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P E R C O RS O EQ U I PE C A R I T A S D IO C E S A NA
anno pastorale 2007/2008
LECTIO DIVINA
SERVIZIO
Terza tappa - Forlì-Bertinoro, 13 /16 aprile 2008
1
PRIMA DELLA LECTIO
Fil 2,1-11
Se c’è qualche consolazione in Cristo, qualche conforto d’amore, se c’è qualche comunione di
spirito, qualche tenerezza e compassione, rendete piena la mia gioia avendo uno stesso modo
di pensare, uno stesso amore, un solo accordo e una sola mente. Non fate niente per
ambizione, né per vanagloria, ma con umiltà, ritenendo gli altri superiori a voi stessi; non
cerchi ciascuno unicamente il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che era in Cristo Gesù,
il quale, essendo per natura Dio,
non considerò l’essere uguale a Dio un tesoro irrinunciabile,
ma svuotò se stesso,
prendendo la natura di servo,
divenendo simile agli uomini.
E, trovato nella forma esterna simile a un uomo,
abbassò se stesso,
divenendo obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio lo ha sovranamente innalzato,
e gli ha donato un nome sopra ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio,
nel cielo, sulla terra e sotto terra
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è Signore,
a gloria di Dio padre.
LETTURA DEL TESTO:
Lunedì 1Sam 16,1-13 (incontro)
Martedì Gv 12,1-10 (condivisione)
Mercoledì Lc 12,35-37 (servizio)
ALLA FINE DELLA LECTIO
Resta con noi Signore risorto!
È questa anche la nostra quotidiana aspirazione.
Se tu rimani con noi,
il nostro cuore è in pace.
Accompagnaci, come hai fatto
con i discepoli di Emmaus, nel nostro cammino personale ed ecclesiale.
Aprici gli occhi, affinché sappiamo riconoscere
i segni della tua ineffabile presenza.
Rendici docili all’ascolto del tuo Spirito.
Nutriti ogni giorno
del tuo Corpo e del tuo Sangue,
sapremo riconoscerti
e ti serviremo nei nostri fratelli.
(Giovanni Paolo II)
2
SERVIZIO (Lc 12,35-37)
Questa mattina cercheremo di entrare nella Scrittura per comprendere cosa significhi il
servizio, alla luce delle immagini che ci offrono queste brevi e incisive parole di Gesù.
L’UOMO CON I FIANCHI CINTI E LE LUCERNE ACCESE
“siano i vostri fianchi cinti”. La prima immagine che il testo ci propone è quella dei
fianchi cinti; nell’antico Israele, ci si stringeva alla vita il vestito in modo che i movimenti
potessero essere più agili. L’immagine rimanda a molteplici significati: ci si cinge i fianchi
per camminare (detto di uno dei discepoli dei profeti in 2Re 9,1), per mettersi in viaggio;
oppure per lavorare (in Pr 31,17 è l’atteggiamento della donna di valore, che “si cinge con
forza i fianchi e irrobustisce le sue braccia”). C’è, tuttavia, un altro contesto in cui ci si cinge i
fianchi: quello della battaglia (Ger 1,17; Gb 38,3; 40,7; Ef 6,14 “restate saldi, cinti i vostri
fianchi con la verità, indossando la corazza della giustizia”). Si tratta però di una battaglia
particolare, una battaglia che si porta avanti con la parola; si tratta di una sfida nella relazione
(Geremia in relazione con quelli cui dovrà parlare; Giobbe in relazione a Dio).
Se questa, dunque, è la rappresentazione del servo, vediamo innanzi tutto il servizio
come una sfida, in particolare una sfida nella relazione che chiede coraggio, una sfida che si
fa in cammino, cioè a dire una sfida che come ogni cammino implica costanza, tenacia, voglia
di raggiungere una meta, che è l’incontro con l’altro.
“e le lucerne accese”. La lampada accesa è segno della vita: in Gb 18,6 “la lucerna si
estingue sopra di lui” è espressione metaforica per indicare la morte.
Questa vita si manifesta in un modo particolare; la Scrittura, infatti, ci mostra un uso
molto concreto della lampada accesa: in Lc 15,8-10 – la parabola della dracma smarrita – la
donna accende una lampada per cercare attentamente ciò che ha perduto (un impiego simile
della lampada accesa si trova in Sof 1,12 “frugherò Gerusalemme con lampade”).
