplina dei sensi”. L’accentuazione occidentale della accumulazione e l’esaltazione dell’economia della funzionalità, hanno fatto dimenticare altri
aspetti della vita – quelli simbolici, emotivi,
i rapporti interpersonali, la contemplazione
– che più degli altri danno senso e pienezza
alla vita stessa. Ragionevolmente, è dal recupero di questa globalità della persona che va
avviata l’educazione all’ambiente, anzi l’educazione in senso lato.
école numero 69 pagina
34
INFO
Clima
L’Arci, insieme ad altre 48 associazioni e organizzazioni – da Legambiente
a Slow Food, dalle Acli alla Cgil – ha lanciato l’appello In Marcia per il clima
per dar vita a una Alleanza per il clima e promuovere una manifestazione
nazionale il 7 giugno a Milano.
«Un’Alleanza» si legge nell’appello, «per permettere a tutti di vivere in
pace in città e paesi più belli e ospitali, per liberarci dalle guerre e dai
conflitti che nascono per il controllo delle risorse energetiche non rinnovabili sempre più scarse, delle fonti alimentari, dei beni comuni come l’acqua. Dobbiamo farlo per dare ai bambini e ai giovani di oggi una prospettiva desiderabile, un
futuro per cui crescere». Ed è possibile «perché oggi le conoscenze tecnologiche ci permettono
di ripensare il modo di produrre energia e di consumarla per muoverci, abitare, produrre senza
dilapidare le risorse comuni quali l’acqua, il suolo, l’aria, la vita sulla Terra e perché possiamo
costruire la collaborazione con il mondo dell’educazione e della formazione, dove grandi sono
la sensibilità e le capacità professionali».
Nell’appello si pone l’obiettivo per l’Europa di «produrre e consumare energia con il 20 per cento di maggior efficienza, di far dipendere per almeno il 20 per cento il fabbisogno energetico
da fonti rinnovabili e di ridurre del 30 per cento le emissioni di gas che alterano il clima».
Si può se c’è «la partecipazione nelle scelte che riguardano l’ambiente, le infrastrutture, i beni
comuni, incentivando pratiche produttive, industriali e agronomiche, rispettose dell’ambiente,
orientate verso obiettivi di qualità, verso il benessere delle persone e delle comunità».
Ma si tratta anche di cambiare «i nostri stili di vita, le scelte di consumo,
le consuetudini, chiedendo e premiando nel contempo lo scambio di nuovi beni, l’erogazione di nuovi servizi, capaci di rilanciare l’occupazione, di
garantire la coesione sociale, di migliorare le relazioni tra tutte le donne
e gli uomini, di avere paesi e città meno inquinati e un Italia sempre più
bella». Informazioni: [email protected].
Rifiuti
Biùtiful Cauntri, il libro con Dvd-Rom di Esmeralda Calabria, Andrea
D’Ambrosio, Giuseppe Ruggiero, Peppe Ruggiero (edito da Bur - Biblioteca
Universale Rizzoli, 2008, Euro 19,50) è uno strumento utile in classe per
capire l’emergenza rifiuti in Campania (ma non solo). Il libro svela i metodi
della cosiddetta Rifiuti S.p.A. emersi dalle intercettazioni telefoniche che
mostrano l’arroganza, la violenza e il cinismo degli ecocriminali e punta il
dito contro vent’anni di malgoverno, disattenzione delle istituzioni e false
promesse. Il Dvd racconta di allevatori che vedono morire le proprie pecore per la diossina, di
contadini che coltivano terre inquinate dalle vicine discariche... Voci e immagini di una terra
violata, consumata dall’alleanza fra un Nord operoso e senza scrupoli e le nuove forme della
criminalità organizzata, raccontata con immagini inedite del traffico illecito di rifiuti.
Acqua
La rivista Altreconomia (tel. 02.83242426, e-mail segreteria@altreconomia.
it) ha realizzato la Piccola guida al consumo critico dell’acqua. Dal rubinetto
del 96 per cento degli italiani esce acqua potabile. Eppure siamo i maggiori
consumatori al mondo di “minerale” in bottiglia. L’autore, Luca Martinelli,
spiega perché l’acqua degli acquedotti è buona, sicura e comoda, ma è surclassata a colpi di spot dall’acqua in bottiglia, cara per le nostre tasche e
poco sostenibile per l’ambiente.
Il “libellulo”, uno strumento utile per educare a un consumo responsabile di un bene comune sempre più prezioso è in vendita nelle botteghe del
commercio equo (56 pagine, 2 euro), oppure si può acquistare sul sito www.
altreconomia.it/acqua.
Nucleare
Storie di Scorie, lo spettacolo teatrale di Ulderico Pesce (www.uldericopesce.com, 0973.46885, 338.3833791), vincitore del Premio Nazionale
Legambiente 2005, parla del pericolo nucleare in Italia e di come dalle scorie nucleari si possano ricavare pericolose armi di distruzione di massa.
Il testo racconta, in mariera asciutta e ironica, la vita di Nicola, segnata
dalla presenza del nucleare: dal primo lavoro come addetto alle pulizie nel
deposito nucleare della Trisaia di Rotondella in Lucania, all’esperienza di
volontario in Bosnia dove si è ammalato per la polvere dei proiettili all’uranio, al lavoro come postino a Saluggia, sulla Dora Baltea, dove prende in
affitto una casa che affaccia su un deposito nucleare, al rientro in Lucania
a Scanzano Jonico, paese dove dovrà nascere il deposito unico di scorie
nucleari italiane.
Circolo Bateson
Il seminario nazionale dal Circolo Bateson (Roma, 14 e 15 giugno 2008) è dedicato “Alla ricerca
della realtà: percezione e costruzione” (iscrizioni: [email protected]).
Etica ed estetica è il tema della vacanza-studio che si terrà dal 24 al 30 agosto a Vallombrosa
(Firenze) (iscrizioni: [email protected]).
modi
e media
INCONTRI Incontro Suad Amiry a Firenze, nella sede
del Giardino dei Ciliegi, dove è venuta a presentare il suo
ultimo libro Niente sesso in città. Tanta gente, parecchi
palestinesi, donne e uomini, un piccolo buffet informale,
molta amicizia, battute, un momento di serenità, ma
anche la sofferenza per la situazione di una terra e di un
popolo Palestina
C
mon amour
ome sei diventata scrittrice?
Grazie a due persone cui ho dovuto far fronte,
Sharon e mia suocera, durante 34 giorni di coprifuoco a Ramallah. Il mio primo libro deriva da
un diario privato, indirizzato via mail ad alcuni
amici. In realtà io mi sento profondamente architetta, guardo il mondo non in quanto scrittrice, ma in quanto architetta¹, però ho continuato
a scrivere perché ho constatato che la scrittura
è stata terapeutica. L’ultimo libro è stato causato da Hamas, dallo choc per la vittoria elettorale di un partito conservatore, maschilista, fondamentalista religioso. Dopo questa svolta, mi
sono resa conto che il mondo avrebbe avuto una
visione stereotipata delle donne palestinesi, delle arabe in generale. Ho voluto parlare delle “altre” donne, quelle della generazione dell’Olp, che
è sempre stato un movimento laico, con molte
donne militanti. Che non sono vittime, che sono
attive, professioniste, determinate, che lavorano
nella politica e nel sociale. Sono tutte amiche
che ho conosciuto a Beirut, nei vari partiti che
facevano parte dell’Olp, e che poi, per varie strade, sono arrivate a Ramallah. Non è il libro che
avrei voluto scrivere. Ero interessata soprattutto
alla risposta alle domande: cosa è che ti ha fatto
diventare quello che sei? cosa ha spinto donne
della classe media a occuparsi di politica? E invece le amiche hanno parlato di sé, delle proprie
vicende anche private, perciò la scrittura passa
e ripassa, come nei precedenti, dal pubblico al
personale.
MARIA LETIZIA GROSSI
Come mai questo titolo?
In realtà avrei voluto intitolare il libro Menopausa
e Palestina, ma l’editore italiano ha detto che
un libro con menopausa nel titolo non si vende assolutamente. No sex in the city riprende
per contrasto il nome di una serie televisiva e
vuole evidenziare che Ramallah non è New York,
in Palestina vige l’ipocrita convinzione che una
donna single non faccia sesso e che del sesso
non si possa pubblicamente parlare e tanto meno
scrivere, ora più che mai, dopo la vittoria di un
partito molto conservatore e fondamentalista.
Perché la metafora di Palestina climaterica?
Gli sbalzi umorali della mezza età mi hanno richiamato le depressioni e gli isterismi della
Palestina di questo periodo, col muro israeliano
che ci ha resi permanentemente internati e con
Hamas che ha spento l’ultima candela. Il sesso
che manca alla menopausa è il potere che manca al governo, è la cultura palestinese e araba in
crisi. In Palestina non c’è più un dibattito culturale, solo Hamas, purtroppo, parla con i giovani. E in tutto il Medio Oriente la società non
è più multiculturale, è divisa per linee etniche e
religiose. Voglio aggiungere che personalmente
vivo bene la mia età, non ho più nulla da dimostrare, né nella vita privata né professionalmente, posso rilassarmi e fare quello che desidero.
Hai sempre adoperato, pur parlando di situazioni tragiche, il registro dell’ironia.
