L`istituzione della mancanza. Quaderni Fiorentini per la Storia del

annuncio pubblicitario
QUADERNI FIORENTINI
per la storia del pensiero giuridico moderno
42
(2013)
FRANCESCO MIGLIORINO
L’ISTITUZIONE SOCIALE DELLA « MANCANZA »
(a proposito di Antonio M. Hespanha, Imbecillitas.
As bem-adventuranças da inferiodidade nas sociedades
de Antigo Regime, Säo Paulo, Annablume Editora, 2010)
1. Premessa. — 2. Il brusio della lingua e il discorso della storia. — 3. Rusticitas: un
paradigma dell’umano. — 4. L’abito diventa corpo.
1.
Premessa.
Prendo a prestito le parole di Pietro Barcellona che a proposito
de L’istituzione immaginaria della società di Cornelius Castoriadis mette
in evidenza come — fra psiche, istituzione sociale, immaginazione del
reale e del razionale — la « dinamica del desiderio e del bisogno trovino
il loro punto di partenza nella necessità per il soggetto di colmare,
coprire un vuoto, una mancanza » (1).
Il libro di Hespanha ha davvero un titolo aspro, quasi un pugno
nello stomaco, con i suoi segni drammatici e i suoi slittamenti semantici.
L’imbecillitas, da sempre, si dà a vedere come debolezza dell’animo e
del corpo. Per tutti, non solo per alcuni: per chi resta confinato e
macchiato ai margini della Polis, e per chi — al riparo del suo status —
guarda con orrore agli esiti ‘bestiali’ di una degradazione sociale.
Il sottotitolo, invece, è dolce e suadente: « Le beatitudini dell’inferiorità ». Non può non alludere ai libri sapienziali e ai Salmi, soprattutto al « Discorso della montagna » (Mt 5,1-12 e Lc 6,17-26) col suo
elenco di beati: poveri in spirito, afflitti, miti, affamati di giustizia,
misericordiosi, puri di cuore e operatori di pace.
Da una parte, dunque, la separazione e l’ostracismo, dall’altra, la
riconciliazione voluta dall’ordine naturale del Creato. In questa polarità, riducibile solo in virtù di ardite giravolte, si costruisce la trama
(1) Edizione italiana a cura di F. Ciaramelli, presentazione di P. Barcellona,
Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 16.
662
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
narrativa del libro di Hespanha che aggroviglia il suo lettore entro le
maglie e gli incroci di un labirinto. Verrebbe da pensare al grande e
sperduto Architetto della Ragione che, nel silenzio siderale dei suoi
pochi giorni (solo sei), ha lasciato sulla scena il drammatico e mai risolto
confronto tra le « maschere del diritto » e i « volti della vita ».
Immagini e archetipi, dunque, che hanno segnato, in maniera
radicale, il modo in cui l’umano si è riconosciuto come tale. Senza dover
chiedere spiegazioni a chi non poteva darne.
Il nostro Autore frequenta da sempre l’immaginario della società
d’antico regime con un’inclinazione non comune a interrogare le fonti
senza infingimenti o giri di parole. La sua capacità di ‘costruzione’
spiazza a tal punto il lettore da impigliarlo in una rete di simboli
significanti che, dai lemmi del premoderno a quelli del postmoderno,
cambiano continuamente di posto.
Il ‘discorso’ di Hespanha meriterebbe di essere discusso in un
seminario di teoria della narrazione. In fondo, uno dei suoi autori
prediletti, Reinhart Koselleck, con i suoi studi sulla semantica della
modernità e sulla teoria dei concetti storici, in questa specifica area ha
dissodato terreni mai esplorati prima.
2.
Il brusio della lingua e il discorso della storia.
Roland Barthes ha tanti meriti. In un breve prezioso saggio del
1967 ha saputo decostruire il luogo comune secondo cui i discorsi degli
storici siano « per antonomasia una descrizione del reale ». La sua era
una sacrosanta critica all’impianto del positivismo e, tuttavia, lo scritto
ha una portata più ampia perché riguarda la propensione autoreferenziale di ogni discorso storico: « il discorso storico non segue il reale, non
fa altro che significarlo, continuando a ripetere è accaduto, anche se tale
asserzione è sempre e soltanto l’altra faccia, il significato, di tutta la
narrazione storica » (2). L’enunciazione di Benveniste e gli shifters di
Jakobs servono al grande semiologo francese per denunciare quel
« cortocircuito significante-referente » che — come nel messaggio fotografico — mette allo scoperto l’analogia meccanica della realtà (3).
Da qui vorremmo cominciare per mostrare la forza euristica del
(2) R. BARTHES, Il discorso della storia (1967), in Il brusio della lingua: saggi critici
IV, trad. it., Torino, Einaudi, 1988, p. 148.
(3) Cfr. P. BERTETTI, Opzione anti referenziale, descrizione, effetto di reale nella
semiologia di Roland Barthes “Sourtout il faut tuer le référent!”, in Con Roland Barthes.
Alle sorgenti del senso, a cura di A. Ponzio, P. Calaferato, S. Petrilli, Roma, Meltemi
2006, p. 157 e ss.
LETTURE
663
concetto di immagine usato più volte da Hespanha, ma anche la sua
controversa significazione. È una parola che dà il fianco a molti
fraintendimenti. Di che parliamo quando usiamo la coppia immagine/
immaginazione? Di quella forza creatrice (primaria e irriducibile) di
significati collettivi grazie ai quali avviene la socializzazione degli individui, o dobbiamo rassegnarci all’idea che i « significati immaginari
sociali » si costituiscano nel loro rapporto con gli oggetti considerati
come loro referenti (4)? Ci riferiamo forse all’« esser già preso » di cui
parla Husserl a proposito del mondo della vita (Lebenswelt) (5)? E
ancora: alla « precomprensione » di Heidegger o agli esiti più radicali
dell’ermeneutica? Qual è lo scarto tra le « forme di vita » di Wittgenstein (il dato che dev’essere accettato (6)) e l’immaginazione riflessiva (i.e.
secondaria) di cui si serve l’uomo interpretante per mettere ordine e
strutturare i dati dell’esperienza (7)?
Può esser utile qui ricordare la centralità del termine Weltbilder
(immagini del mondo) di Hans Blumenberg, per non dire della Einbildungskraft della Terza Critica di Kant, che non è semplicemente
immaginazione, ma appunto facoltà dell’immaginazione. Non sono
questioni di poco conto, se si vuole davvero affrontare « il significato
del significato » del pesante e soave fardello dell’imbecillitas nella
società d’antico regime.
Il primo e denso capitolo del nostro libro, « Um pouco de teoria
de História », è davvero generoso al riguardo. È come se l’Autore
volesse scoprire le sue carte prima ancora di giocarle.
« Immagine » — egli scrive — rinvia all’idea di modelli organizzativi di percezione della realtà. Alla stessa maniera delle rappresentazioni e dei concetti, le immagini si connotano per la loro capacità
strutturante e poietica nella formazione della conoscenza. Questi immaginari non mantengono alcun rapporto obbligato (meccanico) con
l’oggettività inerte. Una pluralità di mediazioni, rifrazioni, creazioni
orientano il passaggio dalla realtà alla sua rappresentazione intellettuale.
(4) Per CASTORIADIS, L’istituzione immaginaria della società, cit., Prefazione
all’edizione originale, p. XXXVII e s., « l’immaginario di cui parlo non è immagine di. È
creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di
figure/forme/immagini, a partire da cui soltanto si può parlare di “qualche cosa” ».
