Senario macroeconomico - FIRST - Federazione Italiana Reti dei

REPORT n.1
A cura di Alberto Berrini
I. I tre scenari: previsioni per il 2014 (a inizio anno)
A inizio 2014 le previsioni congiunturali delineavano tre possibili scenari:
1 – ottimistico (minoritario): il 2014 si sarebbe caratterizzato per una ripresa forte e
continua dell’economia mondiale. Tale ripresa avrebbe avuto il suo epicentro negli
USA. L’economia statunitense avrebbe dunque trainato l’intera economia mondiale
superando le difficoltà presenti nell’area euro e nei Paesi emergenti.
2 – pessimistico (minoritario): il 2014 è l’anno di inizio di una nuova crisi. Esplodono
nuove e vecchie contraddizioni (mercati finanziari fuori controllo, domanda globale
fiacca, incertezza nella crescita delle economie emergenti, …). Il biennio 2011/2012
è solo una pausa di un trend di crisi che non si è mai interrotto.
3 – intermedio (maggioritario): la ripresa in atto a livello mondiale non è una
fiammata destinata a spegnersi velocemente, ma rimane debole e fragile nonostante le
politiche monetarie eccezionalmente espansive (=non convenzionali) attuate
soprattutto da FED e Banca del Giappone.
A due mesi dall’inizio del 2014 (1 marzo 2014) quest’ultimo scenario, che riscuoteva
i maggiori consensi, è certamente confermato, ma soprattutto nei suoi aspetti
pessimistici.
A ormai sei anni dalla recessione 2008/2009 se fossimo in un periodo “normale” di
ripresa, avremmo a che fare con spirali inflazionistiche e pericoli di bolle
immobiliari.
Al contrario le Banche Centrali sono concentrate sul pericolo “deflazione” (termine
con cui si indica una crisi talmente grave da spingere i prezzi al ribasso) mentre il
tasso di disoccupazione dei Paesi virtuosi (USA) sembra non scendere, o almeno non
come si prevedeva e desiderava, e addirittura sale nei Paesi (Italia) in ritardo
nell’appuntamento con la ripresa. Dopo cinque anni di stimolo le politiche
economiche espansive (ovviamente nei Paesi in cui si attuano!) stanno ancora
combattendo le battaglie del 2008.
II. Le novità e persistenze del 2014. Una descrizione qualitativa dello scenario
congiunturale
Dalla II metà del 2013 ma soprattutto dall’inizio 2014 per gli investitori
internazionali nell’economia mondiale molto è cambiato. Invece di valutare quanto
siano deboli le economie di USA, GB e Giappone, gli investitori cercano di capire
quanto siano realmente forti. È da questa valutazione che poi deriva la probabilità di
una pronta ritirata delle politiche monetarie espansive delle Banche Centrali, con le
inevitabili conseguenze sui mercati finanziari. (La liquidità è infatti l’arma più
potente della speculazione).
Nella zona euro la preoccupazione è assai diversa, anzi opposta. Piuttosto che
dell’inflazione la BCE deve preoccuparsi della deflazione. Tale fenomeno renderebbe
ancor più oneroso il peso del debito pubblico e stroncherebbe ogni possibilità di
espansione della produzione.
Ma i pericoli maggiori provengono oggi dall’area emergente del pianeta. Questa è
alle prese con problemi strutturali irrisolti (non secondari sono quelli socio-politici –
vd. Brasile) e anche con quelli congiunturali legati al ridimensionamento
dell’espansione monetaria USA (il “tapering” attuato dalla FED) che implica il
“ritorno a casa” dei capitali provenienti dall’area sviluppata del mondo. Rispetto a
tutto ciò lo scenario più favorevole è che le turbolenze dei mercati emergenti non
producano effetti sistemici come nel 1997.
Più in generale rimane il dato fondamentale che però il 2014 non produrrà
cambiamenti sostanziali per i disoccupati e le famiglie a più basso reddito (anche di
quelli dei Paesi in ripresa come USA e GB). In altre parole la domanda globale
rimane una risorsa scarsa e ciò mette in serio dubbio la sostenibilità della ripresa
economica nel lungo periodo.
III. Le nuove (febbraio 2014) previsioni del FMI. Una sintetica descrizione
quantitativa dello scenario congiunturale
Il PIL mondiale è stimato al +3,7% nel 2014 e al +3,9% nel 2015. Un dato non
eccezionale (per il FMI, a causa dell’incremento demografico mondiale, sotto il 3% si
è in sostanziale recessione) ma superiore a quanto registrato nel biennio 2012/2013.
