CONVIVENZE E ADOZIONE NEL D.D.L. CIRINNA’
Ad ognuno il suo (matrimonio)
Il D.D.L. Cirinnà, che non solo regolamenta il regime delle convivenze ma
introduce anche, con innegabile slancio innovativo, l’istituto delle unioni civili fra le
persone dello stesso sesso, va ben oltre il dichiarato intento di mettere l’Italia, che
ancora non ha una disciplina sulle convivenze in genere e omosessuali in particolare,
al passo con gli altri paesi dell’unione europea.
Infatti accanto alla disciplina delle convivenze, contenuta nel titolo II,
contempla al titolo I le Unioni Civili, riservate alle persone dello stesso sesso, la cui
disciplina ricalca per intero quella del matrimonio.
L’art. 3 co. 1° richiama, infatti, interamente le norme applicabili al matrimonio
in tema di diritti e doveri nascenti dallo stesso e al co. 3°, con una disposizione di
chiusura che elimina ogni eventuale dubbio in ordine alla completa assimilabilità dei
due istituti, si prevede che “…..le disposizioni contenenti le parole coniuge, coniugi,
marito e moglie ovunque ricorrano nelle leggi nei decreti e nei regolamenti si
applicano anche alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso” .
L’unica eccezione, contenuta nel citato 3° co. dell’art. 3, è rappresentata
dall’art 6 della l. 184/83: vale a dire la norma che indica i requisiti soggettivi della
coppia che può presentare domanda di adozione che, conseguentemente, deve essere
una coppia di “coniugi” .
Particolarmente di rilievo, per le conseguenti implicazioni in tema di adozione,
è la circostanza che all' unione civile si applicano anche le disposizioni relative alla
separazione e aldivorzio.
Il testo unificato del D.D.L. Cirinnà da ultimo pubblicato prevede all’art 5 la
possibilità per la parte dell’unione civile di accedere all’adozione ex art 44 lett. b) l.
184/83, ossia all’adozione del figlio del partner dello stesso sesso.
Tale istituto non era stato previsto nel precedente testo del D.D.L.:
evidentemente le audizioni delle associazioni a tutela dei diritti degli omosessuali che
hanno con determinazione rivendicato la possibilità di accedere all’adozione cd.
interna (anche detta stepchild adoption) hanno indotto il legislatore a riconoscere alle
coppie di omosessuali unite in un unione civile tale prerogativa; peraltro in maniera
così esplicita da apparire ridondante.
Sarebbe, infatti, bastato, per ritenere sicuramente applicabile l’art 44 lett b) l.
184/83 anche all' interno dell’unione civile, il già citato terzo comma dell’art 3) che
impone di estendere il riferimento al “coniuge” anche alla parte dell’unione civile.
Si è sentita, invece, la necessità di ribadirlo in un articolo appositamente
dedicato, il n. 5, che recita: “all’art 44 lettera b) della legge 4/5/1983 n. 184 dopo la
parola coniuge sono inserite le parole “o dalla parte dell’unione civile fra persone
dello stesso sesso”.
Appare, poi, significativo che il disegno di legge, non riconoscendo uguale
prerogativa alle coppie conviventi – cosa che avviene in alcun paesi dell’U.E - se da
un lato manifesta una preferenza del legislatore, a tutela del minore, per situazioni
che diano maggiori garanzie di riconoscibilità sociale e di stabilità, dall’altro
dimostra di costruire l’unione civile, al di là del nomen iuris, come un vero e proprio
matrimonio.
Adozione da parte di coppie same sex: è la Costituzione o l’Europa che ce
lo chiede?
A fronte di una novità legislativa di tale portata che sovverte il tradizionale
lo chiede?
A fronte di una novità legislativa di tale portata che sovverte il tradizionale
ritratto della coppia idonea all’adozione come unita in matrimonio, e dunque
eterosessuale – sia pure con esplicito riferimento solo all’adozione ex art. 44 lett. b) l.
184/83 ma, come si dirà infra, con implicazioni inevitabili anche in tema di adozione
legittimante - impone di chiedersi se tale innovazione sia necessitata al fine di porre
l’Italia al ripario da eventuali condanne da parte della CEDU per contrasto della l.
184/83 con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, o da censure di
incostituzionalità della legge sull’adozione nella parte in cui impedisce l’accesso
all’istituto alle coppie non coniugate e, dunque, inevitabilmente, agli omosessuali.
Quanto al primo quesito occorre, allora, domandarsi se l’attuale impedimento
per le coppie omosessuali di accedere all’adozione, derivante dalla impossibilità di
accedere al matrimonio, violi un diritto protetto dalla costituzione o direttamente o
indirettamente attraverso il rinvio mobile di cui all’art 117 alle norme della CEDU.
Giova premettere che non esiste un diritto all’adozione: nessuna fonte di diritto
interno o sovranazionale lo contempla né per le coppie eterosessuali né per quelle
omosessuali.
Esiste invece il diritto del minore ad una famiglia, così come testualmente
recita il titolo della legge 184/83, che si pone semanticamente in opposizione con il
diritto della coppia ad un figlio.
Dalla lettura combinata degli artt. 1 co 4°, 2, 8 e segg. l. 184/83 si ricava
agevolmente che l’adozione è un istituto finalizzato a realizzare il diritto alla famiglia
di un minore quando la sua famiglia “non è in grado di provvedere alla sua crescita
ed educazione”: il che equivale a dire quando il minore è in stato di abbandono in
quanto “privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori”.
Nel caso in cui il minore sia solo temporaneamente privo di un ambiente
familiare idoneo l’istituto al quale si fa ricorso è quello dell’affidamento. (art 2)
Anche le fonti internazionali prevedono il diritto del minore a ricevere una
tutela sostitutiva in caso di mancanza o inefficienza della famiglia biologica. In
particolare l’art 20 della Convenzione di New York prevede che “ogni fanciullo il
quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare
oppure non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse ha diritto
ad una protezione e ad aiuti speciali dallo Stato …. tale protezione sostitutiva può in
particolare concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della Kafalah di
diritto islamico, dell’adozione o, in caso di necessità, del collocamento in adeguati
istituti per l’infanzia.”