Accendere la lampada per cercare implica che la ricerca avviene in una situazione in
cui non si vede bene, una situazione di oscurità: la lampada dà la possibilità di vedere
nell’oscurità per poter cercare. Questa lampada accesa nell’oscurità è, infine, segno della
presenza del Signore, come in 1Sam 3,3 dove la lampada accesa nel tempio è segno della
presenza di Dio in esso. Addirittura in Gv 9,5 Gesù stesso dirà di sé: “io sono la luce del
mondo”.
Quindi: il servo è colui che è vivo, ed esprime questa sua vita cercando l’altro,
mettendosi alla ricerca del fratello nell’oscurità, sicuro della presenza di Dio.
Non soltanto: questa ricerca nell’oscurità, questa lampada accesa diventa segno e
testimonianza per gli altri, secondo quanto afferma Mt 5,15-16 “la lucerna si pone sopra il
candelabro, affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Risplenda la vostra luce
davanti agli uomini affinché vedendo le vostre buone opere, glorifichino il padre vostro che è
nei cieli”.
RIFLESSIONE
Servizio e sfida: il testo ci porta a riflettere, innanzi tutto, sul servizio come
sfida…sul nostro coraggio nella relazione di servizio con l’altro. Come è facile
perdere il coraggio alla prima difficoltà e cessare il cammino…dov’è la
tenacia…?
3
Servizio e ricerca: il testo viene a dirci che il servizio è una ricerca dell’altro,
una ricerca nella notte…spesso, al contrario, aspettiamo che l’altro venga da
noi per poterlo servire. Cercare l’altro, invece, è servire l’altro…chi si sente
cercato anche nell’oscurità, si sente amato, si sente oggetto di attenzione,
oggetto di cure e di interesse…quanto è diverso servire una massa dando loro
qualcosa, rispetto a cercare l’uno, cercare quello che è nella notte…il servo
accetta di cercare nella notte, ed io? Proprio questo cercare è la testimonianza
del Signore per il mondo, non tanto il dare qualcosa…
L’UOMO CHE ATTENDE E APRE
Il testo poi continua con un’immagine che sembra contrastante con la precedente,
secondo una caratteristica tipica della Scrittura, piena di contrasti; la sfida cui ci troviamo di
fronte è proprio tenere insieme i punti di tensione, piuttosto che separarli.
“uomini che attendono il loro signore”. Fino ad ora abbiamo messo in evidenza una
ricerca, ora siamo di fronte ad un’attesa; cosa può significare? Proviamo a dare un senso alle
immagini: nella Scrittura il rapporto tra l’attesa e i fianchi cinti si ritrova in un solo altro caso,
precisamente in Es 12,11-12. Il Signore comanda agli Israeliti di mangiare la Pasqua in tenuta
da viaggio (con i fianchi cinti), e ordina di attendere così il passaggio del Signore, la
liberazione (v. 12 “io passerò”).
Possiamo pensare che ricerca dell’altro e attesa dell’altro coincidono, nella misura in
cui la mia ricerca è anche un’attesa, quasi a dire che cercare l’altro non significa soffocarlo,
forzarlo, significa piuttosto attenderlo sempre. Ma questa attesa con i fianchi cinti viene a
rivelarci che non si tratta di un’attesa inoperosa, passiva, ma piuttosto di un’attesa che va in
cerca, che si muove.
L’immagine dell’attesa del passaggio del Signore mostra, inoltre, che questa attesa
operosa culminerà in una liberazione.
“per aprirgli subito”. Questa immagine ci mostra due componenti di senso; la prima
è quella del servo che apre. Per capire cosa significhi partiamo dall’azione contraria: chiudere
nella Scrittura indica l’esercizio di una potenza, è un gesto che esprime potere (cf. Sal 33,7;
Gb 38,8 dove Dio, nell’atto della creazione, mostra il suo potere chiudendo il mare); questo
potere può essere esercitato per proteggere (ad es. in Gen 19,9-10 nell’episodio di Lot a
Sodoma: gli uomini di Sodoma vogliono tirarlo fuori di casa, lo afferrano, ma qualcuno da
dentro la casa afferra Lot, lo trascina dentro e chiude la porta).