(5) Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, trad. it., Milano, Il Saggiatore,
1961.
(6) L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, trad. it., Torino, Einaudi, 1995, Seconda parte, p. 195.
(7) Cfr. C. GEERTZ, Interpretazione di culture, trad. it., Bologna, il Mulino, 1987,
p. 41.
664
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
Ma c’è di più: una volta impiantati nelle pratiche sociali, essi modellano
le percezioni, le valutazioni e i comportamenti dei singoli e dei gruppi.
Per il nostro Autore, tali matrici generali di percezione e di
valutazione sono costitutive del « senso comune » e si mantengono
tendenzialmente coerenti grazie al discorso giuridico, che trascrive con
le logiche della Topica le forme accettabili e accettate dai più. La
categorizzazione sociale, dunque, come forma di istituzionalizzazione
dei legami sociali, che — tra « sistema » e « ambiente » — vince la sua
stessa inerzia quando è chiamata a fronteggiare nuovi interessi e nuovi
assetti. Per questa via, la rielaborazione immaginaria della gerarchia
sociale ha come esito una sorta di rivoluzione che, senza fare scorrere
una sola goccia di sangue, conquista la sua Bastiglia con le parole di una
nuova categorizzazione. « Molti nomi — lo fa giustamente rilevare
Hespanha — non sono solo nomi: « intellettuale », « borghese », « proletario », « uomo », « pazzo », « rustico », sono, in aggiunta ai loro
fonemi e alle loro lettere, statuti sociali per i quali si lotta, per farne
parte o per uscirne ». Le categorie come piazzeforti che si conquistano
o si perdono, a tal punto che la mobilità di status, nell’antico regime, era
innanzitutto « onomastica o tassonomica » (p. 18).
Il nostro Autore fa riferimento a Koselleck e alla sua Begriffsgeschichte per dire: « Le categorie costituiscono, di fatto, modelli molto
permanenti per dare senso ai comportamenti individuali e individualizzati [...]. Allo stesso modo in cui le strutture (virtuali) del linguaggio
(langue) attribuiscono significato alla lingua parlata (langage) e agli atti
linguistici (linguistic utterances » (p. 22). La creatività della categorizzazione è analoga a quella di un atto di parola: senza il suo radicamento
nel tessuto sociale e storico della lingua, non sarebbe né possibile né
comprensibile. Il che è del tutto condivisibile, salvo ammettere che si
rischia di lasciare molto sullo sfondo il problema teorico dello statuto
ontologico del singolare-collettivo.
Si dà forse troppa enfasi all’« autonomia » dei concetti e del
discorso, si corre il rischio di ritrovarsi senza bussola nella radura di un
incerto costruttivismo linguistico. A ben vedere, il linguistic turn di
Koselleck assegna, invece, un ruolo fondamentale al linguaggio e al
mutamento semantico delle categorie che sono insieme prodotto e
ri-orientamento della realtà storica. D’altronde, è lo stesso Autore a
citare un passaggio decisivo di Futuro passato: « Con ogni concetto
vengono posti determinati orizzonti, ma anche i limiti di un’esperienza
possibile e di una teoria pensabile [...]. Il linguaggio concettuale è un
mezzo intrinsecamente coerente per tematizzare la capacità di esperien-
LETTURE
665
za e la consistenza teorica » (8). Per Koselleck, la fattibilità della storia
(Machtbarkeit) guarda alla realtà ontologica della storia come forse mai
era stata pensata prima (9).
Se volessimo provare a spiegare ai nostri studenti una questione
così intricata, potremmo prendere ad esempio il concetto di « Guerra ».
Senza dover ricorrere alla nozione di Epochenschwelle di Blumenberg (10), basterebbe l’occhio cinematografico di Stanley Kubrick che,
nella persistenza di una parola così possente, fa vedere la propensione
dei concetti a piegarsi ai tempi della storia (11): Barry Lyndon (la guerra
dei sette anni) e Orizzonti di gloria (la prima guerra industriale) sono al
riguardo una magnifica trascrizione cinematografica della Begriffsgeschichte (come « capacità di esperienza » e « dimensione teorica »,
appunto) (12).
(8) R. KOSELLECK, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. it.,
Bologna, Clueb, 2007, p. 102.
(9) Come fa rilevare acutamente B. MAJ, ‘Was aber schön ist, selig scheint es in
ihm selbst’. Intermittenza delle immagini e ‘Unverletzlichkeit’, in « Engramma. La
tradizione classica nella memoria occidentale », ottobre 2010, nr. 104 (http://
www.engramma.it/eOS/index.php): « Blumenberg e Reinhart Koselleck avevano molti
punti in comune. Ma è stato lo storico che, nella parte moderna della voce Geschichte
(1967) dei Geschichtliche Grundbegriffe — testo a lungo ignorato dallo stesso Ricœur —
ha spiegato che nella seconda metà del Settecento si è formato un nuovo concetto di
storia come sostanza metafisica e insieme soggetto, in virtù del quale per la prima volta
la storia stessa appariva fattibile dall’uomo (Machbarkeit der Geschichte). Di qui un
nuovo nesso temporale, in cui diventa dominante la dimensione del futuro. Attraverso
questo varco il prospettivismo storiografico ha potuto trasformarsi in ideologia, in
particolare nel paradigma marxista. Il modello, riassumibile anche nella formula della
“storicizzazione del tempo” e della “temporalizzazione della storia”, è chiaramente
pensato contro lo schema della temporalità originaria di Sein und Zeit di Heidegger,
esattamente come tutta la riflessione di Walter Benjamin sulle dimensioni del passato e
la loro correlazione con il presente mirano a ‘distruggere’ la concezione heideggeriana
del tempo ».
(10) Centrale nella ricostruzione di La legittimità dell’età moderna, trad. it.,
Genova, Marietti, 1992.
(11) Kubrick è fra i più acuti indagatori della violenza, e la guerra è un suo tema.
La storiografia in certo senso lo lascia agli specialisti di storia militare, confinandolo in
una zona intermedia e oscura. Non a caso è molto più l’arte — letteratura, pittura,
musica — a indagarne il significato: come esempi paradigmatici, Iliade e Persiani di
Eschilo, codici fondanti dell’epica e della tragedia. Del tutto ovvio, allora, che il cinema
se ne sia impadronito, in chiave ora epica ora tragica (o mista).
(12) Cfr. KOSELLECK, Futuro passato, cit., p. 98: « il rigore diacronico con cui la
ricerca si occupa della durata e del cambiamento di un concetto accresce la rilevanza
storico-sociale dei risultati [...]. Solo in un’ottica diacronica la durata e la validità di un
666
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
Per accedere agli universi di senso della società d’antico regime
non c’è ragione di contrapporre il macro al micro, le categorie alle
pratiche, le strutture agli individui. Finiremmo per ricacciare la costellazione di quella esperienza nel suo buco nero, salvo poi chiedere agli
storici una nebulosa quanto improbabile « capacità trans-istorica » di
osservazione. Non si può non essere d’accordo con l’insistito richiamo
al « decentramento del soggetto » e alla dimensione implicita (non
intenzionale) della testualità: « Qualunque grande pensatore che appare
qui si mostra senza galloni, ridotto a soldato semplice (ma forse più
eloquente) di uno sterminato esercito anonimo ». A lasciare dubbiosi
sono, però, i riferimenti a Michel Foucault.
