ROMA E CARTAGINE, civiltà a confronto Fino alla conquista dell’Italia meridionale Roma non aveva mai avuto particolari interessi marittimi. I rapporti con Cartagine erano stati, pertanto, amichevoli: nel 508 (e poi rinnovato nel 353 a.C.) era stato siglato un trattato tra le due potenze per mezzo del quale si definirono le rispettive aree di influenza, che per Roma si limitavano ai domini su suolo italico (laziale, originariamente) e al controllo dei traffici del Tirreno che interessavano la penisola. Questo trattato la dice lunga sull’opinione che, al di fuori di Roma, si aveva di Roma: era diventata la potenza italica di riferimento, tale da indurre il grande impero cartaginese a riconoscerne legittimamente l’autorità. Dopo Pirro, tuttavia, le cose cambieranno; affacciatasi sul Mediterraneo Roma non potrà non venire allo scontro con la principale civiltà marittima dell’epoca, Cartagine. A seguito della guerra, Roma uscirà definitivamente dal suo provincialismo per aprirsi su un orizzonte internazionale. Cartagine Fondata nel corso del IX secolo a.C. (secondo la leggenda1 nell’814) da coloni fenici di Tiro (odierno Libano), Cartagine era originariamente un avamposto commerciale situato in posizione strategica, a metà via tra il Libano (Fenicia) e lo Stretto di Gibilterra. Dopo che l’impero fenicio cadde in mano ai persiani, Cartagine mantenne la propria indipendenza e assunse il monopolio dei commerci del Mediterraneo occidentale. I Cartaginesi avevano realizzato un vasto impero che andava dalle coste dell’Africa settentrionale, alla Sicilia occidentale, alla Sardegna, alla Corsica, alle Isole Baleari e quindi comprendeva anche la Spagna meridionale (vedi cartina qui sotto). 1 Secondo la leggenda fu la regina Elyssa (Didone), in fuga dal perfido Pigmalione, fratello di Elyssa, a fondare Cartagine. Dopo che Sicheo, marito di Didone, fu ucciso da Pigmalione che ne volle usurpare il trono, Elyssa fuggì per non rimanere anch’essa vittima della congiura e, con un drappello di fedelissimi, giunse in quella che sarebbe stata Cartagine. Qui supplicò il re Iarba di concederle un appezzamento di terra e quegli, sprezzante, le getto una pelle di bove dicendole che quanta terra quella pelle sarebbe riuscita a contenere tanta le sarebbe appartenuta. Didone allora ebbe un’idea geniale: sfilacciò la pelle e ne fece un lungo e sottilissimo spago con il quale recinse il suo futuro regno. La leggenda si basa sulla falsa etimologia della città: byrsa, che in greco vuol dire pelle di bove, in cartaginese significa cittadella, ed era appunto il nome del nucleo originario di Cartagine. Qualche anno dopo, sempre secondo il mito e secondo quanto riportato nell’Eneide, Enea sarebbe approdato a Cartagine. Enea e Didone si innamorarono, ma Enea abbandonò Didone e ripartì, di nascosto, per compiere la propria divina missione: fondare Roma. Didone maledisse allora Enea e dichiarò che eterno odio ci sarebbe stato tra Cartaginesi e Romani. Come infatti fu, considerato quel che accadde nel III a.C.: le Guerre Puniche. Dalla leggenda fenicia prende il nome il problema matematico chiamato “Problema di Didone”, che riguarda l’isoperimetria. Il nome Cartagine deriva invece dal fenicio Qart Ḥadasht, che letteralmente significa “città nuova”, intesa come “nuova Tiro”. 1 I Cartaginesi commerciavano con le popolazioni iberiche stagno e argento e tramite quelle erano in contatto con le genti celtiche delle isole britanniche. Dalle popolazioni di Africa centrale ricavavano oro, avorio e legname. Non dimentichiamo che i Cartaginesi ricorrevano poi ai mercenari africani e spagnoli. Tra le principali città fondate dai Cartaginesi ricordiamo: in Spagna – Ibiza, Malaga, Cadice e Cartagena (la capitale cartaginese in Spagna) in Italia – Cagliari (Sardegna), Palermo, Trapani (Sicilia) La questione siciliana: La Sicilia era terra di conflitto tra Cartaginesi e Greci. Per secoli le due potenze si erano confrontate su suolo siciliano e i confini tra di esse non furono mai nettamente definiti. In particolare vi ricordo che nel 480 a.C., mentre in Grecia si combatteva a Salamina contro i Persiani, i tiranni di Agrigento (Terone) e Siracusa (Gelone), unendo le forze, ebbero la meglio sui Cartaginesi nella battaglia di Himera (i Cartaginesi pensarono di approfittare della difficile situazione in cui versava la madrepatria, impegnata com’era sul fronte persiano). Dopo Himera, nel corso del V a.C., i Punici, che pure avevano mantenuto il controllo della punta occidentale di Sicilia, si dedicarono alla conquista di territori africani. Quando però si ripresentò loro l’occasione di propizia (ovvero mentre i Greci di Grecia erano impegnati nella Guerra del Peloponneso), nuovamente attentarono ai possedimenti greci di Sicilia. Riescono ad occupare Agrigento, ma poi la perderanno nuovamente negli anni a venire. Da allora i confini continueranno ad essere mobili. La società cartaginese: Nell’antichità “cartaginese” era sinonimo di “mercante”. A differenza di Roma, civiltà di agricoltori la cui classe dirigente era di grandi proprietari terrieri, Cartagine era una città di mercanti (e pirati, ma non dobbiamo dimenticare che le civiltà dell’antichità praticavano indistintamente e l’una e l’altra attività). Ed era proprio l’aristocrazia mercantile a governare la città. Esisteva infatti una sorta di Senato a cui prendevano parte solo i nobili di aristocrazia mercantile ed era costituito da 300 membri, c’era poi un’assemblea popolare con poteri molto ristretti (veniva convocata per pronunciarsi in caso di mancato accordo fra suffeti e senato) e c’erano due magistrati (i suffeti, cioè “i giudici”) che erano eletti annualmente, erano nobili e che equivalevano in sostanza ai consoli romani. Esisteva anche un consiglio di 104 magistrati con funzione giudiziaria, controllavano il