Tuttavia, il gesto è in sé ambivalente: se da una parte, infatti, chiudere le porte implica
protezione e salvezza per coloro che stanno dentro (possiamo prendere come esempio il
contesto militare di una città assediata dal nemico), dall’altra chi sta dietro una porta diventa
automaticamente prigioniero della sua casa o del suo rifugio (cf. Gs 10,16-27: i cinque re che
si nascondono nella caverna di Makkeda per trovare rifugio e lì trovano la morte perché il
rifugio si trasforma in prigionia; oppure il meccanismo dell’assedio nell’antichità, dove alla
fine, nella chiusura della città assediata, si produce la rovina della città stessa). Per questo
motivo, nella Scrittura, il fatto che una porta non sia più chiusa, assume le caratteristiche di
una potente liberazione: Is 60,11 “le tue porte saranno sempre aperte, non si chiuderanno mai,
né di giorno, né di notte”. Anche Ap 21,25 così descrive la gloria e la sovranità della
Gerusalemme celeste: “le sue porte non si chiuderanno mai di giorno – perché la notte non ci
sarà più – ”.
L’immagine di Lc 12,36 ci dice che il servo è colui che apre la porta: cioè colui che
rinuncia ad un esercizio del potere; egli è piuttosto colui che nella relazione si presenta inerme
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all’altro, si consegna. E attraverso questo gesto da servo diventa sovrano, come infatti il testo
ci mostrerà in seguito.
La porta chiusa, poi, è ciò che non permette di vedere, ciò che blocca l’incontro: ecco
che l’apertura della porta significa abbattere gli ostacoli che impediscono l’incontro con
l’altro; e questi ostacoli vengono abbattuti, prima di tutto, dal desiderio dell’incontro. Infatti,
il testo ci precisa che il servo è colui che apre “subito”: questo avverbio ci mostra
precisamente la sollecitudine, il desiderio che anima l’apertura della porta, che anima il
servizio.
“arriva e bussa”. Curiosamente il signore della casa non apre la porta con le chiavi,
ma bussa a casa sua, attendendo che gli venga aperto.
Sicuramente questo gesto significa che il padrone di casa ha lasciato una
responsabilità particolare ai servi, ha affidato loro tutto. Tuttavia, cercando un po’ di dare un
senso a questa immagine, possiamo pensare che colui che ci troviamo a servire, egli è il
signore della sua casa, anche se non esercita questa signoria.
Oggettivamente, quando serviamo, nella maggior parte dei casi, ci troviamo in una
condizione reale per cui siamo nella posizione del padrone, più che in quella del servo: infatti,
abbiamo più mezzi dell’altro, siamo liberi (mentre l’altro magari, per le contingenze
economiche o materiali non lo è), siamo indipendenti, mentre l’altro dipende da noi.
In realtà, dunque, la situazione spesso paradossale, quasi rovesciata, proprio come
quella di questi servi: di fatto essi sono soli in casa e hanno ogni responsabilità, sono i
padroni, potrebbero anche non aprire – ciò che di fatto accade, ad esempio, con le debite
differenze, nella parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-41), dove i servi si impadroniscono
della vigna, arrivando al punto di uccidere prima gli inviati del padrone, e in seguito il suo
stesso figlio, i quali rappresentavano in qualche modo lo stesso padrone stesso.
In sintesi, in questa prospettiva, il testo ci mostra che servire significa aprire la porta
all’altro nella sua casa, cioè far sì che l’altro che bussa capisca che egli è il signore della sua
casa. Servire significa, dunque, far prendere coscienza all’altro della sua dignità, donargli la
possibilità di essere il signore.
Questo lo posso fare se apro la porta di fronte a colui che bussa.
Potremmo sottolineare ancora la rilevanza dell’ascolto: la porta impedisce di vedere,
ma non di ascoltare e percepire la presenza di chi sta bussando. Colui che arriva dalle nozze,
non chiama, non chiede che gli venga aperto (come nel caso delle vergini stolte rimaste fuori
dal banchetto in Mt 25,11, le quali non bussano, ma gridano “Signore, Signore, aprici”). Il
servo, dunque, per poter aprire la porta, per poter servire, deve essere attento alle
impercettibili espressioni ed esigenze dell’altro, deve avere un orecchio allenato che sa
riconoscere il desiderio e il bisogno dell’altro da un gesto, da un segno privo di parole. Questo
è possibile solo se si è animati dal desiderio, dalla sollecitudine, dalla premura che l’altro
possa diventare signore della sua casa.