Non v’è dubbio che nelle opere « archeologiche » degli anni
sessanta (Storia della follia, Le parole e le cose, L’archeologia del sapere)
il filosofo francese scandaglia le pratiche discorsive in cui si articola il
sapere, senza però perdere di vista il tema generale delle sue ricerche:
il soggetto e, più precisamente, le procedure di soggettivazione. Le
regole anonime e storiche che, in un contesto sociale determinato,
fissano le condizione di esistenza degli enunciati si imbattono in una
molteplicità di relazioni non discorsive e di dispositivi disciplinari.
L’a priori storico (a priori historique) di Foucault ha poco a che
vedere con la previsione prescrittiva di Kant, meno che mai con un
soggetto trascendentale che, con la sua primazia ontologica, precede e
fonda le pratiche. Il sapere implicito (savoire implicite) di cui si occupa (13), non è riconoscibile nell’« autonomia del discorso » che è
invocato da Hespanha. Per non dire che Foucault, con i suoi continui
ripensamenti e aggiustamenti, è forse l’autore meno propenso a essere
assunto come icona. Basterebbe pensare al suo percorso in cui gli assi
del potere, del sapere e del soggetto si intersecano a più riprese con
profondi mutamenti prospettici.
Il problema è il rapporto tra le formazioni discorsive e le pratiche,
che non sono, come pensa Hespanha, entità autonome da cui scaturirebbero le dimensioni pragmatiche e le relazioni di potere.
concetto sociale o politico e le strutture corrispondenti possono diventare visibili. La
permanenza delle parole, in se stessa, non è un sintomo sufficiente dell’identità dei loro
contenuti attraverso il tempo ».
(13) Cfr. Michel Foucault, Les mots et le choses (intervista con Raymond
Bellour), trad. ital., in Archivio Foucault I, 1961-1970. Follia, scrittura, discorso, a cura di
J. Revel, Milano, Feltrinelli 1996, p. 110 s.: « In una società le conoscenze, le idee
filosofiche, le opinioni di tutti i giorni, ma anche le istituzioni, le pratiche commerciali e
poliziesche, i costumi, tutto rimanda a un certo sapere implicito proprio su queste
società ». Interrogare questo sapere « permette di evitare ogni problema di precedenza
della teoria rispetto alla pratica, e viceversa ».
LETTURE
667
Per dirla con Carlo Sini, per « pratica » non si intende « qualcosa
di pratico, di strumentale, di subordinato alla teoria ». Il rapporto tra
teoria e prassi è il risultato di una sorta di mondo capovolto. Non c’è
mai « il mondo, o un mondo, che se ne stia lì, chiuso in se stesso, cioè
senza riferimento a una qualche pratica di mondo ». Da Peirce a
Nietzsche, da Husserl ad Heidegger, da Wittgenstein a Foucault, si è
sviluppata una riflessione della « prassi trascendentale » che è « costitutiva delle cose che la coscienza ingenua incontra di volta in volta nel
mondo, prendendole come reali in sé e per sé » (14). Le pratiche non
sono mai meramente pragmatiche, sono la possibilità di esistenza dei
soggetti e degli oggetti di conoscenza. Viene alla mente l’innocente
risposta data dal contadino analfabeta all’infaticabile neurologo Alexander Lurija che gli chiedeva di dare una definizione delle cose che
trasformava e degli attrezzi che maneggiava per riscaldare la casa.
Imprendibile nelle maglie della scrittura, egli si sottraeva volentieri a
quella coazione che ci è, invece, così familiare, di spiegare e di definire.
L’albero e i rami, la sega e i tronchi non potevano essere messi a
distanza dalla sua quotidiana fatica di fare la legna, portarla in casa per
poi arderla. Col suo descrivere e non definire, stava rappresentando la
pratica di cui egli stesso era parte, insieme alle cose, alle procedure e al
patrimonio testuale di una sapienza antica (15). Diversamente da quanto
accade a noi quando esibiamo la nostra sovranità (il nostro senso
estetico) nel mettere a distanza le cose: restiamo abbagliati dal mondo e
non ci accorgiamo che ogni giorno esigiamo una apertura di senso, ogni
giorno riscuotiamo un debito sociale (e culturale) in virtù delle molteplici pratiche che — insieme alle cose — ci fanno stare-al-mondo (16).
3.
Rusticitas: un paradigma dell’umano.
Per Francisco de Vitoria, « la “mala et barbara educatio” che
rendeva “insensati et hebetes” i nativi non era [...] per nulla dissimile da
quella dei “rustici”, che così poco si distinguevano dalle bestie » (17).
Rusticus non era mai stato un termine neutro e per i maestri del
diritto comune « traduceva l’ignoranza, la brutalità, la malizia, ma
anche la furbizia e la primitiva innocenza di tutti coloro che “vivevano
fuori dalle città”, di tutti coloro che, depositari solo di un sapere orale
(14) Cfr. C. SINI, Filosofia e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 77 e ss.
(15) Ivi, p. 65.
(16) Ivi, p. 78 s.
(17) Cfr. L. NUZZO, Dal colonialismo al post-colonialismo: tempi e avventure del
‘soggetto indigeno’, in « Quaderni fiorentini », 33-34 (2004/2005), p. 475.
668
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
e “rustici opere et conversatione”, vivevano ai margini della testualità
giuridica » (18).
Hespanha dedica un corposo capitolo a questo mondo di confine,
in cui si fronteggiano oralità e scrittura, diritto comunitario e diritto
ufficiale, basso e alto, terra e cielo. Un vero e proprio crocevia che si
potrebbe anche assumere come una delle chiavi di lettura per provare
a decifrare — nello spazio liminale della condizione umana — la
funzione sociale delle inferiorità d’antico regime.
Le fonti storiche spiegano e nascondono allo stesso tempo. Ci
mostrano sovente — in modo ingannevole — ciò che in esse andiamo
cercando, e rimangono invece mute quando, con una certa dose di
presunzione esigiamo risposte alle nostre domande (p. 141). Può persino accadere che il verosimile s’incarichi di colmare i vuoti e le lacune
che la storia si porta appresso da sempre, a tal punto da dissimulare
mitologie ed epifanie che rassicurano tanto lo storico, quanto i lettori
per cui egli scrive le sue storie.
La centralizzazione della corona, la lotta agli abusi feudali, l’investitura sacra del « paterno » monarca s’incontravano — nell’immaginario sociale — con la pretesa dei giuristi di obliterare le periferie della
giustizia. Un universo marginale che, al cospetto del formalismo del
diritto comune e di quello regio, faceva valere la sua formidabile
capacità di resistenza. Una vita giuridica locale, basata sull’oralità e sui
rapporti comunitari, che ha lasciato poche e sperdute tracce nel grande
mare della testualità. Un’idea di giustizia popolare che, per funzionare,
faceva affidamento a procedure (non formalizzate) di rapidità ed equità,
che mirava soprattutto a ristabilire — a ogni offesa ricevuta dalla
comunità — l’equilibrio e la concordia tra le famiglie. Grazie anche
all’occhiuta vigilanza di ascoltati « boni et graves homines » (19).
Una sorta di « sotterramento » della vita giuridica locale che,
forse, è possibile riportare alla luce con gli attrezzi dell’antropologia
culturale e della sociologia giuridica. Si potrebbe pensare alla distinzione tra società dominate da una matrice tradizionale (traditionale Herrschaft) e società governate da un sistema politico legale e razionale
(rationale Herrschaft). Nell’ambito del diritto, il contrasto tra questi due
(18) Ibidem, ma soprattutto A.M. HESPANHA, Sabios y rústicos. La dulce violencia
de la razón juridica, in La gracia del derecho. Economía de la cultura en la edad moderna,
Madrid, Centro de estudios constitucionales, 1993, p. 32.