comportamento dei magistrati e dei capi militari. L’esercito: L’impero molto esteso di Cartagine e la circoscritta popolazione che lo dominava rendevano necessario ricorrere ad un esercito di mercenari (Roma invece ha un esercito di cittadini/alleati-soldati). Ciò significa che queste truppe di uomini erano certamente bene addestrate, ma non avevano lo stesso sentimento di lealtà e lo stesso spirito di appartenenza dei cittadini-soldato romani, i quali, per altro erano motivati dal comune interesse della sopravvivenza di Roma. Questi mercenari provenivano dalle bellicose tribù di africani e spagnoli. L’esercito punico era quindi un esercito di professionisti della guerra, tuttavia gli alti quadri dell’esercito furono sempre cartaginesi. I generali punici provenivano solitamente da famiglie di grande e nota tradizione militare, come ad esempio la famiglia Barca (che è la famiglia di Annibale). Il mestiere di generale era piuttosto rischioso, perché i generali rispondevano in prima persona in caso di sconfitta, rischiando anche la vita. La punta di diamante dell’esercito cartaginese è la flotta: potentissima, contava sia triremi che quinqueremi (navi da guerra dotate di rostro, lunghe anche 40 metri, con 30 remi per fianco, disposti in un unico ordine. Erano probabilmente necessari cinque vogatori per remo). La quinquereme, invenzione punica, venne adottata anche dai romani, i quali avranno la geniale intuizione di fornire ogni nave di un corvo per l’abbordaggio (p.239 vostro libro). Le quinqueremi potevano portare fino a cento soldati pronti per il corpo a corpo. 2 Solo da leggere: il porto di Cartagine L’antica Cartagine possedeva ben due porti: il primo, rettangolare, era il porto mercantile; il secondo, posizionato più nell’interno e di forma circolare, era il porto militare. Al centro del porto militare c’era un’isola che ospitava l’ edificio dell’ammiragliato. Sondaggi condotti sotto le strutture di età romana hanno rivelato un’intensa attività edilizia e d’ingegneria: un lastricato copriva il fondo del bacino circolare, mentre un ponte di legno, di cui si sono conservate le fondamenta in pietra, univa probabilmente l’isola dell’ammiragliato alla terraferma. Il bacino rettangolare aveva parapetti continui e ingresso protetto da un’opera fortificata. Una fitta rete di canali, posta tra il bacino e il mare, consentiva il ricambio e il deflusso delle acque. Quest’immensa opera ingegneristica rivela la grande perizia tecnica dei Punici, nonché il grado di intensità delle loro attività navali. Il porto commerciale era collegato mediante un canale di circa venti metri di larghezza al porto militare. Originariamente di forma rettangolare assunse forma poligonale durante il regno di Commodo (180-192 d.C.). Si estendeva su una superficie di circa sette ettari (70mila mq). Il porto militare, è quello che meglio ha conservato la forma originaria: aveva un diametro di 325 metri e racchiudeva un bacino di circa 4 ettari (40mila mq), il cui centro è occupato da un’isola sulla quale, dopo la conquista di Cartagine, i romani eressero un tempio e un faro. Come già detto, in epoca cartaginese, l’isola ospitava invece l’edificio dell’ammiragliato. Lungo le banchine (moli, approdi) erano posti a raggiera gli scivoli per tirare in secco le imbarcazioni. Il porto poteva accogliere una flotta di circa 200 natanti (imbarcazioni). 3 Le Guerre Puniche La prima guerra punica (264-241 a.C.) I Mamertini (da Mamers, forma osca del nome del dio Marte), bellicosi mercenari campani che in passato erano stati al servizio di Siracusa, s’impadronirono di Messina (città greca di Sicilia). Di qui effettuavano scorrerie e saccheggi nelle regioni circostanti. Il tiranno di Siracusa, Gerone, intervenne in difesa di Messina e l’assediò (264 a.C.). I Mamertini quindi chiamarono in soccorso i Cartaginesi, che inviarono la flotta. Fu così che, non appena i Siracusani si ritirarono, i Mamertini si ritrovarono a convivere con la minacciosa presenza cartaginese. Decisero allora di invocare il soccorso dei Romani. A Roma si discusse aspramente se intervenire o meno nel conflitto. L’aristocrazia terriera era avversa all’intervento in guerra (non avevano interessi commerciali da difendere). Al contrario, i ceti commerciali emergenti e il popolo speravano che una nuova vittoria bellica potesse assicurare la fondazione di nuove colonie nella ricchissima Sicilia. Alla fine Roma si decise per il conflitto. Cartagine e Siracusa si allearono allora contro il comune nemico: Roma. Siracusa tuttavia, nel 262, ritornò dalla parte dei Romani dopo essere stata assediata dalle truppe romane. Da questo momento in poi ne sarebbe stata fedele alleata. Che l’offerta di aiuto di Roma ai Mamertini fosse solo un pretesto risultò subito evidente. La spedizione su Messina si trasformò in una vera e propria campagna militare per la conquista della Sicilia. I Romani riuscirono a ridurre i Cartaginesi nelle parte occidentale dell’isola, ma a questo punto diventava necessario portare lo scontro in mare (altrimenti i nemici, dotati di potentissima flotta, avrebbero facilmente potuto conservare le loro posizioni). Tra il 261 e il 260 a.C. Roma si dotò di una flotta potentissima (che, a imitazione dei cartaginesi, contava sia triremi che quinqueremi2) grazie ai contributi economici e tecnici dei nuovi alleati di Italia Meridionale (i greci di Puglia e Calabria). 1. La flotta romana annientò i Cartaginesi a Milazzo (260 a.C.). Fu determinante, per la vittoria, una nuovissima invenzione bellica romana: il corvo. Per celebrare la vittoria di Milazzo, ad opera del console Gaio Duilio, venne eretta la colonna rostrata, cioè ornata delle riproduzioni delle prore delle navi nemiche dotate di rostri. 