La crescita che deve crescere La nostra economia si basa sull’assunto che, se non vogliamo impoverirci, dobbiamo continuare a crescere ad una velocità sempre maggiore. Questo assunto è una necessità? Per provarlo dovremmo almeno aver conosciuto, perché desiderato, lo stato stazionario, perché certo non è nostro desiderio dover sacrificare parte di ciò che ad oggi siamo riusciti a conquistare, anche le cose peggiori. Sospetto che in realtà questo “slogan” (un vero e proprio urlo di guerra, seppur spesso gridato a bassa voce, quasi silenziosamente), di cui il capitalismo si è appropriato e al quale ci siamo arresi, non sia un destino ineluttabile. Viviamo il delirio della crescita illimitata, perché i nostri bisogni sono infiniti e quindi la ricetta che ci promette una felicità duratura e crescente a patto di essere buoni consumatori è stupefacente. Questa meravigliosa ricetta, che è logica del consumismo, ha la capacità di risvegliare in noi il desiderio di gran parte di ciò che ci viene proposto: tutto viene deglutito e assorbito senza filtri, senza chiedersi da dove provenga il prodotto che dobbiamo consumare, senza chiedersi quanto sia utile e soprattutto senza porsi la domanda di quale sia il suo vero prezzo, non solo monetario. Ci sono molti motivi, di facile presa, che vengono utilizzati per convincerci dell’impossibilità di rinunciare a questo tipo di crescita. Il più importante ritengo sia il tema dell’occupazione: se non ci fosse crescita illimitata, dovremmo affrontare uno scenario di disoccupazione dilagante, la chiusura di molte imprese, l’esplosione del debito pubblico e la povertà. Ma è la verità? Ci ripetono da decenni che se ci fermassimo saremmo “morti”: nella nostra società avere meno mezzi finanziari a disposizione equivale un po’ a morire. Anche su questo punto converrebbe riflettere tutti insieme… Una crescita illimitata è una crescita che, oltre a creare certamente nuova conoscenza e tecnologia utile, crea una serie di beni e bisogni di dubbia utilità: ci stiamo riempiendo la casa e la vita di oggetti inutili, in eccesso, di viaggi che non ci porteranno mai dove promettono di portarci. Quali sarebbero le conseguenze se chi produce questi beni o servizi smettesse di produrli e chi lavora riducesse il tempo dedicato al lavoro, finalmente consapevole di voler dedicare una parte del proprio tempo alla cura dei suoi cari e di se stesso? La disoccupazione esploderebbe…. Ma qual è dunque la realtà? Non è forse questo capitalismo che fonda la sua crescita sul consumo di beni e servizi che non rispondono a bisogni “buoni o reali” (sarebbe ingenuo pensare che la gran parte della crescita si realizzi attraverso investimenti in crescita e sviluppo, innovazione, formazione o altro: sarebbe una crescita virtuosa) che porta in sé i germi stessi della disoccupazione, della sua stessa distruzione? Perché un’azienda che produce meno utili non sta adempiendo al suo dovere? Perché gli imprenditori e gli azionisti non ne sarebbero felici! Ma chi sono questi imprenditori e questi azionisti che non si accontentano mai? Sono gli stessi che, se non facciamo come vogliono loro, delocalizzano là dove conviene, là dove “made in China” non significa solo “fatto in China”, ma significa “fatto ignorando il rispetto dei diritti umani, sociali e civili” ossia prodotto in un paese che non garantisce un letto in ospedale, che non garantisce la tutela di diritti fondamentali. Ora, provate a immaginare una società la cui economia sia organizzata in associazioni: associazioni di produttori, di commercianti e di consumatori. Grazie al dialogo e alla presenza di rappresentanti esperti del settore nelle varie associazioni, grazie ad una attenta osservazione dei “bisogni reali” della popolazione, queste associazioni potrebbero cominciare a decidere ciò che è bene produrre per la società e ciò che non lo è. Potrebbero intendersi sui settori per i quali la domanda di beni necessita di più manodopera o il contrario. Potrebbero quindi costruire insieme, in una forma di dialogo permanente, un’economia più equilibrata, che risponda alle effettive esigenze della società nella quale si inserisce. Vi è una crescita di cui possiamo tranquillamente fare a meno, che con meno ci darebbe molto di più. Manuela Pagani Larghi, Novazzano