Conseguentemente ogni riflessione sulla legittimità della rivendicazione di
accesso all’istituto dell’adozione da parte delle coppie omosessuali – oggi più di
attualità, ma lo stesso è a dirsi con riferimento alle coppie eterosessuali non sposate
e, in ultima analisi, anche con riferimento ai singles - deve tenere conto di tale
circostanza oltre che del principio, universalmente riconosciuto come ispiratore di
qualsiasi decisione che coinvolga la vita di un minore, del “best interest of child”.
Al fine di sottoporre l’impianto normativo dell’adozione, come ridisegnata
dalla novella della l. 184/83, a prova di resistenza costituzionale e sovranazionale –
imposta dall’art 117 cost in forza del rinvio mobile “ai vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” - appare opportuno
ricordare i requisiti che deve possedere la coppia che voglia fare domanda di
adozione, previsti dall’art 6 della citata legge.
Nel nostro ordinamento l’adozione legittimante (quella, cioè prevista dai Titoli
II e III della citata legge rispettivamente nominati “dell’ adozione” e “dell’adozione
internazionale”) è consentita a tutela di un minore che sia stato dichiarato adottabile
perché “in stato di abbandono” in Italia o all’estero ed in favore di una coppia di
coniugi uniti in matrimonio e in possesso delle ulteriori caratteristiche delineate
nell’art 6) richiamate, quanto all’adozione internazionale, dall’art. 29 bis: differenza
coniugi uniti in matrimonio e in possesso delle ulteriori caratteristiche delineate
nell’art 6) richiamate, quanto all’adozione internazionale, dall’art. 29 bis: differenza
di età con l’adottando compresa fra i 18 e i 45, idoneità affettiva e capacità di
educare, istruire e mantenere il minore che intendono adottare.
E’ evidente come il legislatore, al fine di realizzare l’interesse del minore, si sia
non solo ispirato all’ “imitatio naturae” ma abbia richiesto un requisito ulteriore di
stabilità della relazione affettiva fra i genitori che, infatti, non basta siano uniti in
matrimonio ma lo debbono essere da tre anni o, in alternativa, è necessario che
abbiano stabilmente convissuto per lo stesso periodo di tempo senza che “abbia
avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto”.
Il requisito, assolutamente inderogabile, caratterizzante la coppia aspirante
all’adozione è quello dell’essere unita in matrimonio.
Ne consegue che non è possibile l’adozione da parte di coppie di conviventi
(siano essi coppie eterosessuali o omosessuali )
Poiché, sia pure in assenza di una norma definitoria espressa, il nostro
ordinamento prevede che possano essere uniti in matrimonio solo un uomo ed una
donna, appare evidente da un lato come il tema dell’accesso all’istituto dell’adozione
legittimante da parte delle coppie omosessuali sia strettamente legato a quello della
possibilità di queste ultime di accedere all’istituto del matrimonio e, dall’altro, come
oggi non vi sia spazio alcuno per riconoscere la possibilità per consentire l’adozione
legittimante di un minore da parte di coppie omosessuali.
Nessuna sentenza di merito “creativa” è riuscita a fare breccia su tale impianto
tanto semplice quanto inespugnabile se è vero – come è vero e come si vedrà - che è
immune da censure di incostituzionalità e rispettoso della normativa sovranazionale.
La Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 138/2010 ha, infatti, dichiarato
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di
Venezia e dalla Corte d’Appello di Trento per violazione degli art. 2, 3, 29 e 117
della Costituzione, con riferimento alle norme civilistiche in materia di matrimonio (
artt. 93, 96, 98, 107,108, 143, 143 bis, 156 bis, c.c.).
La Corte, in sintesi, non ravvisa alcuna violazione:
-­‐ non con riferimento all’ art. 2 cost.: se, infatti, “l’unione
omosessuale intesa come stabile convivenza fra due persone dello
stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere
liberamente una condizione di coppia ottenendone – nei tempi, nei
modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico
con i connessi diritti e doveri” rientra nella nozione di “formazione
sociale” in cui si estrinsecano i diritti inviolabili dell’uomo, “si
deve escludere tuttavia che l’aspirazione a tale riconoscimento –
che necessariamente postula una disciplina di carattere generale
finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia –
possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione della
unioni omosessuali al matrimonio. …….Ne deriva dunque che,
nell’ambito applicativo dell’art. 2 della Costituzione spetta al
Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità,
individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni
suddette ….”
-­‐ non con riferimento agli artt. 3 e 29 cost : premette la Corte che
“è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono
ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la
Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità
propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati non
solo tenendo conto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma
anche dell’evoluzione della società e dei costumi”; tuttavia,
continua “ detta interpretazione… non può spingersi fino al punto
anche dell’evoluzione della società e dei costumi”; tuttavia,
continua “ detta interpretazione… non può spingersi fino al punto
di incidere sul nucleo della norma modificandola in modo tale da
includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in
alcun modo quando fu emanata……I costituenti, elaborando l’art
29 cost. discussero di un istituto che aveva una precisa
conformazione e un’articolata disciplina nell’ordinamento civile.
Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere
che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal
codice civile entrato in vigore nel 1942 che, come sopra si è visto,
stabiliva ( e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere
persone di sesso diverso. Questo significato del precetto
costituzionale non può essere superato in via ermeneutica perché
non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di
abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad
una interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la
norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì
intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto
istituto.” Conseguentemente, continua la Corte, la normativa
civilistica che contempla esclusivamente il matrimonio fra uomo e
donna non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale e
“ciò sia perché trova fondamento nel citato art 29 della Cost., sia
perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole
discriminazione in quanto le unioni omosessuali non possono
considerarsi omogenee al matrimonio”.
