Estratto

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
Questioni introduttive
.
Che cos’è la metodologia delle scienze sociali?
Un corso di metodologia delle scienze sociali presenta normalmente
qualche difficoltà, legata non tanto agli argomenti che vengono trattati,
quanto al fatto che la competenza metodologica è una meta-competenza: viene cioè acquisita dopo che i fondamenti della disciplina – ovvero
le scienze sociali in generale, la sociologia in particolare – sono stati
appresi, assimilati e organizzati in uno schema personale e coerente.
Allo stesso modo, solo dopo aver fatto e rifatto molte volte una certa
ricetta si può stabilire con sicurezza che il modo migliore per eseguirla
è questo e non un altro, oppure proporne uno nuovo; solo dopo aver
fatto molte versioni di latino, o molti calcoli algebrici, possiamo dare
consigli sul modo migliore per farli, sui punti critici che più spesso si
presentano e così via.
Tuttavia gli studenti – e soprattutto gli studenti del primo anno –
raramente si trovano nella condizione di essere esperti manipolatori di
concetti sociologici, e ancor più raramente di essere versati nella ricerca empirica, per quanto in misura embrionale. Eppure molti curricula
universitari inseriscono la metodologia delle scienze sociali tra le materie del primo o del secondo anno, con la motivazione che, dovendo
imparare a fare ricerca empirica, è meglio apprendere subito come condurre buone ricerche empiriche.
La tensione tra questi due poli – l’essere la competenza metodologica una meta-competenza, che dovrebbe essere acquisita da studenti già
esperti, e la necessità di trasmettere prima possibile il modo corretto di
fare ricerca – genera un risultato sub-ottimale: gli studenti faticano a
impadronirsi del linguaggio proprio della metodologia, non riescono a
comprenderne fino in fondo le ragioni e l’utilità, e finiscono per tentare di superare l’esame come un esercito male armato e scompaginato
tenterebbe di prendere una cittadella ben difesa.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
L’obiettivo di un testo come questo è perciò rendere il più possibile
student-friendly una disciplina che a tutta prima pare astratta e concettosa, quando non pedante nella sua pretesa di ridefinire continuamente
termini e linguaggio, nel mettere in discussione concetti, assunti, proposizioni e così via.
Detto questo, occupiamoci innanzitutto del primo e più fondamentale problema che conviene porsi quando ci si avvicina allo studio di
questa disciplina (o insieme di discipline; Ricolfi, ): qual è la ragion
d’essere della metodologia delle scienze sociali? La domanda è radicale
ed esige una risposta semplice e chiara, che è la seguente: poiché non
esiste un unico modo di fare ricerca empirica, abbiamo bisogno di una
guida per fare ciò che deve fare ogni disciplina che vuole essere scientifica, e cioè controllare sul campo le proprie teorie.
Infatti, come afferma Boudon (), le tradizioni storiche che confluiscono nella sociologia – e quindi nella ricerca empirica di ambito
sociologico – sono molte, e ciascuna è portatrice delle proprie pratiche
di ricerca, delle proprie convinzioni riguardo al modo migliore per studiare empiricamente un certo ambito o tema. Inoltre, continua Boudon,
la stessa varietà dei problemi e degli oggetti di ricerca richiede che si
sappia scegliere quali strumenti di indagine empirica impiegare di volta
in volta: per lo studio di piccoli gruppi sono necessari strumenti osservativi diversi da quelli utili quando si studia il comportamento elettorale in una nazione; quando si studia il modo in cui le società cambiano
abbiamo bisogno di strumenti diversi da quelli che si usano per studiare il modo in cui le bande giovanili reclutano nuovi componenti.
Data questa diversità di tradizioni e di obiettivi di studio, è naturale
che i sociologi abbiano cominciato a riflettere sulle proprie pratiche di
ricerca per capire quali fossero migliori e in quali situazioni, quali fossero gli errori più frequenti, come evitarli e così via; questo è esattamente l’inizio di ciò che chiamiamo metodologia. Come afferma Ricolfi (, p. ), infatti, «la maggior parte della riflessione metodologica
nasce da una rielaborazione astratta di pratiche di ricerca effettive»,
cioè dalla considerazione di ciò che è stato fatto e di come è possibile
migliorarlo o correggerlo. Adottiamo perciò pienamente la definizione
che questo autore dà di metodologia delle scienze sociali come di un
«complesso di discipline che insegnano come si può condurre una
buona ricerca empirica nel campo delle scienze sociali» (ivi, p. ).