(19) Al modo dei testes synodales, anche i boni et graves homines rinviavano agli
onesti e probabiles endoxoi della logica aristotelica: cfr. P. VON MOOS, Das Öffentliche und
das Private im Mittelalter. Für einen kontrollierten Anachronismus, in Das Öffentliche
und Private in der Vormoderne, a cura di G. Melville und P. von Moos, Köln-WeimarWien, Böhlau Verlag, 1998, p. 33.
669
LETTURE
tipi di organizzazione sociale — cui si lega una dualità di organizzazione
simbolica — è stato ampiamente applicato alle società emarginate dei
nostri giorni, come per le favelas di Rio de Janeiro (p. 147). Ricerche di
grande fascino, ma che — per quel che ci riguarda — rischiano di far
parlare gli uomini del passato con parole che non potevano essere
ancora dette nel loro tempo. In ogni caso, non può perdersi di vista che
l’antagonismo tra pratiche giuridiche arcaiche e modelli di giustizia
istituzionalizzata non genera, sempre e comunque, relazioni di radicale
opposizione. Sarebbe come ammettere che le così dette « culture
orali », ieri come oggi, siano una sorta di « sospensione » della « pratica
della scrittura », sarebbe come attualizzare, in maniera artificiale, la
« Lettera VII » di Platone. L’oralità è la figlia prediletta della scrittura,
non s’era data mai a vedere prima che venisse alla vita la « pratica
alfabetica » (20). Ci convince allora di più Hespanha quando — citando
Fernando Bouza — scrive: « I mondi della cultura orale e della cultura
scritta non si trovano isolati uno dall’altro, soprattutto perché la
tradizione orale si può mantenere efficace e strutturante in seno a una
cultura già dominata dall’espressione scritta » (p. 155).
A partire da questo denso e colto capitolo, vorremmo provare a
vedere come la rusticitas sia stata assunta come paradigma per ogni altra
forma di inferiorità. Rustici erano senza dubbio i selvaggi e i neri di cui
si occupavano i teologi salmantini, ma anche i fanciulli riottosi a ogni
forma di educazione e di incivilimento. Così come i miserabili, i poveri,
i dementi, i furiosi e gli infami. Una parola performativa che contribuiva
a istituire le cose che nominava: si applicava non solo ai grossolani, ai
rudi e agli ignoranti dell’Europa cristiana; nel secolo d’oro della Conquista, si attagliava magnificamente ai nativi d’oltremare, di ogni genere
e specie. Creature che portavano nel loro soma un’inquietante mistura
di ferinità e di innocenza. Viene da pensare agli homines feri di Linneo,
che — nell’aurorale stagione dell’Aufklärung — servirono a dimostrare
che il « subumano » può accedere, con l’apprendimento delle « buone
maniere », alla piena e compiuta condizione civile (cioè umana). Soprattutto, al selvaggio dell’Aveyron, che restò preda dell’insaziabile
stupore dei curiosi. Diversamente dai folli, però, il piccolo sperduto
ragazzo fu accolto nei salotti, fu dotato di una pensione e — ai nostri
giorni — persino di un film di François Truffaut. Nonostante gli
encomiabili sforzi del dottor Itard, il volenteroso selvaggio non uscì mai
dal suo piccolo e insignificante giardino zoologico. Salvo a scoprire che
dalla scienza naturale del Settecento alla scienza dell’uomo dell’Otto(20)
Cfr. SINI, Filosofia e scrittura, cit., p. 22 e ss.
670
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
cento, nel frattempo si era fatta strada una spiegazione diversa (del
grande Pinel): la sua era una imbecillità congenita.
Come si vede, siamo giunti a un vero crocevia. Le inferiorità
dell’antico regime — dei rustici in primo luogo — rinviano a quello
spazio liminale in cui l’umano si specchia nella sua natura animale e
misura il bordo tagliente della sua finitudine.
Il nostro libro è stracolmo di riferimenti e citazioni testuali. Le
bestie « personificate » che subivano processi nei tribunali laici ed
ecclesiastici (p. 63 e ss.); i bambini che con la loro misera capacità di
discernimento erano, come gli animali, soggetti all’ira e al desiderio
sfrenato: « di tutti gli animali, il bambino è il più intrattabile e insidioso,
un animale difficile e molto stupido » (p. 72); i prodighi, con la loro
impotenza dell’anima, erano simili agli animali selvatici (p. 109); i
montanari della Corsica che in compagnia solo delle bestie se ne
stavano dispersi in piccoli villaggi di sei o sette misere capanne (p. 163);
le donne lascive che, come le giumente, toccavano il massimo della loro
perversione nei rapporti sessuali (p. 114). Insomma, uno sgangherato
esercito di deboli nel corpo e carenti nello spirito, a cui il potere — col
suo volto paterno e severo — elargiva protezioni e tutele.
Ci muoviamo lungo le linee di frattura in cui l’« alterità umana »
s’incontra con quella « non umana ». Uno spazio metaforico in cui il
discorso giuridico, coi suoi lemmi e i suoi dogmi, ha istituito alla vita
l’efferato, il mostruoso, l’inumano. L’Animale, infatti, è direttamente
coinvolto, insieme al Divino, nella riflessione filosofica quando questa si
rivolge ai suoi propri confini. Nella costruzione del mito, gli animali
hanno avuto — in tutti i sistemi di pensiero — un ruolo fondamentale
di mediazione con la sfera del sacro: una funzione vitale per provare a
leggere ad alta voce il libro sigillato dell’universo. L’« alterità umana »
ha di mira, invece, il diverso, l’ospite, l’efferato, lo storpio, l’infame, il
folle. Una alterità, però, che si confonde a volte con quella « non
umana », sicché la « questione animale » entra volentieri in scena come
elemento rafforzativo di una opposizione che si fa tanto più radicale
quanto più l’Altro sfugge alle maglie del riconoscimento.
Al confine fra umano e inumano operano due strategie distinte:
l’analogia e l’opposizione. Sarebbe però un errore pensare a procedure
che si escludono vicendevolmente. I giuristi, da sempre, sono stati
abilissimi nel combinarle insieme, propendendo ora per l’una ora per
l’altra. Non allo scopo di escludere (oggi useremmo rimuovere) il
« perturbante », ma per « nominarlo » e catturarlo nelle maglie del
diritto.
Per Horkheimer e Adorno, « l’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo ». L’animalità enun-
LETTURE
671
cia una differenza, è la demarcazione dell’umano e nell’umano, il suo
limite e il suo specchio oscuro (21). Un « ciclo maledetto », come l’ha
definito Levy-Strauss (1962), che è servito per escludere degli uomini da
altri uomini e per costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre
più ristrette. La disumanizzazione dell’altro spesso passa attraverso la
sua animalizzazione, ma questa a sua volta è possibile in quanto si sia
operata una preliminare bestializzazione del mondo animale, con le armi
del dominio e della reificazione (22).
Alla fine, potremmo dire che la « domesticazione » di rustici,
indigeni, donne, minori, prodighi e folli si sia avvalsa dello straordinario
patrimonio di esperienza che, da sempre, si costruisce nello spazio
liminale in cui l’umano si fronteggia col lato oscuro della sua animalità.