Infine, quanto al parametro riferito all’art 117 Cost che il rimettente riterrebbe
violato per mancato rispetto della normativa sovranazionale ( in particolare dell’ art
12 (diritto al matrimonio) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali) e dell’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire
una famiglia) della la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea) osserva la Corte: “l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale
hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali
regolanti l’esercizio di tale diritto». A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di
sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali
che ne disciplinano l’esercizio»… Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare
che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il
diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve
aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate
sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non
avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con
riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone
la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».
Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque
decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione
alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e
donna.
Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la
materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.”
I principi contenuti in tale sentenza - che si è tentato di mettere in discussione
alla luce della successiva evoluzione giurisprudenzale della CEDU - sono stati
riattualizzati dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30/10/14 n. 2400, nella
quale la Suprema Corte – nel respingere il ricorso di una coppia di omosessuali
avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando la sentenza di
primo grado, ne respingeva la richiesta di pubblicazioni di matrimonio –
sostanzialmente ribadisce che le unioni omosessuali, godono di riconoscimento
primo grado, ne respingeva la richiesta di pubblicazioni di matrimonio –
sostanzialmente ribadisce che le unioni omosessuali, godono di riconoscimento
costituzionale, in quanto rientranti nelle formazioni sociali di cui all’art 2 Cost., ma è
da escludere che tale riconoscimento imponga di applicare nei loro confronti lo
statuto dei diritti e doveri riservati al matrimonio.
La corte continua affermando che - rilevata “la legittimità costituzionale e
convenzionale della scelta del legislatore ordinario in ordine alle forme e i modelli
all'interno dei quali predisporre per le unioni tra persone dello stesso sesso uno
statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni” - deve
escludersi, come invece prospettato dai ricorrenti, la possibilità di una creazione
giurisprudenziale volta ad estendere l'unione coniugale anche a persone dello stesso
sesso "risultando tale operazione ben diversa da quella consentita di adeguamento
ed omogeneizzazione nella titolarità e nell'esercizio dei diritti”; rimane, dunque,
riservata al legislatore la scelta della tutela da apprestare le unioni omo-affettive.
Né diversi argomenti – anche se la sentenza è stata valorizzata dai movimenti a
tutela dei diritti delle persole LBGTI come una importante apertura verso il
matrimonio omosessuale - si traggono dalla sentenza della Corte di Cassazione n.
4184 del 2012 con la quale la Corte ha rigettato la trascrizione di un matrimonio
contratto all'estero tra persone dello stesso sesso: la Corte, infatti, pur escludendo,
diversamente dal passato, la contrarietà all'ordine pubblico del titolo matrimoniale
estero in ragione dell’evidenziato processo di costituzionalizzazione delle unioni
omosessuali, affermava però l'inidoneità dello stesso a produrre nel nostro
ordinamento gli effetti del vincolo matrimoniale.
Fino ad oggi, dunque, l’ordinamento italiano, con il costruire l’istituto del
matrimonio come unione fra un uomo ed una donna - con attribuzione alla coppia sia
nei rapporti interni che in quelli esterni una serie di prerogative, ivi compresa quella
di accedere all' adozione, del tutto diverse da quelle delle coppie conviventi di fatto
(siano essi omosessuali o eterosessuali) anche in ragione della funzione sociale
rivestita della famiglia i cui “fondatori” abbiano preso pubblicamente un impegno di
fronte alla comunità – è al riparo da censure di incostituzionalità.
Ma tale costruzione regge anche al vaglio della giurisprudenza delle Corte
Europea dei diritti dell’Uomo, che da sempre ha svolto un ruolo di propulsione degli
ordinamenti dei singoli stati verso uno standard normativo condiviso ed avanzato di
difesa dei diritti fondamentali della persona.
Dall' esame della giurisprudenza della CEDU negli ultimi decenni si nota un
progressivo e sempre più ampio riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali
sia come singoli che come coppia.
Gli omosessuali, in quanto riconosciuti capaci, al pari degli eterosessuali, di
unioni stabili e durature e dunque meritevoli di riconoscimento legale e protezione
della loro unione, hanno diritto alla "vita familiare" (art. 8 CEDU)
Inoltre, la Corte ha fatto in materia rigorosissima applicazione del canone
antidiscriminatorio di cui all' art. 14 della Convenzione - pur nella riconosciuta
mancanza di un consensus europeo che normalmente nella giurisprudenza della Corte
legittima il riconoscimento alle legislazioni interne di ampi margini di discrezionalitá
- per il quale a situazioni assimilabili deve esser riservato un uguale trattamento
legislativo e pertanto, in materia di matrimonio e adozione, la vita familiare delle
coppie omosessuali deve essere tutelata al pari di quella delle coppie eterosessuali
che si trovino in una situazione similare.
Tuttavia i giudici di Strasburgo hanno sempre ribadito che il diritto di sposarsi
di cui all’ art. 12 della Convenzione è riconosciuto a uomini e donne in etá maritale
secondo le leggi nazionali.
Nella sentenza del 24/6/10, Schalk and Kopf contro Austria viene affermato
per la prima volta che la coppia omosessuale ha diritto non solo alla vita privata ma
anche alla vita familiare.
per la prima volta che la coppia omosessuale ha diritto non solo alla vita privata ma
anche alla vita familiare.
Tuttavia nel diritto alla vita familiare di cui all’art 8 della CEDU non vi si può
ricomprendere il diritto a sposarsi.
Infatti, argomenta la Corte, l'articolo 12 della Convenzione prevede
espressamente che la disciplina del matrimonio è rimessa alla discrezionalità del
legislatore nazionale trattandosi di istituto strettamente legato alle tradizioni dei
singoli ordinamenti.