La metodologia ha quindi due volti distinti ma strettamente connessi (FIG. .): in quanto disciplina che guida il processo di ricerca, ha carattere operativo; in quanto disciplina che riflette sulla pratica della ricerca,
e astrae da essa per individuare e discutere le regole concretamente
impiegate, ha carattere normativo (Ricolfi, ). Un volto è quindi rivol
.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
.
Il legame circolare tra pratica della ricerca e riflessione metodologica
FIGURA
Metodologia
delle scienze sociali
Riflessione sulla
pratica della ricerca
(aspetto normativo)
Guida della pratica
di ricerca
(aspetto operativo)
to alla pratica della ricerca, mentre l’altro guarda alla riflessione teorica
sulla pratica stessa; entrambi sono essenziali e nessuno dei due può fare
a meno dell’altro, cosicché chi si accinge a studiarla deve tenerli presenti contemporaneamente. Questo potrebbe essere un altro dei motivi che
ne fanno una disciplina di cui è abbastanza complesso impadronirsi.
Vi è in effetti una certa corrispondenza tra queste considerazioni e il
fatto che la riflessione metodologica nasce contemporaneamente alla
sociologia: come a dire, non appena il sociologo si accinge a riflettere
sulla società con l’obiettivo di farne oggetto di ricerca empirica, ha
bisogno di riflettere anche sul metodo che adotta per studiarla.
Il primo sociologo in senso pieno, ovvero Émile Durkheim (-),
è infatti anche il primo studioso a occuparsi del metodo delle scienze
sociali in un’opera di fondamentale importanza, il cui titolo è appunto Le
regole del metodo sociologico (). In questo lavoro Durkheim propone
di mutuare il metodo delle scienze sociali dal metodo impiegato nelle
scienze naturali, prima fra tutte la fisica; e questo per la buona ragione che
esso ha dato ottimi risultati in tutti i campi di studio in cui è stato applicato. Alla visione durkheimiana di stampo positivista, che vedremo in dettaglio nel CAP. , si contrappone la visione ispirata da Weber (-),
per il quale la sociologia non può mutuare il metodo di ricerca empirica
adottato dalla fisica. Non solo le due discipline non hanno lo stesso oggetto di studio (le cose della natura per la fisica, gli eventi del mondo sociale per la sociologia), ma hanno anche un diverso obiettivo conoscitivo e
quindi devono avere un diverso modo di perseguirlo. L’obiettivo cono
METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
scitivo delle scienze naturali è, per Durkheim, la spiegazione causale dei
fatti, cioè la ricerca delle cause di ciò che osserviamo; a differenza di Durkheim, Weber ritiene che lo scopo della sociologia non sia la spiegazione
delle cause che determinano i fatti sociali, ma piuttosto la comprensione
del loro significato in quanto eventi unici. Da un lato Durkheim pone l’accento sulle regolarità che si osservano e sulla necessità di spiegarne la
causa; dall’altro Weber afferma che gli eventi sociali non sono mai uguali gli uni agli altri, e quindi un certo evento deve essere compreso per
quello che è, non per quello che rappresenta in termini di regolarità.
Approfondiremo nel prossimo capitolo la differenza tra queste due
fondamentali visioni; per ora quanto detto è sufficiente a far capire a lettrici e lettori quanta differenza possa esservi nel modo di studiare gli
eventi sociali e nei metodi che si possono adottare; e quanto la riflessione teorica in sociologia sia intimamente legata – anzi inscindibile – alla
riflessione su come studiare la realtà sociale.
.
La competenza metodologica
A cosa serve studiare la metodologia delle scienze sociali? Prima o poi
gli studenti si fanno questa domanda, con maggiore o minore disperazione di fronte alla mole del lavoro necessario per superare l’esame, e
spesso trovano risposte confuse, o non ne trovano di convincenti, o non
ne trovano affatto. Darò qui la mia risposta, che non è la migliore ma
solo una delle possibili.
