Gennaio 2012 Pag. 7 Lingua & Identità 2 nel processo unitario Il secondo tema che ci renderà più consapevoli dell’importanza della funzione che la lingua ha avuto nella formazione dell’identità nazionale è la letteratura per l’infanzia. Investito di un delicato compito formativo, veicolo di idee, vaolri, messaggi, il libro per bambini ha da sempre una funzione di sostegno all’insegnamento grammaticale, alla moderna “educazione linguistica”. Sebbene non sia nata con una specifica destinazione infantile, la fiaba ha da sempre avuto nei bambini il suo pubblico privilegiato. Opere come “Lo cunto de li cunti” di Giovan Battista Basile o anche le fiabe dei fratelli Grimm posseggono una complessità ed un fascino tali da trovare estimatori anche e soprattutto nel pubblico adulto. La fiaba ha accompagnato per secoli l’infanzia di tanti bamf bini codificandosi in un vero e proprio rituale: quello dell’addormentamento serale. L’oralità è un elemento costitutivo della testualità fiabesca: non sorprende quindi la presenza di caratteri che risentono della letterizzazione di modi orali, è il caso di formule di apertura e chiusura (“C’era una volta”, “e vissero…”), di strutture iterative (“cammina, cammina”), della ricorrenza di connettivi narrativi (“ed ecco che”, “ad un tratto”). L’opera di Basile che incarna la fiaba popolare e dinamica lingua-dialetto è un capolavoro: la colorita espressività dialettale dota l’opera d un pregio aggiuntivo che perde inevitabilmente con la traduzione crociana del 1925. Tuttavia il secolo delle fiabe è sicuramente l’Ottocento, secolo romantico e, per l’Italia, di unificazione nazionale: Italo Calvino cercò di ridurre la dialettica oralità-scrittura nelle fiabe con l’opera “fiabe italiane” e cercò di ricondurre a un denominatore nazionale comune fiabe provenienti da regioni diverse. Dopo l’unificazione nazionale e con il primo progetto di acculturazione di massa, Collodi scrisse “Pinocchio” e De Amicis “Cuore”, due modelli di lingua esaltati come collanti del sentimento e dei valori patriottici. Per “Pinocchio” Collodi si servì di una naturale grazia di scrittura, di un fiorentino vivo di tono medio. De Amicis raggiunse gli stessi obiettivi attraverso un realismo quasi pari ad una puntuale cronaca. Tra le poche somiglianze tra i due libri, la scuola: schivata dal protagonista del romanzo di Collodi, posta al centro di tutto il racconto nell’opera di De Amicis. Nello stesso periodo si colloca la prima produzio- ne di Emilio Salgari, fondatore del genere esotico ed avvenf turoso: per i suoi ammiratori egli è stato l’antidoto contro il fiabesco collodiano e la retorica deamicisiana; la sua lingua, antinaturalistica all’estremo è priva di sfumature e sensibilità mimetiche, presentando improbabili allocuzioni, espressioni implausibili e manierate ed astruse imprecazioni. Tra i molti testi esemplificativi di come il libro destinato all’infanzia assorba tutti gli umori del clima che lo genera vi è “Ciuffettino Balilla” caratterizzato dall’innesto di elementi di propaganda sul terreno di una vicenda ironico- fiabesca. Gianni Rodari è, invece, l’autore più rappresentativo in epoca moderna della confluenza della narrativa infantile di istanze psicologiche, contributi della linguistica teorica, riformismo didattico. Numerosi sono gli spunti prettamente linguistici: meccanismi compositivi e derivativi della parola, neoformazioni e soprattutto necessità di correzioni grammaticali. Egli fa ampio uso di dislocazioni, frasi scisse, “che” polivalente, uso rigoroso della punteggiatura, lessico vario ed ampio, lontano da qualsivoglia sperimentazione o trasgressione linguistica. Oggi sulla scia rodariana gli autori più avvertiti si avvalgono della parodia anche per registrare lo scarto tra lingua corrente e lingua della norma. Il libro dell’età della formazione conserva la sua importante funzione e cioè quella di un oggetto non solo da leggere ma anche da toccare, fatto di forme e colori affinchè stimolino tutti i sensi e le abilità del bambino. Antimo Verde “Occhio all’Artista”: Peppe Barra, il sommo della cultura teatrale napoletana Il sedicesimo appuntamento per la rubrica “Occhio all’Artista” avviene durante il periodo natalizio, atmosfera resa maggiormente coinvolgente dallo spettacolo “Incanto di Natale” di Peppe Barra. A Sant’Antimo l’attore napoletano ha recitato sull’altare del Santuario la sera del 22 Dicembre dinanzi ad un pubblico accorso numeroso per l’evento del cartellone “Natale e periferia 2011”. Tutto si è svolto nel migliore dei modi, con la cura di ogni dettaglio che fa sempre la differenza. Ma in questo caso l’attenzione è tutta puntata all’arte di un indiscusso protagonista della cultura teatrale nostrana. In scena Peppe Barra indossa i panni di Razzullo, protagonista dell’opera “La cantata dei pastori” che, affiancato dal simpatico Sarchiapone interpretato da Salvatore Esposito, offre il meglio degli stralci del lavoro simbolo del Natale. Dopo lo spettacolo, che ha confermato il successo acclamato durante la sua fervente attività di rivisitazione e riproposizione, ascoltiamo il mattatore che ci rilascia alcune dichiarazioni: Come nasce la sua passione duratura per il teatro? Provengo da una famiglia d’arte: mia madre Concetta era attrice e cantante, mio padre Giulio attore di varietà. Quindi sono entrato sin da subito con il teatro, mi sono appassionato con il corso del tempo e ora si tratta di un amore che si conferma di anno in anno. Oltre al teatro, è stato sempre attento alla ricerca delle vere tradizioni nostrane… In questo sono stato spronato dall’attività di Roberto De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.Ho studiato per anni la storia e il corso delle tradizioni meridionali: dalla musica al teatro popolare, fino alla rivisitazione della “Cantata dei Pastori”. Un lavoro che, per come si è rivelato, mi ha gratificato molto perché ho riscontrato buoni esiti tra la gente. Con la “Cantata dei pastori” si è aggiudicato il premio Olimpiadi del teatro. Cosa ha significato? Durante la mia carriera ho ricevuto tanti riconoscimenti, ma questo ha significato tanto per me. Non me lo sarei mai aspettato, data anche la concorrenza di altri valenti spettacoli in gara. Il mio è stato premiato alla maggioranza e questo dato mi ha trasmesso tanto orgoglio e maggiore autostima per il lavoro che affronto con smisurata passione. Nello spettacolo a Sant’Antimo si è esibito sull’altare del Santuario. Cosa ha provato? Tantissima emozione perché viene fuori in modo preponderante l’elemento di sacralità della “Cantata dei Pastori”. Tutto è reso in modo perfetto dall’atmosfera, dal gioco di luci che si fondono con la musica, gli abiti di scena e la recitazione. Sono stato molto felice per l’esibizione in questo luogo di culto. Sono ormai tanti anni che mette in scena tale opera, ma è sempre la prima volta? Sì, ogni volta che la propongo è come se lo facessi per la prima volta. È un’opera che tengo molto a cuore e spero che un giorno, dopo di me, ci siano altri esponenti del teatro che la portino in giro perché fa parte di un inestimabile patrimonio artistico. Soprattutto tengo all’opera di divulgazione ai giovani, la voce del futuro, tramite dei master all’Università “Federico II”. Mi aspetto che tale opera diventerà ben presto un’istituzione del nostro teatro grazie all’attenzione dei più giovani alla tradizione. La gente di Sant’Antimo le ha dimostrato tanto affetto e ammirazione… Ne sono davvero soddisfatto e orgoglioso, perché significa che in questi centri è alta la consapevolezza delle proprie radici culturali e delle tradizioni secolari che vanno fortificate col tempo. I suoi progetti futuri in ambito teatrale? Bollono tante cose in pentola, spero di realizzarle tutte con il medesimo soddisfacente risultato. Giunto ormai in età veneranda, ma ancora con tanta voglia di dimostrare, vorrei solo che le giovani generazioni si accostino maggiormente alle vere tradizioni. Ecco il progetto più importante della mia vita artistica è proprio questo, inculcare il valore di appartenenza alla propria terra e tradizione. Giuseppe Nappa