E però l' art 12, in considerazione dell'evoluzione della società, deve essere
interpretato nel senso che il diritto a contrarre matrimonio può essere riconosciuto
anche alle coppie omosessuali.
Il diritto alla vita familiare non comprende neppure il diritto ad adottare.
Anche in materia di adozione si è andata registrando una significativa
evoluzione della giurisprudenza della Corte che inizialmente, infatti, in diverse
decisioni, si era dichiarata incompetente a pronunciarsi su questioni relative alla
violazione di pretesi diritti relativi alla genitorialitá adottiva rilevando che, rationae
materiae, sono estranei alla tutela della convenzione (così nella famosa sentenza Di
Lazzaro contro Italia del 1997).
Nella più recente sentenza X and Others versus Austria del 19/2/13 la Corte ha,
infatti, riconosciuto la tutela della filiazione adottiva come rientrante nelle materie a
tutela convenzionale.
Ribadita la libertà degli Stati nel disciplinare o meno il matrimonio
omosessuale i giudici di Strasburgo hanno riaffermato il principio che gli Stati ben
possono riconoscere al matrimonio uno status speciale riconducendovi effetti diversi
da quelli previsti per gli altri tipi di unione, trattandosi una materia sensibile sulla
quale manca un consensus europeo.
Tuttavia, come accennato più sopra, i giudici fanno una rigorosissima
applicazione del principio antidiscriminatorio, ravvisandone la violazione da parte
dell' l'ordinamento austriaco, che riconosceva la possibilità di adozione coparentale
solo fra coppie eterosessuali.
La Corte, in sintesi, afferma che è possibile, che la normativa nazionale
persegua l'obiettivo di tutela della “famiglia tradizionale”, trattandosi di uno scopo
legittimo, ma ciò deve fare prestando molta attenzione a non violare il canone
antidiscriminatorio di cui all'articolo 14 della CEDU.
La disciplina del matrimonio e delle convivenze può essere differente in base
agli elementi che le caratterizzano - in termini di stabilità, diritti e obblighi reciproci,
possibilità di crescere e adottare minori - ma tale diversità non può fondarsi su motivi
di sesso o di orientamento sessuale.
Ma nel momento in cui si dovessero riconoscere delle prerogative alle coppie
di conviventi, anche quindi relativamente all’accesso all’ adozione, queste devono
essere riconosciute anche alle coppie omosessuali.
La vita familiare della coppia omosessuale deve essere tutelata al pari di quella
di coppie eterosessuali che si trovano in una situazione similare.
Nella sentenza Gas e Dubois contro Francia del 29/3/12 la Corte, facendo
uguale applicazione del principio antidiscriminatorio, era arrivata a conclusioni
opposte non ritenendo discriminatorio il divieto di accedere all’adozione opposto ad
una coppia di lesbiche la cui unione era stata registrata in quanto l' ordinamento
francese riservava alle sole coppie coniugate la possibilità di adottare: la situazione di
chi è sposato e di chi non lo è non sono, infatti, assimilabili.
La soluzione che il nostro parlamento si accinge ad adottare risulta, dunque,
non solo non obbligata dal punto di vista costituzionale e comunitario, ma si assestata
su di una frontiera massimamente avanzata nel panorama mondiale di tutela dei diritti
delle persone LGBTI.
Tanto si ricava anche dalla lettura della risoluzione del Parlamento Europeo in
su di una frontiera massimamente avanzata nel panorama mondiale di tutela dei diritti
delle persone LGBTI.
Tanto si ricava anche dalla lettura della risoluzione del Parlamento Europeo in
data 12/3/15 che nella relazione sui diritti umani e sullo stato della democrazia nel
mondo affronta il tema dei diritti delle persone LGBTI includendo fra i diritti umani
quelli legati al mondo della identità affettiva delle persone LBGTI.
Si legge che il Parlamento Europeo “accoglie positivamente l'adozione, nel
giugno del 2013, degli orientamenti dell'Unione per la promozione e la tutela
dell'esercizio di tutti diritti umani da parte di lesbiche, gay, bisessuali, trasgender e
intersessuali”; “prende atto della legalizzazione del matrimonio civile tra persone
dello stesso sesso in un numero crescente di paesi, attualmente 17, ed incoraggia le
istituzioni e gli Stati membri dell'unione a contribuire ulteriormente alla riflessione
sul riconoscimento del matrimonio o delle unioni civili fra persone dello stesso sesso
in quanto questione politica, sociale e di diritti umani e civili” ; “invita la
commissione e l’OMS a eliminare i disturbi dell'identità di genere dall'elenco dei
disturbi mentali e comportamentali”.
Dunque se è vero che il Parlamento Europeo incoraggia gli stati a dare
riconoscimento giuridico alle unioni omoaffettive, tuttavia ritiene che tale obiettivo
possa essere perseguito sia attraverso il riconoscimento del matrimonio che delle
unioni civili. Se tale espressione non deve essere considerata un'endiadi, il
Parlamento Europeo ha inteso con ciò fare riferimento alla possibilità da parte dei
singoli stati di procedere o ad una completa assimilazione fra le coppie omosessuali
e quelle eterosessuali con possibilità di accesso al matrimonio per entrambe, ovvero
al riconoscimento per l’unione omoaffettiva di uno statuto di diritti e doveri diversi
dal matrimonioDDL Cirinnà: specchio dei tempi o specchio per le allodole (ma non per la
CEDU)?
Il DDL che il Parlamento appare prossimo ad approvare nasconde una
insidia.
Come si è detto viene riconosciuta non solo una disciplina delle convivenze
registrate, accessibile sia alle coppie eterosessuali che omosessuali, ma anche uno
statuto di diritti e doveri concepito su ricalco dell’istituto matrimoniale,
riservato alle persone omosessuali.