2. Sulla scorta di questa vittoria, i Romani decisero di portare la guerra in Africa. Il console Marco Attilio Regolo si aprì la strada sconfiggendo una flotta cartaginese a largo di Capo Ècnomo (costa meridionale della Sicilia). Quindi approdò nei pressi di Cartagine (256 a.C.). 3. In un primo momento l’esercito romano sembrò avere la meglio. I Cartaginesi si dichiararono persino disposti alla resa. Ma Attilio Regolo, insuperbitosi da tante vittorie, chiese condizioni di pace inaccettabili per i Cartaginesi (tra cui la cessione di Sicilia e Sardegna, il versamento di un pesante tributo e, soprattutto, la rinuncia alla propria sovranità, il che significa che un impero come quello cartaginese sarebbe dovuto entrare in posizione di subordine nella lega italica). 4. I Cartaginesi allora, indignati, si risollevarono e con una serie di battaglie (tra cui celebre quella di Tunisi, del 249 a.C., nel corso della quale venne preso anche Attilio Regolo3) ricacciarono i romani in Sicilia. 2 Quinqueremi: pesanti navi da battaglia, lunghe una quarantina di metri, dotate di trenta remi per ciascuna fiancata e di un pesante rostro per speronare il nemico. Ogni remo era, secondo questa prima ricostruzione, probabilmente azionato da cinque vogatori e i remi erano allineati su un unico ordine. Ricostruzioni più recenti immaginano invece i remi articolati su tre ordini, azionati per in gruppi di 5 vogatori. Il senato romano fece allestire un centinaio di quinqueremi dopo lo scoppio della prima guerra. Dotate le quinqueremi di corvi, che permettevano un facile abbordaggio delle navi avversarie, i Romani riuscirono a imbarcare fino a cento unità di soldati su ciascuna quinquereme. 3 Fu veramente atroce la fine riservata ad Attilio Regolo dai cartaginesi, durante la prima guerra punica: una morte che nulla aveva dell' atto di guerra, o di una «normale» esecuzione capitale. Il generale romano fu vittima di un atto di 4 5. Il conflitto si spostò nuovamente in Sicilia, dove i Cartaginesi inviarono il loro miglior generale, Amilcare Barca4 (padre di Annibale). La guerra continuò per alcuni anni in un’altalena di vittorie e sconfitte che devastarono il territorio siciliano e costarono moltissime vite (in particolare la Sicilia si trovò a pagare il prezzo più alto di queste guerre: gli eserciti in lotta, i saccheggi, le devastazioni). 6. Infine, nel 241 a.C., grazie ad un enorme sforzo finanziario (la lunga guerra aveva prosciugato le casse dello stato e il Senato attuò un prestito forzoso sui cittadini più ricchi), Roma riuscì a dotarsi di una nuova flotta, condotta dal generale Gaio Lutazio Catulo, con la quale sconfisse quella cartaginese presso le Isole Ègadi. Cartagine, ridotta allo stremo, chiese la pace, che le fu concessa a condizioni molto pesanti: il pagamento di un’ingente indennità di guerra, la rinuncia di tutti i possedimenti in Sicilia, la restituzione senza riscatto dei prigionieri. La Sicilia divenne la prima provincia Romana. Nell’isola, occupata da Roma, solo Siracusa, governata da Gerone, che si era dimostrato fedele alleato romano, restò autonoma, ma con obbligo di alleanza romana. Si concluse quindi la Prima Guerra Punica. Roma tra la prima e la seconda guerra punica - Roma conquista Sardegna e Corsica Alla fine della guerra Cartagine dovette pure affrontare una pesante ribellione dei suoi mercenari. Questi pretendevano il versamento del soldo, mentre Cartagine, a causa delle ristrettezze economiche post belliche, non era in grado di pagarli. Roma approfittò della situazione e conquistò Sardegna e Corsica, che le assicurarono il controllo del Tirreno. rappresaglia criminale di inaudita, perfida ferocia. Nel 249 a.C., nel corso della guerra, Attilio, che era stato fatto prigioniero dai nemici, venne da questi inviato a Roma per convincere i romani, in cambio della sua libertà, a rilasciare i loro compatrioti prigionieri e a concludere un trattato di pace alle condizioni da loro dettate. Ma Regolo teneva più alla gloria di Roma che alla sua vita, ed esortò fermamente il Senato a resistere a ogni pressione. Dopodiché, per non venir meno al giuramento di tornare a Cartagine fatto al momento del rilascio tornò in terra nemica, dove trovò una morte che certamente si aspettava, ma di cui altrettanto certamente non poteva immaginare la crudeltà. I cartaginesi dapprima lo rinchiusero per un lungo periodo in un locale dove non penetrava il minimo filo di luce, e quindi, improvvisamente, lo liberarono e lo condussero in un luogo esposto in pieno giorno alla luce accecante del sole: non prima, peraltro, di aver provveduto a cucire le sue palpebre sia verso l' alto sia verso il basso. E lì lo abbandonarono fino a quando morì... di Eva Cantarella http://archiviostorico.corriere.it/2012/luglio/17/morte_atroce_Attilio_Regolo_co_8_120717027.shtml 4 Barak (latinizzato Barca) significa fulmine, saetta. 5 - Roma si sbarazza della pirateria in Illirico A questo punto decise anche di affrontare il problema della pirateria nell’Illirico (coste orientali dell’Adriatico – regina Teuta). Il litorale orientale dell’Adriatico, con il suo dedalo di isole e insenature frastagliate, era il luogo ideale per il proliferare della pirateria. Da questi luoghi protetti e labirintici, i pirati compivano scorrerie per tutto l’Adriatico, con gravi danni per Romani, Italici e Greci. L’intervento romano fu risolutivo, in appena dieci anni (tra il 229 e il 219 a.C.) la pirateria illirica fu debellata. Roma strinse alleanze con molte città greche (sia prima5 che dopo la guerra alla pirateria, per evitare l’insorgere di contrasti determinati dalle decisioni politiche romane) e si propose con autorevolezza sullo scenario orientale. - Roma si scontra con i Galli in Cisalpina (cfr. cartina a pag. 293) In questi anni vengono sottomessi i Galli di Italia settentrionale (vedi cartina a pag. 293). Essi, con il contributo delle tribù d’oltralpe, radunarono