Nell’ambito di una laurea di primo livello, o triennio, studiare e
apprendere la metodologia serve per acquisire competenza metodologica, che si compone di due aspetti:
. saper fare, cioè costruire in modo corretto alcuni strumenti di rilevazione dei dati (come il questionario o l’intervista qualitativa), analizzarli nel modo più adatto, presentare i risultati ottenuti, ricollegare questi
ultimi alle ipotesi da cui la ricerca ha preso avvio;
. saper valutare il lavoro di ricerca empirica fatto da altri: capire se una
ricerca è fatta bene o no, se le conclusioni tratte dai dati sono giustificate o no, se i grafici con cui viene presentato un risultato sono fatti in
modo corretto, se ci sono stati errori nella scelta delle persone da intervistare e così via.
I due aspetti della competenza metodologica sono strettamente legati tra loro: sappiamo valutare il lavoro altrui quando sappiamo come si
deve fare una buona ricerca empirica (che, come afferma Ricolfi, ,
è l’obiettivo della metodologia), e ci riusciamo tanto meglio quanto più
abbiamo provato noi stessi a muovere i primi passi in questa direzione.

.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
Naturalmente l’obiettivo di un corso introduttivo di metodologia non
può essere fare in modo che gli studenti sappiamo condurre perfette
ricerche empiriche, ma solo che sappiano dove si comincia, quali sono
i requisiti imprescindibili, quali sono gli errori più comuni e come evitarli. Su questa base è possibile dare una prima valutazione del lavoro
svolto da altri (consulenti, istituti di ricerca ecc.).
Questi due aspetti mettono in grado i futuri laureati di acquisire due
tipi di capacità professionali (FIG. .): il saper fare rimanda a competenze di ricerca empirica, di analisi dei dati ecc., grazie alle quali è possibile costruire la professionalità tipicamente richiesta dagli istituti di
ricerca, dalle divisioni di marketing delle aziende e così via.
Il saper valutare il lavoro altrui rimanda invece all’acquisizione di
competenze – appunto – valutative legate alla presa di decisioni, alla
definizione di politiche pubbliche ecc. Pensiamo ad esempio al funzionario di un ente pubblico che commissiona una ricerca sui bisogni degli
anziani non autosufficienti, oppure sulla percezione dei tempi e dei luoghi cittadini da parte dei bambini e dei pre-adolescenti; oppure pensiamo al funzionario che lavora nel settore risorse umane di un’impresa
privata, e che commissiona una ricerca sui flussi comunicativi all’interno della propria azienda, per valutare se e dove questi si interrompono
o si indeboliscono, e per sapere quali strategie attuare per migliorarli. In
questi casi la ricerca non viene condotta in prima persona, ma affidata
a consulenti o istituti di ricerca; ma quando ci vengono restituiti i risul-
.
I due aspetti della competenza metodologica
FIGURA
Competenza metodologica
Saper costruire strumenti
di rilevazione, saper analizzare i dati,
saper presentare i risultati ecc.
Saper valutare il lavoro di
ricerca empirica svolto da altri
(consulenti, istituti ecc.)
Acquisizione di capacità professionali
legate alla ricerca empirica,
all’analisi dei dati ecc.
Acquisizione di capacità di valutazione
ai fini di presa di decisioni, definizione
di politiche pubbliche ecc.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
tati, come valutarli? Dobbiamo considerarli validi a priori, oppure è
meglio controllare che tutto sia stato fatto in modo corretto? In quale
misura ci possiamo fidare delle conclusioni che sono state tratte, dato
che da esse potrebbero dipendere alcune nostre decisioni?
Ad esempio, se parte dei lavoratori dell’azienda lavora a casa, grazie
al telelavoro, e gli esperti incaricati della ricerca hanno intervistato solo
i lavoratori presenti in azienda in un dato momento, possiamo pensare
che le conclusioni riguardino tutti i lavoratori, anche quelli che appartengono a un tipo diverso da quelli intervistati? O ancora: se nella rilevazione dei bisogni degli anziani non autosufficienti vengono intervistate solo persone con meno di  anni, possiamo fidarci delle conclusioni
e prendere decisioni sulla loro base?
La risposta a queste domande è ovvia, e ci si arriva anche col buonsenso: certamente no. Ma per rispondere è necessario essersi posti la
domanda, e questo non è scontato. Se infatti non sappiamo che “campione rappresentativo” significa che tutti i tipi di lavoratori devono
essere intervistati (telelavoristi e non), cioè se non sappiamo che la
costruzione del campione è un’operazione delicata e fondamentale nel
corso di una ricerca empirica, come può venirci in mente di controllare
se il campione è davvero rappresentativo?