4.
L’abito diventa corpo.
Ordine e armonia, gerarchie e status sono gli orizzonti di mondo
dell’uomo premoderno. L’ordine in quanto struttura « evoca la costanza, la fissità, l’immodificabilità, la regolarità ». Il mutamento, all’opposto, mette in discussione l’assetto, è un’intollerabile « sfida nei confronti
delle forme, delle strutture consolidate ed ordinanti » (23). Per l’uomo
medievale non si dà unità se non come connessione gerarchica di parti
diseguali. « L’ordine sociale è un momento di un ordine universale e
ripete in se stesso la logica gerarchica della totalità ». In questa visione,
però, le singole parti sono anche momenti di un’indissolubile unità;
parti di un corpo che vive della disuguaglianza, ma anche della solidarietà dei suoi componenti (24).
Hespanha dà in proposito una magnifica descrizione dei quadri
mentali che, nella fitta rete della comunicazione sociale, s’incaricavano
di conferire ordine e significato all’attività dell’uomo (25).
(21) M. HORKHEIMER e T.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, trad. it.,
Torino, Einaudi, 1966, p. 262.
(22) Cfr. A. RIVERA, Una relazione ambigua. Umani e animali, fra ragione
simbolica e ragione strumentale, in Homo sapiens e mucca pazza, a cura di A. Rivera, Bari,
Edizioni Dedalo, 2000, pp. 5-67.
(23) P. COSTA, Ordine, mutamento, secolarizzazione: un’ipotesi interpretativa, in
La dislocazione della religione lungo l’epoca moderna, Catania, CeSIFeR, 2003, p. 11.
(24) Ivi, p. 14, che fa altresì rilevare come la metafora del corpo venga applicata
« alle più diverse realtà sociali e istituzionali per sottolinearne il carattere unitario ».
(25) Z. BAUMAN, Cultura come prassi, trad. it., Bologna, il Mulino, 1976, si avvale
dei contributi più significativi della teoria dell’informazione e della semiologia per
rappresentare la cultura come attività volta alla strutturazione del mondo umano. Per
672
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
In una società profondamente cristiana, la narrazione della creazione svolgeva un ruolo strutturante e ispirava la teologia politica
dell’età medievale e moderna. Un Dio comunicativo, che era insieme
principio regolatore e cibernetico, aveva dotato gli enti fisici e quelli
morali di un’intrinseca natura relazionale. La condizione umana non era
fatta da individui isolati e socialmente indifferenziati. C’erano padri,
figli, professori, scolari, donne, laici, chierici, insieme con prodighi,
dementi, rustici, selvaggi e poveri. Al di fuori e all’interno della condizione di imbecillitas. Ciascuno, per la sua misera parte, era legato a tutti
gli altri per mezzo di predicati e attributi, che li segnavano nella loro
concreta soggettività. L’idea di un ordine oggettivo e indisponibile delle
cose dominava il senso della vita, le rappresentazioni del mondo e le
azioni degli uomini.
Per assecondare la Verità, il comportamento degli uomini doveva
specchiarsi nella natura. La ricerca dell’armonia dalla dissonanza era il
vero « sapere implicito » che guidava tutti, dai più dotti ai più infimi.
Un vero capolavoro di immaginario radicale e inconscio. La comunità
era mantenuta in vita grazie alla capacità di rendere l’altro familiare, di
« trasformarlo in una persona compiutamente definita ».
Si capisce, allora, perché i segni s’incaricassero di stabilizzare il
flusso sociale rendendo riconoscibili gli status, le diversità e le devianze (26). Come recita una glossa di Piacentino, ad ogni status un abito
diverso: « clamis militum, purpura regum, stola clericorum vel sacerdotum, toga advocatorum, birrus rusticorum, coculla monachorum » (27). Una trasparenza « che i moderni scrittori di utopie avrebbero
sognato come un indice di società ideale », ma che a quel tempo « era
una realtà quotidiana, un effetto naturale della continua e totale apertura della vita di ogni singolo membro della comunità allo sguardo di
tutti gli altri » (28).
questa via la cultura come prassi, di ispirazione marxiana, si incontra con l’antropologia
e la sociologia, in particolare con la corrente ermeneutica inaugurata da Clifford Geertz.
Il risultato è significativo: « La cultura non è un insieme di particolarizzazioni della
funzione comunicativa incorporata nel linguaggio, ma è invece il linguaggio che si
trasforma in uno dei tanti strumenti dello sforzo generalizzato di ordinare portato avanti
dalla cultura come un tutto » (p. 146).
(26) Cfr. M. DOUGLAS, Come pensano le istituzioni, trad. it., Bologna, il Mulino,
1990, p. 141 ss.
(27)
Ed. E. CONTE, Tres Libri Codicis. La ricomparsa del testo e l’esegesi
scolastica prima di Accursio, Frankfurt am Main, Klostermann, 1990, p. 158.
(28) Cfr. Z. BAUMAN, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti,
trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 53.
LETTURE
673
Siamo al cospetto di fenomeni strutturali di lunga durata. Come
fa osservare il nostro Autore, « la precomprensione della società come
un tutto ordinato di parti autonome e diverse costituiva la matrice
esplicativa del modo di essere delle strutture istituzionali », a tal punto
che lo stesso concetto di « debito » si inscriveva nell’ordine naturale che
legava fra loro le creature e rendeva necessarie le loro reciproche
relazioni, specchio e rappresentazione della sapienza, della volontà e
dell’infinita bontà del Creatore (p. 52).
Se il mondo era il regno della diversità, ogni singola creatura
acquisiva una disposizione stabile, vestiva una foggia di habitus che non
poteva non corrispondere alla sua funzione naturale. Una costellazione
di status che guardava all’imperfezione come a uno specifico luogo
nell’ordine del mondo (29). Si può ben capire, allora, che il Male (il
nemico assoluto) non fosse il dissimile, ma il simile pervertito e deviato.
Il mito della trasparenza lasciava sul campo le sue crepe e dava a vedere
una storia senza storia. Nell’autunno del medioevo, la lunga durata di
cui parla Hespanha, si infrange insieme con le sue collaudate forme di
controllo sociale. Gli uomini si sentono come soffocare da una generale
condizione di angoscia che lascia presagire poteri sinistri e nemici
invisibili: « uomini senza signore », vagabondi e poveri d’ogni risma
eludono le maglie di un incespicante sistema di sorveglianza e insinuano
il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza. Il perturbante
(unheimlich), con la sua seducente modernità, irrompe sulla scena del
mondo (30).
Non è una discontinuità di poco conto, che nel racconto del
nostro libro è lasciata in ombra, così come non si dà il giusto rilievo alla
cultura della simulazione/dissimulazione e della « restrizione mentale » (31). A ben vedere, invece, a partire dal XVI secolo si aprono linee
di frattura nella épisteme dell’uomo medievale. Mi riferisco a un nuovo
regime di segretezza nella vita pubblica e alla dubbiosità della coscienza. Si tratta di tre avvenimenti capitali che concorrono a dislocare il
luogo della verità dal medium linguistico al teatro e alla scena del corpo.
Nel cono d’ombra della segretezza barocca si comincia a porre il
problema di scandagliare l’interno attraverso l’esterno. In due autori
minori del sec. XVI, Scipione Chiaramonti e Giovanni Bonifacio,
emerge per la prima volta un problema cruciale dei saperi moderni. Ci
(29) Cfr. anche A.M. HESPANHA, Las categorías del político y de lo jurídico en la
época moderna, in « Ius fugit », III-IV (1994-1995), p. 86 e ss.