La novità è il declinante contributo (in alcuni casi si tratta di crisi) dei Paesi
emergenti alla crescita mondiale. (Cina +7,5%, +7,3% ; Brasile +2,3%, +2,8%).
La ripresa in Eurolandia rimane lenta (+1% nel 2014, +1,4% nel 2015) nonostante
anche in questo caso si tratta di dati in miglioramento rispetto al biennio 2012/2013.
Un risultato medio da cui non si discosta significativamente nemmeno la Germania
(+1,6%, +1,4%).
Ma il vero nodo è l’Europa del Sud alle prese con una crescita che non arriverà
nemmeno all’1% nel 2014. Qui siamo veramente al bivio tra una ripresa debole ma
che si consolida e il rischio deflazione.
IV. L’anomalia italiana nella pur lenta ripresa europea
L’Italia crescerà nel 2014 dello 0,6% (nuova revisione al ribasso). La ripresa, se
ancora può definirsi tale, rimane debole. Il risultato è il record della disoccupazione al
12,9% (ultimi dati ISTAT del 28.02.2014) mai così alta dal 1977, con un picco per i
giovani al 42,4%. Nel 2013, anno in cui i consumi hanno fatto registrare il peggior
risultato del 1990, sono stati persi 478.000 posti di lavoro.
È importante ricordare che il Governo Letta stimava il “fabbisogno pubblico” sulla
base di una previsione di crescita del PIL all’1%. Ciò significa che per mantenere gli
obiettivi previsti nel rapporto deficit/PIL del 2015, sarebbe necessaria una manovra
correttiva, o meglio dire restrittiva, dell’1%. Ancora una volta si ripropone dunque la
necessità di “ricontrattare” con l’Europa tempi e modi di un pur necessario
risanamento dei conti pubblici.
Bisogna infine sottolineare che la stima della crescita italiana per il 2014 non fa che
confermare il divario tra la perfomance dell’Italia e quella degli altri Paesi sviluppati
(europei e non) che ormai persiste da quasi un ventennio. Ma questo è un dato che
deve essere qualificato distinguendo due precise fasi temporali.
Tra il 1997 e il 2007, ossia nel periodo che precede immediatamente “la crisi
subprime” i risultati dell’economia italiana non si discostano significativamente da
quelli di Europa, Giappone e USA.
Nel periodo successivo 2008-2013 avviene il crollo della performance italiana, non
solo in assoluto a causa della crisi, ma anche relativamente alle altre aree
economiche.
Significativo è il confronto numerico con i principali Paesi europei. Fissando pari a
100 il PIL 2007 di Spagna, Regno Unito, Germania, Francia e Italia a fine 2013
ritroviamo:
la Spagna a 96.31, la Francia a 102.58, il Regno Unito a 102.62 e la Germania a
106.21, mentre l’Italia fa registrare un drammatico 91.74!
Conclusioni
Quanto descritto sopra mostra con chiarezza che la depressione italiana è il prodotto
sia di elementi congiunturali che strutturali.
Tra i primi pesa soprattutto la debolezza della domanda interna che aspetta gli stimoli
necessari sia in termini distributivi che fiscali.
Tra i secondi spicca la mancanza di una politica industriale ma soprattutto di un
sistema bancario-finanziario che sia realmente a supporto della crescita economica.
E tutto ciò all’interno di una cornice europea che cambi decisamente rotta alla sua
politica economica. Quest’ultima seguendo la stella dell’austerità ci sta portando
dritto nell’inferno della deflazione. (vd. Appendice – EURO: “EXIT” O “VOICE”)
Appendice
EURO: “EXIT” O “VOICE”
Con la caduta del muro di Berlino lo scenario mondiale cambia. Il “macro” conflitto
politico, rappresentato dai blocchi contrapposti “Est-Ovest” a cui si affiancano
conflitti economici “micro”, perché sovra-regolati dalle più importanti esigenze
politiche, lascia il posto al “macro” conflitto economico (la globalizzazione) a cui si
abbinano micro conflitti politici, per lo più in aree periferiche del pianeta.
Il conflitto riguarda ora nuovi confini, le aree commerciali, e utilizza nuove armi, in
particolare le valute che presidiano tali aree.