In altri termini: la risposta è scontata, ma la domanda non lo è. La
metodologia e la competenza metodologica servono proprio a questo: a
individuare i possibili punti critici, a rifletterci, a provare alcune soluzioni e a scegliere la più adatta alla situazione concreta; in altre parole
insegna a farsi le domande giuste e, per questa via, a valutare la situazione concreta.
.
L’attenzione al linguaggio
La metodologia pone particolare attenzione alla definizione di concetti
e termini, all’uso corretto di questi ultimi, al controllo costante della
rispondenza tra termini, concetti e significati . Oltre a ciò, la metodologia ha un linguaggio che le è proprio e che spesso costituisce una corsa
a ostacoli per gli studenti, che faticano a impadronirsene così come si
fatica ad apprendere il linguaggio dell’economia, della medicina, della
giurisprudenza.
. Rimando al CAP.  (PAR. .) per la definizione di concetti e termini; qui è sufficiente dire che i termini sono le etichette linguistiche con cui i concetti vengono comunicati,
e che un concetto può esistere anche senza un termine che lo rende comunicabile.

.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
Spesso l’apprendimento dei linguaggi specialistici è complicato dal
fatto che alcuni termini-chiave vengono normalmente impiegati nel linguaggio quotidiano, e questo è vero soprattutto in metodologia: quasi a
chiunque può capitare di parlare di ‘concetti’, ‘tecniche’, ‘teoria’, ‘ipotesi’ e così via, mentre è più difficile trovarsi a parlare usando termini
come ‘apparato muscolo-scheletrico’, oppure ‘foro competente per le
controversie’, oppure ‘curve di utilità marginale’.
Lo studente di metodologia si trova quindi a dover imparare un linguaggio specialistico, e per di più fitto di termini che si usano nella vita
quotidiana ai quali però bisogna dare un nuovo significato. (Non serve
qui ricordare che i compiti di apprendimento più difficili sono quelli
detti di deutero-apprendimento, ovvero quelli in cui a qualcosa di vecchio si assegna un significato nuovo; non serve, per lo meno, a consolare gli studenti della loro fatica).
Un esempio classico è la locuzione ‘verificare un’ipotesi’: se agli
ignari studenti nelle prime settimane di corso è consentito usarla, da
quando viene presentata la proposta metodologica di Karl Popper essa
viene sostituita da ‘controllare un’ipotesi’, per ragioni che vedremo in
seguito (CAP. , PAR. .). Si tratta tuttavia di una sostituzione non priva
di difficoltà, perché per la statistica – studiata poco prima o poco dopo
l’esame di metodologia – la prima versione è quella ufficialmente accettata (in statistica inferenziale si dice sempre ‘test per la verifica di ipotesi’ e mai ‘test per il controllo di ipotesi’). Tuttavia ‘verificare’ e ‘controllare’ in metodologia hanno significati (e soprattutto implicazioni) assai
diversi, sui quali è bene insistere affinché sia chiara la differenza tra i
due, e il loro uso sia quindi consapevole.
L’uso del linguaggio appropriato è perciò uno dei mezzi che consentono agli studenti di acquisire la competenza metodologica richiesta e,
quindi, di superare l’esame; è perciò d’obbligo un invito a lettrici e lettori a prestare attenzione al linguaggio usato in questo testo, linguaggio
che a prima vista può sembrare un liscio pendio collinare e in realtà è
una ripida salita irta di difficoltà.
Un classico esempio è la differenza fra tre concetti strettamente
legati tra loro e, come nota Corbetta () insieme a molti altri, ancora confusi anche dagli addetti ai lavori: ‘metodologia’, ‘metodo’ e ‘tecnica’ . Quante volte capita di leggere, ad esempio sui giornali, frasi
. Ho usato e userò gli apici per indicare che mi riferisco a termini (‘ipotesi’, ‘tecnica’ ecc.); userò invece le virgolette per riferirmi a concetti su cui voglio attirare l’attenzione, o che sto discutendo, comparando ecc. In questo seguo la proposta che mi è stata
fatta da Alberto Marradi in occasione della stesura di un mio precedente testo.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
come «la ricerca è stata condotta con metodologie innovative»? Avendo già definito che per metodologia intendiamo un insieme di discipline che ci dicono come condurre una buona ricerca empirica, sappiamo
che la frase è scorretta; ma come correggerla: sostituendo ‘metodologia’ con ‘tecniche’, oppure con ‘metodi’? In questo caso potremmo
usare entrambi, ma ciò non significa che siano sinonimi. Vale la pena
di dare le definizioni corrispondenti, così da evitare dubbi futuri, ma
prima è necessaria una precisazione.