Non si opta, però, per la scelta,intellettualmente più onesta, di chiamare
matrimonio ciò che di fatto lo è ma che viene chiamato “unione civile”.
Ora, se lo stesso Parlamento Europeo nella citata recentissima risoluzione
invita gli stati a riconoscere il matrimonio o le unioni civili fra persone dello stesso
sesso deve escludersi ( anche perchè molti stati non danno ancora nessun
riconoscimento alle convivenze) che tale espressione sia iterativa. Il Parlamento
intende distinguere chiaramente uno statuto di diritti e doveri "rinforzato", quale
quello matrimoniale, da un riconoscimento di diritti e doveri diversi da quelli
riservati al matrimonio.
Tale confusiva scelta terminologica - che viene il sospetto sia voluta per
tacitare quanti siano ancora convinti che il paradigma eterosessuale dell’istituto
matrimoniale sia a tutela del “legittimo scopo” (così ancora oggi definito dalla
CEDU) di difesa della famiglia tradizionale e dell’interesse del minore – certamente
non confonderà la Corte Europea dei Diritti dell’uomo che, una volta verificata la
completa assimilazione fra Unione Civile e Matrimonio non tarderà a condannare
l’Italia per violazione del canone antidiscriminatorio qualora venga adita da una
coppia omosessuale legata da Unione Civile che si sia vista rifiutare in Italia
l’accesso all’adozione.
Non è cioè possibile, argomenterà molto verosimilmente la Corte, che da
situazioni sostanzialmente assimilabili derivino effetti diversi (anche in materia di
adozione) in ragione del solo orientamento sessuale.
situazioni sostanzialmente assimilabili derivino effetti diversi (anche in materia di
adozione) in ragione del solo orientamento sessuale.
Tanto premesso è ora da chiedersi se tale iniziativa legislativa – come si è visto
non obbligata alla luce delle sempre più avanzate frontiere della tutela dei diritti delle
persone LGBTI – sia lo specchio di una communis opinio di favore della società
italiana rispetto alla accessibilità da parte delle coppie omosessuali ad istituti come
matrimonio ed adozione.
Se la principale funzione del diritto è quella di regolamentare gli eventi che
via via la storia e i mutamenti sociali presentano, al fine del mantenimento di una
ordinata convivenza sociale, è davvero possibile affermare che, alla luce dell’attuale
evoluzione sociale e dei costumi, esista sulla materia un consensus nazionale che
reclama un intervento legislativo sul punto?
Quanti sostengono che con tale iniziativa legislativa non si stia facendo altro
che adeguare l' ordinamento al mutamento dei costumi, traggono argomenti di
conferma da alcune pronunce sia di merito che di legittimità con le quali si sarebbe
giá arrivati, per via giurisprudenziale, a dare riconoscimento alla genitorialitá
omosessuale.
Così la sentenza della Corte di Cassazione n. 601 dell’8/11/12 è stata
considerata addirittura “storica” dall’arcigay e Guida al diritto ne intitolava il
commento: “Cassazione, sì all’affido alla coppia omosessuale: il bambino cresce
bene” . Titolo assolutamente fuorviante in quanto non si trattava affatto di un affido a
coppia omosessuale ma a madre omosessuale, né vi era una apodittica affermazione
della bontà del contesto omosessuale ma semmai della necessità che la dannosità del
contesto omosessuale in cui la madre esprimeva la sua genitorialità nei confronti del
figlio naturale dovesse essere provata.
La Corte aveva, infatti, respinto il ricorso di un padre di religione musulmana il
quale aveva impugnato la decisione della Corte d’Appello di Brescia che aveva
affidato in via esclusiva il figlio minore alla madre, una ex tossicodipendente, che
conviveva stabilmente con una delle educatrici conosciute nella comunità di
recupero.
La corte aveva respinto il ricorso dichiarando inammissibili tutti i motivi di
gravame. In particolare, per quanto qui rileva, respingeva per genericità anche il terzo
motivo con il quale il ricorrente denunciava la violazione degli artt. 342 e 155 bis c.c.
da parte della decisione della corte d’appello che aveva dichiarato inammissibile,
sempre per genericità, la doglianza ivi sollevata con la quale il padre aveva
lamentato la mancata valutazione del contesto familiare in cui era inserito il minore.
Motiva la corte che: “il ricorso è una riproposizione di quello presentato al
giudice di seconde cure senza alcuna specificazione delle ripercussioni negative sul
piano educativo e della crescita del bambino dell’ambiente familiare in cui questo
viveva presso la madre dunque generico in quanto alla base della doglianza del
ricorrente non sono poste certezze scientifiche o di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per il minore vivere in una famiglia incentrata su di una
coppia omosessuale dando così per scontato ciò che invece è da dimostrare ossia la
dannosità di quel contesto familiare per il bambino”.
In realtà la decisione della Corte, investe una situazione fattuale e di diritto del
tutto diversa da quella oggetto delle odierne riflessioni: come abbiamo sottolineato la
rivendicazione di accesso all’istituto dell’adozione non si collega ad una
preeesistente posizione soggettiva giuridicamente azionabile, non esiste un diritto ad
adottare o, comunque, ad avere un figlio.
Si discute, cioè, della possibilitá o meno di creare ex novo uno status
filiazionis.
Del tutto diversa è la situazione portata all’attenzione della Corte di Cassazione
dove vi erano due genitori che si contendevano il diritto all’affidamento esclusivo del
figlio, argomentando il padre a suo sostegno che la madre era inidonea al ruolo in
ragione della sua omosessualità.
figlio, argomentando il padre a suo sostegno che la madre era inidonea al ruolo in
ragione della sua omosessualità.