L’ironia serve per sopportare una storia insopportabile. Del resto i palestinesi in genere sono
ironici, ridono di sé e degli israeliani. Questa attitudine corrisponde alle modalità creative con
cui un intero popolo trova degli escamotage per
superare le infinite difficoltà imposte dall’esercito israeliano nella quotidianità. In quanto architetta, vorrei scrivere un libro sul muro. E su
come le decisioni israeliane facciano continuamente cambiare percorsi e luoghi. Spesso non
so come orientarmi. Ecco, nella scrittura cerco
anche un filo…
NOTA
1. L’autrice è architetta e insegna all’Università di
Birzeit.
Suad Amiry,
Niente sesso in
città, Feltrinelli
2007, pp. 174,
euro 13
Dopo Sharon
e mia suocera
e Se questa è
vita, questo terzo
romanzo è un libro
corale, accoglie
i racconti di
alcune donne sulla
cinquantina che
si riuniscono periodicamente
in un ristorante di Ramallah,
e che parlano di sé, delle loro
famiglie, della politica, della
Palestina, del loro amore per
questa terra martoriata e delle
loro disillusioni. Nelle storie
personali passa sullo sfondo la
storia più vasta della Palestina
e del Medio Oriente. La voce
ironica dell’autrice si alterna
a quelle variamente declinate
delle altre donne. Le amiche di
Ramallah ci consegnano una
visione fuori dagli stereotipi
delle Palestinesi, sono persone,
impegnate, colte, consapevoli,
non vittimistiche anche quando
hanno molto sofferto. Esperienze
femminili in grado di dare forza
anche alle altre.
école numero 69 pagina
35
CANTARE LE EMOZIONI
Una favola per presentare alcuni strumenti d’orchestra
a bimbi in età prescolare. Un percorso proposto dal
Conservatorio “Verdi” di Torino NEREA ALBERINI *
L
musica
a storia di Goccia
Come tutte le storie, anche la nostra inizia
con: “C’era una volta…”.
C’era una volta una piccola Goccia / che riposava vicino a una roccia.
Una simpatica onda del mare / ogni mattina
l’andava a svegliare.
La nostra amica Goccia, alla fine di una tempesta, aveva finalmente trovato un riparo:
dopo essere stata sbattuta dalle onde qua e
là, su e giù si era messa a dormire, e il mare
le cantava la ninna-nanna. Goccia aveva incontrato molti amici: altre gocce come lei e le
creature del mare. Ma soprattutto la sua amica Onda che la cullava dolcemente e le suggeriva cosa fare, considerato che lei era nuova
del posto. Già, il rifugio di Goccia… Dove era
finita, Goccia? Dove si trovava? Goccia stava in una grande, enorme caverna. Di solito
le caverne sono buie e fanno
paura. Ma questa no e vi dirò
il perché. Innanzi tutto qui
Goccia aveva trovato un riparo e degli amici; e poi così
buia non lo era, la caverna;
finiva infatti con una galleria e, al fondo, si vedeva una
luce, un grande occhio luminoso. E nella caverna c’erano
anche altre luci; la abitavano
molte creature marine luminose: piccole meduse, pesci,
vermetti e strani esseri che
danzavano nell’acqua disegnando forme bellissime e affascinanti. Al mattino Onda,
l’amica di Goccia, la chiama e la invita ad andare a giocare:
“Su, svelta, alzati! Non dormir più! / Corri veloce, corri laggiù!
Va’ con le altre gocce a giocare” / le ripeteva
l’onda del mare.
Goccia sbadiglia, poi stira le braccia, si guarda
intorno: nessuna minaccia, nessuna corrente
che giri impazzita. Goccia controlla: nessu-
école numero 69 pagina
36
na ferita. Tutto è tranquillo e lei è di ottimo
umore. Segue il consiglio dell’amica Onda e
va a giocare insieme alle sue sorelle e agli altri abitanti del mare: scende dallo scivolo di
morbida sabbia, si fa portare in giro da un cavalluccio marino, gioca a nascondino tra ricci e stelle marine e – il momento più atteso
– attraversa la foresta di alghe: fili sottili e
delicati che le fanno il solletico mentre passa, avanti e indietro, più e più volte.
C’è una grande agitazione nella caverna: è arrivato Poldo il Polpo, la giostra più divertente di tutto l’oceano, la trottola più veloce che
Goccia abbia mai provato! Poldo fa salire i
passeggeri sulle sue braccia quindi inizia a
girare: prima lentamente… poi… sempre più
velocemente.
Ecco: la giostra è appena partita / Vedi nell’acqua una gran margherita
che vorticosa continua a girare? / Porta con sé
le creature del mare.
Siete mai andati in giostra? È divertente,
vero? Ma se gira molto velocemente (oppure se ci divertiamo a fare la “trottola” come i
pattinatori) ci gira la testa, ci sembra di essere sospesi nell’aria… Quando il nostro amico Poldo incomincia ad avere le vertigini, rallenta e si ferma.
A Poldo il Polpo gira la testa / sembra schiacciata dentro una cesta!
Poldo rallenta, comincia a frenare: / così si
ferma la giostra del mare.
Dai suoi amici, Goccia ha sentito raccontare
di un mondo diverso da quello della caverna, un mondo dove c’è una creatura chiamata
Sole, tanto luminosa da non poterla guardare,
che ti accarezza con i suoi raggi caldi caldi,
e colora le gocce con tutti i colori dell’arcobaleno. Un mondo dove un essere chiamato
Vento ti liscia il viso, dolcemente.
Dai suoi amici Goccia ha sentito narrare tutto
questo. Ma ha anche sentito raccontare che
per arrivare in quel mondo bisogna passare
attraverso uno stretto passaggio: quella galleria lunga e stretta al fondo della quale si
vede l’occhio luminoso.
Goccia non sa proprio cosa fare: ha paura…
ma è anche molto curiosa… decide di andare… ma poi ci ripensa e decide di restare.
Vado… Non vado… Sì, sì vado… Ma, forse
resto…
Goccia è molto incerta ma, alla fine, ha deciso: farà il viaggio, andrà a vedere il mondo di Vento e di Sole di cui ha sentito tanto parlare.
Secondo voi, Goccia ha un po’ di paura? Più
che paura, direi curiosità per ciò che troverà
al termine del suo viaggio.
Sta per partire: nessuna paura. / Sogna la
Goccia la Grande Avventura
Nessun tremore: ha tutto il coraggio / per affrontare lo stretto passaggio.
Una corrente che scorre impetuosa / ora trascina la Goccia curiosa
Deve sbrigarsi, Goccia, se vuole / essere Vento
ed essere Sole.
Il viaggio di Goccia è decisamente scomodo:
una corrente impetuosa, fortissima, la spinge
dentro alla galleria, la strizza, la risucchia,
la trascina, la sbatte di qua e di là, la travolge, la rotola, la spinge sotto un arco ma,
alla fine, raggiunge il Grande Mare con i suoi
splendidi colori: azzurro, verde, turchese, blu!
E poi…la luce: ecco finalmente la luce del
Sole.
La corrente spinge Goccia su, su, su… fino in
cima alle onde… È FUOORIIIII!!! Sente su di
sé la carezza dell’aria, del vento, il calore del
sole; gioca a saltare da un’onda all’altra con
un vestito iridescente, indossando tutti i colori dell’arcobaleno.
Cavalca le onde, si libra nel vento / cambiando
colore ad ogni momento.
Cavalca le onde tra spruzzi di spuma / brillando la notte al chiaror della luna.
E, sotto le stelle, il tenero Mare / la piccola
Goccia riprende a cullare.
Goccia, stanca ma profondamente felice, si riposa sotto un cielo incantato, fiorito da mille stelle, mentre il Grande Mare le canta la
ninna- nanna.
Così finisce la nostra storia, questa storia.
Perché Goccia ha iniziato il grande cammino
della vita e vivrà altre storie che la trasformeranno e la faranno crescere.
Esprimere le emozioni
La Storia di Goccia nacque per la presentazione, a cura del Conservatorio “Verdi” di
Torino, di alcuni strumenti d’orchestra a bimbi in età prescolare. Il primo anno si utilizzarono, per rendere musicalmente le situazioni
emotive peculiari, brani composti appositamente e, gli anni successivi, brani d’autore
e realizzazioni estemporanee. In un secondo
tempo gli insegnanti avrebbero ripreso la storia realizzandone, in forma d’improvvisazione con gruppi di bimbi, le parti strumentali. Docenti e allievi avrebbero effettuato una
ricerca d’ambiente funzionale ad individuare
gli oggetti sonori che, in aggiunta o in sostituzione allo strumentario Orff, permettessero di sonorizzare le varie situazioni (simbolismo secondario) e/o trasformare in musica
le emozioni (simbolismo primario) della protagonista.
La musica è un modo simbolico di espressione del sentimento, creando un tempo che rispecchia il nostro ritmo interiore. Attraverso
l’uso del ritmo regolare/ irregolare, dell’alea-
* Musicoterapista, già docente di Pedagogia
Musicale per Didattica della Musica presso il
Conservatorio “Verdi” di Torino.