un grande esercito e riuscirono ad entrare in territorio romano, spingendosi fino a Chiusi (provincia di Siena). Dopo le guerre sannitiche infatti (in particolare dopo Sentino, 295 a.C.), i Romani erano entrati in possesso del territorio del Piceno (Marche), prima occupato dai Galli Senoni. A seguito della prima guerra punica, poiché si era affacciato lo spettro della crisi demografica (riduzione delle popolazione, aumento dell’incolto) e sociale, il Senato decise di redistribuire ai cittadini romani proprio quelle terre del Piceno. Questa politica scatenò la reazione delle popolazioni galliche della Pianura Padana, che si riversarono in territorio romani, arrivando persino, come si diceva, fino a Chiusi. Il terrore a Roma, che ancora si ricordava del sacco di Brenno (390 a.C.), fu grandissimo. I Romani dunque risposero compattamente e nel 222 a.C., a Casteggio (Lombardia, nei pressi di Pavia), li sconfissero ad opera del console Marco Claudio Marcello, sottomettendo l’Italia settentrionale. Anche Mediolanum (capitale degli Insubri) venne occupata, e i Romani dilagarono in Transpadana. Sulle terre espropriate dei Galli furono fondate due colonie latine: Cremona e Piacenza (che distano una cinquantina di km tra loro), popolate di coloni-soldati e munite di efficace sistema di difesa. Esse costituivano importanti piazzeforti nel cuore del territorio che rimaneva pur sempre ostile (e che non mancherà di sollevarsi all’arrivo di Annibale). Intanto Roma infittisce la rete stradale: nel 220 a.C. si realizza la via Flaminia (Roma-Rimini), ad opera del console Gaio Flaminio Nepote, che aveva sconfitto gli Insubri. La Flaminia permetteva un rapido collegamento tra Roma e le aree di recente conquista. Dopo la Seconda Guerra Punica, dopo che saranno sedate le sollevazioni in favore di Annibale che avevano interessato in particolare i Boi e gli Insubri, verrà realizzata anche la Via Aemilia (187 a.C.), per volontà del console Marco Emilio Lepido, per collegare in linea retta Rimini con Piacenza, così come la via Cassia (Roma - Firenze) e la via Postumia (Genova - Aquileia, 148 a.C., che passa proprio per Verona). La seconda guerra punica (218-202 a.C.) Mentre Roma estendeva e consolidava i suoi domini in Italia, Cartagine ebbe modo di riprendersi. Per compensare i danni derivati dalla perdita di Sicilia, Sardegna e Corsica, Cartagine procedette a una sistematica conquista della penisola iberica (territorio ricco di miniere). Parte dell’opinione pubblica cartaginese (ricchi proprietari terrieri in primis) era avversa all’idea di avventurarsi in una serie di conquiste oltremare, suggerendo invece di espandersi verso le regioni africane. Questo partito dei “pacifisti” temeva infatti il nuovo confronto con i romani. Ma la maggioranza dei cartaginesi, che mal tollerava la sconfitta subita e mirava a re-impadronirsi del controllo sul Mediterraneo, era favorevole ad una politica espansionista che, inevitabilmente, avrebbe condotto a un nuovo conflitto con Roma. A capo di questo partito “espansionista” troviamo la famiglia Barca. Amilcare Barca, che aveva subito la sconfitta siciliana, venne inviato in Spagna con pieni poteri. La assoggettò rapidamente cosicché i Romani, 5 Nel 227 a.C. Roma viene accolta “diplomaticamente” nel mondo greco con l’ammissione ai Giochi di Corinto. 6 allarmati da questa ripresa, si affrettarono a stipulare un trattato con i Cartaginesi: “il trattato dell’Ebro” (226 a.C.), che fissava come limite dell’espansione punica spagnola il fiume Ebro. A sud del fiume Ebro si trovava però una città, Sagunto, con la quale i Romani avevano stretto, in data incerta ma in anni non lontani, rapporti di amicizia. Quando Annibale pose l’assedio a Sagunto (219 a.C.), i Romani lanciarono un ultimatum, che rimase inascoltato. I Romani inviarono ambascerie tanto in Spagna quanto a Cartagine, ma non si decisero per l’intervento. Celeberrima la frase di Tito Livio, divenuta poi proverbiale: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (Tito Livio, Storie, XXI, 7, 1) tradotta letteralmente, significa “mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”.6 Dal punto di vista giuridico, il caso di Sagunto era dubbio: questo provocò numerose discussioni a Roma. Ma mentre i Romani dibattevano se intervenire o meno in difesa dell’alleata, i Cartaginesi la assediarono per ben otto mesi e infine riuscirono a conquistarla. Tutti gli abitanti di Sagunto furono passati a fil di spada. A questo punto Roma non poté più attendere e il Senato decise passare all’azione. Si dichiarò guerra a Cartagine e il console Publio Cornelio Scipione fu spedito con un esercito a bloccare Annibale il Spagna. L’assedio di Sagunto fu evidentemente il motivo occasionale (casus belli) di uno scontro che era ormai inevitabile. Ritratto di Annibale Barca Livio, Storia di Roma, XXI, 4, 9 Missus Hannibal in Hispaniam primo statim adventu omnem exercitum in se convertit; Hamilcarem iuvenem redditum sibi veteres milites credere; eundem vigorem in voltu vimque in oculis, habitum oris lineamentaque intueri. Dein brevi effecit ut pater in se minimum momentum ad favorem conciliandum esset. Numquam ingenium idem ad res diversissimas, parendum atque imparandum, habilius fuit. Itaque haud facile discerneres utrum imperatori an exercitui carior esset; neque Hasdrubal alium quemquam praeficere malle ubi quid fortiter ac strenue agendum esset, neque milites alio duce plus confidere aut audere. Plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat. Nullo labore aut corpus fatigari aut animus vinci poterat. Caloris ac frigoris patientia par; cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate modus finitus; vigiliarum somnique nec die nec nocte discriminata tempora; id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli strato neque silentio