La definizione di ‘metodo’ che propongo è frutto di riflessioni personali, di suggerimenti di colleghi  e di definizioni proposte da altri ;
su questa base ho costruito una definizione provvisoria e personale,
coerente con il mio punto di vista sulle questioni di fondo della metodologia, che diverrà chiaro nel corso di questo libro.
Dunque, con ‘metodo’ intendo il processo mentale che, a partire
dalle scelte interpretative del ricercatore, governa il percorso di ricerca,
consentendo di scegliere tra le alternative disponibili (ad esempio tra
tecniche di analisi o di rilevazione diverse), o di proporne di nuove.
È perciò una questione che riguarda il metodo lo scegliere tra tecniche di analisi diverse (ad esempio tra un’analisi fattoriale e un’analisi dei gruppi); oppure tra strumenti di rilevazione delle informazioni
(ad esempio tra un’intervista strutturata e una semi-strutturata);
oppure tra modi alternativi di costruire il campione degli intervistati
(ad esempio campionamento rappresentativo o campionamento per
quote).
Il punto di partenza è sempre costituito dalle scelte interpretative
del ricercatore, cioè dal suo personale modo di risolvere le principali
controversie metodologiche ed epistemologiche : se sono convinta
. Ringrazio in particolare Flavio Ceravolo, col quale ho spesso discusso gli argomenti di cui mi occupo in questo libro, e che mi ha dato suggerimenti spesso illuminanti.
. Mi riferisco in particolare alla definizione proposta dal glossario della Collana di
Metodologia delle Scienze Umane (edita da Franco Angeli), redatto tra il  e il 
dal comitato editoriale della Collana stessa, formato da Enrica Amaturo, Gabriele Calvi,
Antonio de Lillo, Alberto Marradi, Gino Martinoli, Luca Ricolfi e Franco Rositi. La loro
definizione è la seguente: «metodo è da riservare ad accezioni molto alte e generali, ai
processi mentali che bilanciano mezzi e fini o scelgono fra tecniche pre-esistenti in vista
di un obiettivo cognitivo. Si può usare peraltro in locuzioni già consolidate in altre discipline (ad esempio il metodo dei minimi quadrati)».
. L’epistemologia è la riflessione sul metodo scientifico; si differenzia dalla metodologia in quanto quest’ultima, come abbiamo visto, ha carattere non solo speculativo, di
riflessione, ma anche operativo (Ricolfi, ).

.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
che la realtà può essere studiata oggettivamente, sceglierò una rilevazione mediante questionario con un’impostazione simile a quella che
si adottava negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, in cui l’intervistatore si limita a proporre le domande, non entra in interazione
con l’intervistato, e lo strumento è pensato per misurare. Se invece
penso che la realtà osservata sia il prodotto dell’interazione tra chi studia e chi è studiato, posso utilizzare il questionario, tuttavia con
un’impostazione diversa: posso ad esempio inserirvi domande a cui
l’intervistato può rispondere liberamente, oppure fare una registrazione audio e video dell’intervista ed esaminarla in un secondo momento per cogliere gli eventuali punti critici dell’interazione e, quindi, il
loro possibile influsso sulle risposte . Posso anche condurre un’intervista semi-strutturata e compilare in un secondo tempo il questionario
a risposte chiuse (cioè pre-definite) sulla base delle risposte libere dell’intervistato .
La definizione di ‘tecnica’ è meno problematica; riporto e accolgo
quella data da Corbetta (, p. ): ‘tecniche’ sono le specifiche procedure operative di cui ci si serve per acquisire e controllare i risultati
di ricerca empirica (ad esempio le scale Likert, la correlazione, la
regressione ecc.).
Per tornare alla frase usata come esempio («la ricerca è stata condotta con metodologie innovative»), sappiamo che ‘metodologie’ è
scorretto: non possiamo dire che la ricerca è stata condotta con un
insieme di discipline innovativo, perché non ha senso. Possiamo sostituire ‘metodologie’ con ‘metodi’, e allora significa che la ricerca è stata
attuata sulla base di un percorso innovativo (ad esempio un nuovo protocollo di ricerca, un nuovo modo di fare esperimenti ecc.). Ma possiamo impiegare anche ‘tecniche’, perché in questo caso significherebbe che il modo di rilevare, organizzare o analizzare i dati è innovativo.