NOTA
1. Vedi il sito www.centrogdl.org.
IL PERSONALE È POLITICO
Nel film Persepolis, la transizione di una
società secolare in Stato islamico è raccontata,
autobiograficamente, attraverso il quotidiano di
una bambina intelligente
e sognatrice, poi ragazza
fragile e senza sogni,
poi giovane donna
determinata e dolente. Si
ride, si piange e si impara
CELESTE GROSSI
P
ersepolis, il film di Vincent Paronnaud
e dell’iraniana Marjane Satrapi, tratto dal
fumetto omonimo scritto e disegnato da
Satrapi (pubblicato in Italia da Sperlig &
Kupfer Editori), vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 2007, «per il suo valore di denuncia, abbinato a
un’alta qualità di disegno», è da qualche mese nelle sale italiane.
Andatelo a vedere e soprattutto, appena sarà disponibile, fate vedere il Dvd a scuola. È uno strumento didattico impagabile perché
ci si identifica nell’autrice-protagonista che dichiara di avere raggiunto il suo scopo: «Per me – ha detto –, il più grande successo è
accorgermi che persone che non hanno mai letto o sentito parlare
di queste cose, si identifichino con ciò che scrivo e comprendano
profondamente il grado di orrore. Riescono a capire senza averlo
vissuto, questo è ciò che voglio».
Ci si perde nei grandi occhi neri della protagonista che diventano sottili quando si indignano per ciò che vedono. Ed è il colore
nero a dominare tutto: neri i disegni del fumetto, nero il velo che
copre le teste delle donne, nere le barbe dei poliziotti, controllori della virtù. In tutto il film solo nella scena dell’arrivo a Parigi
compare il colore.
cinema
torietà, della dinamica (forza
del suono), dell’agogica (andamento, velocità) la musica
diventa una sorta di omologo
delle emozioni. Emozioni che
vengono prima della musica
(per il compositore) e dopo di
essa (come associazione psico-sonora per l’ascoltatore).
Essendo il tono emotivo strettamente connesso col tono
muscolare, la musica agisce
su entrambi procurando associazioni sinestesiche. La sinestesia, uno degli elementi
base della metodologia della
Globalità dei linguaggi1 elaborata da Stefania Guerra Lisi, è l’associazione
continua e spontanea di immagini nell’attività di pensiero, partendo dalle stimolazioni di
un senso. Il corpo sensoriale percepisce questa rete tessuta fra interno ed esterno facendo riemergere le immagini stratificate dalla
memoria, ritrovandone la qualifica affettiva.
Si può dire che la sinestesia è la garanzia di
una costante involontaria attività emotiva e
associativa.
Le emozioni si possono anche cantare; le vocali sono i suoni delle nostre emos-azioni (le
azioni del sangue), sono i suoni dei sentimenti: le usiamo intuitivamente quando piangiamo, nei richiami, nelle esclamazioni. L’uso
cosciente della voce con questa modalità non
è scontato, specialmente in caso di disagio
relazionale; può però diventare un obiettivo che attesti la raggiunta fiducia nell’altro
e nell’ambiente, tanto da comunicare con la
parte più profonda di sé. Le vocali esprimono
i moti d’animo e vengono articolate mettendo
in gioco i punti di vibrazione interni del corpo-strumento musicale.
Abbiamo bisogno costante di sfumature che
“prenderanno corpo” durante l’attività improvvisativa con la scelta di particolari impasti timbrici, ritmi pulsati e non, resa graficocromatica (disegni di forme) del “carattere”
delle sequenze sonore, traduzione motoria
delle “partiture” realizzate: sfumature emotonico-foniche che aiutano a mantenersi plastici sul piano fisico e psichico.
Ogni essere umano è un essere simbolico. La
storia di Goccia – favola della favola – racconta il rito della nascita: il viaggio dell’eroe, secondo la Globalità dei Linguaggi. È il percorso
sensomotorio che il bambino affronta in prima
persona e che si conclude nel faticoso passaggio dal mondo della sospensione e dell’acqua
a quello dell’aria. Nella fiaba del corpo si può
scoprire l’origine dei motivi dominanti di tutte le fiabe e i miti, significati profondi legati
al vissuto primario, del contenimento (la caverna-utero) e del distacco (da un mondo per
avventurarsi verso un altro ignoto), essenza
stessa della vita e dell’uomo.
Loro e noi
La transizione di una società secolare in Stato islamico è raccontata, autobiograficamente, attraverso il quotidiano di una bambina
intelligente e sognatrice, poi ragazza fragile e senza sogni, poi giovane donna
determinata e dolente. Si ride, si piange e si impara. Si impara molto sull’Iran e
qualcosa su di noi, occidentali: «Noi sappiamo che viviamo in una dittatura, ne
siamo consci. Però gli occidentali pensano di vivere in una democrazia, anche se
non lo è. Quindi loro sono più confusi di noi».
Sono le voci di Paola Cortellesi, Licia Maglietta e Sergio Castellitto a raccontarci la storia personale di Marjane che si intreccia con le vicende del suo paese di
origine, alle quali Satrapi riesce a guardare con dolorosa ironia.
Marjane è bambina in Iran alla fine degli anni ‘70, in una famiglia abbiente e
colta che si oppone al regime dello Scià, ormai agli sgoccioli. La mamma e, ancor
di più, la fondamentale nonna femminista la educano alla libertà e all’integrità
morale, lo zio comunista ai valori della tolleranza. La rivoluzione di Khomeini è
accolta come una ventata liberatoria anche dalla famiglia laica di Marjane, ma i
segnali di regresso fanno presto a manifestarsi: le galere si riempiono di perseguitati più di prima, la condizione femminile subisce forti limitazioni. Marjane,
adolescente ribelle (compra al mercato nero i dischi dei BeeGees, sotto il velo
si sente punk, ascolta gli Iron Maiden, osa criticare la professoressa di religione), viene mandata a studiare a Vienna dove subisce le discriminazioni riservate
agli stranieri, un´esperienza così dura che dopo qualche anno Marj chiederà di
tornare in Iran. Frequenta l’università, si innamora, decide di sposarsi nell’illusione di essere più libera, subisce la repressione poliziesca, decide di divorziare e ventiquattrenne lascerà nuovamente il paese per Parigi, dove attualmente
vive. Marjane Satrapi critica profondamente l’integralismo islamico e gli effetti
sul suo paese e sulla vita quotidiana degli uomini e soprattutto delle donne iraniane, tanto che ha recentemente dichiarato che non intende rientrare in Iran
se le condizioni politiche e culturali non varieranno.
école numero 69 pagina
37
il libro
L’IMPORTANZA DI AVERE
DUE ORECCHIE
La musica interviene, provoca o è il punto di
approdo di complessi percorsi che s’intrecciano
nella mente umana sulla base del legame tra
variazioni cerebrali ed esperienze di vita
STEFANO VITALE
Oliver Sacks, Musicofilia, Adelphi, Milano
2008, pp. 434, euro 23
I
l libro che più ho amato di Oliver Sacks
è L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Una raccolta di casi clinici rivisitati in
chiave letteraria, ma con una visione pedagogica e scientifica assolutamente imprescindibili. In primo luogo veniva affermata la stretta colleganza tra mente e corpo. Il cervello è
materia, prima di tutto, e le sue reazioni ed
azioni sono certamente di ordine affettivo relazionale, ma anche condizionate dal suo intrinseco funzionamento. Lungi dall’affermare
un nuovo determinismo fisiologico, Sacks ci
insegnava a guardare in ogni caso al di là
PAROLE Questa volta il vocabolario
che, attraverso alcuni concetti chiave, ci
aiuta a ripercorrere (o a farlo ex novo)
la strada che nel secolo appena passato
hanno tracciato i femminismi, qui e
altrove va dalla “N” di nascita alla
Un vocabolario
tutto per noi MONICA LANFRANCO *
“O” di onore
école numero 69 pagina
38
delle apparenze e che la realtà dei fatti non è
tutto, ma senza i fatti non è niente. Solo che
i fatti ci possono mettere molto tempo prima
di essere visibili. E questo era un insegnamento pedagogico essenziale che sosteneva
l’idea che la malattia non è uno stato d’inferiorità o peggio, come vuole l’etimo, un male
habitus un cattivo comportamento, bensì uno
stato differente, magari anche solo transitorio, insomma per nulla definitivo. La malattia
come modo di essere capace di rappresentare la persona anche sotto il profilo creativo,
sotto una luce nuova ed inedita. In questo
nuovo libro ritroviamo lo stesso spirito. Sacks
mette qui a dura prova i nostri pregiudizi, i
nostri consolidati punti di vista e ci spinge a
modificarli e lo fa descrivendo situazioni affascinanti ed enigmatiche. Per molti versi, se
non fosse per lo stile chiaro e lineare tipico
di un approccio scientifico, si potrebbe pensare che certe storie siano uscite dalla penna di Kafka.