RIFLESSIONE:
L’attesa: la nostra ricerca come attesa, in rapporto all’attesa: come è facile non
attendere; l’impazienza ci porta a soffocare l’altro…Il Signore chiede, invece,
un’attesa con i fianchi cinti, cioè un’attesa operosa…
Aprire la porta: il nostro servizio come rinuncia ad un atteggiamento di
potere…Quanto è facile che il servizio sia un esercizio di potere sull’altro…al
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contrario, il testo ci mostra un servizio come consegna all’altro, come aprire la
porta, cioè abbassare le difese…
Il Signore della sua casa: quanto, nel nostro servizio, rendiamo l’altro
consapevole che egli è il signore della sua casa, lo rendiamo consapevole dei
suoi doni, delle sue potenzialità…o piuttosto il servizio diventa espressione
delle mie capacità, di ciò che io possiedo e che l’altro in questo momento non
ha.
Ascoltare le esigenze impercettibili: posso servire solo se ascolto le esigenze
impercettibili dell’altro…il mio orecchio è allenato a questo, o piuttosto la
frenesia del servizio (inteso come cose da fare), mi fa dimenticare di tendere
l’orecchio per ascoltare ciò che avviene nel silenzio?…spesso il servizio si
concretizza in una serie di cose fatte, ma manca di ascolto…
L’UOMO CHE DIVENTA SERVO
Attraverso l’assunzione di tutti questi atteggiamenti, attraverso la ricerca nell’oscurità,
attraverso l’attesa, attraverso l’apertura della porta, pian piano l’uomo si fa servo.
“beati quei servi”. Mai fino ad ora il testo aveva parlato di servi, quanto piuttosto in
generale di uomini (v. 36); questa piccola sfumatura ci rivela che essere servo è tutt’altro che
istintivo e naturale; si tratta piuttosto di un processo. Si diventa servi, con la tenacia di chi si
cinge i fianchi e intraprende un cammino, con la costanza di chi cerca nella notte, con la
pazienza di chi attende, con la sensibilità si chi percepisce che qualcuno bussa, con il rispetto
di chi sa che servire è far entrare l’altro come signore della sua casa e con il desiderio
profondo che questo avvenga.
“vigilanti”. L’essere vigilanti, riassume in sé tutte queste caratteristiche del servo (la
ricerca, la tenacia, la pazienza, la sensibilità, il desiderio), ma aggiunge allo stesso tempo
qualche precisazione importante. Il vegliare, è, infatti, associato alla fede (1Cor 16,13
“vegliate, state saldi nella fede”), alla preghiera (Mt 26,41 “vegliate e pregate”), alla
temperanza (1Ts 5,6 “vegliamo e siamo sobri”; 1Pt 5,8 “siate sobri, vigilanti”).
Essere servo, essere vigilante, significa avere fede (torna l’immagine della lampada),
fede che la nostra opera è l’opera stessa di Dio, fede che essa non viene da noi, e non la
portiamo avanti solo con le nostre forze.
Ma significa anche pregare: cioè chiedere, supplicare che il Servo, colui che per
eccellenza si è fatto servo, venga a servire con noi e in noi. Non c’è servizio senza preghiera,
perché la dimensione della vigilanza rischia di venire meno.
Significa, infine, essere temperanti: Lc 12,45 “ma se quel servo dicesse in cuor suo:
«il padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a bere e a
ubriacarsi…”. La temperanza e pazienza nell’attesa, la temperanza come rinuncia all’esercizio
violento del potere, la temperanza come controllo sulle nostre potenzialità spesso superiori
rispetto a quelle di colui che stiamo servendo e che possono diventare armi…temperanza
come vigilanza su noi stessi.