Tutto dipende da cosa vogliamo dire; è certo tuttavia che non possiamo usare questi tre termini (‘metodologia’, ‘metodo’ e ‘tecnica’) come
sinonimi: se essi sono usati come tali nel linguaggio quotidiano, non
possono esserlo nel linguaggio metodologico.
. Una procedura di questo tipo (adottata da Salvatore Cacciola per la tesi di laurea)
è descritta e commentata da Marradi ().
. È questo il metodo adottato nella ricerca presentata in Bianchi et al. (), in cui
i percorsi di mobilità di una generazione di pratesi e fiorentini sono stati indagati facendo ricorso all’intervista biografica; parte dei dati così rilevati è stata ricondotta dai ricercatori a una griglia strutturata in tutto simile a un questionario.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
.
Scienza e senso comune
Uno dei compiti della metodologia è la riflessione sulle pratiche adottate dalla ricerca empirica; quest’ultima costituisce il modo che la scienza
da Galileo in poi si è data per produrre conoscenza sul mondo. Tuttavia sappiamo che fare scienza non è il solo modo per produrre conoscenza sul mondo: ciascuno di noi ne ha una prova nella vita quotidiana. Esiste infatti un insieme di conoscenze socialmente prodotte e condivise che aiutano ciascuno di noi a vivere la vita di tutti i giorni, che di
solito non vengono messe in discussione, che ci esimono dall’obbligo di
prestare attenzione a tutte le infinite situazioni che ogni giorno affrontiamo. Pensiamo ad esempio alla conoscenza del comportamento
appropriato su un autobus o in un’aula universitaria; oppure alle ragioni che adduciamo per spiegare eventi eccezionali (una catastrofe, un
omicidio particolarmente efferato e così via); o ancora alla reazione che
ci aspettiamo quando consegniamo un regalo, facciamo un complimento o una critica. In tutti questi casi (e in molti altri) quasi non sappiamo
nemmeno di sapere quello che ci serve per vivere la quotidianità: la
viviamo e basta. In questo siamo a pieno diritto membri della nostra
società e ne seguiamo le regole implicite o esplicite (anche quando le
violiamo; cfr. Garfinkel, ).
L’insieme di conoscenze che ci permette di sopravvivere (e di
sopravvivere con decoro, direbbe Goffman ) nella vita di tutti i giorni
è il senso comune, ovvero «ciò che sappiamo in relazione alle faccende
che sbrighiamo e ai ruoli che ricopriamo nella vita quotidiana» (Jedlowski, , p. ). La sua principale funzione è di fare in modo che
possiamo dare per scontata la maggior parte delle cose che ci succedono quotidianamente: tutte le volte che attraversiamo la strada non
dobbiamo fermarci a pensare perché col verde si può passare e col
rosso no, come si è arrivati a questa decisione e così via, ma lo facciamo e basta, perché diamo per scontato che funziona così. Allo stesso
modo, quando andiamo al ristorante e il cameriere si avvicina al nostro
tavolo, non ci chiediamo allarmati «Chi è costui e cosa vuole?», ma
ordiniamo il nostro piatto come fosse la cosa più naturale del mondo,
e in effetti lo è.
. Goffman ha descritto in numerosi lavori la vita quotidiana, occupandosi spesso
delle regole e delle aspettative di deferenza e decoro legate ai vari ruoli sociali, e alle conseguenze della loro infrazione. Cfr. ad esempio Goffman (, , , ).

.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
La caratteristica fondamentale del senso comune è che è molto difficile definirne i contenuti, le regole e così via, proprio perché si compone di ciò che “si sa”; serve per dare per scontata la vita di tutti i giorni, ma esso stesso viene dato per scontato. Le credenze, ovvero ciò che
“si sa” che è vero, ma che non siamo in grado di provare o dimostrare,
sono parte del senso comune; così anche gli stereotipi, cioè quelle categorie del pensiero che ci servono per organizzare cose, eventi e persone
in insiemi omogenei sulla base di pochi tratti salienti, senza fermarci a
considerarne tutta la complessità.