accersita; multi saepe militari sagulo opertum humi iacentem inter custodias stationesque militum conspexerunt. Vestitus nihil inter aequales excellens: arma atque equi conspiciebantur. Equitum peditumque idem longe primus erat; princeps in proelium ibat, ultimus conserto proelio excedebat. Has tantas viri virtutes ingentia vitia aequabant, inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio. Cum hac indole virtutum atque vitiorum triennio sub Hasdrubale imperatore meruit, nulla re quae agenda videndaque magno futuro duci esset praetermissa. Annibale, inviato in Spagna, fin dal momento del suo arrivo si attirò il favore di tutto l’esercito; I veterani credevano che Amilcare giovane fosse stato loro restituito; vedevano nell’espressione del volto (di Annibale) lo stesso fresco vigore e nei suoi occhi la stessa energia, nel volto gli stessi lineamenti, la stessa fisionomia del padre. Poi in breve tempo egli fece sì che le fattezze del padre in lui riprodotte contassero minimamente nel conciliargli le simpatie; non ci fu mai un temperamento più adatto nello stesso tempo a due qualità tra loro del tutto opposte, l’ubbidire e il comandare. Perciò non si sarebbe potuto distinguere facilmente se fosse più caro al comandante o all’esercito; tutte le volte che in un’azione si richiedevano intrepidezza e coraggio, né Asdrubale preferiva scegliere a comandante alcun altro, né i soldati sotto la guida di un altro avevano maggior fiducia o baldanza. Nel cercare i pericoli aveva moltissima audacia, nel mezzo dei pericoli moltissima prudenza; nessuna fatica poteva fiaccare il suo corpo o sopraffare il suo animo; sapeva tollerare in ugual misura il caldo e il freddo; nel mangiare e nel bere si 6 Spesso si cita solo la prima parte della locuzione (dum Romae consulitur) nei confronti delle persone che perdono molto tempo in consultazioni continue senza prendere una decisione, in un contesto che invece richiederebbe rapide decisioni. 7 regolava in base al bisogno naturale, non al piacere della gola. Alla veglia e al sonno non dedicava momenti ben specifici del giorno e della notte, si riposava nei momenti lasciati liberi dal servizio e non si procurava il riposo con morbide coltri né con il silenzio: molti spesso lo videro coricato per terra, coperto da un mantelletto militare, tra gli avamposti e i corpi di guardia dei soldati. Nel modo di vestire non si distingueva per nulla dai colleghi di pari grado. Davano nell’occhio solo le sue armi e i suoi cavalli. Era di gran lunga il primo dei cavalieri e dei fanti; era il primo a scendere in battaglia, l’ultimo a ritirarsene. Queste sue eccezionali virtù erano pareggiate da enormi vizi: una crudeltà disumana, una malafede peggio che cartaginese, nessun senso del vero né del sacro, nessun timore degli dèi, nessun rispetto per i giuramenti, nessuno scrupolo di coscienza. Con questo temperamento incline a virtù e a vizi, per tre anni prestò servizio sotto il comando supremo di Asdrubale, senza trascurare nulla di ciò che uno destinato a diventare un grande generale doveva fare e imparare. Le testimonianze antiche superstiti sono quasi tutte ostili alla figura di Annibale. Anche in questa celeberrima descrizione di Tito Livio, pur non mancando, l’autore, di elencare le indiscutibili doti belliche del condottiero, si sofferma poi sulle sue deteriori caratteristiche morali. Come spesso accade, pesano i pregiudizi che la cultura greco-romana nutre nei confronti dei Fenici e dei Cartaginesi. Crudeltà, falsità e spregiudicatezza, caratteristiche che venivano tradizionalmente attribuiti a tutto il popolo punico, vengono assegnate con tanta più enfasi al loro più grande condottiero. Quando Amilcare morì, il comando dell’esercito spagnolo era passato a suo fratello Asdrubale e, dopo la morte di quest’ultimo (221 a.C.), al giovane figlio di Amilcare, popolarissimo tra i soldati per il suo coraggio: Annibale, che sarebbe diventato il più pericoloso nemico di Roma e che è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi geni dell’arte militare che siano mai esistiti. L’odio di Annibale, l’odio dei Cartaginesi Annibale, secondo quanto ci narra Polibio (Storie, III, 11), nutriva un odio viscerale nei confronti dei Romani. Quest’avversione gli era stata trasmessa dal padre, Amilcare, il quale, in procinto di partire per la Spagna, mentre stava celebrando per l’occasione dei sacrifici in onore di Baal (divinità fenicia equiparabile a Zeus), alla fine della cerimonia aveva fatto allontanare momentaneamente i presenti e aveva quindi chiamato a sé il figlio. Dopo averlo preso per la destra e condotto vicino all’altare, gli aveva ordinato di giurare, con le mani sugli arredi sacri, che mai avrebbe trattenuto rapporti di amicizia con i Romani. Questo episodio carica di pàthos e di fatalismo un evento storico come quello delle guerre puniche. Annibale diventa l’eroe nazionale, incarna lo spirito di un popolo e connota questi eventi bellici di un’aura di grandiosità epica. Il piano di Annibale Il piano di Annibale si fondava su alcuni presupposti: 1. la guerra lampo: Annibale contava di sfruttare le qualità del suo esercito, penetrare in territorio italico e portare la guerra in casa ai Romani (come già Attilio Regolo aveva fatto a Cartagine). 2. l’appoggio delle popolazioni sottomesse a Roma: Annibale intendeva presentarsi agli italici come il liberatore, colui che avrebbe spezzato le catene del dominio romano e restituito l’originale indipendenza alle etnie sottoposte a Roma (Greci, Etruschi, Galli, Sanniti, Latini). In quest’ottica era tanto più importante e funzionale portare la guerra su suolo italiano, per umiliare i Romani e, sconfiggendoli, sfaldare la confederazione romano-italica. 