(30) Cfr. BAUMAN, La decadenza degli intellettuali, cit., p. 53 e ss.
(31) Cfr. in proposito M. TURRINI, Fiducia e restrizione mentale (secoli XVIIXVIII), in La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di Paolo Prodi, Bologna, il
Mulino, 2007, pp. 219-233.
674
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
si chiede se sia operante una frattura tra l’interno (ciò che non si vede,
ciò che è nascosto) e l’esterno (ciò che si manifesta, ciò che appare).
Comincia a serpeggiare il sospetto dell’impossibilità (o almeno, della
difficoltà) di rendere trasparente l’invisibile e di leggervi come in un
libro aperto attraverso segni, cifre e corrispondenze canoniche. Si
individua persino uno scarto tra l’esplicito e l’implicito dei discorsi, tra
quello che si dice e ciò di cui si parla, tra l’enunciato e l’enunciazione (32).
Dinanzi alla naturale inclinazione degli uomini alla simulazione e
al nascondimento, Bonifacio individua nella gestualità del corpo una
sorta di lingua naturale in cui è possibile leggere, meglio che nel comune
parlare, « i più segreti pensieri, i più celati affetti degli animi ». Per
questa via il corpo, per la prima volta, diventa il teatro della verità.
Questa diversa sensibilità non potrebbe intendersi al di fuori della
copiosa trattatistica sulla simulazione e sulla dissimulazione che si
impegna a consigliare al principe e al cortigiano le regole della Ragion
di Stato, le forme oneste e necessarie dell’arte di governo. La simulacome al tempo di Tommaso
zione cinque e seicentesca non è più
d’Aquino
il registro dell’errore né tanto meno una variante della
menzogna. Se la verità è tanto più insondabile quanto più il segreto si
inscrive nel cuore dell’uomo e nelle leggi della natura, si rendono allora
necessarie tecniche più agguerrite per stanarla. La coscienza, per la
prima volta, fa irruzione nel teatro del diritto.
Ma, torniamo al nostro libro, che più volte raffigura un universo
di status che annichilisce la concretezza corporea dei singoli: « Di fronte
a questa molteplicità di stati, la materialità fisica e psicologica degli
uomini scompare. La persona non corrisponde più a un sostrato fisico,
ma passa a costituire l’ente che il diritto crea per ogni aspetto, ogni
fattezza, situazione o stato in cui un individuo gli si presenta ». Di
fronte alla molteplicità dei corpi sociali, la materialità (fisica e psicologica) degli uomini si frantuma fino a dissolversi. La persona non trova
più il suo naturale sostegno e rimane incorporato nell’ente che il diritto
crea per ogni situazione: « la realtà giuridica decisiva, la vera persona
giuridica, è questo stato, che è permanente, e non gli individui, transitori, che gli conferiscono momentaneamente un volto ». Alla fine,
« l’abito si fa corpo » (p. 59).
Francamente, mi pare ci sia una rilevante differenza tra i muti
attaccapanni che erano il frutto dell’astrazione del Codice (33) e gli
(32) Su questi temi cfr. le dense e colte pagine di A. FONTANA, Il vizio occulto.
Cinque saggi sulle origini della modernità, Ancona, Transeuropa, 1989, pp. 15-21.
(33) Cfr. P. CARONI, Saggi sulla storia della codificazione, Milano, Giuffrè, 1998,
p. 29: « milioni di individui, ai quali la soppressione delle strutture comunitarie
LETTURE
675
uomini d’antico regime, che — in virtù dei loro habitus e dei loro
privilegi (iura singularia) — erano classificati entro i recinti di uno status
determinato.
Nel tentativo di individuare il fondamento dell’incapacità di folli
e prodighi, la tesi di fondo del libro è che la teoria della personalità
giuridica, sin dal finire del secolo XVIII (sic!), si sarebbe associata a
quella della capacità, nella sua duplice accezione di Rechtsfähigkeit
(capacità giuridica) e di Handlungsfähigkeit (capacità d’agire): « Per
l’antropologia filosofica e politica della modernità, libertà di volere e
capacità di intendere erano inseparabili, a tal punto che la volontà
razionale e la libertà degradata non erano nemmeno volontà né libertà,
ma passione e tirannia delle passioni e degli istinti », dal momento che
« il modello individualista e contrattualista della società aveva [ormai]
abbandonato l’idea che i diritti e i doveri provenissero dalla natura e
aveva stabilito come principio fondatore degli obblighi e delle prerogative sociali un atto di volontà dichiarata e razionale » (p. 83).
Ciò avrebbe dato origine a una concezione unitaria del soggetto
di diritto (teoria unitária da personalidade) che, spostando il fulcro dei
diritti dallo status alla persona, fece della volontà e della ragione la
condizione essenziale, tanto della titolarità quanto dell’esercizio dei
diritti. È pregevole il tentativo di evidenziare come l’antico regime
vedesse la questione della capacità inscindibilmente legata agli stati e,
anche per questo motivo, non avesse un atteggiamento marcatamente
discriminatorio nei confronti della follia, considerata come una delle
tante peculiarità dell’essere umano. L’affermarsi del paradigma liberale,
invece, nel valorizzare volontà e ragione, avrebbe definitivamente privato i folli della loro « specialità », ponendoli al di fuori del vincolo
politico e relegandoli alla condizione di incapaci e interdetti.
Non è chiaro, invece, perché l’Autore abbia scelto di giustapporre
l’opera di François-Emmanuel Fodéré, medico neanche tra i più celebri
della Francia di fine Settecento, a quella dei giuristi portoghesi, le cui
teorie avrebbero segnato — per motivi diversi — una « involuzione »
della teoria generale della personalità, datata mezzo secolo prima.
L’opera di Correia Telles colloca la trattazione sugli incapaci nell’ambito del diritto di famiglia, Coelho da Rocha, invece, riconduce la
questione agli stati delle persone. Per Hespanha, si dovrà attendere il
primo codice civile del 1867 perché la teoria unitaria della personalità
dell’Ancien Régime aveva irrimediabilmente sottratto ogni possibilità di identificazione
sociale, e che in questo senso erano spaesati e disorganizzati, di colpo divennero attori
di un gioco che li trascendeva, possibili destinatari di diritti e di obblighi, potenziali
titolari di rapporti giuridici [...]. Come una lunga serie di muti attaccapanni in attesa di
possibili cappotti ».
676
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
sia recepita in Portogallo e acquisisca un carattere pregiudiziale rispetto
a tutte le relazioni giuridiche. Questo si può ben condividere, ma resta
il pesante fardello di quell’abito che si fa corpo.
Non v’è dubbio che, nel linguaggio del diritto, l’ambivalenza tra
l’uomo e il suo ruolo non sia mai stata mai risolta né cancellata, al punto
tale che « non la “nuda vita” (ciò che è sotto la maschera) otteneva
disciplina, ma quanto di essa fosse ricalcato, e coincidesse, con la
maschera stessa » (34). Si potrebbe anche aggiungere che « lo scarto tra
la vivente concretezza dell’uomo e l’astrazione della persona [ha]
segnato l’intera storia giuridica dell’Occidente, lungo l’itinerario tracciato dal suo carattere formale d’impronta romana » (35). Un « vettore
concettuale di lungo periodo », che — per Roberto Esposito — si è
installato alla perfezione nel cuore della modernità (36). Per incontrare
compiutamente il termine « persona » come centro di imputazioni
giuridiche, non basta ancora il soggettismo giusnaturalistico, bisogna
avere la pazienza di aspettare la stagione concettualistica della pandettistica tedesca. Il diritto soggettivo, come « potere della volontà del
soggetto », dopo i suoi primi incespicanti passi, trova la sua più
completa sistemazione solo nella scienza giuridica dell’Ottocento tedesco.