Ad esempio, gli studenti con un aspetto timido e occhiali spessi sono
presi per “secchioni”; le belle ragazze sono spesso considerate non troppo intelligenti. Poco importa se non tutti gli studenti timidi sono secchioni e non tutte le belle ragazze sono poco intelligenti, e importa
ancor meno se questo studente non è secchione o se questa bella ragazza è intelligente. Assegnandoli alla categoria dei “secchioni” e delle
“belle ma non intelligenti”, evitiamo di procedere a un accurato esame
che potrebbe portarci a cambiare il nostro giudizio, ma anche a perdere molto tempo, attenzione ed energia per una persona magari conosciuta da poco e che non rivedremo più.
Stereotipi e credenze sono categorie del pensiero che ci servono per
organizzare ciò che percepiamo del mondo; senza di essi il mondo stesso ci apparirebbe come un flusso vago e indistinto di percezioni cui non
sapremmo dare un significato. La loro funzione, che è quella di renderci adatti al nostro ambiente, è perciò fondamentale, così com’è fondamentale il fatto che essi operano senza che noi ce ne accorgiamo.
Durante gli anni della socializzazione primaria ci è stato insegnato proprio questo: come riconoscere oggetti ed eventi, quali sono le “scatole
concettuali” più adatte nei vari casi, quali regole servono per distinguere un oggetto (evento, persona ecc.) dall’altro. In sintesi, ci è stato insegnato ad assegnare un qualsiasi evento, oggetto o persona percepita a
una classe popolata da oggetti, eventi o persone simili.
In effetti, «nel momento in cui osserviamo ogni cosa, la nostra percezione è già in qualche modo una “messa in forma” della realtà, una selezione dei tratti salienti che prendiamo in considerazione estraendoli dal
disordine potenziale dei puri dati dei sensi» (Jedlowski, , p. ).
Qual è dunque il legame fra scienza e senso comune? A tutta prima
potremmo rispondere in due modi: o che non c’è alcun legame oppure
che c’è un legame antagonistico, nel senso che la scienza tenta di ridurre il campo di azione di credenze, stereotipi e di tutto quanto è inconsapevole e irriflesso, sottoponendoli al vaglio del pensiero razionale e
accettando come scientifico solo ciò che può essere dimostrato e provato. In questa accezione il senso comune è l’opinione non-scientifica, e

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
quindi approssimativa, non confrontata con la realtà, il cui campo d’influenza deve essere ridotto a poco a poco dalla scienza.
Tuttavia le riflessioni della sociologia della scienza, dell’epistemologia e di alcune scuole di pensiero filosofico (la fenomenologia, soprattutto) ci portano oggi a dare una risposta molto diversa: scienza e senso
comune hanno la stessa radice, «in quanto l’attività scientifica, come il
senso comune, ha in ultima analisi la funzione di organizzare e controllare le nostre rappresentazioni dei fatti nel rapporto con l’ambiente»
(Crespi, , p. ). In altri termini, sia il senso comune sia l’attività
scientifica servono per aumentare il grado di adattamento all’ambiente
in cui viviamo, rispondendo – certo in modo diverso – alle medesime
domande sulla realtà.
In effetti, scienza e senso comune sono entrambi il prodotto di pratiche di socializzazione: non si nasce col senso comune già formato, ma
esso – come abbiamo detto – ci viene insegnato e viene appreso praticamente nel corso di tutta la vita. Se normalmente giungiamo a darlo
per scontato, ci rendiamo conto della sua natura relativa quando visitiamo altri Paesi ed entriamo in contatto con altre culture, per le quali
il senso comune si compone di pratiche e significati diversi dai nostri.
Il senso comune è quindi un prodotto della cultura in cui siamo
immersi; e così pure la scienza. Come afferma Crespi infatti:
il sapere è sempre un fenomeno di comunicazione convenzionale, che si sviluppa all’interno di comunità determinate, sulla base di accordi pratici, mediante i quali vengono fissati gli usi propri dei termini e inquadrati i diversi fenomeni, sia quelli abituali sia quelli nuovi e inaspettati (ivi, p. ).
Come ci viene insegnato cosa dobbiamo considerare senso comune, così
ci viene insegnato cosa dobbiamo considerare scienza o scientifico .