8 Annibale valica le Alpi: Ticino, Trebbia, Trasimeno Con una mossa fulminea, Annibale, dopo aver lasciato il comando della Spagna centrale e meridionale al fratello, Asdrubale il giovane, con un esercito di ventimila fanti e seimila cavalieri7, penetrò in Italia. I suoi movimenti furono talmente rapidi che non venne intercettato dai generali romani mandati ad arrestarne l’avanzata. Annibale riuscì così a valicare le Alpi, animato dal desiderio di infliggere schiaccianti sconfitte ai Romani, tali da favorire la defezione delle popolazioni italiche assoggettate. Publio Cornelio Scipione (padre del futuro Publio Cornelio Scipione Africano), console in quell’anno, tentò di intercettare la fulminea avanzata dell’esercito punico prima che questo giungesse in Italia (si attestò infatti sul Rodano), ma non riuscendovi, riprese il mare e rientrò in Italia per dare manforte alle truppe impegnate in pianura padana contro Annibale. Nel frattempo, truppe vennero inviate anche in Spagna, per fronteggiare Asdrubale. I racconti sulla sua traversata delle Alpi sono estremamente avventurosi, Annibale riuscì in effetti a superarle a dorso di elefante (anche se molti ne morirono). Giunto in Italia, le sue prime imprese belliche furono travolgenti: gli eserciti romani vennero sbaragliati nel 218 a.C. sul Ticino e sulla Trebbia (nel corso della battaglia presso il fiume Trebbia il console Scipione rischiò di rimanere ucciso, ma venne salvato in extremis dal figlio, il futuro Scipione l’Africano8) e nel 217 a.C. nei pressi del lago Trasimeno (Umbria). In questo caso l’esercito romano finì in un’imboscata9 e, stretto tra i monti e il lago, venne completamente distrutto. - I Galli di Cisalpina, inaspriti per le umiliazioni subite da parte dei Romani, aderirono con entusiasmo alla causa di Annibale, ma il loro apporto bellico fu modesto e incostante. A questi, dopo la battaglia di Canne, si uniranno le popolazioni di Sanniti e Lucani, ma non si tratterà di defezioni significative. Le popolazioni di Italia centrale (Etruschi, Umbri e Latini) rimasero infatti fedeli a Roma, vanificando il piano del condottiero cartaginese. Più gravi, come vedremo, saranno le defezioni di Siracusa, Taranto e Capua. - I Romani, di fronte a una così drammatica situazione, rimasero compatti e uniti. Encomiabile fu il coraggio dimostrato. I cittadini-soldati combattevano per la propria sopravvivenza e di buon grado il popolo romano accettò il raddoppio del tributo bellico. Il cambiamento di tattica e la disfatta di Canne Un’ondata di terrore aveva investito Roma. Nella sciagura in cui era precipitata la popolazione leggeva un messaggio divino: gli dei avevano abbandonato la potenza romana. Eppure non tutto era perduto: furono rotti i ponti sul Tevere e venne nominato un dittatore, Quinto Fabio Massimo, un anziano esponente dell’aristocrazia terriera. Fabio Massimo aveva intuito che l’unica strategia possibile, evitando la battaglia frontale, era quella della guerra di logoramento. 7 Questo il numero di quanti giunsero in Italia. Molti furono decimati durante la lunga marcia dalla Spagna all’Italia: per contrasti con le popolazioni in cui si imbatterono, per stenti, per il freddo sulle Alpi. 8 Parlando di perdite, un solo elefante, a questo punto, sopravvisse dei 37 di Annibale. Molti tuttavia perirono già durante la traversata delle Alpi e molti ancora non sopravvissero ai gelidi inverni di Italia settentrionale. 9 Annibale, la sera precedente alla battaglia, aveva accampato le sue truppe appiedate sulle colline sopra il Lago Trasimeno e nascosto in una gola la micidiale cavalleria numidica, di cui i romani ancora non avevano afferrato l'importanza tattica. Questi cavalieri erano velocissimi, armati alla leggera, non indossavano armature, erano formidabili lanciatori di giavellotto e si proteggevano con un piccolo scudo rotondo. Le legioni romane, non essendo a conoscenza della posizione del nemico, procedevano senza particolari accorgimenti difensivi. D'altra parte, le loro metodologie belliche erano ancora ferme allo scontro frontale, ben dichiarato e con il nemico schierato di fronte. Annibale non schierò le sue truppe, ma le scatenò sulla colonna in marcia, che venne stretta fra le colline e le rive del lago e accerchiata. Fu, appunto, un massacro in cui persero la vita 15.000 romani, uccisi sul campo e quasi altrettanti furono fatti prigionieri. Molti soldati romani, arretrando per assorbire l’urto nemico, finirono nel lago e vi annegarono sotto il peso delle armi. Questo ed altri episodi (come l’inganno pianificato contro Quinto Fabio Massimo, contribuirono a realizzare l’immagine di un condottiero abile caratterizzato da doppiezza. 9 Fabio quindi si limitò a controllare le mosse di Annibale, impedendogli il vettovagliamento (e facendo terra bruciata intorno) e l’accesso alla valle del Tevere per mezzo di sortite e incursioni e intercettazioni di rifornimenti e rinforzi mandati da Cartagine. Questa tattica gli valse il soprannome di Cunctator, cioè il Temporeggiatore. La soluzione di Fabio Massimo se dapprincipio aveva ottenuto buoni risultati, col tempo perse il favore della popolazione. I contadini e i proprietari terrieri si vedevano i campi devastati dalla presenza delle truppe puniche, ma anche dagli interventi dei romani stessi, che facevano terra bruciata attorno ad Annibale. Annibale stesso poi non mancò di seminare confusione e sospetto nel campo nemico incendiando e devastando i terreni attraversati dal suo esercito ma risparmiando i possedimenti di Fabio Massimo, insinuando in questo modo il dubbio su possibili accordi segreti con il dittatore romano10. Annibale, trovandosi sbarrata la via su Roma, ripiegò in Apulia, dove avrebbe fissato i suoi quartieri d’inverno. L’impopolarità di Fabio Massimo, intanto, aveva fatto prevalere a Roma l’idea dell’ormai necessario scontro aperto. I romani cominciarono a credere e convincersi che le precedenti vittorie