Il libro ci racconta di come la musica intervenga, provochi o sia il punto di approdo
di complessi percorsi che s’intrecciano nella
mente umana sulla base del legame tra variazioni celebrali ed esperienze di vita. Qual
è la parte che ha la base neurologica nelle
alterazioni della coscienza e nei nostri modi
di agire? Può accadere che il nostro cervello,
dopo aver subito variazioni o alterazioni possa riorganizzarsi provocando trasformazioni
sorprendenti nell’assetto emotivo, psicologico e prussico di una persona? Certamente per
Sacks vi è questo collegamento, ma è sempre
NASCITA
Strano come una autrice che tentò più volte
il suicidio, come Dorothy Parker, abbia concepito un pensiero così positivo sulla nascita:
«Dove, suo malgrado, muore una rosa, l’anno dopo ne nasce una nuova». Come per la
morte la nascita non è documentabile direttamente da chi la sperimenta, ma una cosa
è certa: con la nascita di una creatura anche una madre nasce al mondo. E su questo
doppio legame, esclusivo, magico, definitivo
che il mettere al mondo determina sono state scritte pagine di rara bellezza e intensità
nel vent’anni di movimento delle donne. Per
estensione la creatività umana, che per molto
tempo non era concessa alle femmine, è stata
assunta come far nascere simbolico per popolare il mondo delle idee. Come per il morire,
il mangiare, l’accogliere, il cibarsi, una civiltà parla del suo evolversi anche e soprattutto
dal come mette in condizione di nascere: in
Italia, tanto perché lo sappiate, la nascita è
ancora ostaggio di una medicalizzazione ottusa e crudele. Nonostante le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
il livello dei cesarei è tre volte superiore a
quello fisiologico, e di tornare a nascere, e a
mettere al mondo, in casa, come nei più civili
paesi del nord, non se ne parla.
ammirevole il suo stile trattenuto, per nulla
assertivo, quasi si limitasse ad essere il cronista di eventi non sempre spiegabili razionalmente, ma che hanno una loro profonda
razionalità nell’imprevedibilità umana. Tra
l’altro recenti studi di cui è apparsa notizia
su “Domenica” del Sole 24 ore confermano
uno stretto collegamento tra creatività musicale nei ragazzi ed abilità nella discipline
primarie. Ma veniamo ad alcuni esempi del
libro: un individuo che non ha mai percepito
la bellezza della musica classica subisce un
trauma: mentre telefona viene colpito da un
fulmine, rischia di morire, sopravvive e scopre un nuovo mondo emotivo nella musica
sino a divenire un abile concertista. Oppure
c’è la ricercatrice in chimica che dopo asporto di una massa tumorale dal cervello si accorge dell’effetto che fa su di lei la musica
classica sino ad allora assolutamente estranea
Lo stesso Sacks racconta di quando, a New
York, partecipa all’incontro organizzato da un
batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: tutti appaiono
in preda a tic contagiosi, che si propagano
«come onde». Poi il batterista inizia a suonare e come per incanto il gruppo lo segue
con i tamburi, fondendosi in una perfetta sincronia ritmica. Questo stupefacente esempio
è solo una particolare variante del prodigio di
«neurogamia» che si verifica ogniqualvolta il
nostro sistema nervoso “si sposa” a quello di
chi ci sta accanto attraverso il medium della
musica. Allucinazioni sonore, amusia, disarmonia, epilessia musicogena: da quali inceppi
nella connessione a due vie fra sensi e cervello sono causate? Come sempre in Sacks l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: l’orecchio assoluto, la
memoria fonografica, l’intelligenza musicale e
soprattutto l’amore per la musica. Ci troviamo
così a riconsiderare in una nuova prospettiva interrogativi essenziali e assistiamo ai successi della musicoterapia su difficili banchi di
prova quali l’autismo, il Parkinson, la demen-
za. Il libro è così una cavalcata che va dai misteriosi sogni musicali che ispirarono Berlioz,
Wagner e Stravinskij, alla possibile amusia
di Nabokov, alla riscoperta dell’«enorme importanza, spesso sottostimata, di avere due
orecchie»: ogni storia cui Sacks dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci
definiscono. Un libro da leggere che dà fiducia
e ci restituisce una prospettiva.
Nato di donna, Adrienne Rich, Garzanti.
Manuale del parto attivo, Janet Balaskas,
Red Edizioni.
Il pensiero materno, Sara Ruddik, Red
Edizioni.
tura come ‘madre tierra violentada’, mentre
le trivelle incalzano spietate a succhiare il
cancro nero dalle viscere, deforestando e disboscando gli ultimi polmoni verdi. «Come è
strano, ha scritto Emily Dickinson: la natura
non bussa mai prima di entrare, eppure non
è mai un’intrusa».
l’Africa al Medio Oriente) si possa ancora uccidere o mutilare una donna godendo delle
attenuanti di legge perché la vittima aveva ‘trasgredito’ a qualche regola relativa all’onore previsto nel codice patriarcale. Da segnalare che qualche anno fa nel nostro Sud
le associazioni di donne lanciarono l’allarme
sull’intensificarsi delle fuitine, i rapimenti
cosiddetti d’amore che coinvolgevano ragazze minori per mettere le famiglie, in particolare quella di lei, davanti alla frittata fatta,
e obbligare quindi al matrimonio “riparatore”. Nel terribile Firdaus l’autrice afferma una
verità scomoda e inequivocabile: «Per difendere l’onore ci vogliono grosse somme di denaro che non si possono ottenere senza perdere l’onore».
NATURA
Siamo state natura per millenni, mentre dall’altra parte la cultura era il maschile. Il pensiero dominante maschile ha sempre teso a
guardare alla natura come ad una forza composita da assoggettare, e così è stato: sul
controllo della natura è stato costruito il
progresso, ovvero ciò che noi consideriamo
il progresso. Selvaggia e ingovernabile, passiva e ricettiva, natura è stato sinonimo di
femmina dovunque, nell’arte, della religione, nella politica. Oggi, che la natura e le
sue risorse sono in pericolo, proprio perché
l’assoggettamento è andato oltre diventando in molti casi sperpero se non distruzione, non ci sono più le orde di sostenitori della connessione donna – terra – natura
perché le cose sono diventate serie, e quindi anche la natura può essere promossa elevandosi dal livello inferiore che la legava al
sesso debole. Restano solo i popoli indigeni,
e le loro rappresentanti, a invocare la na-
Una forza della natura, Nadine Gordimer,
Feltrinelli.
La naturale inferiorità delle donne: 5000
anni di cattiverie maschili, Tama Starr,
Sperling & Kupfer.
Giocare alla divinità, Goodfield,
Feltrinelli.
Monoculture della mente, Vandana Shiva,
Bollati Boringhieri.
ONORE
La vicenda della nigeriana Safya ci ha ricordato che le regole dell’onore, per cause religiose, o tribali, o sociali sono ancora vive
e ben salde, nonostante i viaggi interplanetari. La legislazione italiana e quella europea hanno cancellato da qualche decennio
la possibilità di invocare l’onore per avere
attenuanti nel caso di delitto, ma certo non
è consolante che nel mondo (dalla Cina al-
Onore e storia nelle società mediterranee,
a cura di Giovanna Fiume, La Luna
Edizioni.
Segreti silenzi bugie, Adrienne Rich, La
Tartaruga.
Firdaus, Nawal al Sa’dawi, La Tartaruga.
* Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle
donne (www.monicalanfranco.it, www.mareaonline.it).
école numero 69 pagina
39
Clotilde Pontecorvo, Lucia Marchetti (a cura di),
Nuovi saperi per la scuola. Le Scienze Sociali
trent’anni dopo, ed. Marsilio, 2007, pp. 281,
euro 22
I
libri
l Consiglio italiano per le scienze sociali, a trent’anni dalla prima pubblicazione del volumetto Einaudi
(1977) su scienze sociali e riforma della scuola secondaria, ha voluto dedicare un nuovo studio con il contribuito di un gruppo molto vivace di insegnanti di scuola secondaria superiore che hanno realizzato in modo
intelligente e creativo delle pratiche didattiche assai
innovative nell’area delle scienze sociali. Tutto ciò partendo dal presupposto che le scienze sociali, in qualità
di “humus trasversale” di tutte le altre discipline di insegnamento (matematica, scienze naturali, letteratura,
ecc.), inserite all’interno del contesto
locale nel quale vengono elaborate,
contribuiscono ad aiutare gli studenti a comprendere come l’ambiente sociale condizioni in parte la formulazione delle idee.
Il libro, riannodando i fili storici di
un lavoro sulle scienze sociali nella
Scuola secondaria, si articola in tre
grandi sezioni.
La prima prende in considerazione il
“versante culturale” della questione
scienze sociali – insegnamento come
spazio di promozione di una scuola
per tutti che però non implichi un “livellamento verso
il basso”, ma sia strutturato in modo da consentire a
ciascuno di esprimere al meglio le capacità individuali.
La seconda raccoglie le esperienze pratiche di formazione e didattica attraverso la narrazione del clima in cui
si è sviluppato il progetto, della competenza professionale dei promotori, della partecipazione attiva degli
studenti e della rielaborazione profonda del gruppo nel
suo insieme. Anche le esperienze di tirocinio e quelle di
lavoro interdisciplinare e collegamento tra scienze sociali e matematica e scienze sociali e scienze naturali
sono degne di nota, per la costruzione di moduli che
danno vita a una
articolazione unitaria del sapere, non
teorica, ma pratica,
declinata nella didattica.
La terza fornisce
un quadro della situazione sui tentativi di introduzione
delle scienze sociali
nelle Scuole secondarie e la diffusione
dei licei sul territorio in cui l’insegnamento di psicologia, sociologia, ma
anche economia e
diritto, non viene
inteso come mezzo per formare dei “piccoli scienziati sociali”, né per trasformare i licei in “anticamera”
della prosecuzione dello studio di queste discipline all’Università. Ma con l’intento di offrire ai ragazzi una
competenza generale fondamentale: una cultura della
cittadinanza.