. Thomas Kuhn () è il primo studioso ad essersi occupato in maniera approfondita delle pratiche adottate dalla comunità scientifica e ad aver studiato il modo in cui
la conoscenza scientifica viene prodotta, si sviluppa e viene comunicata. Si deve a Kuhn
l’idea che la scienza è un prodotto sociale, che viene costruito seguendo regole adottate
dalla comunità degli scienziati (ovvero il metodo scientifico), viene insegnato all’interno
di un processo di training e si modifica nel tempo (Crespi, ). In ciascuna epoca vige
infatti un paradigma scientifico, cioè un quadro teorico di riferimento che stabilisce cosa
si deve considerare scientifico e cosa non lo è; esso inoltre «fornisce la base per l’interpretazione di un gran numero di fenomeni e assicura le condizioni per l’accumulazione
del sapere da una generazione all’altra» (Crespi, , p. ). L’opera di Kuhn è di capitale importanza, e ha suscitato un dibattito assai vasto; tuttavia una discussione approfondita di questi temi esula dagli obiettivi di questo testo. Cfr. perciò lo stesso Kuhn
(), come pure Lakatos, Musgrave (), Bloor ().

.
QUESTIONI INTRODUTTIVE
Sappiamo infatti che il modo di operare della scienza è oggetto di un
lungo percorso di apprendimento da parte degli aspiranti scienziati, che
devono appunto essere socializzati alle pratiche scientifiche più o meno
nello stesso modo in cui sono stati socializzati alle pratiche di senso
comune (Crespi, ).
La radice della scienza e del senso comune è la stessa anche per un
altro motivo: la scienza opera su una realtà che “si sa” che è la realtà, ma
che in fin dei conti è definita come tale dalla propria cultura (Jedlowski,
). In altri termini, la stessa base su cui agisce e che viene studiata
dalla scienza è un prodotto culturale, non oggettivo, su cui vi è un tacito accordo da parte di tutti i membri della società. Del resto,
non potrebbe esistere neppure una “scienza” se l’idea stessa di “scienza” non
fosse plausibile all’interno di una cultura: di fatto, le scienze si sono sviluppate
nelle società occidentali moderne quando la cultura ne ha elaborato il concetto, e reso “sensato” che qualcuno potesse dirsi “scienziato” (Jedlowski, ,
pp. -).
È importante comprendere che la scienza non è qualcosa di assoluto e
oggettivo, dato una volta per tutte, ma è l’esito di pratiche, accordi, convenzioni, in altre parole è un prodotto culturale: la comunità scientifica
stabilisce i criteri in base ai quali è possibile affermare che qualcosa è
scientifico oppure non lo è, e tali criteri variano nel tempo, a seconda
della visione di volta in volta dominante all’interno della comunità stessa (Kuhn, ).
Abbiamo visto fin qui cosa rende simili scienza e senso comune; è
tuttavia evidente che vi sono molte differenze, che possiamo sintetizzare in tre punti :
. tipo di ragionamento: il senso comune procede per euristiche, ovvero per spiegazioni ad hoc, adatte a una particolare situazione; la scienza
invece procede secondo procedure formalizzate e condivise dalla comunità di scienziati, seguendo criteri precisi (tra i quali ricordiamo la riproducibilità dei risultati, ovvero la possibilità di ripercorrere il percorso
seguito da altri studiosi per produrre certi risultati);
. rapporto con interessi e valori: nel ragionamento di senso comune gli
interessi personali sono naturalmente e legittimamente presenti, anche
se non sempre in modo esplicito; ad esempio, nel dare spiegazione di un
certo evento potremmo enfatizzare alcuni aspetti che tornano a nostro
. Devo a Mario Cardano la sintesi degli elementi di distanza tra scienza e senso
comune.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI
favore. Nella pratica scientifica invece si tende a seguire l’indicazione di
Weber, secondo cui l’atteggiamento dello scienziato deve essere avalutativo, cioè non influenzato da interessi personali (cfr. Weber, );
. orientamento generale: data la sua funzione di aumentare il nostro
adattamento all’ambiente (naturale e sociale) in cui viviamo, il senso
comune ha un orientamento principalmente pratico; la scienza invece
ha finalità teoriche, sebbene non possa fare a meno del livello empirico
per confermare o disconfermare le proprie teorie e ipotesi. Inoltre,
come afferma Jedlowski (), la scienza mira (asintoticamente,
aggiungerei) al raggiungimento della verità, mentre il senso comune si
accontenta del verosimile, proprio perché ha un orientamento pragmatico, concreto.
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