Nel caso all’attenzione della Suprema Corte l’interesse del minore andava
contemperato con il diritto del genitore ad esprimere la sua responsabilità
genitorialità senza limitazioni rivenienti in maniera discriminatoria dal suo essere
omosessuale. Il padre avrebbe dovuto provare la dannosità del contesto omosessuale
nel quale il bambino era inserito presso la madre e non presumerla in ragione soltanto
della omosessualità della donna.
La Corte di Cassazione non ha fatto altro che dare precisa applicazione dei
criteri antidiscriminatori ampiamente applicati dalla CEDU.
Giá nel 1996, del resto, la Corte Europea dei Diritti dell' Uomo con la
decisione Salgueiro da Silva Mouta contro Portogallo aveva condannato lo stato per
avere deciso di escludere dalla custodia della figlia il padre divorziato omosessuale
convivente con un altro uomo sulla base del solo orientamento sessuale dello stesso
La Corte aveva ritenuto che porre alla base di una decisione circa la custodia di
un figlio l’orientamento sessuale di uno dei genitori costituisse un’interferenza
ingiustificabile con la vita privata del genitore e confliggesse con l’adozione di una
decisione adottata unicamente nel reale interesse della prole.
Altra sentenza, questa volta di merito - ampiamente valorizzata nell’ottica di
ritenere l’attuale contesto socio-culturale e giudiziario ormai maturo per uno
svincolo del concetto di famiglia dal paradigma eterosessuale - è la n. 299 del
Tribunale per i Minorenni di Roma emessa il 30 luglio 2014 la quale ha
sostanzialmente introdotto nel nostro ordinamento per via interpretativa la cd.
stepchild adoption, attraverso un’ardito disancoraggio della situazione fattuale
sottostante da una condizione di privazione di cure parentali da parte del minore
(essendo ormai da anni superato dalla giurisprudenza il requisito della impossibilità
di fatto dell’affidamento preadottivo).
Ma anche qualora si avesse del diritto una concezione “propulsiva” e dunque
non solo di regolamentazione e tutela delle situazioni costituite ma anche di
orientamento delle stesse verso un determinato obiettivo, bisognerebbe quantomeno
sottoporre a verifica di certa desiderabilità e bontà l’obiettivo verso il quale si ritiene
giusto che l’ordinamento debba spingere.
Va ribadito che in materia di adozione dove, come si è visto, non vi sono diritti
degli adulti da tutelare, l' obiettivo non può che essere il benessere e la protezione dei
diritti del minore.
Bisogna, dunque, chiedersi se sia sicuramente auspicabile (o quantomeno
indifferente) che dei bambini possano essere cresciuti da coppie omosessuali.
Inserire il dibattito sulla possibilità per le coppie omosessuali di accedere
all’adozione nell’ambito di quello più ampio sul riconoscimento dei diritti delle
persone LGBTI, è fuorviante perché nessuna norma nazionale né sovranazionale
riconosce il diritto ad un figlio, e questo tanto per le coppie eterosessuali che per
quelle omosessuali.
La circostanza che con le tecniche di fecondazione assistita, anche eterologa, e
di maternità surrogata sia possibile divenire genitori laddove solo qualche decennio
fa sarebbe stato impossibile, non equivale a dire che vi sia oggi un diritto ad avere un
figlio.
Esiste, invece, il diritto del minore ad una famiglia: innanzitutto la propria, che
l’ordinamento ha il dovere di difendere ed aiutare nell’espletamento del suo ruolo
sociale e, secondariamente, ove la famiglia biologica sia irreversibilmente incapace
di assolvere al ruolo o francamente nociva, una famiglia adottiva.
Per essere posto correttamente il problema sulla opportunità o meno di
permettere l’accesso all’adozione da parte delle coppie omosessuali, bisogna
chiedersi se per tale via si realizza il “best interest of child” che vedrebbe
incrementato il numero delle coppie disponibili ad adottarlo
chiedersi se per tale via si realizza il “best interest of child” che vedrebbe
incrementato il numero delle coppie disponibili ad adottarlo
Interesse del minore e buona genitorialitá adottiva
Preliminarmente è necessario sgombrare il campo dall’inganno contenuto
nell’affermazione, demagogicamente abusata, che per un bambino abbandonato è
comunque assai meglio vivere con una coppia omosessuale che rimanere in istituto:
si tratta di affermazione vera in linea di principio ma fondata sul falso presupposto
che i minori accolti nelle strutture educative siano tutti dichiarati, o in odore di essere
dichiarati, adottabili. Così, invece non è, spessissimo si tratta di minori la cui
famiglia, pur in difficoltà e spesso in maniera irreversibile, non è comunque
abbandonica: per tali minori sarebbero necessarie famiglie disponibili all’affidamento
che la concreta esperienza dimostra come sia difficile reperire.
I dati statistici delle adozioni nazionali evidenzano una netta sperequazione fra
numero di coppie aspiranti all' adozione e i bambini dichiarati adottabili a netto
sfavore delle prime: per ogni bambino dichiarato adottabile vi sono svariate coppie in
attesa.
Anche sul fronte delle adozioni internazionali il numero dei bambini dichiarati
adottabili sono diminuiti come risulta dai dati forniti dalla C.A.I: ciò, come ha
esplicitato Silvia Della Monica, vicepresidente della Commissione adozioni
internazionali in un intervista alla rivista “Vita”, in parte è dovuto alla crisi
economica, che scoraggia le coppie ad avviarsi sulla strada della non economica
adozione internazionale, ma molto anche al cambiamento del contesto internazionale
che fa sì che siano diminuiti i bambini dichiarati adottabili all’estero. Si assiste,
infatti, nei paesi di origine ad un complessivo elevarsi della sensibilità politica ed
istituzionale con conseguenti modifiche normative di maggior tutela dei diritti dei
minori.
Tanto premesso la valutazione del miglior interesse del minore, in questo caso
di un minore, abbandonato, deve necessariamente essere preceduta dalla tipizzazione
del minore “dichiarato in stato di abbandono” .