EDOARDO CHIANURA
école numero 69 pagina
40
A FORZA DI ESSERE VENTO.
LO STERMINIO NAZISTA DEGLI
ZINGARI
Q
uanti, non si saprà mai. Più o meno cinquecentomila furono
i Rom e i Sinti, gli Zingari, o meglio gli Zigeuner – usando il termine spregiativo tedesco – che furono sterminati dai nazisti. Oltre ventimila passarono per il camino del campo di sterminio di AuschwitzBirkenau, all’interno del quale tra il febbraio 1943 e l’agosto 1944
funzionò lo Zigeunerlager, un “campo nel campo” riservato appunto a
loro. Dello sterminio nazista degli Zingari si sa ancora oggi assai poco
(le prime ricerche storiche sono iniziate negli anni ‘60). Ma per parlarne a scuola ora esiste un cofanetto di 2 Dvd (2 ore e mezza di visione
di documentari, interviste, spettacoli musicali) e un libretto di 72 pagine (articoli e immagini) sugli Zingari e sullo sterminio di cui furono
vittime durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo ha realizzato l’Eda Editrice A (la cooperativa editoriale anarchica che pubblica da 35 anni
la rivista anarchica: casella postale 17120, 20170
Milano, tel. 02.2896627, fax 02.28001271, e-mail
[email protected]) per fare breccia nel muro dell’indifferenza, dell’abitudine quotidiana a tragedie e massacri, del pregiudizio verso un popolo “brutto, sporco e cattivo”. La scommessa è quella che ci siano
persone (e insegnanti) disposte ancora a emozionarsi, a cercare di capire, ad ascoltare le voci e le
canzoni, le testimonianze drammatiche e la gioia di
vivere di altre persone diverse da noi.
Nel primo Dvd dopo un’introduzione di Moni Ovadia
(“Hai mai avuto un amico zingaro?”); un’intervista
a Marcello Pezzetti, del Centro di Documentazione
Ebraica Contemporanea, che ricostruisce la storia
dello Zigeunerlager; il documentario Porrajmos (in romanes, la lingua zingara, derivata dal sanscrito, “distruzione”), realizzato per l’Opera Nomadi dai registi
Paolo Poce e Francesco Scarpelli; “Hugo”, l’intervista
realizzata da Giovanna Boursier al sinto tedesco Hugo Hoellenreimer,
internato nello Zigeunerlager e torturato da Josef Mengele. Il secondo Dvd si apre con la videoregistrazione di Senza confini, senza barriere, una serata tenutasi alla Camera del Lavoro di Milano (2005),
protagonisti i Taraf da
Metropulitana, un gruppo musicale rom rumeno, che insieme a Moni
Ovadia eseguono canti
tradizionali gitani e yiddish; segue l’intervista
a Mirko Levak, Un rom
italiano ad Auschwitz
di Francesco Scarpelli
ed Erika Rossi; chiude Porrajmos. Lettura
e spettacolo, videoregistrazione di un’altra
serata alla Camera del
Lavoro di Milano (2006).
Nel libretto, dopo il testo di un inno zingaro e
la presentazione editoriale, Gloria Arbib si sofferma sull’irriducibilità
di Ebrei e Rom all’assimilazione; Giovanna Boursier traccia un quadro sintetico della persecuzione nazista dei Rom e dei Sinti, facendo
luce anche sulle (generalmente sottaciute) complicità non solo morali del regime fascista; Paolo Finzi traccia un parallelo tra la Shoà
e il Porrajmos; Maurizio Pagani il rom Giorgio Bezzecchi, dell’Opera
Nomadi, esaminano la situazione degli Zingari nell’Europa odierna; le
foto di Paolo Poce raccontano lo sgombero di una casa occupata da
Rom rumeni a Milano nel 2004; in chiusura il testo della canzone dedicata agli zingari da Fabrizio De André e Ivano Fossati .
Il cofanetto costa 30 euro e si può acquistare online al sito www.arivista.org.
dvd
NUOVI SAPERI
CELESTE GROSSI
Oyoun Al Kalaam, Dal’Ouna,
DALOUNA 2007, Master Lab Systems,
www.dalouna.net
R
musica
amzi Aburedwan, il bambino che lancia pietre durante
la prima intifada e che, crescendo, imbraccia invece una viola, è un’immagine nota a molti. Così come Al Kamandjâti,
il suo progetto di intervento
con la musica nei campi profughi di cui abbiamo già parlato su école.
Il progetto
si è sviluppato nel tempo, ottenendo appoggi da varie associazioni
europee e consentendo
l’organizzazione di corsi musicali in molti campi profughi palestinesi e
libanesi e la costruzione
di una scuola di musica a
Ramallah.
Una delle attività intraprese per dare visibilità all’iniziativa è anche
quella concertistica con
il gruppo Dal’Ouna di
cui fanno parte, oltre a
Ramzi che suona la viola e il buzuki,
una cantante e sei suonatori di Oud, fisarmonica, clarinetto, nay, chitarra e percussioni.
Del gruppo è attualmente diffuso in Italia un CD, realizzato nel 2007, che comprende due brani del noto compositore libanese Marcel Khalife, un brano dei fratelli
Rahbani, e sette brani della tradizione classica e popolare, con interessanti arrangiamenti fatti appositamente da Ramzi.
Dal’Ouda riunisce musicisti di diverse provenienze, ma
ben affiatati tra loro e molto attenti alle sonorità, che
si propongono di diffondere le specificità della musica palestinese e mediorientale della tradizione classica
e popolare in modo
affascinante e accattivante. Una delle loro caratteristiche, è quella di
coinvolgere nei loro
concerti giovani palestinesi, incontrati nei diversi corsi
musicali, per offrire loro un’occasione
di crescita a contatto con musicisti
professionisti, oltre
che la possibilità di
viaggiare e vivere esperienze interessanti.
Anche in questo Cd troviamo quindi, a fianco dei componenti del gruppo, Noura Madi, giovane ragazza del villaggio di Salft (vicino a Naplouse) in Palestina e di Oday
Al Khatib del campo profughi di Al Fuwwar. Le loro voci,
che uniscono la freschezza e l’entusiasmo alla musicalità, si fondono perfettamente con le sonorità del gruppo
e rendono ancora più emozionante l’ascolto.
MARIATERESA LIETTI
BUM BUM CHI È?
MUNARI
N
on è facile
raccontare Munari:
nel corso della sua
vita si è divertito
a fare di tutto. Ha
giocato con l’arte,
le parole, il design e il disegno, i colori e le macchie,
le sedie e il cinema, i mobili e gli immobili. Ha girovagato per il mondo, dall’Italia al Giappone (dove
è forse più riconosciuto che qui), seminando ovunque intelligenze e battute. Mettere in scena Munari
è come cercare di dare forma alle nuvole, provando
a interpretare le sue tante sfaccettature; e infatti
a Como, città toccata da Bruno in uno dei
suoi tanti spostamenti, ci si sono provate in
tre: le componenti del gruppo Fata Morgana
(nome che sarebbe piaciuto a Bruno) intorno al suo “abitacolo” mobile-stanza-casa in
perpetuo divenire costruiscono, montano e
smontano le sue tante facce. “Bum” progetta, Bum gioca, scrive, fa fare il cinema ai
bambini, compare e scompare, si nasconde
dietro la sua scimmietta, sale sopra il letto,
prova a sedersi sulla scivolosa sedia per visite brevi, vieta l’ingresso ai non addetti al
lavoro e il lavoro ai non addetti all’ingresso.
È un Munari divertito, come lui era divertente e arguto, filologico quanto può esserlo chi
ha fatto del distruggere le idee assodate una
missione di vita. E soprattutto è un Munari
che ha ritmo, che –
come quello vero –
non si perde in giri
di parole e di frasi,
ma mostra-e-dimostra, si appende all’abitacolo a mostrare che lo si può fare,
rivolta le frasi a chiarire che non è detto
che il verbo stia lì e
il soggetto là. Certo
star dietro a questo
Munari è un po’ faticoso e quindi le tre
protagoniste corrono da un’idea all’altra
sulle note di una canzoncina degli anni ‘40:
è l’unica cosa in cui è
difficile immaginare il
serafico Bruno, per il
resto c’è tutto. E siccome – come Bruno
amava ripetere da un
immaginario proverbio cinese – tutto ciò
che non ci sta in una
cartella non è degno
di essere scritto, questa breve recensione è di 2000 caratteri giusti. Non uno di
più non uno di meno
(spazi compresi, titolo
escluso): contare per
credere.
teatro
OYOUN AL KALAAM
FABIO CANI
école numero 69 pagina
41
Determinismo
e avventura
illuminata
STEFANO VITALE
L
anni verdi
a penombra che abbiamo attraversato. È il titolo di un romanzo di Lalla Romano
dal gusto “proustiano” che allude all’infanzia: «Età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura
per chi la guarda dall’altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo
spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte» (il testo è ripreso in Francesco
Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, 2008). Ho ripensato spesso alla
natura ambigua dell’infanzia in questi giorni tristi di quasi azzeramento politico della sinistra e di quasi annullamento del sogno di un
mondo diverso. Ed ho ripensato a come l’idea di cambiare il mondo
non sia in fondo né di destra né di sinistra. E questo fa male, molto
male. Così ho riletto Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain
(nella bella traduzione einaudiana di Enzo Giachino) ritrovando il gusto dell’avventura anarchica, dell’immaginazione creatrice dell’adolescenza immersa nelle contraddizioni del suo tempo (lo schiavismo, in
quel caso) anziché falsamente libera nell’individualismo post-romantico del fantasy di oggi (in cui è caduto anche Harry Potter). Huck
Finn è il seguito dell’altro racconto Le avventure di Tom Sawyer, bambino classicamente orfano e libero da legami (come Pippi Calzelunghe
e tanti altri) alla ricerca di una felice innocenza che però verrà infine delusa integrandosi nel sistema di valori materialistico e borghesi
che avrebbe voluto rifiutare. Huck è ancora più primitivo ed ingenuo,
sensibile e fisico, ma anche fatalista, di una saggezza senza illusioni.