RIFLESSIONE
Si diventa servi: pazienza con noi stessi, con i nostri errori nella relazione di
servizio…a volte questa pazienza con noi stessi può mancare, siamo poco
indulgenti nei confronti della nostra incapacità…o al contrario (risvolto della
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stessa medaglia) presumiamo di essere subito servi impeccabili…non
tolleriamo correzioni, siamo sicuri di fare bene…
La vigilanza: per essere servi è necessaria la fede, altrimenti si è operatori,
fornitori di servizi…fermiamoci a pensare su quanto la nostra fede gioca nel
servizio. Per essere servi è necessaria la preghiera…che non è tanto dire delle
preghiere, piuttosto trasformare quello che faccio in una preghiera! Ciò che
conta è l’assunzione della dimensione della preghiera…cioè la dimensione
dell’ascolto di Dio e quindi del silenzio, del ricevere da Lui. Che posto ha la
preghiera nel nostro servizio? Infine la temperanza…per essere temperanti è
necessario conoscere se stessi, mettersi a nudo davanti a Dio, scoprire alla sua
luce quali sono quei lati del mio carattere che si possono trasformare in
armi…è un esercizio di ascesi, cioè di discesa in noi per risalire (ascendere),
per poter volgere gli occhi verso Dio e supplicare…
IL SERVO E IL PADRONE
Ecco che il testo si conclude con un’immagine bellissima, un immagine rovesciata,
quella del padrone che entra e si mette a servire; questo viene a dirci che entrare nella propria
casa come signore significa alla fine diventare servo. Il vero signore della sua casa è colui che
serve.
Alcune osservazioni su questo: innanzi tutto, la signoria sulla nostra casa, la nostra
signoria e regalità, la esercitiamo nella misura in cui serviamo (cf. la figura di Gesù che lava i
piedi in Gv 13,1-20 e in Lc 22,26-27: “io sto in mezzo a voi come colui che serve”).
D’altra parte, l’immagine ci mostra anche una reciprocità tra colui che serve e colui
che è signore, al punto tale che ciascuno è allo stesso tempo servo e signore. Chi serve, chi ha
servito, riceve dall’altro la vita, significata dal dono del cibo (“li farà sdraiare a mensa”),
riceve dall’altro il dono del riposo, significato dall’essere sdraiato, in una parola entra in
comunione con l’altro.
Questa relazione di reciprocità è evidenziata dal testo, il quale ci dice che il padrone,
entrato in casa, “si cingerà”: la stessa cosa che il servo aveva fatto (v. 35) adesso la compie il
padrone. In Gv 21,28 cingersi la veste da solo (come nel caso del padrone nel nostro testo)
significa avere la possibilità di scegliere di andare dove si vuole (“ti cingevi la veste da solo e
andavi dove volevi”); questo significa che questa reciprocità nel servizio non è automatica, e
non è nemmeno dovuta, essa è piuttosto frutto di una libera scelta.
“passando li servirà”. Il padrone passando servirà a tavola uno per uno i suoi servi;
l’immagine conclusiva rimanda all’immagine della cena del Signore. In questo servizio
reciproco è riflesso il mandato più alto del Signore Gesù ai suoi discepoli, il mandato ad
essere servi gli uni degli altri, a lavarsi i piedi gli uni gli altri, in una parola ad amarsi gli uni
gli altri secondo la misura di quel dono di sé che egli fa a noi.
RIFLESSIONE
Reciprocità: pensiamo a quanto riceviamo nella relazione di servizio…a
quanto l’altro che noi riteniamo di servire, spesso si fa nostro
servo…donandoci in qualche modo la vita. Questa reciprocità dovrebbe
portare con sé un atteggiamento di ringraziamento, di lode per ciò che
riceviamo e insieme di profonda umiltà, di consapevolezza che servire non
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significa che io sono superiore e dono all’altro, ma significa essere tanto
piccolo da ricevere dall’altro…
Servizio a immagine del dono di Cristo: non c’è molto da dire su
questo…solo fermarsi un attimo e mettere sullo sfondo di ogni nostra relazione
di servizio, il dono di Cristo fatto a noi…
CONCLUSIONE
Questi pochi versetti del Vangelo di Luca fanno parte di una serie di “parabole” della
parusia, di una serie di testi che mostrano l’attesa del ritorno del Signore; questo significa che
il servizio è quell’atteggiamento, quel gesto concreto attraverso il quale si attende e si
riconosce il Signore che viene a me continuamente nel fratello che incontro.
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