Se anche la locuzione “minore abbandonato” sembra romanticamente evocare
il pargoletto “derelictus” sui gradini di una chiesa o consegnato alla ruota degli
esposti, la realtà giudiziaria dimostra invece che i numeri degli abbandoni in ospedale
da madri che non intendono essere nominate sono assai bassi: le sentenze dei
tribunali per i minorenni raccontano, invece, di infinite declinazioni dell' abbandono
che vanno da quello del volontario non riconoscimento attraverso la vasta gamma
dell' incuria, dell' esposizione a violenza assistita per finire ai maltrattamenti ed agli
abusi sessuali.
E’evidente che delineare il profilo psicologico di un minore adottabile non è
compito facile, essendo influenzato da molteplici variabili quali l’età del bambino al
momento dell’abbandono, le sue caratteristiche personologiche, la lunghezza del
periodo durante il quale è rimasto in una situazione di istituzionalizzazione, la qualità
di quest’ultima, l’esposizione a maltrattamento, la durata della stessa, la gravità della
violenza patita ecc.
Il legislatore, che ha genericamente delineato la figura del bambino adottabile
come quella di un minore “privo di assistenza morale e materiale”, altrettanto
genericamente ha delineato il profilo della coppia che, astrattamente, è idonea ad
adottarlo.
L’art 6) l. 184/83, in maniera generale ed astratta come è proprio della norma
giuridica, tratteggia le caratteristiche dei genitori adottivi: questi – a prescindere dalla
condizione di essere uniti in matrimonio e dunque eterosessuali, requisito della cui
derogabilità stiamo appunto ragionando - devono essere legati da un vincolo stabile
(attualmente tre anni di matrimonio o di precedente convivenza senza che sia
intervenuta separazione anche di fatto), avere una differenza di età con l’adottato
(attualmente tre anni di matrimonio o di precedente convivenza senza che sia
intervenuta separazione anche di fatto), avere una differenza di età con l’adottato
compresa fra i 18 e i 45 anni, essere “capaci di educare, istruire e mantenere i minori
che intendono adottare” oltre che “affettivamente idonei" per gli stessi, ossia capaci
di accogliere senza riserve il bagaglio di sofferenza che il bambino porta con sè e di
porre in essere adeguate risposte affettive ed educative in grado di riparare i traumi
che, quasi sempre, i minori dichiarati adottabili portano seco.
Prima del d.lgvo n. 154 del 28/12/13 nel confronto fra i doveri dei genitori
come tratteggiati dall’art 147 c.c e quelli di una coppia aspirante all’adozione come
tratteggiati dall’art. 6 l. 184/83, colpiva la comune previsione del dovere dei genitori
di “mantenere istruire ed educare i figli” ma solo per quelli aspiranti all’adozione di
una loro “idoneità affettiva”: si trattava, cioè di una più esplicita sottolineatura della
capacità dell’aspirante genitore adottivo di entrare in una relazione empatica con il
minore abbandonato, di esprimere una affettività accogliente e riparatrice.
La recente novella del 2013 ha valorizzato l’aspetto “affettivo-relazionale”
della relazione genitori –figli anche con riferimento ai genitori biologici aggiungendo
ai tradizionali doveri di questi ultimi anche quello di “assistere moralmente” i figli
“nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni” .
Agli aspiranti genitori adottivi non è richiesto nulla di più che ai genitori
naturali: la differenza sta nel fatto che mentre nel caso di genitori biologici l’idoneità
affettiva è, per così dire, presunta - di talchè solo quando la stessa manchi e si traduca
nel venir meno al dovere “assistenza morale” nel senso prima esposto con
conseguente pregiudizio per il minore, è consentito l’intervento del giudice che,
accertata la mancanza in concreto dell’idoneità affettiva, può adottare provvedimenti
limitativi della potestà - nel caso di aspiranti genitori adottivi, invece, l’idoneità
affettiva deve essere accertata ex ante come presupposto per il riconoscimento
dell’idoneità all’adozione.
La norma non richiede che gli aspiranti adottivi siano semplicemente
“affettivamente validi”, con ciò intendendo che il funzionamento della loro affettività
non sia compromesso, ma che siano “affettivamente idonei”.
Il concetto di idoneità implica un giudizio di relazione: non si può, infatti,
essere idonei in assoluto, si può essere idonei solo rispetto a qualcosa o a qualcuno:
nel caso di specie i coniugi devono essere affettivamente idonei per “i minori che
intendono adottare”.
Il giudice, pur potendo dare nel decreto di idoneità delle “indicazioni per
favorire il migliore incontro fra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare”,
tuttavia è chiamato a formulare un giudizio di idoneità in astratto: la coppia deve,
cioè essere valutata idonea ad accogliere non quel bambino in particolare, giacchè
l'abbinamento avviene in una fase successiva alla valutazione di idoneità, ma con
riferimento ad un bambino che sia stato dichiarato in stato di abbandono.
Il miglior interesse del minore passa, dunque, attraverso una prima valutazione
astratta della idoneità delle coppie aspiranti all’adozione - che nel caso dell’ adozione
internazionale si traduce in un decreto di idoneità o inidoneità all’adozione - da
effettuarsi attraverso un approccio multidisciplinare del quale, chi è quotidianamente
impegnato sul campo conosce bene oltre che le potenzialità anche i limiti che sono
strettamente collegati alla professionalità degli operatori psico-sociali coinvolti e
chiamati ad offrire al giudice “elementi utili per la valutazione”; solo
successivamente fra le suddette coppie ed in concreto, il giudice ovvero l’ente
autorizzato, andrà a scegliere “quella maggiormente in grado di corrispondere alle
esigenze del minore”.