E qui le cose saltano, almeno per me, oggi. Tutto diventa un gioco,
una finzione tranne il rapporto libero da convenzioni che Huck stabilisce con Jim, il negro, viaggiando sulla zattera, un affetto tra due
esseri esclusi, emarginati. Tutto è ridotto all’essenza e la società è
così lontana vista dal fiume. Ma quella società schiavista e violenta,
prigioniera della logica della faida vincerà col suo moralismo bigotto,
falsamente umanitario e Huck e Tom (nel frattempo riapparso nel racconto) mostreranno quel che sono: falsi ribelli. Tutto è un’impostura: la liberazione di Jim è uno scherzo farsesco e la morale di Twain è deterministica e
pessimistica. Malgrado il finale leggermente diverso, mi ha fatto pensare al recente libro di Cormac McCarthy La strada, Einaudi, 2007 dove un bambino attraversa con padre
un’America post apocalittica dominata dalla guerra di tutti contro tutti, sorretti dai valori estremi della frontiera originaria americana, dalla certezza della differenza tra buoni
e cattivi, giusto ed ingiusto, dal rapporto essenziale e spirituale di padre e figlio. Una
sorta di fondamentalismo antirelativista per dirla alla Gianfranco Fini, neo Presidente
della Camera, uomo della transizione postfascista in Italia. Che sia in balìa di un modo
di concepire l’avventura ed il romanzo di formazione secondo criteri populistici, anticapitalistici e controrivoluzionari al tempo stesso? Allora ho ripreso in mano Rasmus e il
vagabondo di Astrid Lindgren (Salani). Nel primo il bambino si libera dall’orfanotrofio e
riesce, con l’aiuto di un vagabondo, a vivere esperienze (aiutano persino la polizia, da
cui ovviamente scappavano, a mettere in prigione dei malviventi) ed avventure bellissime e vere, scoprendo il senso dell’amicizia, della lealtà e dell’amore per le persone in
quanto tali, il senso della condivisione ma anche il conflitto tra i desideri di stabilità
(Rasmus sta per essere adottato e lo vorrebbe) e il piacere della vita libera con Oscar il
vagabondo, senza finzioni e senza stupidi sentimentalismi. Qui l’individuo è in rapporto
stretto con la natura e con gli uomini, ma senza pregiudizi, né volontà di dominio, con
la giusta leggerezza “calviniana” che viene anche dal riso e dalla luce bianca del mattino. Si può stare, allora, dalla parte dei deboli in nome della giustizia sociale e della
solidarietà umana, animati da un’etica laica che ci fa guardare alle persone come esseri
capaci di scegliere, di essere responsabili, di vivere con poco, senza bisogno di un ovile,
e senza odio verso gli altri, senza nemici per forza. Non è un’illusione, è una possibilità,
senza determinismi né pessimismi sulla natura umana. I tempi sono duri ma c’è un illuminismo dell’infanzia che non può essere cancellato. Stiamo allerta.
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INFO
Suona la tua parte
L’Edward Said National Conservatory
of Music – in collaborazione con Scuola
Popolare di Musica Donna Olimpia,
Scuola Popolare
di Musica del
Testaccio, Insieme
per Fare, Osi
Orff-Schulwek
Italiano, Società
Italiana per l’Educazione Musicale – invita
a diventare Amico delle Orchestre della
Palestina.
Le Orchestre della Palestina contano
sulla generosità di chi si preoccupa del
futuro della Palestina e delle opportunità
culturali per i suoi giovani. Diventando un
Amico delle Orchestre della Palestina si
finanziano i programmi delle orchestre,
si permette al conservatorio Edward
Said di assumere assistenti e direttori
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concerti, laboratori,
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le altre attività delle Orchestre della
Palestina (il Conservatorio Nazionale
di Musica Edward Said gestisce quattro
orchestre giovanili: l’Orchestra di
Bambini di Gerusalemme; l’Orchestra
del Conservatorio Nazionale di Musica
Edward Said; l’Orchestra di Fiati del
Conservatorio Nazionale di Musica
Edward Said; l’Orchestra Giovanile della
Palestina).
Per informazioni: [email protected].
edu.
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della Palestina spedire per posta a
Edward Said National Conservatory
of Music, P.O. Box 66676, 91666
Jerusalem, il modulo che si può
scaricare dal sito www.donnaolimpia.
it/amiciorchestrepalestina/MODULO_
AMICI.pdf.
Scuola di
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musicale
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XII Sessione
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Pedagogico e Sociale di Lecco.
Per informazioni ed iscrizioni: Centro
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Lecco (LC), tel. 0341.36.22.81, fax
0341.285012, email [email protected],
www.csmdb.it.
TEXT
LA SFINGE ‘68
Il riproporsi continuo di uno scontro fra “linea rossa” e “linea
nera”, se può essere per un verso visto come l’ultima versione
dell’idea di progresso, può essere, per un altro, il segnale di una
sfiducia profonda (per quanto mascherata da ricorrenti dichiarazioni
di ottimismo) nella possibilità stessa di un rinnovamento davvero
radicale. Se non si tiene conto di questo aspetto, la dialettica storica
della nuova sinistra rischia di essere incomprensibile
PEPPINO ORTOLEVA *
D
ue sono le caratteristiche unitarie
dell’evento ‘68 sulle quali vorrei richiamare l’attenzione. Caratteristiche evidenti ma
(o forse proprio per questo) finora oggetto
di scarsa riflessione. Da un lato, il carattere
planetario del movimento, primo evento che
congiunge in una quasi perfetta simultaneità l’intero mondo, a partire non da un centro propulsore unitario (la politica di una o
più grandi potenze) bensì da nuclei distinti,
ma animati da una stessa spinta. Dall’altro,
il netto prevalere, nel movimento, nella sua
ideologia, nella mentalità da esso diffusa,
dell’idea di un processo rivoluzionario ininterrotto rispetto a qualunque finalità specifica; l’esaltazione, in altre parole, del movimento in sé di contro a qualsiasi ipotesi di
stabilizzazione dei risultati da conquistare.
1. Definire “planetario” il ‘68 è una constatazione banale, e facile da verificare. La protesta giovanile, in quell’anno, toccò tutti i
continenti, quasi simultaneamente. È pressoché impossibile indicare dei “motori”, dei
paesi che abbiano assunto un ruolo propulsore, anche se un giornalismo superficiale e
sventato cerca ogni tanto di farci credere che
in gran parte dell’Europa occidentale i moti
si sarebbero diffusi dopo il (e ad imitazione
del) maggio francese. Basta un’occhiata alla
cronologia per verificare. Non vi fu, in realtà, paese guida: ebbero un ruolo anticipatore, semmai, gli Stati Uniti, dove il movimento “partì” qualche anno prima (ma anche lì
l’anno 1968 fu per molti versi una svolta), la
rivoluzione culturale cinese. Ma nei confronti della Cina, come del Vietnam, l’atteggiamento dominante, in occidente, più che di
imitazione, pareva essere di identificazione,
quasi che la diversità geografica e culturale dovesse cedere il passo ad un’unità politica ed ideale ben più intensa (l’idea stessa che potessero esservi “tanti Vietnam”, che
il Vietnam, da realtà nazionale e territoriale,
qual era per i vietnamiti e per la stessa “teoria del domino”, potesse trasformarsi in entità ideale quasi priva di identità geografica,
appartiene evidentemente alla stessa logica).
Simultaneità a livello planetario, rifiuto dei
vincoli geografici e territoriali in nome di
uno scontro di principio che aveva il globo
intero, tutto insieme, come campo di battaglia: si trattò, per ciò solo, di un evento
politico di nuovo tipo. Tanto più che il ‘68
superò, con imprevedibile facilità, proprio
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A partire dagli anni ‘60 si verificò una
svolta nell’interdipendenza produttiva:
lo spezzettamento dei processi di
produzione tra diverse aree nazionali,
addirittura tra diversi continenti,
favoriva la consapevolezza del carattere
necessariamente internazionale della
lotta di classe e della impossibilità
di isolarsi da un sistema produttivo
globale e pervasivo. Il ‘68 ereditò,
quindi, un mondo più fortemente unito,
più interdipendente, più dolorosamente
consapevole del proprio comune destino,
di quanto fosse mai stato prima. Senza
questa eredità, sarebbe incomprensibile
il fatto che per il movimento, ovunque,
il mondo era il vero scenario di ogni
battaglia, la vera platea di ogni gesto
Manifesti del maggio francese
rielaborati per la campagna
pubblicitaria dei supermercati
Leclerc (2003).