Nonostante il concetto di capacità giuridica sia un prodotto
relativamente recente, la spersonalizzazione del soggetto-uomo andrebbe retrodatata (37). Non fino al punto, però, da pensare per l’antico
regime ad anacronistiche forme di astrazione concettuale.
C’è, infatti, un’intrinseca correlazione tra le procedure di individuazione e quelle di classificazione. Basterebbe solo pensare alle numerosi fonti utilizzate da Hespanha sui legami « emozionali » e « affettivi »
che legavano tra loro gli attori della scena giuridica e sociale: i rapporti
familiari, la storytelling delle culture marginali e orali, la venerazione
espressa in pietà e ossequi dai figli nei riguardi dei padri, l’ausilio e il
consiglio prestato dai clienti ai patroni, l’affetto (affectus) di gratitudine
(34) Cfr. E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari, Bologna, il Mulino,
2010, p. 146 e s.
(35) Ivi, p. 149.
(36) R. ESPOSITO, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale,
Torino, Einaudi, 2007, p. 122.
(37) Rinvio volentieri alle dense pagine di P. CAPPELLINI, Storie dei concetti
giuridici, Torino, Gappichelli, 2010, pp. 49-109. Per P. ZATTI, Maschere del diritto. Volti
della vita, Milano, Giuffrè, 2009, p. 17, nella scena della realtà l’uomo si muove nella sua
nudità; nella scena del diritto l’uomo si mostra solo in quanto il diritto lo « considera »,
e lo riveste di uno status.
LETTURE
677
negli scambi antidorali, persino il paternalismo verso selvaggi, prodighi,
minori, rustici e mentecatti.
La storia giuridica può essere letta alla luce di una ininterrotta
comunicazione tra i valori e i tabù di una cultura (e di una società) e
quei sistemi di veridizione che, con i loro saperi e i loro dispositivi, si
pongono da sempre come traduzione di un senso. Instancabili nella loro
ostinata inclinazione a classificare, significare, identificare. Attivissimi a
scongiurare i poteri e i pericoli che da sempre si annidano nella
produzione del discorso. Un portentoso congegno che delimita, incide,
segna, marca, definisce quello spazio che in tanto è disposto ad accogliere alcuni in quanto esclude tutti gli altri (38). Uno spazio in cui si
costituisce la verità, dunque, anzi un infallibile congegno grazie al quale
la storia del vero e del falso scandisce i sui tempi dietro lo specchio
dell’immagine sociale del sé. Si potrebbe anche dire, con Mary Douglas,
che tutte le istituzioni conferiscono identità mediante sistemi di classificazione che sono socialmente controllati e culturalmente costruiti (39).
Bisognerebbe, allora, provare a leggere l’avvincente racconto di
Hespanha in una maniera diversa: nella dialettica tra identità e alterità,
tra procedure di individuazione e di classificazione.
Le figure giuridiche dell’Altro sono per gli storici una costellazione di problemi irrisolti. È possibile — tra identità e alterità —
conciliare operazioni diametralmente opposte come la separazione e
l’assimilazione? Quale ruolo hanno svolto le procedure di classificazione e d’individuazione nella costruzione della soggettività? Non è forse
vero che nel teatro del conflitto la negazione dell’Altro equivale a
riconoscerlo? Può immaginarsi una norma che non sia tale da incistarsi
nello spazio dell’auto(coscienza)? È pensabile il soggetto fuori dai
rapporti di dominazione e di soggezione? (40) Vale davvero la pena di
vedere, anche solo di sfuggita, come e fino a che punto sia possibile
guardare all’esclusione dall’interno dei dispositivi di controllo sociale,
(38) Sul punto basta solo accennare alle pagine di E. GOFFMAN, Asylums: le
istituzioni totali, trad. it., Torino, Einaudi, 1961, e di DOUGLAS, Come pensano le
istituzioni, cit.
(39) Ibidem.
(40) Ci limitiamo qui a ricordare il saggio di Roberto FINELLI, che mostra le
variazioni del campo concettuale entro cui, di volta in volta, identità, negazione e alterità
si sono influenzate e trasformate vicendevolmente: Riflessioni sparse su identità, negazione, alterità, in Scarti di umanità. Riflessioni su razzismo e antisemitismo, a cura di F.
Migliorino, Genova, Il Melangolo, 2010, pp. 13-35. Sul contributo dell’antropologia
hegeliana al superamento del paradigma identitario, cfr. il recente volume della rivista
« post-filosofie » III (2007), dal titolo Riconoscimento, dialettica e fenomenologia. A
duecent’anni dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel.
678
QUADERNI FIORENTINI XLII
(2013)
per mettere allo scoperto l’artificio della separazione fra il dentro e il
fuori (41).
Gli inferiori che popolano le pagine di Hespanha non erano « un
animale in più » fuori dai confini della Polis (42). Insieme agli altri
esclusi, essi contribuivano a dare forma alla costanza, alla fissità e alla
regolarità di una struttura sociale che era specchio e rappresentazione
della mirabile armonia del Creato, con le sue gerarchie e le sue
differenze.
Nell’età medievale « finché ognuno teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente colpito dalla singolarità
degli altri » (43). Quando, invece, il singolo insinuava, col suo comportamento, una dimensione sconosciuta dell’esistenza, le procedure di
classificazione ne riducevano l’estraneità collocandolo, « per predicazione », in serie tipizzate e astratte: dal singolare-individuale al singolarecollettivo il diverso era riconosciuto come persona accettabile nella
misura in cui diveniva compiutamente definito e classificato (44). L’alterità, dunque, non era mai piena e totale, la sua relazione era tanto
ostile quanto necessaria, esclusione e inclusione si scambiavano continuamente di posto, come nella paradossale superficie di Moebius (45).
Le procedure di identificazione, dunque, « determinano l’individualità specificando differenze particolari, al contrario delle pratiche di
classificazione che aboliscono la singolarità in nome di un’identità
sistematica » (46). Sullo sfondo di tali pratiche, si sente il frastuono della
lotta per il riconoscimento, grazie alla quale gli uomini in carne e ossa
(41) La metafora dell’interno e dell’esterno ha connotato per secoli il discorso
della modernità, offrendo alla visione del soggetto uno spazio per rivendicare la piena
sovranità su quanto si costituisce come altro da sé: sul punto, ci permettiamo di rinviare
a F. MIGLIORINO, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino, Bollati Boringhieri, 2008,
p. 16.
(42) Prendo a prestito l’espressione da R. RORTY, La filosofia e lo specchio della
natura, trad. it., Milano, Bompiani, 1986, p. 145.
(43) BAUMAN, Cultura come prassi, cit., p. 204.
(44) Cfr. D. SPARTI, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e
costruzione sociale, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 139 e ss.