annibaliche fossero state frutto di fortuite circostanze, di imboscate e furberie del generale. Se avesse voluto, l’esercito romano avrebbe avuto la meglio in campo aperto. Fu quindi allestito un enorme esercito, con a capo i due consoli: Lucio Emilio Paolo (che per altro era contrario alo scontro aperto, consapevole dello squilibrio degli eserciti e, in particolare, delle cavallerie) e Gaio Terenzio Varrone. La battaglia si tenne il 2 agosto del 216 a.C. a Canne, presso Barletta11 (Puglia). Fu una totale disfatta per i Romani: 100 mila uomini caddero in battaglia. Emilio Paolo rimase ucciso, Terenzio Varrone, riuscì a tornare a Roma con un piccolo seguito di superstiti. Annibale liberò i prigionieri italici nella speranza di ingraziarsi il favore delle popolazioni italiche. Lucani e Sanniti si ribellarono e Capua defezionò da Roma, aprendo le porte al generale punico12 e anche Siracusa13 e Taranto si schierarono dalla parte cartaginese. Tuttavia le altre popolazioni rimasero salde e fedeli a Roma (intuirono che il dominatore straniero sarebbe stato un padrone di gran lunga peggiore dei Romani) e questo salvò le sorti di Roma. 10 Di nuovo si puntualizza, nelle testimonianze antiche, sulla doppiezza di Annibale. In un’altra occasione, quando le forze di Annibale si trovarono bloccate dai romani appostati su una serie di alture nell'area del fiume Volturno (nel casertano), Annibale ideò uno stratagemma geniale. Fece appendere alle corna di duemila buoi delle torce e Fabio Massimo, vedendole muoversi e credendo che fosse l'esercito punico in marcia, seguì le luci lasciando aperta la via ai cartaginesi. 11 In realtà non si sa con precisione se si tratti proprio della località di Barletta. Certamente la battaglia avvenne in Puglia, nei pressi di un fiume. 12 Tito Livio racconta che il comandante cartaginese tenne nelle case della città campana le truppe, per la maggior parte dell'inverno. «Questi, che nessuna forza nemica aveva fino ad allora vinto, furono corrotti dall'eccessiva comodità e dai piaceri tanto maggiormente, in quanto erano nuovi ai piaceri, ed ora si trovavano immersi in modo sfrenato. Infatti, il sonno, il vino, i banchetti, le prostitute, i bagni, l'ozio, che con l'abitudine si faceva sempre più dolce, fiaccarono talmente tanto il corpo e l'animo dei soldati cartaginesi, che da quel momento in poi, vennero difesi più dalla fama delle vittorie passate che dal loro valore presente». (Livio, XXIII, 18.11-12.) Livio critica la scelta di aver trascorso l'inverno a Capua, poiché ritiene che l'esercito cartaginese non ottenne mai più l'antica disciplina. Queste affermazioni sono però contestate dagli studiosi contemporanei, che attribuiscono la riscossa romana non tanto al fatto che i Cartaginesi si rilassarono con i famosi «ozi capuani», ma alla tenacia, disciplina delle armate romane. La tradizione storiografica romana, in particolare Tito Livio, ha enfatizzato l'importanza di questi cosiddetti "ozi di Capua" che avrebbero compromesso la solidità e la combattività dell'esercito annibalico, fiaccato dalle libagioni e dai piaceri del soggiorno nella città campana. Questa interpretazione tradizionale peraltro non trova riscontro in Polibio ed è evidentemente tendenziosa e sostanzialmente errata; in particolare si noti come anche dopo l'inverno di riposo a Capua, Annibale e il suo esercito dimostrarono la loro superiorità e furono in grado per altri dieci anni di rimanere in campo in Italia senza subire reali sconfitte e senza che gli eserciti romani riuscissero a cacciarli dalla penisola. 13 Dopo la morte di Gerone, fedele alleato di Roma, Siracusa era caduta nelle mani dei partigiani di Annibale. 10 Sul fronte orientale, Filippo V, re di Macedonia, strinse alleanza con Annibale (215 a.C.). Il deciso intervento di Roma in Illiria contro i pirati aveva sollevato inquietudini in Filippo, che si era pertanto schiarato da parte dei Cartaginesi. “I Romani sono particolarmente temibili quando vengono sconfitti” scrisse lo storico greco Polibio. Annibale, anziché puntare direttamente su Roma, decise di occupare la Campania e di stabilire i quartieri d’inverno a Capua. Questa esitazione del generale cartaginese (determinata dalla reale necessità di approvvigionamenti di mezzi e di uomini) diede modo a Roma di riorganizzarsi. Furono richiamati alle armi tutti i cittadini in grado di combattere. Un esercito venne inviato a Siracusa, uno in Spagna (dove si distinse Publio Cornelio Scipione il Giovane, futuro Africano) e ambasciatori strinsero alleanze con le città greche, in modo da assicurarsi il loro supporto (Annibale si era infatti alleato col re di Macedonia Filippo V). Tra il 215 e il 205, infatti, in Grecia si combatteva la prima guerra macedonica, che vedeva la Lega Etolica (costituita da città greche averse all’ingerenza politica di Filippo V) supportate da truppe romane scontrarsi con le truppe macedoni. La guerra si risolse con un trattato di pace, ebbe principalmente lo scopo di tenere impegnato Filippo V, lontano dal fronte romano-punico. Annibale scorrazzò ancora per alcuni anni in Italia meridionale, ma dopo Canne i romani tornarono alla strategia del Temporeggiatore. I Punici, sempre più affaticati, non riuscirono più ad assestare vittorie decisive né a trarre i Romani in uno scontro aperto. Il momento peggiore era passato e Roma si preparava alla riscossa. La riscossa romana Nel 212 a.C. Roma assedia ed espugna Siracusa, nonostante la resistenza alimentata dalle macchine belliche inventate da Archimede (vedi approfondimento poco oltre – a guidare la spedizione siracusana fu Marco Claudio Marcello). In seguito (210 a.C.) anche Capua venne riconquistata e punita per il suo tradimento (numerosi senatori preferirono avvelenarsi dopo un sontuoso banchetto anziché consegnarsi nelle mani dei Romani). In