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quelle barriere che erano apparse istitutive del
mondo del dopoguerra:
la “cortina di ferro”, la
stessa contrapposizione
tra mondo sviluppato e
“terzo mondo” (che pure
il movimento medesimo contribuì ad idealizzare e ad esaltare).
La coesistenza di movimenti analoghi per composizione sociale e per
aspirazioni profonde nell’Europa occidentale ed
orientale; la circolazione di parole d’ordine e
linee politiche dalle colonie alla “metropoli” e
viceversa; la stessa relativizzazione del concetto di “terzo mondo” pur
tanto enfatizzato ideologicamente, come nell’espressione “third world
people” applicata a neri
americani e chicanos:
leggiamo insieme questi
fenomeni. Il ‘68 appare,
al tempo stesso, il logico sbocco di un processo di unificazione del pianeta avviato,
con ogni evidenza, ben prima; l’avvio di una
nuova fase nelle relazioni tra gli abitanti della
terra; e la reazione ad un processo di unificazione planetaria dall’alto, percepito come essenzialmente distruttivo (la polemica contro
l’imperialismo culturale e contro le compagnie multinazionali). Insomma, il ‘68 nasce
in un mondo più unito che mai in passato, e
promuove, di quell’unità, un’ulteriore accelerazione. Ma a quali processi di più lungo periodo corrisponde questa tendenza?
a. La generazione del “baby boom” è, naturalmente, la prima nata dopo Hiroshima.
L’atomica, che per la generazione passata
attraverso la guerra poteva presentarsi ancora, e sia pure ambiguamente, come “un’arma”, continuazione e culmine del crescendo
di potenziale distruttivo evidenziato dalle
guerre del 1914-45, per la generazione nata
successivamente diveniva non solo la chiave
della guerra ma la chiave della pace, l’arcano vero dell’ordine mondiale. Un mondo retto da quella che è stata di recente definita
la “comunicazione nucleare”, e dalla continua minaccia non a questo o quel paese,
ma alla specie, era per ciò stesso un mondo unito, se non altro dalla consapevolezza di un comune destino. D’altra parte, alla
follia del conflitto internazionale non poteva che corrispondere l’esaltazione (bringing the war home) del conflitto interno,un
conflitto tra forze distruttive, nemiche dell’umanità, e forze amiche dell’umanità. Il
conflitto internazionale diveniva conflitto
interno, il conflitto interno aveva respiro
planetario, in quanto scontro fra principi
morali contrapposti.
b. Del resto, con il dopoguerra, e in particolare con i processi ai criminali nazisti de-
gli anni ‘60 (un grande, complesso, e spesso pericolosamente equivoco, laboratorio
giuridico, ma anche una grande pietra di
paragone morale nella formazione di una
generazione) il concetto di “nemico dell’umanità” assumeva uno spessore, ed una
dignità, non solo morali. Il punto di vista
della specie si poneva come il solo adeguato a giudicare quei delitti, e il solo capace
di impedirne il ripetersi. Ma per ciò stesso,
quel medesimo punto di vista doveva essere
tenuto presente anche nel giudicare il proprio paese (in fondo, i processi dei criminali nazisti invitavano il cittadino a ridiscutere
ad ogni momento il dovere dell’obbedienza);
al tempo stesso che si ponevano le (fragili
in verità) premesse di un nuovo diritto delle
genti si frantumava il dovere dell’obbedienza alle leggi del proprio stato. La disobbedienza civile assumeva una base non solo
morale, ma legale, ponendo le premesse per
un assetto giuridico paradossale. Anche da
questo punto di vista, il rafforzarsi dei legami tra gli esseri umani del pianeta e l’indebolirsi dei vincoli dello stato-nazione
andavano di pari passo. Nel ‘68, e in particolare nel ‘68 americano (con l’idealizzazione di un modello di nazione “liberamente
scelto”, fortemente fondato, del resto, nella tradizione del paese), il processo giunse
al suo punto culminante. La “nazione morale” della nuova sinistra nasceva dall’adesione
volontaria, non dai vincoli della terra e dalla tradizione. Contrariamente a molti slogan,
del resto successivi, non di “internazionalismo” si trattava, ma di piena e ampiamente
spontanea adesione ad un quadro di riferimento nel quale il ruolo dello stato nazionale era nettamente ridimensionato: in favore
da una parte dell’unità, politica, culturale,
tendenzialmente anche psicologico-emotiva, tra tutti quelli che combattevano dalla
stessa parte, in tutto il pianeta; dall’altra,
della riscoperta di antiche, ma sempre radicate, distinzioni etniche e localistiche.
c. Che l’adolescenza dell’era della Tv sarebbe
stata immersa in una cultura più planetaria
(il “villaggio globale”) e insieme più localistica, di quella dell’epoca della stampa e
del nazionalismo, è una delle più note previsioni di Marshall McLuhan. Ma leggere nel
‘68 la conferma nitida della teoria mcluhaniana è forse, insieme, troppo e troppo poco.
Troppo, perché nella cultura del movimento
il sistema delle comunicazioni “dato”, quello appunto su cui McLuhan fondava le sue
profezie, fu oggetto di una radicale contestazione non solo teorica ma anche pratica;
per cui, anche ad ammettere che l’orizzonte
di riferimento sia rimasto lo stesso sul terreno delle comunicazioni, ciò va storicamente
spiegato. Troppo poco, perché l’incidenza
delle comunicazioni di massa del periodo
precedente sulla “cultura del ‘68” è probabilmente assai più vasta e complessa (finora solo Edgar Morin e Todd Gitlin hanno
dato seri contributi su questo tema, anche
se non va dimenticato qualche importante spunto di Christopher Lasch) di quanto
le schematiche previsioni di McLuhan im-
ca politica ed economica
delle superpotenze imponeva con la violenza una
gerarchia ed un’oppressione tanto più intollerabili. Il Vietnam deve forse il valore simbolico che
assunse all’epoca (e che
tanto giovò allora alla sua
causa e tanto poco forse le
giovò dopo) anche al suo
essere emblema dell’opposizione tra un movimento planetario che mirava
a definire amici e nemici in termini morali e una
politica di potenza fondata solo sulla violenza militare.
Il ‘68 è stato l’ultimo movimento
“progressista” e il primo movimento
rivoluzionario maturato a partire dalla
consapevolezza dell’inaccettabilità del
mito del progresso. A un’idea evolutiva
e per così dire cumulativa della storia
il ‘68 opponeva l’idea di una storia
come successione di conflitti e tensioni
sempre nuovi; il progresso appariva quindi
non come una crescita, come la somma
di successive conquiste, ma come il
manifestarsi, ad un livello sempre “più
alto”, della lotta (in sé, a ben vedere,
ripetitiva) tra tendenze rivoluzionarie e
tendenze conservatrici. In questo il ‘68
dimostra la sua natura di grande momento
di transizione nella sensibilità, nel senso
comune, di intere società
2. “Movimento” contro
“establishment”, o “sistema”: già la terminologia
di quegli anni è significativa. Il “movimento”, appunto, del ‘68 sembrava
definirsi, concepire la sua
propria immagine, in termini innanzitutto dinamici, riconoscendo la propria più intima verità non in un ordine futuro da costruire (nei
confronti del quale forte era, anzi, la diffidenza) ma nella propria continua, ed ininterrotta, capacità di “rivoluzionarsi”. Del resto,
l’idea della ribellione come conflitto permanente e per principio irrisolvibile in maniera
definitiva si estendeva fino all’interno della
vita personale e psichica dell’individuo.
L’idea di uno scontro fra la “linea rossa” e la
“linea nera” che sempre si sarebbero ripresentate nella storia, al di là di ogni possibile conquista rivoluzionaria, costituiva uno
dei tratti più affascinanti e più largamente
seguiti del pensiero di Mao Zedong. Un’idea
tanto più sentita, e più intensamente vissuta, in quanto, dall’altra parte, il tratto dominante dell’avversario appariva proprio la
staticità, la capacità di chiudere, con la violenza o con la manipolazione, tutte le contraddizioni. Il modello della rivoluzione ininterrotta, l’esaltazione del movimento in sé, il
rifiuto di riconoscere la propria identità in
un progetto, per quanto avanzato, e la ricerca viceversa di un’identità fondata sull’agire:
sono tutti tratti che dei movimenti rivoluzionari precedenti avevano costituito, forse, il
lievito, ma pur sempre un singolo elemento,
dialetticamente intrecciato con l’altro, con il
momento progettuale. Nel ‘68, quell’elemento appare assumere totale autonomia e separatezza, condizionandone sia l’ideologia,
sia la stessa dinamica interna.
