Quotidiano Sanità
di Fulvio Bersanetti-Economista REF Ricerche
23/01/2017
E invece la questione meriterebbe di essere affrontata sia sul piano etico che tecnico e politico
Lo scorso mese di dicembre l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (Inps) ha reso disponibili le
informazioni relative ai certificati di malattia trasmessi da lavoratori privati e dipendenti pubblici nel
corso dell’anno 2015.
Giunto alla sua quarta edizione ed articolato sulla base di una profondità storica di qualche rilievo,
l’osservatorio Inps offre un patrimonio informativo particolarmente significativo, in quanto esso
consente non solo di cogliere da una prospettiva privilegiata le trasformazioni in atto nel mercato del
lavoro e, più in generale, nel contesto sociale ed economico del Paese, ma anche di proporre alcune
valutazioni di merito circa l’impatto del contingentamento della finanza pubblica sugli accertamenti
sanitari.
Il recente rilascio delle statistiche Inps è stato seguito da una eco mediatica e da un impatto
sull’opinione pubblica di grande rilievo. L’interpretazione parziale e strumentale dei dati da parte
di alcuni commentatori, anche autorevoli, ha tuttavia contribuito a rendere una problematica tanto
complessa come quella dell’assenteismo il terreno di dibattito tra coloro che hanno posto l’accento
sulla responsabilità e l’etica dei lavoratori “fannulloni” e coloro che invece hanno contestato la
professionalità dei medici consenzienti.
La premessa ad ogni tipo di considerazione è che le più recenti tendenze si collocano in uno scenario macro
del tutto peculiare: la riforma dell’organizzazione dell’attività dei medici che svolgono gli accertamenti
sanitari per verificare lo stato di salute del lavoratore ha infatti pesantemente risentito dei tagli finanziari
imposti col pretesto della spending review.
Tra il 2012 ed il 2015 le risorse destinate ai controlli d’ufficio si sono ridotte sensibilmente da 50 a circa 16
milioni di euro l’anno e ciò ha contribuito ad abbattere il rapporto tra certificati di malattia e visite di
controllo domiciliari da un livello di partenza pari al 20% (un equilibrio ritenuto congruo tra costi sostenuti e
benefici attesi) all’attuale 5% circa.
A tal proposito, giova ricordare che la letteratura economica sul tema non è particolarmente approfondita:
una ricognizione delle fonti disponibili sembra suggerire la necessità di sviluppare ed implementare un
adeguato sistema informativo ed una strumentazione in grado di verificare l’efficacia delle policy introdotte.
Alcuni studi preliminari realizzati sul tema in ambito accademico hanno ad esempio provato ad indagare la
relazione tra le caratteristiche socio demografiche del soggetto beneficiario del periodo di malattia e la
capacità degli strumenti previsti dalla normativa vigente di individuare i soggetti in malafede. Sotto questo
punto di vista, le analisi econometriche hanno documentato la presenza di break strutturali a cavallo della
riforma, con effetti distorsivi sui comportamenti dei lavoratori.
Ciò premesso, le evidenze principali risultanti dalla banca dati possono essere sintetizzate nei seguenti
termini: in prima battuta nel corso del 2015 il numero dei certificati di malattia è cresciuto in misura
importante (il numero dei certificati ha totalizzato 18,3 milioni, +5% rispetto ai dodici mesi precedenti),
seppure con scarti apprezzabili tra le diverse regioni.
Analizzando la frequenza dei certificati di malattia rispetto al numero degli occupati, si evince come le regioni
del centro (Umbria, Marche e Molise) siano quelle più virtuose, mentre si tende ad ammalarsi più facilmente
in Calabria ed in Sicilia (dove si contano più certificati che lavoratori), ma anche in un territorio, l’EmiliaRomagna, spesso considerato come il prototipo dell’efficienza nazionale.
In linea con quanto registrato negli anni precedenti, il lunedì è poi risultato il giorno della settimana in cui
si concentrano gli eventi di malattia (quasi il 30% del totale). Un risultato da attribuire ad una molteplicità di
determinanti: dalle controverse pratiche comportamentali alle ripercussioni della crisi (sono in molti a
sostenere che il deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie abbia costretto gli italiani a
dedicarsi ai lavori di manutenzione domestica durante il week end, contribuendo a far lievitare il rischio
infortunio), sino ad un effetto statistico che fa crescere fisiologicamente la probabilità che la trasmissione del
referto avvenga di lunedì (se la malattia si sviluppa durante il fine settimana, il lunedì resta pur sempre il
primo giorno utile per provvedere agli adempimenti amministrativi).
Lo spaccato delle statistiche restituisce alcune ulteriori indicazioni di interesse. Esaminando la composizione
del fenomeno in oggetto, emerge qualche scarto degno di nota tra settori di attività: più di un dipendente
pubblico su due è rimasto a casa per malattia nel 2015 (a fronte di uno su tre per i lavoratori del settore
privato, il 35% del totale), seppure con una durata media della degenza più breve di un paio di giorni (tra i
dipendenti della pubblica amministrazione una assenza su tre è stata circoscritta alle 24 ore).
A partire da queste informazioni è possibile avanzare una prima diagnosi: valutato nel suo complesso, il
fenomeno dell’assenteismo rappresenta una della problematiche più rilevanti del mercato del lavoro del
nostro Paese, seppure non sia oggetto della medesima attenzione riservata ad altre materie (voucher, regole
sui licenziamenti, eccetera).
Secondo le stime, è possibile quantificare in 110 milioni le giornate di lavoro complessivamente andate perse
nel 2015. Si tratta, espresso in altri termini, di circa mezzo milione di lavoratori in meno a pieno regime: un
ordine di grandezza che risulta coerente con un elevato recupero della produttività di cui potrebbe giovare,
almeno in parte, l’intera economia, e con un beneficio potenziale anche per i livelli retributivi dei dipendenti
(gli studi più accreditati quantificano il costo dell’assenteismo in una misura pari ad alcuni punti percentuali
del salario medio).
Per questa ragione, in conclusione, appare utile affrontare la questione sotto diversi approcci e
promuovere altrettante direzioni di lavoro: un piano etico, diffondendo le buone pratiche, facendo leva sul
senso di responsabilità dei lavoratori; un piano tecnico, strutturando una attività di monitoraggio e
rendicontazione dei dati contestuale all’attività dei medici fiscali e rafforzando i sistemi informativi e gli
strumenti tecnologici in grado di costruire un profilo di rischio dei lavoratori; un piano politico, rimettendo in
discussione l’ammontare di risorse che sono chiamate a finanziare l’attività di controllo.
Ma ancor di più un piano professionale, valorizzando il ruolo dei medici fiscali come figure di garanzia in
grado di salvaguardare il corretto funzionamento e l’efficienza del mercato del lavoro. Del resto, con
l’istituzione di un “polo unico” della medicina fiscale, attualmente al vaglio del Dipartimento della Funzione
Pubblica che si sta occupando della stesura dei decreti attuativi della riforma Madia, i medici fiscali, ed in
particolare quanti possono vantare una esperienza ultradecennale, che saranno gli unici deputati al controllo
dello stato di malattia dei lavoratori.