Spagna intanto, l’esercito cartaginese, che era condotto dal fratello minore di Annibale, Asdrubale, subiva la pressione romana. A capo delle truppe romane impegnate sul fronte spagnolo c’era Publio Cornelio Scipione il Giovane, che era persino riuscito a prendere la capitale cartaginese di Spagna: Cartagena (210 a.C.). Sotto la guida di Asdrubale, tuttavia, una piccola parte dell’esercito cartaginese di Spagna riuscì a sganciarsi dalla morsa romana e mosse rapidamente verso l’Italia, per portare soccorsi ad Annibale. Per fortuna le truppe vennero intercettate nel 207 a.C. sul Metauro (Marche) e lo stesso Asdrubale venne ucciso. La sua testa fu poi fatta rotolare davanti all’accampamento cartaginese di Annibale. La situazione era propizia per tentare quindi un contrattacco romano: Scipione (il giovane) propose di portare la guerra in Africa. Il Senato accettò a malincuore la proposta (vivo era il ricordo della disfatta di Attilio Regolo) e alla fine Scipione con il suo esercito sbarcò in Africa (205 a.C.). Scipione rivelò grande abilità diplomatica: strinse segreta alleanza con Massinissa, re dei Nùmidi (che fino a quel momento avevano supportato i Cartaginesi e avevano costituito, con la loro temibile cavalleria, il nerbo dell’esercito punico). A questi Scipione promise un regno in cambio dell’aiuto in guerra. Scipione e i Numidi misero a segno una serie di vittorie tali che Annibale dovette affrettarsi a rientrare in patria. Annibale dovette così abbandonare l’Italia, dove da più di 15 anni carezzava il sogno della presa di Roma. Nel 202 a.C., presso Zama, i due eserciti nemici si fronteggiarono: la vittoria dei Romani fu schiacciante. Cartagine dovette chiedere la pace e rinunciare così a tutti i suoi possedimenti fuori Africa. Fu inoltre costretta a cedere la flotta e pagare una fortissima indennità di guerra (260 tonnellate di argento da consegnare in 50 anni). Fu poi vietato ai Cartaginesi di dichiarare guerra senza previo consenso romano. Scipione si rifiutò cavallerescamente di chiedere la consegna di Annibale e rientrò a Roma acclamato dal popolo in festa. Si celebrò un grandioso trionfo e Scipione ricevette il soprannome di “Africano”. E Annibale? 11 Conclusasi così la guerra, si dedicò alla ricostruzione della patria; ma nel 195 a.C., per troncare le rimostranze dei Romani, lasciò Cartagine e si rifugiò presso il re Antioco III di Siria, incitandolo alla guerra contro Roma. Quando questi fu battuto (190), Annibale si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia (Turchia settentrionale). Qui, per non cadere nelle mani dei Romani, che ne chiedevano l'estradizione, si avvelenò (183). Secondo la leggenda, Publio Cornelio Scipione l’Africano morì nello stesso anno di Annibale. Si era ritirato ormai da tempo in volontario esilio dopo aver subito l’accusa di corruzione. Gli specchi ustori (lo specchio ustorio) Qui sotto un’immagine raffigurante gli specchi ustori, che, secondo la tradizione, sarebbero stati grandi lenti paraboliche in grado di concentrare i raggi del sole in uno spazio ristretto (il fuoco), riscaldando il punto di concentrazione della luce così intensamente da permettere l’accensione della superficie esposta (in questo caso, le navi della flotta romana). L'episodio tuttavia non è ricordato né da Polibio né da Livio né da Plutarco (che sono le fonti più attendibili e cronologicamente vicine agli eventi), ma è riferito da varie fonti tarde. Resta pertanto dibattuta la questione se questi specchi ustori siano stati effettivamente impiegati e se davvero per la guerra. Ulteriore ragione di dubbio ha a che vedere col fatto che Archimede avesse progettato armi da getto in grado di lanciare sostanze incendiarie. Gli storici hanno immaginato che ci sia stata una sovrapposizione di eventi e per errore si siano attribuite a questi specchi proprietà che invece era deputate alle sostanze incendiare. Scientificamente si è spesso sottolineata la difficoltà di costruire uno specchio parabolico con un fuoco così distante da permettere di colpire le navi dalle mura di Siracusa. Tuttavia, come dimostra il video qui sotto, a breve distanza il potere dello specchio ustorio è certamente impressionante. https://www.youtube.com/watch?v=z0_nuvPKIi8 Nel 1973 lo scienziato Ioannis Sakkas dispose 60 persone armate di specchio parabolico (in realtà scudi bronzei) e, a distanza di 50 metri, effettivamente riuscirono ad incendiare in brevissimo tempo delle riproduzioni di navi militari romane. L’incendio divampò in virtù anche del rivestimento a base di catrame, facilmente infiammabile. In quest’altro video (quello che abbiamo avuto modo di vedere in classe in maniera del tutto fortuita) si vedono bene quelle che sono le armi impiegate, presumibilmente, durante il conflitto e che, certamente, furono invenzione di Archimede: 1. le catapulte 2. gli specchi ustori 3. la manus ferrea https://www.youtube.com/watch?v=Qn43hBE7c5c La morte di Archimede: Secondo il racconto di Plutarco, Claudio Marcello aveva dato ordine di 12 salvare la vita al geniale inventore. Tuttavia Archimede era talmente assorto nei suoi calcoli, quando un soldato romano lo sorprese, che non rispose alle sue domande e venne ucciso. …Tutto fa brodo Per diletto, sappiate che il più grande kolossal e il più famoso film italiano del cinema muto di primo ‘900 si intitola Cabiria e narra delle vicende occorse ad alcuni personaggi all’epoca delle guerre puniche. Girato nel 1914 da Giovanni Pastrone è anche stato il primo film della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca. Nella scena che qui vi linko, di una commovente semplicità, si vede l’episodio dell’assalto di Siracusa: https://www.youtube.com/watch?v=qzIE9qKPRpA http://www.raistoria.rai.it/articoli/annibale/23328/default.aspx il tempo e la storia, speciale rai guerre puniche. 13