Può essere utile, assai schematicamente, individuare alcuni tratti della “cultura del ‘68”
più specificamente legati a questo aspetto,
tratti che ricollegano quell’evento, di nuovo,
con tendenze profonde e di lungo periodo.
a. La contrapposizione della guerriglia alla
guerra (che si connette anche con la nuova
immagine della pace e della guerra definita
TEXT
plichino. Certo è che la “naturalità” con la
quale la cultura del ‘68 assume un punto di
vista transnazionale è inspiegabile senza tener conto delle abitudini create dalle comunicazioni di massa.
d. Un po’ scherzosamente, si può dire che
come il ‘48 è il primo evento politico dell’era del telegrafo (anche se non vi fu un
uso del telegrafo da parte dei rivoltosi),
così il ‘68 è il primo evento politico dell’era
del satellite, anche se il primo vero “evento”
via satellite si sarebbe verificato solo l’anno successivo, con la Luna. Con il satellite, con la “diretta” planetaria, il concetto
di simultaneità su scala mondiale assumeva una nuova, impressionante, immediatezza. D’altra parte, il satellite, il primo mezzo che permette all’umanità di “vedere”
dall’esterno il pianeta è, come ha intuito
Hannah Arendt nell’anno stesso del lancio
dello sputnik, una novità radicale (letteralmente) nella “visione del mondo”. La terra
vista dal di fuori appare assai più unita, e
vincolata ad un comune destino; mentre il
radicamento territoriale non può che relativizzarsi. Man mano che il “punto di vista”
del satellite diviene, non solo accettabile,
ma “normale” anche nel senso di normativo,
si preparano a livello di mentalità delle trasformazioni la cui reale portata potrà essere
compresa forse solo in futuro.
e. L’idea di un’unità crescente del pianeta
era incorporata, già alla fine degli anni ‘60,
in molte delle merci quotidianamente prodotte e consumate. Se è vero che il carattere mondiale dell’economia capitalistica è
antico quanto il capitalismo, è anche vero
che a partire dagli anni ‘60 si è verificata
una nuova svolta ed accelerazione nell’interdipendenza produttiva: lo spezzettamento dei processi di produzione tra diverse aree
nazionali, addirittura tra diversi continenti,
favoriva la consapevolezza da un lato del carattere necessariamente internazionale della
lotta di classe, dall’altro della difficoltà, per
non dire dell’impossibilità, di isolarsi da un
sistema produttivo globale che fa sentire la
sua presenza, e la sua essenzialità, fin nei
più minuti aspetti della vita quotidiana.
Il ‘68 ereditò, quindi, dai decenni precedenti
un mondo più fortemente unito, più interdipendente, più dolorosamente consapevole del
proprio comune destino, di quanto fosse mai
stato prima. Senza questa eredità, la spontaneità, per così dire la “naturalezza” della
circolazione internazionale delle lotte sarebbe incomprensibile; sarebbe incomprensibile
il fatto che per il movimento, ovunque, il
mondo era il vero scenario di ogni battaglia,
la vera platea di ogni gesto.
D’altra parte, la cultura politica cui il ‘68 si
ribellava, la cultura dominante degli anni ‘50
e ‘60, appariva inconsapevole delle sue stesse
premesse: se il mondo era, di fatto, più unito che mai, l’ideologia dominante lo voleva
diviso in campi contrapposti e inconciliabili
(ma tra i quali, il ‘68 stesso lo avrebbe dimostrato, numerosi erano i legami); se l’interdipendenza globale postulava lo sviluppo
di relazioni sempre meno diseguali, la prati-
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dalla bomba atomica) è, da questo punto di
vista, doppiamente significativa. In primo
luogo, la guerriglia, come il movimento (e nel
‘68 i due termini sono spesso assunti come
intercambiabili, fino al ridicolo) appariva movimento permanente, sempre in via di rilancio
e di rinnovamento, come dimostrava l’esempio del Che, che del resto era visto come tanto più eroico in quanto la sua scelta della
guerriglia nasceva anche dal rifiuto della condizione, gloriosa ma statica, del rivoluzionario vittorioso. La guerriglia sembrava cioè implicare il rifiuto di un ordine stabile, che la
guerra si propone invece come fine ultimo.
In secondo luogo, il guerrigliero, a differenza del “regolare”, appariva capace di trovare
ovunque le proprie “basi”, ma privo di radici stabili e condizionanti. L’esaltazione della
guerriglia rimandava, insomma, da un lato all’esaltazione del “movimento” come fine a se
stesso, dall’altro a quel rifiuto del radicamento territoriale e dell’identità geografica, a cui
abbiamo già accennato.
b. L’idealizzazione della guerriglia e del guerrigliero è, così, strettamente intrecciata con
l’idealizzazione della contraddizione e del
conflitto in quanto tale, che nel pensiero di
Mao paiono, tra l’altro, proporsi come sola soluzione autentica alla crisi dell’idea di progresso. È bene tener presente questo aspetto
anche per chiarire come il ‘68 abbia potuto
proporsi, insieme, come l’ultimo movimento “progressista” e come il primo movimento
rivoluzionario maturato a partire dalla consapevolezza dell’inaccettabilità del mito del
progresso. Ad un’idea evolutiva e per così
dire cumulativa della storia il ‘68 opponeva
l’idea di una storia come successione di conflitti e tensioni sempre nuovi; il progresso appariva quindi non come una crescita, come la
somma di successive conquiste, ma come il
manifestarsi, ad un livello sempre “più alto”,
della lotta (in sé, a ben vedere, ripetitiva) tra
tendenze rivoluzionarie e tendenze conservatrici. In questo aspetto, il ‘68 dimostra bene
la sua natura di grande momento di transizione nella sensibilità, nel senso comune, di intere società.
c. D’altra parte, l’insistenza sul movimento in
quanto tale, sull’originalità e la novità come
fini in sé (che, si può anche dire, rappresentano da un certo punto di vista l’estensione ad
un movimento di massa di alcune idee diffuse
in precedenza soprattutto fra le avanguardie
artistiche), si collega pure ad alcuni aspetti
della cultura di massa contemporanea. È stato soprattutto Gitlin a richiamare l’attenzione sull’ossessione della nuova sinistra per i
meccanismi del “fare notizia”. È probabile che
parte del “movimentismo” possa essere ricondotta ad un sistema comunicativo nel quale
il far parlare di sé, e in ultima analisi l’esistere sulla scena pubblica, di un movimento
politico, è strettamente condizionato dal suo
“fare notizia”, dal suo proporsi continuamente come novità.
d. La volontà di rinnovamento, la volontà di
creare, con la propria azione politica, una radicale novità sulla scena del mondo, e al tempo stesso, di sottrarre il movimento ad ogni
processo di senescenza e di cristallizzazione: questi tratti caratteristici si ricollegano
anche, ed intimamente, alla natura generazionale del movimento. Proprio in quanto fenomeno giovanile, esso traeva, in fondo, la
sua più intima legittimità dalla contrapposizione al mondo adulto e alle sue “mature”
istituzioni. È vero che solo in alcuni paesi
(l’Olanda, gli Stati Uniti) la contrapposizione giovane/adulto venne teorizzata consapevolmente e senza timori: che in molti altri,
tra cui l’Italia, il movimento stesso accoglieva spesso con fastidio chi ne sottolineava la
natura generazionale. Ma la composizione di
età (almeno per quanto riguarda l’anno 1968)
dei partecipanti all’agitazione fu sostanzialmente la stessa in tutto il mondo, e tale da
lasciare poco spazio ad equivoci. Il sentire la
propria agitazione come “naturalmente” innovatrice e non riconducibile ad alcuna tradizione è quasi ovvio in un movimento la cui
mancanza di radici nella generazione precedente è quasi totale (salvo che a livello di
identificazione ideale, ma viene da chiedersi se l’identificazione con la guerriglia partigiana non fosse in fondo analoga all’identificazione con la guerriglia vietnamita). Il
timore costante della cristallizzazione, della
burocratizzazione, della perdita di ogni carica
innovativa, è normale in un movimento che
esprime una così profonda ambivalenza verso
il passaggio all’età adulta.
Del resto, l’altra faccia della radicale volontà di rinnovamento, dell’insofferenza per ogni
“istituzionalizzazione” e per ogni fissazione
in un ordine stabile, per quanto “avanzato”,
è rappresentata, come fu notato subito da alcuni osservatori acuti, da una sottile sfiducia,
dal timore, represso ma sempre riemergente,
che ogni azione innovativa si infrangesse necessariamente contro un mondo ormai chiuso, nel quale i giochi erano già fatti. Il riproporsi continuo di uno scontro fra “linea
rossa” e “linea nera”, se può essere per un
verso visto come l’ultima versione dell’idea di
progresso, può essere, per un altro, il segnale
di una sfiducia profonda (per quanto mascherata da ricorrenti dichiarazioni di ottimismo)
nella possibilità stessa di un rinnovamento
davvero radicale.
Se non si tiene conto di questo aspetto, la
dialettica storica della nuova sinistra rischia
di essere incomprensibile. (E può essere interessante notare che molte delle letture degli eventi di allora, tendenti a riportare l’agitazione nell’ambito delle tendenze profonde
del sistema, pur proponendosi come interpretazioni profondamente critiche nei confronti del movimento, non fanno che esasperarne un aspetto, la tendenza alla sfiducia, il
timore che ogni “linea rossa” emergente non
possa non trovarsi di fronte una “linea nera”
soverchiante).
* Il saggio è parte del capitolo “La sfinge ‘68” di
Cinque lezioni sul ’68, edito come Dossier dalla rivista rossoscuola, nel gennaio del 1987. Peppino
Ortoleva dopo aver riletto il testo, che non gli capitava sotto gli occhi da molti anni, ci ha detto
«di riconoscervisi ancora, e di non avere nulla da
aggiungere».
abb.
2008
La rivista trimestrale, la lettera telematica mensile,
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trend
noi cercavamo braccia
ma a quelle braccia
erano attaccate
persone
L A N U O V A T R A T T A D E G L I S C H I A V I
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