Il primo scontro (primi anni ’90) riguardò dollaro e marco tedesco. L’unificazione
della Germania imponeva tassi di interesse alti sul marco, per evitare l’inflazione ad
un’economia che ne inglobava un’altra assai più debole, ma a cui concedeva la stessa
moneta. Gli Stati Uniti volevano tassi bassi sul dollaro per uscire da una pesante
recessione. Ne scaturì una “tempesta valutaria” che condusse alla fine del Sistema
Monetario Europeo.
L’attuale scontro, o almeno quello più rilevante, coinvolge dollaro e renminbi. La
valuta americana, resa debole dalla politica monetaria estremamente espansiva della
FED, è stata un’arma importante per portare fuori gli USA dalla più grave crisi
globale del II Dopoguerra. Ma in questo modo si è favorita la corsa
all’accreditamento della valuta cinese sui mercati mondiali. Tale accreditamento ha
accompagnato e sostenuto la Cina nella sua affermazione di prima potenza
commerciale mondiale (obiettivo storico raggiunto nel gennaio di quest’anno).
Insomma la globalizzazione è stata anche e soprattutto un fenomeno finanziario. Ed è
un “gioco” a cui si partecipa, se vuoi vincere o almeno sopravvivere, se hai le
dimensioni e gli strumenti adeguati.
In assenza degli Stati Uniti d’Europa (che, ricordiamo, se fosse uno Stato federale
sarebbero oggi la prima potenza economica mondiale) ci siamo presentati al tavolo da
gioco con la moneta unica europea, l’euro. In termini di transazioni finanziarie tale
valuta è seconda solo al dollaro. E questo grazie alla dimensione dei mercati
finanziari europei e alla credibilità che la BCE ha saputo velocemente (l’euro è una
valuta assai giovane) conquistarsi. Ma questo a prezzo di politiche economiche, che
per brevità chiameremo di “austerity”, che hanno danneggiato l’economia reale e
provocato danni sociali inimmaginabili per Paesi cosiddetti sviluppati.
Non c’è dunque da stupirsi se oggi molti cittadini europei faticano a credere al
progetto europeo e percepiscono dell’euro più limiti e difetti che non la necessità e le
potenzialità. Al punto che oggi si è aperto il dibattito, spesso cavalcato da forze
populiste, “euro si/euro no”.
In proposito è utile richiamare il modello di Hirschman (Exit, voice and Loyalty) un
economista che era particolarmente sensibile alle problematiche di tipo politico e
sociale. In esso si prendono in considerazione le due strade che si profilano di fronte
a chi non condivide più il modo di operare dell’organizzazione in cui è coinvolto. La
prima è l’ “exit”, la defezione ossia l’uscita da tale organizzazione. Tale modo di
operare è tipico delle sfera economica. Di fronte a risultati insoddisfacenti generati da
un’attività economica (un’impresa, un prodotto, un’occupazione) esco da tale attività
per cercarne un’altra. Esiste una strada alternativa (“voice”) che consiste nel dare
“voce” alla propria protesta che tende invece a cambiare il funzionamento
dell’organizzazione di cui si fa parte. La “voice” appartiene all’ambito politico
perché punta sull’azione collettiva per raggiungere gli obiettivi di cambiamento che
ci si è prefissi.
L’applicazione al dibattito sull’euro è evidente: la questione non è la valuta unica
europea ma le politiche economiche che hanno fatto seguito alla sua nascita. Il
problema non è tecnico-economico, vale a dire l’uscita verso valute che magicamente
risolverebbero le difficoltà economiche dei Paesi europei (crescita, debito,
occupazione). La questione è politica in quanto riguarda le decisioni soprattutto di
natura fiscale (riforma del fiscal compact, eurobond, …) in grado di impostare un
nuovo modello di progetto europeo.
In questo numero di “Valori” si spiegheranno i vantaggi/svantaggi dell’euro e i rischi
che comporterebbe uscirne. Ma non si tratta di confrontare i costi – benefici
economici della valuta europea. Il problema, come detto, è politico ossia dare idee e
gambe ad un progetto riformista europeo. L’euro doveva essere l’ombrello monetario
del modello europeo di “economia sociale di mercato”. Rischia purtroppo di condurlo
al suo fallimento. Ma, come spesso ci ricorda Amartya Sen, di meglio nel mondo non
c’è…