I tribunali per i Minorenni, del formulare il giudizio di idoneità o inidoneità
della coppia aspirante all’adozione (o, nell’adozione nazionale, nell’abbinamento fra
il minore e la coppia) fa larga applicazione delle ormai pacifiche acquisizioni
scientifiche che delineano prognosticamente una sufficientemente buona genitorialitá
adottiva .
scientifiche che delineano prognosticamente una sufficientemente buona genitorialitá
adottiva .
Non diversamente, dunque, sarebbe a farsi nei confronti di aspiranti genitori
adottivi omosessuali: con la differenza che sul punto non vi è allo stato letteratura
scientifica che faccia assurgere i risultati dei pur numerosi studi che sono stati
effettuati in tutto il mondo negli ultimi trenta anni, a conclusioni certe o almeno
massimamente condivise in merito alla indifferenza per un bambino fra l’essere
cresciuto da una coppia eterosessuale o da una omosessuale.
Ora, non vi è dubbio che un genitore omosessuale potrà essere capace di
affettività, sensibilità, capacità di accoglienza al pari di uno eterosessuale ma non vi è
allo stato alcuna certezza che la crescita di un bambino da parte di una coppia
omosessuale – che privando il minore dell’innegabile dato della varietà di genere,
tanto più grave nella attuale società dominata da famiglie nucleari che molto
raramente possono valersi della convivenza con altri familiari in grado di bilanciare
la rappresentatività sessuale mancante, e con il suo discostarsi dal modello familiare
assolutamente prevalente, costringendo il minore ad uscire, per così dire, dalla sua
"zona di comfort" – possa essere per il minore del tutto equivalente a quella
eterosessuale.
Pur, come si è detto, essendo stati condotti diversi studi sul punto, specialmente
in America, molti di questi non rispondono agli standard richiesti per una affidabile
ricerca in materia psicologica e molti sono connotati da una matrice ideologica o
fortemente a favore dei diritti degli omosessuali o condizionata da una visione
clericale della famiglia
L’A.P.A (American Psychological Association) pubblicava nel 2008 uno studio
della professoressa, oltre che attivista lesbica, Charlotte J. Patterson della University
of Virginia, la quale a conclusione di una ricognizione delle ricerche più significative
compiute sul tema della genitorialità omosessuale così affermava: “In sintesi, non c'è
alcuna prova che le lesbiche e i gay siano inadatti ad essere genitori o che lo
sviluppo psicologico dei figli di omosessuali sia compromesso in qualche suo
aspetto... Non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di omosessuali sono
svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori
eterosessuali».
Tuttavia la stessa Patterson riconosceva più oltre «che la ricerca sui genitori
omosessuali e i loro figli è ancora molto recente e relativamente scarsa.... Studi
longitudinali che seguono famiglie di gay e lesbiche nel tempo sono assolutamente
necessari», sottolineando anche come ci siano più studi su coppie di lesbiche che non
di gay e come studi sull’adolescenza e l’età adulta di figli di lesbiche e gay siano
ancora scarsi.
La stessa Patterson, inoltre, ammette che molti di tali studi sono stati criticati dal
punto di vista metodologico per numero insufficiente di campioni con conseguente
scarsa validità statistica, per le modalità di campionamento , per la mancanza di
gruppi di controllo, per la mancanza di anonimato.
Ciononostante la Patterson giunge ad affermare che «anche con tutte le
domande e/o limitazioni che possono caratterizzare la ricerca in questa area,
nessuna delle ricerche pubblicate suggerisce conclusioni differenti da quelle che
abbiamo precedentemente esposto....»
La rivista francese “L’Encephale” nel febbraio del 2012, nel pubblicare un
articolo con il quale forniva una panoramica degli studi esistenti sulla genitorialità
omosessuale, sottolineava che le ricerche effettuate presentano problemi
metodologici ma che, sia pure con i limiti prima evidenziati, dimostrano che mentre i
bambini allevati da coppie di lesbiche non hanno evidenziato differenze in tema di
identità di genere, di sviluppo emozionale, comportamentale, di funzioni cognitive e
capacità sociali rispetto ai bambini eterosessuali, quelli cresciuti da padri gay, invece,
generalmente dimostrano differenze di orientamento sessuale e conseguenze
psicologiche.
capacità sociali rispetto ai bambini eterosessuali, quelli cresciuti da padri gay, invece,
generalmente dimostrano differenze di orientamento sessuale e conseguenze
psicologiche.
Sul fronte opposto della difesa del paradigma eterosessuale della buona
genitorialità si colloca il sociologo dell’Università del Texas, Mark Regnerus, il cui
studio - basandosi sul più grande campione rappresentativo casuale a livello
nazionale consistente in interviste dei figli (ormai cresciuti) di genitori omosessuali –
ha dimostrato, invece, un significativo aumento di problematiche psicofisiche rispetto ai figli di coppie eterosessuali.
Tale studio è stato fortemente contestato e il movimento LGBTI aveva avviato
una fortissima campagna di delegittimazione accusandolo il professore di essere
condizionato dalla sua estrazione cattolica. Tuttavia l’indagine interna avviata
all’università del Texas si concludeva riconoscendo la legittimità del lavoro e
la fedeltà al protocollo seguita dalla metodologia di Regnerus.
Basterebbero le considerazioni sopra svolte in merito alla mancata evidenza
scientifica dell’indifferenza per il minore dell’esser cresciuto da una coppia
eterosessuale o omosessuale, per indurre un legislatore di media avvedutezza a
frenare l’inopportuna accelerazione che porterebbe l’Italia da retrovia della tutela dei
diritti delle persone LGBTI ad avanguardia totalmente dimentica del “best interest of
child”.
Più opportuno sarebbe attendere di vedere quali dati consegnerà nel prossimo
futuro l’esperienza di quei paesi dove l’adozione omosessuale è da anni possibile con
il conseguente auspicabile formarsi di una più seria letteratura scientifica sul tema
della genitorialità omosessuale.