(45) Il matematico tedesco August Moebius è conosciuto come l’inventore di una
figura geometrica (impensata e paradossale) che consente al dritto e al rovescio di convivere
sullo stesso piano. Si tratta di un semplicissimo nastro i cui lati corti sono stati uniti dopo
aver impresso a uno di essi mezza torsione. Il risultato è sorprendente: dopo aver percorso
un giro, un ipotetico viaggiatore si ritrova dalla parte opposta; al giro successivo ritorna
al lato iniziale. Una superficie unica, senza bordi o limiti da valicare.
(46) SPARTI, Soggetti al tempo, cit., p. 140.
LETTURE
679
(non i loro consunti abiti) si sono costruiti come soggetti. Nonostante le
astrazioni giuridiche, ieri come oggi.
A questo scopo, teologi e giuristi sono stati i veri maestri dell’ordine dogmatico, gli interpreti autentici del rapporto tra la parola e le
istituzioni, i gelosi custodi del discorso. Il nesso tra identità, riconoscimento e controllo sociale è propriamente fondato su una « distribuzione diseguale del capitale culturale »: tra quelli che, per fama e onore,
hanno il potere dire ciò che vogliono dire, e tutti gli altri che aspettano
di conoscere l’interpretazione della loro identità (47).
Come diceva Foucault: « l’individuo non è il vis-à-vis del potere,
ma credo che ne sia uno degli effetti principali » (48).
(47) Cfr. D. SPARTI, Oltre la politica del riconoscimento. Per una rilettura del
nesso identità/riconoscimento a partire da Hannah Arendt e Stanley Cavell, in « Teoria
politica », XXI (2005), 2, p. 121 e ss.
(48) M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, trad. it., a cura di F. Ewald, A.
Fontana, M. Bertani, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 33.
Indice
GIOVANNI CAZZETTA, Pagina introduttiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
MODELLI E DIMENSIONI
MARCO FIORAVANTI, Il lato oscuro del Moderno. Diritti dell’uomo, schiavitù ed
emancipazione tra storia e storiografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
DAVID GARLAND, What does it mean to write a « History of the Present »?
Foucault, Genealogy and the History of Criminology. . . . . . . . . . . .
43
EMILIO SANTORO, La povertà nell’era della globalizzazione. Una genealogia dell’arte
di ignorare i poveri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
59
ROBERTO BARTOLI, Riflessioni sulla carità come paradigma giuridico . . . . . . . .
101
ERNESTO DE CRISTOFARO, Lo specchio di Behemoth. Cinema, politica, diritto
all’ombra del nazismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
123
LA DIMENSIONE GIURIDICA
MASSIMO LA TORRE, Chi ha paura del giudice costituzionale? Decisionismo e
positivismo giuridico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
153
FRANCESCO PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione: fatti e valori nella
formulazione del precetto penale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
179
FEDERIGO BAMBI, La chiarezza della lingua del diritto . . . . . . . . . . . . . . .
191
BARTOLOMÉ CLAVERO, Cádiz 1812: Antropología e Historiografía del Individuo
como Sujeto de Constitución . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
201
MARIA SOLE TESTUZZA, Matrimonio e codici. L’ambiguo statuto della corporeità .
281
CLARA ÁLVAREZ ALONSO, Estructura estatal, administración territorial e ideología
en tiempos de crisis. El caso de las diputaciones provinciales en España
(1812-1931). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
323
FIGURE DELL’ESPERIENZA
PAOLO GROSSI, Enrico Finzi: un innovatore solitario . . . . . . . . . . . . . . . .
377
GIACOMO PACE GRAVINA, Ascesa e caduta del dominio diretto. Una lettura dell’enfiteusi nella codificazione italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
435
LETTURE
GIACOMO MARRAMAO, Contro il potere. Filosofia e scrittura (P. Costa) . . . . . .
473
LUIGI NUZZO, Origini di una scienza. Diritto internazionale e colonialismo nel XIX
secolo (L. Tedoldi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
479
794
INDICE
STEFANO RODOTÀ, Il diritto di avere diritti (M. Fioravanti) . . . . . . . . . . . .
493
FILIPPO RUSCHI, Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl
Schmitt (T. Gazzolo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
500
MARÍA JULIA SOLLA SASTRE, La discreta práctica de la disciplina. La costrucción de
las categorías de la responsabilidad judicial en España, 1834-1870 (A.
Meniconi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
502
MICHAEL STOLLEIS, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, Vierter
Band, Staats- und Verwaltungsrechtswissenschaft in West und Ost 19451990 (B. Sordi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
507
FRANCESCOMARIA TEDESCO, Eccedenza sovrana (P. Costa) . . . . . . . . . . . . .
515
FRANCISCO TOMÁS
519
Y
VALIENTE, Génesis de la Constitución de 1812 (J. Vallejo) .
FASCISMO E DIRITTO (a cura di Irene Stolzi)
SILVIA FALCONIERI, La legge della razza. Strategie e luoghi del discorso giuridico
fascista (V. Galimi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
527
CHIARA GIORGI, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo
italiano (M. Spanò) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
532
PROFILI DI GIURISTI (a cura di M. Gregorio)
Il “giureconsulto della politica”. Angelo Majorana e l’indirizzo sociologico del
Diritto pubblico, a cura di Giacomo Pace Gravina (M. Gregorio) . . . . . . . .
539
MARCO PASTORELLI, L’opera giuridica di Massimo Severo Giannini (A. Sandulli) .
545
DISCUSSIONI
GUIDO ALPA, Le stagioni del contratto
Interventi di:
ENZO CHELI . . . . .
GIOVANNI B. FERRI .
PAOLO GROSSI . . . .
GIOVANNI FURGIUELE
GUIDO ALPA . . . . .
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
555
558
563
568
573
Interventi di:
MASSIMO MECCARELLI, Questioni di metodo per la storia del diritto in un recente
libro d’oltreoceano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FRANCESCO MIGLIORINO, Highway and Byways . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ALBERTO SPINOSA, Per chi suona la « llamada » . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RICARDO MARCELO FONSECA, Resposta às intervenções . . . . . . . . . . . . . . .
577
582
589
596
RICARDO MARCELO FONSECA, Introducción téorica a la historia del derecho
INDICE
795
SERGIO SEMINARA, Il delitto tentato
Interventi di:
GIOVANNI CHIODI, Il tentativo e la penalistica europea dal XIX al XXI secolo: una
riflessione storica per il giurista contemporaneo . . . . . . . . . . . . . . .
GIOVANNANGELO DE FRANCESCO, Sul tentativo: tra storia, dogmatica e politica
criminale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SERGIO SEMINARA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
601
637
653
A PROPOSITO DI...
FRANCESCO MIGLIORINO, L’istituzione sociale della « mancanza ». . . . . . . . . .
661
LUIGI NUZZO, La storia del diritto internazionale e le sfide del presente. . . . . .
681
STEFANO SOLIMANO, Imperialismo giuridico francese in difficoltà? . . . . . . . . .
701
IRENE STOLZI, Fascismo, storia e storiografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
719
TESTIMONIANZE
« Un puente doctrinal ». Scienza giuridica ed evoluzione del diritto del lavoro,
Intervista a MIGUEL RODRÍGUEZ-PIÑERO BRAVO-FERRER di Giovanni Cazzetta
e Silvana Sciarra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
739
PAOLO GROSSI, Il ‘giurista’ Ovidio Capitani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
767
ABSTRACTS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
779
RAGGUAGLI FIORENTINI
Attività del Centro di Studi per la storia del pensiero giuridico moderno nell’anno
accademico 2011-2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
791
Scarica